Senso comune

July 4, 2017 | Autor: Vincenzo Zenobi | Categoria: Common Sense, Planning Theory, Pianificazione Territoriale
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Senso comune

Vincenzo Zenobi

in Piano Progetto Città n. 22-23 / 2004 “Territori sempre più simili” a cura di Cristina Bianchetti

Vincenzo Zenobi, Senso Comune, PPC 22-23 / 2004

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1. Senso comune: la terra è rotonda

Se non ci fosse il senso comune, come quel personaggio pieno di dubbi di una delle Storie di Peter Bichsel, per poter credere alla sfericità della terra saremmo costretti ad elaborare un progetto: dovremmo predisporre gli strumenti per poter camminare sempre dritti davanti a noi, superando ogni ostacolo che potessimo trovare sul nostro cammino, e dovremmo sperare di tornare un giorno esattamente al punto di partenza. E così per ogni altra conoscenza che diamo per scontata nella nostra vita quotidiana. Se non ci fosse il senso comune, non vivremmo in un mondo intersoggettivamente comunicabile e, come altri personaggi di altre storie di Peter Bichsel, potremmo scambiare le ‘etichette’ che denotano gli oggetti e rifiutare le ‘tipizzazioni’ condivise: potremmo chiamare quadro il letto e tappeto il tavolo; oppure descrivere con un unico segno, Jodock per esempio, l’intero mondo che abitiamo: la leggerezza di questi gesti, però, difficilmente ci renderebbe più felici, più probabilmente ci condurrebbe all’afasia e all’impossibilità di agire: «il vecchio uomo col cappotto grigio non riusciva più a capire la gente, e questo non era tanto un guaio. Molto peggio era che loro non riuscivano più a capire lui. E per questo egli non disse più nulla. Tacque, parlò solo con se stesso, non salutò neanche più”1. Il senso comune è ciò che ci permette di vivere in un mondo intersoggettivo, il mondo della vita quotidiana, sulla cui esistenza sospendiamo il dubbio. Ci permette, anche, un’economia cognitiva: possiamo dare molte cose per scontate e concentrare i nostri sforzi conoscitivi su alcune questioni che riteniamo problematiche. Una delle definizioni più efficaci di senso comune è proprio quella che dice:«il senso comune è ciò che una cerchia sociale ritiene ovvio»2. Il senso comune non è dato una volta per tutte. Non è, come alcuni pensano, una “proprietà” dell’intelletto che caratterizza le persone avvedute accompagnandole nella loro vita. Il senso comune è piuttosto un insieme di conoscenze - non necessariamente tutte coerenti tra loro - che muta in qualche modo nel corso del tempo. In questo insieme di conoscenze possiamo certo trovare saggezza, intesa come una conoscenza profonda del mondo che si è formata in una lunga relazione dei soggetti con l’ambiente, quella conoscenza che di solito chiamiamo “sapere pratico”. Ma nel senso comune troviamo anche pezzi di saperi colti, spezzoni di teorie più o meno aggiornate, che ci orientano nella comprensione tanto degli affari ordinari che dei problemi complessi. 1

Questi esempi sono tratti da P. Bichsel, Storie per bambini, 1989. Tra i tanti modi in cui è possibile leggere questo splendido libro dello scrittore svizzero, uno è certo quello di interpretarlo come una riflessione sul senso comune, su quali siano le sue funzioni, su quanto sia affascinante e allo stesso tempo difficile metterlo in discussione. 2 Per questa definizione e più in generale per una riflessione intorno al senso comune cfr. P.Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano, 1994

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Con le parole di Clifford Geertz: «il senso comune non è ciò che la mente comprende spontaneamente, liberata dal ciarpame; è quello che la mente riempita di presupposti conclude»3. In questo modo, mentre ci aiuta nelle attività pratiche della nostra vita quotidiana, il senso comune, riproponendo tipizzazioni e classificazioni delle cose, ci prepara a riconoscere e riprodurre il già noto, ciò che sappiamo già. Per questo dobbiamo sempre mettere in tensione il senso comune, non assolutizzarlo, rendere mobili i confini di ciò che riteniamo ovvio: rendere invece il senso comune pronto al cambiamento che può essere prodotto dall’ “urto dell’esperienza” o dall’incontro con l’alterità di chi non considera ovvie le nostre stesse cose: va sempre tenuto ben presente che il senso comune si dà in un certo tempo ed entro una particolare società e che esso varia a seconda delle cerchie sociali che di volta in volta consideriamo. Se ci chiedessimo in che modo il senso comune contribuisce a produrre un ambiente omogeneo e ripetitivo, potremmo forse immaginare che questo possa avvenire in due modi, perché il senso comune produce omogeneità di sguardi e omogeneità di azioni. A volte è l’azione ripetuta e non messa in discussione a impoverire l’immaginario; altre volte può essere un’incapacità di vedere e di uscire dalle tipizzazioni usuali dei fenomeni a non richiedere e non sollecitare nuove pratiche. I due aspetti forse sono legati da una relazione circolare in cui uno produce l’altro: possiamo provare a esplorare questo circolo almeno in una direzione.

2. Un senso comune «disciplinare» Alcuni anni fa, la rivista Quaderni storici ospitò un articolo di Edoardo Grendi, cui seguirono poi alcune risposte di altri autori, dal titolo «Del senso comune storiografico». «Cosa intendo per senso comune storiografico?» − così si apriva l’articolo di Grendi − «né più né meno (...) l’attuale didattica della storia (...) Un manuale di storia è fondamentalmente costruito su queste basi: 1) una selezione di temioggetto; 2) un’organizzazione della loro rilevanza, 3) l’ipotesi della costruzione temporale, e cioè la periodizzazione e il senso del ‘cammino’». Potremmo sostituire alla storia il governo del territorio, alla didattica le pratiche e forse potremmo comprendere come il senso comune di un gruppo professionale, selezionando temi e attribuendo loro rilevanza, producendo di conseguenza azioni, possa contribuire a produrre ambienti caratterizzati da una patina di omogeneità. Del resto, se il senso comune è solo parzialmente comune, se condividiamo un particolare senso comune con i componenti di ognuna delle cerchie sociali cui apparteniamo, non è sorprendente 3

C. Geertz,, Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna, 1988 pag. 105 (ed.or. 1983)

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pensare che un gruppo professionale dia per scontate alcune interpretazioni del mondo e dei fenomeni cui applica il proprio sapere esperto, escludendo come paradossali o inaccettabili alcune tematizzazioni dei problemi4. Un senso comune urbanistico può essere dunque interpretato come un insieme di credenze validate all’interno di una cerchia di operatori professionali, che contribuisce a riconoscere socialmente i problemi rilevanti e le risposte adeguate, definendo al tempo stesso l’identità e il ruolo dei tecnici. Queste credenze diventano senso comune disciplinare quando non si discutano più, quando neppure più si vedano, gli assunti e i contesti da cui esse sono originate, quando non si sia coscienti di ciò che si accetta tacitamente come ovvio e che, come tale, si elimina dall’arena della discussione. Potremmo dire che il senso comune urbanistico produce una “costruzione non problematica dei problemi” e pratiche e soluzioni standardizzate da applicare in modo omogeneo in contesti e situazioni pure tra loro differenti. E’ interessante chiedersi come si produca un senso comune disciplinare e che rapporti intrattenga con il senso comune di più ampie cerchie sociali, se si generi con dinamiche proprie o sia influenzato dalle dinamiche della società. Peter Hall, alcuni anni fa, ha fornito una propria interpretazione di questo problema mostrando quanto difficile possa essere uno sguardo sui fenomeni che cerchi di tenere insieme l’appartenenza ad una tradizione professionale e l’ingenuità nell’osservazione delle cose: anche se in modo non consapevole, alcune idee di lungo periodo sono comunque operanti nel delimitare il campo dei problemi e delle soluzioni5. La stessa osservazione di Hall potrebbe essere riformulata utilizzando un’immagine sistemica (sostenendo che le azioni di governo del territorio mutano il loro carattere non solo per una pressione dell’ambiente esterno ma anche per una sorta di modificazione autoreferenziale della struttura di percezione del mondo); oppure facendo riferimento alla nozione di ‘programma di ricerca’ proposta da Lakatos e frequentata dagli urbanisti negli anni passati. Il fatto è che l’impatto dell’omogeneità di azioni prodotta dal senso comune di un gruppo professionale sul mondo non è facilmente superabile facendo affidamento solo sulla propria esperienza: 4

E’ovvio che neppure un gruppo professionale può essere pensato omogeneo al suo interno e che diversi soggetti di occupano diversamente il campo professionale, se vogliamo utilizzare il lessico di Bourdieu. Ma non è questo il punto che interessa ora. Su alcune tematizzazioni che sfidano il senso comune disciplinare cfr. p.es. P.L. Crosta, «Pubblici locali. L’interattività del piano, rivisitata» in Urbanistica, n.119, 2002. 5 « “Practical men, who believe themselves to be quite exempt from any intellectual influences, are usually the slaves of some defunct economist” thus Keynes, in a celebrated passage at the end of the General Theory . “Madmen in authority”, he wrote, “who hear voices in the air are distilling their frenzy from some academic scribbler of a few years back”. For economists, he might as aptly have substituted planners. Much if not most of what happened − for good or for ill − to the world’s city in the years since World War Two, can be traced back to the ideas of a few visionaries who lived and wrote long ago, often almost ignored and largely rejected by their contemporaries. They have had their posthumous vindication in the world of practical affairs; even, some might say, their revenge on it». P. Hall, Cities of tomorrow. An intellectual history of urban planning and design in the twentieth century, Oxford, 1990, p.2

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tanto più se riflettiamo sulle modificazioni dell’esperienza che si sono prodotte nella situazione contemporanea dove l’esperienza diretta del mondo è sempre più difficile, svolgendosi entro apparati tecnici complessi e attraverso mediazioni spesso inconsapevoli.6 In questo modo il senso comune urbanistico, che pure talvolta può essere messo in crisi dall’emergere di nuovi problemi e di nuovi soggetti attivi all’interno della società, può spesso diffondersi e diventare senso comune di gruppi sociali più vasti.

3. Città implicite «Quando ti chiedo d’altre città voglio sentirti dire di quelle. E di Venezia, quando ti chiedo di Venezia». «Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia». Questa citazione di Calvino potrebbe apparire inopportuna. La Venezia implicita del Marco Polo calviniano è una città individuale, prodotto irreplicabile di un solo soggetto, deposito della memoria, delle esperienze, che sfugge alla definizione e non è dicibile se non per differenza. E’ una città che non produce un significato socialmente trasmissibile, se intendiamo questo come una riduzione, “una forma determinata (rappresentazione del sé e della realtà, attività linguistica del nominare-definire le cose, regola di comportamento, forma cognitiva) che permetta di ridurre la complessità indeterminata nella quale gli attori si trovano in origine gettati”7. Tuttavia la Venezia del Marco Polo calviniano è un buon punto di partenza, una buona analogia per osservare come anche nella società si diano e vengano condivise idee implicite di città: potremmo dire, parafrasando Lynch8, teorie normative che ci permettano di dire quale città sia desiderabile e ci permettano di riconoscere una buona città quando ci capiti di averne esperienza. Possiamo forse interpretare queste città implicite condivise socialmente come “rappresentazioni sociali” nei termini in cui sono state proposte da Serge Moscovici9. Una rappresentazione sociale attraverso meccanismi di ancoraggio e oggettificazione «rende l’in-usuale usuale», ci permette cioè di interpretare il mondo riconducendo lo straordinario all’ordinario e trasformando l’astratto in concreto. Attraverso questi meccanismi, spezzoni di saperi scientifici, anche spezzoni di senso comune disciplinare, sia pure a volte con slittamenti di significato, entrano nel patrimonio di strumenti che ognuno ha a disposizione per interpretare il mondo: «nel passato la scienza era basata sul senso

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P. Jedlowski, «Le trasformazioni dell’esperienza», in C. Leccardi (a cura) Limiti della modernità, Carocci, Roma, 1999 7 F.Crespi, Evento e struttura, Il Mulino, Bologna, 1993, pag.10 8 K. Lynch, Progettare la città, Etas libri, Milano, 1990 (ed.or. 1981) 9 R.M. Farr e S. Moscovici (a cura di), Rappresentazioni sociali, Il Mulino, Bologna, 1989 (ed.or.1984)

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comune e rendeva il senso comune meno comune; ma adesso il senso comune è la scienza resa comune». Sarebbe interessante rendere più concrete queste osservazioni e cercare di descrivere alcune rappresentazioni sociali della città. Un abbozzo di ricerca, solo tentativa, di qualche anno fa, che cercava di sondare l’immaginario e le rappresentazioni della città e dell’urbanistica degli studenti del primo anno di architettura e pianificazione, ritenuti soggetti particolarmente sensibili su questi temi, faceva comunque emergere alcuni dati interessanti: per esempio una certa omogeneità dei modelli insediativi desiderabili che sembravano corrispondere alla proiezione di alcuni caratteri del proprio luogo di vita più che, per esempio, alla suggestione di alcuni luoghi visitati; oppure il riconoscimento di importanza del ruolo di tecnici e sindaci nel governo del territorio cui corrispondeva una sostanziale sfiducia nelle possibilità dell’azione dei cittadini, singoli o associati, fossero pure soggetti economicamente forti; la fiducia nella osservazione diretta delle cose o nella conversazione con le proprie cerchie di riferimento (amici e familiari) come fonti valide su cui basarsi per costruire le proprie opinioni sulla città, arricchita in solo pochi casi da alcune trasmissioni televisive di approfondimento o da letture riconosciute come esperienze formative, capaci, per così dire, di creare mondi (tra i pochi testi citati, per esempio il Calvino di Marcovaldo o delle Città invisibili; Due di due di Andrea de Carlo, i romanzi con la Barcellona di Montalbàn; Tempi difficili di Dickens). Se questa descrizione del tutto sommaria e tentativa coglie anche solo alcuni aspetti del senso comune e delle modalità di rappresentazione della città e della creazione di aspettative diffuse, si possono forse in parte comprendere alcuni meccanismi di produzione di omogeneità e si possono forse immaginare alcuni modi per fare i conti con essi: porre attenzione sulle rappresentazioni sociali, sostenere che esistono città implicite condivise socialmente che condizionano lo sguardo e il giudizio sul mondo non equivale infatti a sostenere l’impossibilità di elaborare un proprio orizzonte di senso in qualche modo autonomo e originale che si stacchi dal rumore di fondo delle rappresentazioni di senso comune. Vuol dire piuttosto sostenere che questa operazione non è facile e richiede attenzione e una continua alimentazione.

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