Sabbia e oro. Tra Hermann Hesse e Yukio Mishima

June 15, 2017 | Autor: Giampiero Moretti | Categoria: Comparative Literature, Aethetics
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SABBIA E ORO. TRA HERMANN HESSE E YUKIO MISHIMA Giampiero Moretti

In Narciso e Boccadoro (1930)1, di Hermann Hesse, e ne Il padiglione d’oro (1958)2, di Yukio Mishima, due esemplari romanzi del Novecento, la questione dell’eterno, del valore e del significato si impone quale sfondo, ancor prima che del testo letterario, dell’intera nostra epoca nel suo complesso: sin dal titolo compare non a caso in entrambi l’indistruttibilità e immutabilità del metallo più prezioso. Dall’Occidente, scopertosi già nell’Ottocento «debitore» dell’«origine»3 nei confronti dell’altra parte del mondo, e dall’Oriente, che contemporaneamente ha ceduto al fascino della cultura, essenzialmente quella filosofica, dell’Europa e naturalmente in primis della Germania, due sguardi erano partiti, e benché provenienti da direzioni opposte, essi si sono incontrati nella decisiva opera di Friedrich Nietzsche. Quest’ultima si manifesta al pari di una faglia attraversata da una forza tanto dirompente da inaugurare il nuovo secolo nel segno della demolizione dell’intera tradizione di pensiero, per millenni sorretta e protetta proprio dal «bersaglio» del nichilismo: la fede nell’esistenza del «fondamento». Viene evocato il rifugio «dorato», in quanto tale mai svilibile né svalutabile: potrà l’«oro» salvare la spiritualità dalla vertigine del dinamismo dionisiaco, definitivamente esploso in tutta la sua potenza e capace di mostrarsi nel suo lato distruttivo proprio mentre rinnega quella forma, quell’armonia, quello stile, che erano stati alla base, quasi sin dalla sua nascita, della cultura occidentale? Allorché infatti, con le prime avanguardie (in particolare con il futurismo), la velocità, e con essa il movimento, la vita, assumono un’importanza fino ad allora inedita, i canoni letterari e di pensiero, tradizionalmente collegati alle nozioni «estetiche», assumono l’aspetto di cinematografiche forme in dissolvenza, non più cioè capaci di «trattenere» il pulsare di un’esistenza ormai anche filosoficamente legittimata nel suo necessario imporsi al di là di qualunque regola, di qualunque argine, sempre troppo rigidi e stretti per placarne e contenerne il fluire4. 1

Hesse, H., Narciso e Boccadoro, tr. it. di C. Baseggio, Mondadori, Milano 200832. Mishima, Y., Il Padiglione d’Oro, tr. it. di M. Teti, Mondadori, Milano 200512. 3 Ci permettiamo di rimandare ai nostri: Heidelberg romantica. Romanticismo tedesco e nichilismo europeo, Guida, Napoli 2002; Il genio, Morcelliana, Brescia 2011; Il poeta ferito. Hölderlin, Heidegger e la storia dell’essere, La Mandragora, Imola 1999; Per immagini. Esercizi di ermeneutica sensibile, Moretti & Vitali, Bergamo 2012. 4 Scrive Martin Heidegger, sulla questione del «contesto» dell’opera d’arte (in L’Inno Andenken di Hölderlin, tr. it. di C. Sandrin e U. Ugazio, Mursia, Milano 1997, pp. 8-9): «Il richiamo alle condizioni dell’epoca e a fatti che dovrebbero servire al chiarimento di qualcosa è un falso cammino, giacché le condizioni dell’epoca sono tanto bisognose di chiarimento quanto ciò che si presume si sia formato sotto la loro influenza, per esempio un’opera letteraria. Forse, è addirittura possibile che sia l’interpretazione dell’opera a dire qualcosa dell’epoca nella quale l’opera è nata e sulle ‘condizioni’ del tempo, piuttosto che, al contrario, siano queste condizioni a dire qualcosa dell’opera». Queste importanti parole valgono a maggior ragione per l’ermeneutica delle opere nate durante l’epoca del nichilismo, i segni della cui comparsa, come ricorda lo stesso Nietzsche ne La volontà di potenza, sono percepibili, sebbene nichilismo sia anche e nello stesso tempo uno sfondo monocromo, indifferenziato, entro il quale proprio le categorie aristoteliche dello spazio e del tempo, giustamente portanti nel tentativo di una «contestualizzazione», divengono «evanescenti».

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288 Narciso e Boccadoro risolve già in apertura quel conflitto che sino al Novecento era apparso nei termini della contrapposizione tra natura e tecnica, e lo fa proprio con la rivalutazione del movimento. Non è difatti operazione troppo azzardata quella che individua una corrispondenza precisa tra il protagonista Boccadoro e l’antico «solitario» castagno proveniente dal Sud posto da Hesse all’ingresso del convento di Mariabronn, pertanto a un passo da quest’ultimo benché non del tutto al suo interno: Esotico e delicato, il bell’albero faceva stormir la sua chioma sopra l’ingresso del convento, ospite sensibile e facilmente infreddolito, originario d’altra zona, misteriosamente imparentato con le agili colonnette gemelle del portale e con la decorazione in pietra degli archi delle finestre, dei cornicioni e dei pilastri, amato da chi aveva sangue latino nelle vene e guardato con curiosità, come uno straniero, dalla gente del luogo5.

Hesse ha così probabilmente indicato che, quando si voglia a tutti i costi cercare di risolvere la contrapposizione tra umanità e natura mediante i mezzi offerti dalla tradizione (dunque: entro la disputa tra natura e umanità), non si dia di fatto via di scampo. Costituirà, piuttosto, il fondamento non solo formale (nel senso di incipit) ma anche contenutistico del romanzo – e l’uno mediante l’altro – quella coincidenza, subito intuibile, tra il protagonista e il castagno: che l’identità tra questi ultimi non sia metaforica bensì reale lo si deve alla «proprietà prima» di Boccadoro, al suo essere «eccentrico». Le due colonne che reggono il portale: «Narciso l’immobile» e l’abate Martino, le figure che significheranno per Boccadoro, a partire dagli anni della fanciullezza, un importantissimo punto di riferimento, non abbandoneranno mai il convento. Da quella posizione, dalla quale Boccadoro ne sfida la prospettiva – pur con essa misurandosi per tutta la prima parte dell’opera –, dall’eccentricità rispetto ai sostegni della facciata, deriva a questo personaggio il suo carattere dinamico: grazie alla variante sensibilmente animata, naturale e umana nel contempo, di una stessa immagine, dell’unica essenza «castagno-Boccadoro», il romanzo potrà procedere e in esso lentamente emergerà quanto l’approdo a una considerazione positiva del movimento, e del dinamismo come forza metafisica, rivoluzioni lo scenario non soltanto letterario ma soprattutto filosofico dell’Occidente. Bellezza naturale e bellezza umana, spontaneità e artificio, non sembrano più, così, doversi rincorrere o incontrare nell’immediatezza del corpo dell’artista; esse sono già, tutte le insuperabili distanze-vicinanze sono già, ovvero tendono a essere, una sola cosa nella vita. Di contro, Mizoguchi, il protagonista de Il padiglione d’oro, sul principio della sua narrazione si lascia ispirare da due ricordi molto indicativi del suo più che problematico rapporto con il mondo, perennemente visto come il fuori, l’altro da(l) sé perciò stesso privo di significato. Interno ed esterno non si corrispondono, non partecipano l’uno dell’altro e, forse, sopra ogni altra cosa, a vicenda e con forza si rifiutano. Questo il primo ricordo: In un giorno di maggio, un ex alunno attualmente allievo del locale istituto d’ingegneria navale, venne in licenza a rivedere la sua vecchia scuola. […] sembrava il vivente ritratto dell’eroe giovane. […] Stava seduto su dei gradini di pietra; circondato da un gruppo d’alunni che ascoltavano avidamente le sue parole: intorno, qua e là, i dossi si ricoprivano di fiori primaverili – tulipani, fiori di pisello, anemoni, margheritine – e sulle teste dei ragazzi pendevano bianchi e carnosi i boccioli d’una magnolia. Oratori e ascoltatori sembravano statue immobili. Io me ne stavo su una panca, un po’ in disparte, come sospintovi dai fiori di maggio, dall’orgogliosa uniforme e dalle franche risate6. 5 6

Hesse, H., Narciso e Boccadoro, cit., p. 3. Mishima, Y., Il Padiglione d’Oro, cit., p. 10.

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289 Mishima mette a confronto «eroe», volendo riprendere la sua stessa espressione, ed «anti-eroe»: la natura stabilisce i termini di tale contrapposizione accogliendo il primo, (visto) che sembra attirarla e compiacerla; costringendo il secondo in quella orgogliosa solitudine causata dalla propria deformità e balbuzie che gli precludono ogni possibilità di integrazione e di comunicazione. La «spinta» che si diparte dalla bellezza a toccare gli esseri umani e che ritorna ad essa poi per loro stesso tramite, coinvolge entrambi; eppure, quella «spinta» investe di sé i due diversamente, generando in loro opposti atteggiamenti nei confronti dell’esistenza. All’edonista, all’abile parlatore cui sta a cuore più uno sterile pavoneggiarsi che la verità, sfugge – ciò sembra affermare Mizoguchi – l’incompatibilità, la distanza tra la natura e l’uomo: al protagonista il mondo s’era invece mostrato in tutta la sua velocità, nel suo instancabile fluire; la balbuzie di cui soffre gli mostra che le parole, pronunciate anche solo pochi istanti dopo averle pensate, non riescono a «trattenere» il senso, «valgono» per (troppo) poco, e poi non più. «Valore», «senso», «fugacità» si vestono, ne Il Padiglione d’oro, di una drammaticità inesorabile, ed il «vedere» di Mizoguchi, cui è proprio un livello di «chiarezza» tale da garantirgli quella sapienza in nome della quale, con il tempo, raffinatala, potrà agire sul mondo, induce il giovane a decidersi per distruggerlo, una volta osservata l’inconciliabilità tra i due «poli» che prendono parte al gioco della vita. E, dopo il ricordo del giovane amante della realtà, ecco quello della realtà stessa, verso cui Mizoguchi era corso incontro una notte, d’impulso, e di fronte ad essa s’era posto con un balzo; la realtà nelle sembianze di una splendida fanciulla, che gli torna alla mente per mezzo di un’immagine dinamica, nel suo essere un tutt’uno con la Natura, intenta a rientrare, in bicicletta, a casa:

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[…] pensai fosse il chiarore dell’alba, ed era Uiko. Mi sembrò d’un tratto d’essere petrificato. La mia volontà, i miei desideri, tutto con me s’era fatto di pietra. Il mondo esterno non era più in contatto con la mia intimità e, ancora una volta, mi circondava con la sua inaccessibilità. […] La realtà aveva ripreso il suo dominio su tutto senza attendere la mia partecipazione, e ora, grande, tetra, insignificante, m’incalzava, mi ghermiva con una violenza fino allora a me ignota. […] Uiko – mi ricordo – dapprima fu impaurita, ma quando mi riconobbe non fece che guardarmi la bocca […] e constatato una volta di più che nessuna forza poteva uscirne per mettermi in contatto col mondo esterno, ne provò sollievo. ‘Son cose da farsi? Povero balbuziente!’ […] Mi girò intorno come se evitasse una pietra sulla strada. Non c’era un’anima nei paraggi, eppure Uiko scampanellò e scampanellò, per aumentare la mia vergogna […] arrivai persino ad augurarle la morte: e la maledizione pochi mesi dopo andò ad effetto7.

Mishima non permette mai che il suo protagonista rinneghi la bellezza di ciò che incontra, anzi, finanche la sottolinea, evidenziando come la scelta di distanziarsi dal mondo sia una conseguenza necessaria della distanza che proprio il mondo, con quel «disprezzo» espresso da Uiko, pone tra sé ed il soggetto. Agli occhi di Mizoguchi, essere una sorta di «tiranno taciturno» diviene l’unica strada percorribile: questo il sogno che accompagna il giovane sin dalla fanciullezza, nutrito dalla consapevolezza dello scarto tra se stesso e tutto ciò che lo circonda. Contenuto e forma iniziali dei due romanzi condizionano perciò la loro struttura complessiva. Nel 1925, pochi anni prima dell’uscita di Narciso e Boccadoro, Erwin Panofsky pubblica La prospettiva come «forma simbolica»8, in cui mostra come la sua indagine intorno alla grande invenzione del Rinascimento, lungi dal poter essere considerata unicamente una trattazione di problemi di storia dell’arte, si vede costretta a misurarsi con il progressivo venir meno sia dei valori, e del concetto stesso di «valore» e di «fondamento», sia – con7

Ivi, pp. 14-17. Panofsky, E., La prospettiva come «forma simbolica» e altri scritti, a cura di G. D. Neri, Feltrinelli, Milano, 200112; cfr. su quanto segue ancora il nostro studio Il Genio, cit. 8

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290 seguentemente – del concetto di «regola». Il «punto di vista prospettico», centro dell’intera figurazione, appartiene al soggetto (con il quale coincide), e determina, nell’opposizione che va a generare tra il soggetto stesso e la realtà, quella distanza che significa pure subordinazione, se non proprio derivazione, della seconda rispetto al primo. La separazione qualitativa tra chi figura e quel che viene figurato costituisce i due «poli» contrapposti di Io e mondo e nel contempo segna l’atto di fondazione della scienza modernamente intesa; con un sol gesto, quello artistico, l’uomo rinascimentale si autodefinisce, e si auto-colloca, solitario, dinanzi divino. In un simile intreccio di scienza, arte, pensiero, il mondo diviene «vero», sperimentabile, teorizzabile in base a principi e metodi scientifici; a consentirlo: la visione soggettiva, poi basilare per il razionalismo, che distingue la «totalità autentica» dalla «parte conoscibile» mediante l’indagine matematica. La soggettività cartesiana e le sue profonde contraddizioni, si palesano estremizzate con la filosofia nietzscheana9, poiché nichilismo significa la radicale e massima autofondazione di un soggetto che pone in se stesso la misura, il valore, e per ciò stesso oggettiva quel che gli si oppone, rinunciando all’autenticità ed alla vitalità di un mondo che possa venire esperito come autonomo anche senza di lui; a fare da contraltare all’estrema potenza dell’essere umano sta una pari infondatezza, la perdita di «consistenza» della realtà che si accompagna all’affermazione ultima della soggettività. La proiezione di potenza nei confronti dello spazio esterno viene controbilanciata dall’incapacità di far poggiare la potenza stessa su qualcosa d’altro dal soggetto, consapevole della propria finitezza. L’essere umano sonderà un territorio tanto esterno a sé quanto compatibile poiché soggettivisticamente strutturato, e attribuirà a tale indagine il nome di «verità»; ma l’«[dove si chiudono?] autentico, quale immagine simbolica, dalla complessità accessibile soltanto all’immediatezza dell’intuizione, gli apparirà presto estraneo, e il Tutto vacillante e spaventoso. Risulta utile, a proposito della «soggettività», accennare alla differenza che sussiste tra i due termini «genialità» e «gusto». Proprio dell’area anglosassone e germanica, il primo rimanda (già su di un piano etimologico) all’idea di generazione, in particolare del bello, in assenza di regole esterne, della creazione dal nulla a partire da un contesto informe e indeterminato, in un rapporto privilegiato con l’interiorità umana; il secondo, appartenente ad una dimensione letterario-filosofica ed impostosi nel Settecento alle corti francesi ed italiane, dipende invece da precise regole esterne che prescrivono, «normandola», la bellezza. Nel XIX secolo la «genialità», la pulsione individuale creatrice di una bellezza che è forza attraente (quella dimensione tensiva nel senso in cui Platone per primo la intese), si ribella ai canoni della Retorica aristotelica: il bello sfugge alle regole; diventa inutilizzabile qualunque criterio che consenta poi di riprodurlo, la sua incompiutezza impedisce di recuperare nozioni come equilibrio, regolarità, simmetria e armonia, e anche la realtà in cui dovrebbe sorgere è in perenne movimento. Spinto dall’amico Narciso ad abbandonare il convento per assecondare la sua vocazione d’artista, Boccadoro va incontro nel suo viaggio alla vita ed all’amore, giacché ogni donna che incontrerà sul suo cammino lo avvicinerà sempre di più, quale femminile particolare, al femminile universale del quale la sua perduta madre è espressione. Egli comprende l’importanza per un artista di cogliere, prima ancora delle proporzioni, quindi degli elementi quantificabili e ripetibili della dimensione fisico-esteriore, l’armonia delle corrispondenze tra il corpo e l’anima, tra il visibile e l’invisibile; come di questi ultimi termini il secondo sia il nutrimento del primo, ed entrambi esistano mai scissi bensì in un’osmosi essenziale. La rappresentazione di tale mescolanza «riproduce», gesto che dunque signi9 Il cui debito, nei riguardi della tradizione ottocentesca, è tuttavia innegabile, come sosteniamo in Heidelberg Romantica, cit., pp. 187-213.

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291 fica tutt’altro dall’«imitare», l’esistenza: l’artista moderno si domanda, per la prima volta nella storia dell’arte, come recuperare all’atto creativo l’invisibile. «Gusto» e «imitazione» da un lato, dunque, e «genialità», «spontaneità», «originalità», «infrazione della regola» dall’altro: ecco i luoghi concettuali della contesa tra due opposte visioni del mondo. Tra Settecento e Ottocento emerge, e a poco a poco s’impone, sul «gusto» e sull’«assoluto imitabile», il potere, che modella la storia, di un’energia creatrice in continua metamorfosi la quale, se nell’antichità si credeva (in)formasse l’uomo dall’esterno, viene ora percepita piuttosto come un impulso alla generazione, parte dell’interiorità individuale. Per l’essere umano divenuto massimamente potente, autonomamente creatore, l’ambiente tutt’intorno si fa oggetto, semplice materia da utilizzare e della quale disporre a piacimento: di ciò è convinto Mizoguchi. Il dato positivo di uno sviluppo raggiunto e raggiungibile; l’acquisita consapevolezza da parte dell’uomo delle proprie capacità, si ribalta nella progressiva diminuzione di valore dell’«altro dall’umano» cui sarebbe preclusa la «genialità». Assieme al regno, l’indiscusso sovrano del mondo ha ereditato pure la solitudine, lo smarrimento. Cosa resta a Boccadoro, all’artista, una volta compreso che da contemplare è una realtà in continua trasformazione, in continuo movimento, non più imitabile? Nei romanzi di Hesse e di Mishima ricorrono altresì, quasi ossessivamente, i termini «volto» e «visione», che in tedesco corrispondono a Gesicht, per entrambi i significati. Il «vedere» rappresenta una spinta dello sguardo, manifesta, identificabile, verso quell’invisibile che Diotima indicò a Socrate segnando l’atto di nascita del modello occidentale di conoscenza. Allorquando Hesse, tuttavia, suggerisce di affidare all’artista e non al pensatore: a Boccadoro che è volto della vita, e non a Narciso, custode dell’immutabile, il compito di procedere dal visibile all’invisibile, emerge in maniera evidente che tale percorso non si inscrive più nell’ambito «puramente» filosofico. L’invisibile, il volto della Madre, significa, essenzialmente, «divenire». Riprodurre l’invisibile (creare un’opera d’arte) si può, quando l’esistenza rifletta la realtà mediante il proprio dinamismo, una volta cioè «poeticizzatesi» le scelte individuali. Deve, l’«artificiosità» dell’arte, essere superata in nome di una più originaria «artisticità»; ogni distanza tra l’artista e la sua opera annullarsi; Boccadoro innamorarsi di chi rappresenterà: solo il coinvolgimento testimonia dell’effettiva coincidenza tra creazione ed esistenza quale «esperire sensibile», immediato, autentico; all’artista spetta di immettersi nella vita del divenire per prendere parte a tale flusso, costante solo nel suo darsi perpetuo. In più luoghi Hermann Hesse si auto-esclude dal romanzo che scrive, esprimendosi per il tramite di un linguaggio diretto e vero che indica la realtà come la grande protagonista di un’opera nella quale, se la presenza dei dialoghi già accenna al tentativo di abbassare la soglia dell’ «artificioso», accade persino il racconto-descrizione del «non linguaggio» dei sensi. In compagnia del suo «primo amore», di Lisa, Boccadoro non aveva avvertito neppure la necessità di parlare: «Ci chiamiamo come gli animali»10, racconta. Questo dell’autore non costituisce un rimando alla «semplice sensibilità», ma rappresenta l’occasione, che il romanzo si procura, di scandire le parole dell’esistenza, di essere un prodotto ben più vicino all’autentico di quanto non sia, e invece naturalmente dovrebbe, all’arte. Il destino di Boccadoro non conosce né stasi, né approdi; egli certo non girovaga alla stregua di un pellegrino medievale, dal momento che il suo incedere, condizionato dall’orizzonte nichilista, non prevede scopo alcuno (la terra sacra, il leggendario Graal ecc.). Anche quando, tentato dalla staticità e pur avvertendo tutto il peso della tensione perpetua, il giovane rifugge ogni patria, egli sente che soltanto la morte fermerà il suo andare, compiendo il suo viaggio e assieme l’opera d’arte, somma raffigu10

Hesse, H., Narciso e Boccadoro, cit., p. 74.

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292 razione, volto della Madre, corrispondente dunque alla vita intera, non già ad un manufatto. A metà della storia, Boccadoro è divenuto l’apprendista di un intagliatore, il maestro Nicola, padre di Elisabetta, fanciulla che questi decide di dargli in sposa dopo che a un’iniziale diffidenza nei suoi confronti ha fatto seguito la scoperta della bravura del giovane. Qualora il protagonista di Hesse decidesse di fermarsi per lavorare nella bottega del maestro, la distinzione tra artista e opera d’arte non avrebbe alcuna speranza di risoluzione, poiché il viaggio intrapreso attraverso il mondo e verso l’invisibile si arresterebbe. Elisabetta esercita su di lui un inedito potere; possiede una misteriosa qualità in grado di tentarlo con forza a sostare nello stadio entro cui l’imitazione impedisce la coincidenza tra artista e vita, qualità che nello stesso tempo suscita nel giovane il disprezzo proprio per l’arte figurativa, rappresentazione giudicata incompleta poiché limitata alla sola dimensione esteriore. […] Io voglio vivere e girovagare, sentire l’estate e l’inverno, guardare il mondo, sperimentare la sua bellezza e il suo orrore. Io voglio soffrire la fame e la sete e voglio dimenticarmi, liberarmi di tutto quello che ho vissuto e imparato qui da voi […] ma diventare come voi, vivere come voi vivete non voglio11.

Con queste parole rivolte al maestro, Boccadoro sceglie consapevolmente di non lasciarsi «deviare» dalla femminilità di Elisabetta, e di proseguire il suo cammino alla ricerca di quel femminile universale che inizialmente lo mosse. Rinuncia alla «dimora-patria», alla quieta relazione tra esistenza ed essere umano così che, avendo in animo di allontanarsi e da Nicola e dalla figlia, nell’istante stesso della scelta, scopre un misterioso collegamento; un’identica condizione e una medesima sorte accomunerebbero Boccadoro agli animali che osserva: Vide le donne e le ragazze che andavano al mercato, sostò specialmente presso la fontana, osservando i mercanti di pesce e le loro donne vigorose, mentre offrivano in vendita e decantavano la loro merce, mentre estraevano dai loro tini i pesci freddi e argentei, alcuni dei quali s’arrendevano quieti alla morte, con la bocca dolorosamente aperta e gli occhi d’oro fissi in un’espressione d’angoscia, altri invece si ribellavano furenti e disperati. Come già tante volte, lo prendeva una viva compassione per quelle bestie e una triste indignazione contro gli uomini12.

Se restasse a bottega, anch’egli verrebbe divorato, al pari dei pesci, dalla ripetitività del tempo. Boccadoro comprende chiaramente quanto il continuo nascere e morire, il venir fuori e tornare nel nulla delle esistenze, non significhi alcunché: quel permanere insensato tra le mura della casa del maestro e di Elisabetta, sortirebbe l’effetto di strapparlo alla vita, come i pesci dall’acqua, fino a morirne. Il profondo sentimento di compassione che lo pervade alla vista delle creature catturate, accompagnato dalla decisione di rimettersi in cammino, sembrano sgorgare dall’elemento «scorrevole» per eccellenza: nella fonte, e nel suo fluire, Hesse dà forma al simbolo della trasformazione; lì i pesci si mostrano nel loro attaccamento al perpetuo divenire, finché la violenza di chi interviene su di essi e, pescando, li allontana dall’acqua decretandone la fine, restituisce l’immagine del rischio corso dal protagonista. Quando anche Mizoguchi si ritrova nella stessa condizione di Boccadoro, in procinto di prendere una decisione cruciale, le differenze tra i due personaggi ne escono rimarcate. Non basta, a riavvicinarli, che anche per il primo, sebbene alternativamente interpretato, il rapporto con il femminile e quello con l’esistenza si corrispondano nel con11 12

Ivi, p. 163. Ivi, pp. 159-160.

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293 trasto tra la fissità e l’essere, in trasformazione visibile ed emblematica. E neppure, li riavvicina, che, proprio come in vista dell’acquisizione di una sapienza (tecnica) era stato determinante per Boccadoro l’incontro con Nicola, Mizoguchi trovi un maestro nella figura di Kashiwagi, parlando del quale egli afferma: «la sua deformità mi rasserenava. I suoi piedi sbilenchi avevano sin dal principio stabilito un’analogia con la mia stessa condizione»13. Da Kashiwagi, Mizoguchi impara che nel rapporto individuo-bellezza traspare anche una dimensione che esclude la compassione; osserva, in particolare, la crudeltà palesarsi quale specifico, mirato, «fare del male». Nel mondo dogmaticamente sanguinario di quest’uomo, la crudeltà diviene la luminosa opera creata da un artista, in grado – questa la sua sapienza tecnica – di convogliare in un unico punto la capacità più generale, diffusa, di essere malvagi. Ma Mizoguchi è un discepolo assieme devoto e rancoroso. Il maestro riesce lì dove egli ha fino a quel momento fallito, piuttosto che sentendosi respinto dagli altri a causa della malformazione, ribaltando crudelmente il proprio difetto fisico in punto di vista, prospettiva alla quale costringe chiunque gli si avvicini; come alternativa finanche a quella di Kashiwagi dovrà dunque darsi la reazione di Mizoguchi di fronte alla bellezza. Indifferenza, non crudeltà; la stessa che le donne fingono nei suoi confronti e che egli restituisce loro; e al femminile, all’esistenza, a quel che visibilmente e perennemente si trasforma, il Padiglione, che «sembra fingere la più completa indifferenza»14, rimanda. Dal versante opposto alla crudeltà di Kashiwagi risponde l’atteggiamento compassionevole di Boccadoro: entrambi si volgono verso la vita e, ciascuno mediante una specifica modalità, l’accettano; Mizoguchi non può però permettere che resti in piedi la stessa giustificazione dell’esistenza, il Padiglione d’oro, verso il quale rivolgerà pertanto la sua follia estremista. Egli, in procinto di compiere la sua azione distruttiva, si esprimerà con queste parole che suggeriscono la drammaticità di un vero e proprio rito profano e profanante: «La mia azione salverà gli uomini. Con il mio gesto sospingerò il mondo del Padiglione d’oro in un mondo diverso dove esso non esiste. Il senso del mondo cambierà senza dubbio»15. Perché, in conclusione, una differenza così profonda e insuperabile tra i protagonisti dei due romanzi? La risposta potrebbe risiedere proprio nella mancata accettazione da parte di Mizoguchi dell’elemento femminile e materno, della sensibilità, che invece, una volta accolto da Hesse, conduce Boccadoro alla suprema visione. Accettare la crisi di valori novecentesca, sopravvivere al nichilismo, significa poter dire il sensibile, scindere prima e riconnettere poi materialità e spiritualità, elementi che nel racconto di Hesse agiscono attraverso i due personaggi di Narciso e di Boccadoro e invece si ritrovano solo riunificati, non già conciliati, nel personaggio di Mizoguchi; tale riunificazione testimonia che, per Mishima, la speranza di sanare, nella mediabilità del contrasto, la ferita provocata dall’allontanamento della parola dalla verità, ormai, tragicamente, tace. In Narciso e Boccadoro il divenire in continua metamorfosi sa riconoscere come modello quel che permane identico il quale, tuttavia, come la fine del romanzo mostra nel significativo ultimo colloquio tra i due amici, si riconosce a sua volta dipendente dal sensibile al fine di pronunciare l’autentico: «Capisci ora», disse Boccadoro, «che io non posso intendere che cosa significhi pensare senza rappresentazioni.» «L’ho capito da un pezzo. Il nostro pensare è un continuo astrarre, un prescindere dal mondo sensibile, un tentativo di costruzione d’un mondo puramente spirituale. 13

Mishima, Y., Il Padiglione d’Oro, cit., p. 91. Ivi, p. 109. 15 Ivi, p. 188. 16 Hesse, H., Narciso e Boccadoro, cit., p. 264. 14

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294 Tu invece cogli nel cuore ciò che vi è di più instabile e mortale e riveli il senso del mondo proprio in quello ch’è transitorio. Tu non prescindi da questo, ti dài tutto ad esso, e per questa tua dedizione esso diventa ciò che vi è di più alto: il simbolo dell’eterno. Noi pensatori cerchiamo di avvicinarci a Dio staccando il mondo da lui. Tu ti avvicini a lui amando e ricreando la sua creazione. Sono entrambe opere umane e inadeguate, ma l’arte è più innocente»16.

Con questa professione d’umiltà da parte del personaggio che in Hesse porta su di sé, potremmo dire, il peso della tradizione filosofica occidentale, il romanzo si avvia alla sua conclusione. Ma Narciso si fa soprattutto carico del destino del pensare, indicando, quale sua antica e rinnovata dimora, l’immagine.

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