Sguardo reciproco. Letteratura e immagini tra Settecento e Novecento (ed.)

June 8, 2017 | Autor: Roberta Coglitore | Categoria: Visual Culture, Gaze and Representation
Share Embed


Descrição do Produto

IV

DIAGONALI Collana del Dipartimento di Arti e Comunicazioni dell’Università degli Studi di Palermo Direttore Michele Cometa

DIAGONALI Collana del Dipartimento di Arti e Comunicazioni dell’Università degli Studi di Palermo

1. Calabrese Rita (a cura di), Dopo la Shoah. Nuove identità ebraiche nella letteratura, 2005, pp. 220. 2. Coglitore Roberta, Pietre Figurate. Forme del fantastico e mondo minerale, 2004, pp. 228. 3. Di Piazza Elio, Corona Daniela, Romeo Marcella (a cura di), Maschere dell’impero, 2005, pp. 260. 4. Coglitore Roberta (a cura di), Lo sguardo reciproco. Letteratura e immagini tra Settecento e Novecento, 2007, pp. 326, ill. 5. Giannitrapani Mirella (a cura di), Transizioni. Paradigmi della letteratura tardo-vittoriana e modernista, 2007, pp. 252.

Lo sguardo reciproco Letteratura e immagini tra Settecento e Novecento a cura di Roberta Coglitore

Edizioni ETS

www.edizioniets.com

© Copyright 2007 EDIZIONI ETS

Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] ISBN 978-884671731-3

GRADIENTI DI RECIPROCITÀ Roberta Coglitore

Molteplici sono le modalità di incontro tra il mondo della letteratura e quello delle immagini. Questo volume, articolato in tre sezioni – sopravvivenze, descrizioni, rappresentazioni – presenta alcune di queste “collaborazioni” nella letteratura europea degli ultimi tre secoli. Senza per questo voler misconoscere l’importanza degli altri rapporti che hanno legato i due ambiti – per esempio la creazione di iconotesti e iconismi o l’invenzione di metafore assolute o ancora la doppia produzione artistica nei casi di Doppelbegabung1 – le declinazioni qui presentate possono essere ricondotte a tre diversi orientamenti interpretativi che legano la comparatistica letteraria con gli studi di cultura visuale2. Gli “sguardi” che attraversano diagonalmente tutti i saggi del volume, si combinano in relazioni di volta in volta diverse, dando luogo a prospettive differenti. Si tratta talora di sguardi rivolti nella stessa direzione, mirati a costruire un comune patrimonio figurativo tra letteratura e arte (sopravvivenze); talvolta si tratta di sguardi in competizione, laddove un’espressione artistica cerca di prevalere o di sostituirsi all’altra (descrizioni); o ancora di sguardi che agiscono rivelando omologie di funzionamento tra i due media (rappresentazioni). Se la reciprocità è forse la relazione che meglio di ogni altra riesce a definire la complessità del legame tra le due “arti sorelle”, e più in generale tra la parola letteraria e il mondo multiforme delle immagini, la sua assunzione come presupposto di base porta con 1 Per un completo esame delle possibilità di incontro tra i due ambiti si rimanda a M. Cometa, Letteratura e arti figurative: un catalogo, in «Contemporanea», 3 (2005), pp. 15-29. 2 Le tre modalità cui si fa riferimento vanno ricondotte alle opere di G. Didi-Huberman e della scuola warburghiana, agli studi di P. Hamon sulle imageries letterarie, quelli di J.A.W. Heffernan e di M. Krieger sulll’ékphrasis, e a quelle di J.-J. Wunenburger sull’immaginario.

8

Lo sguardo reciproco

sé delle inevitabili conseguenze. L’intero sistema artistico-letterario si basa su questa congerie di rapporti, insieme di collaborazione, confronto e rivalità. Inoltre la supposta reciprocità non soltanto ha sempre garantito nuova linfa alle singole arti ma ne ha anche permesso definizioni teoriche sempre più ampie e complesse. L’allargamento dei confini di ciò che oggi chiamiamo letteratura, sia dal punto di vista dei canoni sia da quello delle forme, e la pervasività teorica della questione delle immagini, anche nella riflessione letteraria, ci costringe ad un discorso sulla testualità e sull’immagine sempre più differenziato. Indicare quale letteratura e quali immagini vengono di volta in volta convocate in questi sguardi reciproci è lo scopo di questa premessa. Il termine sopravvivenze, che dà il titolo alla prima sezione di questo volume, porta in primo piano la questione del tempo profondo delle immagini, il Nachleben der Antike, per dirla con Aby Warburg. La letteratura e l’arte infatti recuperano i livelli multipli di un tempo complesso che si sedimenta nel presente per formare quel «popolo di fantasmi», come direbbe Georges DidiHuberman3, che costituisce l’essenza profonda della cultura testuale e visuale di un’epoca. Si tratta in sostanza di ricostruire le tappe di una continua riscrittura del mito che ha permeato di sè insieme la letteratura e le arti (come del resto anche le “scienze” e le forme del pensiero filosofico). Come ci ha insegnato Kafka a proposito di Prometeo il mito ha la forza di rimanere in vita anche quando le sue immagini e le sue parole sono del tutto sbiadite o persino cancellate. Forti di questa infinita e indistruttibile “resistenza” del discorso mitologico, i primi tre saggi sono dedicati alle riscritture e alle risemantizzazioni di concetti e di immagini che hanno determinato la lunga durata del mito greco tra Settecento e Novecento. I saggi di Michele Cometa, Elena Agazzi e Paolo D’Angelo studiano rispettivamente una fase della storia iconografica del concetto di Nemesi, della rappresentazione della morte in ambito neoclassico e del mito di un Pigmalione “rovesciato” attraverso la ricostruzione di alcuni temi capaci di attraversare letterature, arti e pensiero. 3 Cfr. G. Didi-Huberman, L’image survivante. Historie de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg, Paris, Minuit, 2002 (trad. it. di A. Serra, L’immagine insepolta, Torino, Bollati Boringhieri, 2006); Id., Images malgré tout, Paris, Minuit, 2003 (trad. it. di D. Tarizzo, Immagini malgrado tutto, Milano, Cortina, 2005).

Gradienti di reciprocità

9

I materiali “letterari” che vengono utilizzati in questa prima sezione sono principalmente testi lirici, narrativi e teatrali, insieme a resoconti di viaggio, trattati di estetica, di pittura, di scultura e di architettura, poiché i tre autori insistono sull’osmosi tra specie testuali spesso assai diverse all’interno di contesti culturali ben definiti. Si tratta, come si può facilmente vedere, di un canone letterario allargato, incline a considerare, da un lato, la qualità artistica delle riflessioni estetiche, poetologiche e filosofiche, e, dall’altro, ad immaginare il testo letterario come il precipitato di questioni culturali molto più ampie. Sul fronte delle “immagini” invece questa prima sezione del volume fa riferimento a immagini sensibili (emblemi, sculture, disegni, dipinti, bassorilievi, lapidi, monumenti funerari) – intese come tracce che hanno permesso di ricostruire le iconografie di tali “sopravvivenze” – ma allo stesso tempo anche a figure archetipiche, quelle “immagini mentali” che costituiscono le idee base dei mitologemi dei quali si descrive l’evoluzione. Attraverso la composizione di un atlante delle immagini, prima herderiano e poi hölderliniano, Cometa ricostruisce le varie tappe della formazione di una filosofia della storia come filosofia dell’avvenire che ruota attorno alla figura di Nemesi-Adrastea. Ad una ricostruzione della concezione pagana della divinità e delle sue risemantizzazioni cristiane Cometa approda grazie a un sapiente uso di materiali che provengono dalla tradizione letteraria (filologica, mitologica e poetica) e dalla tradizione iconografica (emblematica, pittorica e scultorea). Ad un’attenta analisi di simbologie, riti funerari, rappresentazioni figurative, edilizia funeraria (mausolei, lapidi, tombe, iscrizioni) in ambito neoclassico è dedicato il saggio di Elena Agazzi. Winckelmann, Lessing, Herder, Goethe, Moritz, da un lato, e Pannini e Canova, dall’altro, sono i protagonisti del rinnovamento pagano e poi cristiano della figurazione della morte che trova in Italia, e a Roma in particolare, la sua sede ideale, il luogo di una naturale contaminazione tra religione, politica e arte. Lo scheletro, la farfalla, la fiaccola rovesciata, il papavero sono i simboli che illustrano in architettura, pittura e scultura come anche nella letteratura classico-romantica la differenza tra una concezione della morte idealizzata come forma di immortalità estetica, a fronte di una morte demonizzata e rappresentata con terrore, tipica dell’estetica barocca.

Lo sguardo reciproco

10

Paolo D’Angelo studia le sopravvivenze di una variante del mito greco di Pigmalione. Non si tratta però di ricostruire la tradizione letteraria che riguarda l’amore del noto scultore per Galatea, la “statua che si anima”, ma di analizzare i testi teatrali e narrativi che trattano le triangolazioni tra scultori, modelle e amanti, variante del mito particolarmente frequentata tra Ottocento e Novecento. I rapporti che si creano tra le muse ispiratrici e gli artisti sono spesso intrecciati con gli amori ideali e reali che esse talvolta animano o talaltra contrastano. Il piano dell’arte si confonde con quello della vita, provocando un “rovesciamento” del mito di Pigmalione. Una passione spesso invocata ma difficilmente vissuta si intromette nella sensuale o sublimata relazione tra scultore e scultura. Le inutili richieste di amore di Irene a Rubek nel testo teatrale di Ibsen, la rivalità tra l’amore della modella Gioconda Dianti e quello della moglie Silvia nella tragedia di D’Annunzio, come anche il confronto messo in atto da Pirandello tra una modella, la Tuda, e la statua che ad essa è stata ispirata, una Diana, celano concezioni estetiche che regolano i rapporti tra la vita reale e l’arte, la passione e la morte, e che in forme diverse lasciano presagire il moderno “disinteresse” della fruizione estetica. Nella seconda sezione del volume sono invece raccolte le descrizioni letterarie dell’arte figurativa per eccellenza, la pittura. In questo caso la letteratura trasforma in linguaggio verbale ciò che è già sotto ai nostri occhi. Attraverso la forma poetica o uno stile alto di scrittura si cerca di rappresentare l’effetto estetico, la “vividezza” e la forza espressiva di un’immagine d’arte. Inizialmente riconosciuta come artificio della retorica antica, l’ékphrasis ha acquisito nei secoli una sua valenza particolare nel discorso storico, filosofico e morale, fino a diventare all’interno della prosa letteraria il campo dove mettere alla prova la rivalità tra le due arti. Un’ampia trattatistica pittorica, insieme a un’altrettanto estesa teoria della letteratura, ha dimostrato nei secoli quanto le due arti sorelle fossero sostenute da un’esigenza di traduzione intermediale. Da momento privilegiato e isolabile all’interno del discorso letterario, la descrizione ha però finito per indicare, come ci ha insegnato Philippe Hamon4, una forte componente del romanzo realista 4

Cfr. P. Hamon, La Description littéraire. De l’antiquité à Roland Barthes: une

Gradienti di reciprocità

11

del XIX secolo. La deriva descrittiva dei testi novecenteschi, intesa come la «coscienza lessicografica della finzione» ed espressa generalmente come elenco infinito di parole, dimostra soltanto l’inadeguatezza del mezzo linguistico rispetto all’immagine e di conseguenza l’impossibilità di restituire fino in fondo la complessità del reale. Accanto alla scrittura della trattatistica pittorica e degli storici dell’arte la scrittura letteraria (narrativa, lirica, epistolari, saggi) – come negli studi qui presentati – ha sperimentato forme di descrizione che entrano in competizione con le capacità espressive dell’“arte sorella”. I saggi di Federica Mazzara, Roberta Ascarelli e di chi scrive sono dedicati alla rappresentazione verbale delle immagini, anzi di capolavori della pittura: la Proserpina di Dante Gabriel Rossetti, il Concerto campestre di Giorgione e la Melencolia I di Dürer. A trascrivere in parole le figure, i colori, le ottiche e le rappresentazioni dei celebri dipinti sono altrettanti noti scrittori: lo stesso Rossetti, Hugo von Hofmannsthal e Roger Caillois. L’ékphrasis mimetica in questi casi è un meccanismo di riproduzione intermediale che, oltre a celebrare i fasti dell’arte sorella, allo stesso tempo mostra le potenzialità della parola poetica. E non a caso si parla di poesia perché è soltanto essa che riesce ad avvicinarsi al mistero che si cela nelle immagini dell’arte. La poesia è «ciò che dà a ciascuno, nello spazio di un secondo, la percezione di un enigma di cui [il poeta come l’artista] presume, con assoluto candore, di essere il solo a possederne la chiave»5. Come le immagini dell’arte anche la poesia cerca di svelare il mistero dell’invisibile, assecondando la potenza iconica del linguaggio verbale e di quello artistico. Le descrizioni qui presentate si misurano con capolavori dell’arte pittorica, aumentando quindi il convincimento di trovarsi di fronte a un attimo di verità, di rivelazione. Allo stesso tempo, grazie alla perizia dei grandi scrittori che le hanno composte, esse mettono in mostra le varie modalità e tecniche di descrizione, aprendo il campo a questioni estetiche e letterarie attuali e urgenti. Nel caso di Rossetti, interprete di se stesso, le descrizioni dispiegano il suo doppio talento di pittore e scrittore di sonetti (manifeanthologie, Paris, Macula, 1991; Id., Du Descriptif, Paris, Hachette, 1993; Id., Imagerie, Paris, Corti, 2007. 5 R. Caillois, Approches de la poésie, Paris, Gallimard, 1978, p. 254 (trad. mia).

12

Lo sguardo reciproco

stando con questo una matura e compiuta Doppelbegabung). Le diverse versioni del dipinto di Proserpina, esaminate da Federica Mazzara in coppia con i sonetti rossettiani, allargano il campo di confronto tra le due arti sorelle anche agli iconotesti6 e in particolare ai Double Work che Rossetti pone al centro della sua attività artistica. Nel caso di Hofmannsthal che “legge” Giorgione emergono invece le Stimmungen, le disposizioni d’animo e le sensazioni che la visione del quadro comporta nel suo singolare lettore (confrontato anche con le letture di Ruskin, Pater, D’Annunzio e Rossetti). Roberta Ascarelli mette in luce le idee e le concezioni estetiche che stanno dietro alla visione del paesaggio giorgioniano, analizzando approfonditamente le lettere e i saggi teorici ma soprattutto le note del Viaggio d’estate hofmannsthaliano. Le arti sorelle trovano inoltre un fondamento “naturale” nella descrizione della Melencolia I che Caillois compone a partire dai disegni di una lastra di agata. L’ultimo studio della sezione illustra le concatenazioni narrative ed ecfrastiche di un testo cailloisiano che, da un lato, ricostruisce un ipotetico viaggio di Dürer e la genesi del suo capolavoro, e dall’altro si concentra sull’osservazione dei disegni di un’agata e sull’idea di vanitas. Incroci “fantastici” si creano così tra la presunta disposizione malinconica dell’artista tedesco e quella dello scrittore francese per il quale la descrizione del mondo minerale costituisce un personalissimo percorso di individuazione. L’ultima sezione propone invece lo studio delle rappresentazioni, cioè delle visioni del mondo che sustanziano l’immaginario figurativo e letterario di scrittori come Karl Philipp Moritz, Anna Seghers e Italo Calvino. Ma, va detto subito, non si tratta di sottolineare concezioni filosofiche e idee sul mondo costruite retoricamente e argomentativamente, al contrario, si tratta di mettere in evidenza le prospettive, le “ottiche”, gli orientamenti delle loro visioni letterarie. Si insisterà dunque sulle leggi della prospettiva e sulle modalità del punto di vista, sui colori e sui modi dell’immaginazione visiva per dare conto delle omologie tra la letteratura e le arti. A differenza delle precedenti, in questa sezione Renata Gambino, Rita Calabrese e Valeria Cammarata fanno riferimento all’intera produzione degli autori analizzati. Dalle dissertazioni alle prime 6 Cfr. P. Wagner, (a cura di), Icons-Texts-Iconotexts. Essays on Ekphrasis and Intermediality, Berlin-New York, Walter de Gruyter, 1996.

Gradienti di reciprocità

13

prove letterarie, dagli studi di critica alle recensioni, dai saggi di argomento scientifico agli studi dedicati direttamente alle questioni più dibattute della cultura visuale, i testi di questa sezione corrono paralleli alle immagini artistiche (incisioni, bassorilievi, dipinti), a quelle cinematografiche, fino alle illustrazioni delle carte da gioco. Immagini materiali, seppure di tipologie diverse, segnano quindi fasi specifiche della formazione di questi scrittori, tappe decisive del percorso individuale di ciascun autore. Ma, al di là delle immagini-oggetto che accompagnano i testi di questi autori e delle riflessioni specifiche che essi dedicano alle varie forme artistiche, questa ultima sezione privilegia soprattutto le “ottiche” della rappresentazione visiva che costituiscono il cardine dei loro immaginari, o, per dirla con Wunenburger7, delle loro iconosfere. Quindi non più una o più immagini-oggetto ma singoli tratti, condizioni o modalità della rappresentazione visiva – il “punto di vista” di Moritz, il realismo dei colori della Seghers, la “visionarietà” di Calvino – diventano lo specifico “foro stenoscopico” attraverso il quale si producono le rappresentazioni letterarie dei singoli autori. Ancora una volta le fonti delle rispettive iconosfere possono essere rintracciate in ambiti solo apparentemente distanti dalle tradizionali arti figurative. In quest’ottica la concezione linguistica di Moritz è il presupposto del suo modo di rappresentazione, lo studio di Rembrandt e la padronanza della tecnica cinematografica orientano la scrittura della Seghers, così come le conoscenze personali di scrittori-pittori, insieme a un’ampia iconoteca personale, sono le fonti dell’immaginazione visiva di Calvino. Nel saggio di Renata Gambino attraverso la comparazione delle vedute piranesiane si ricostruisce l’idea di Roma di Moritz, appassionato lettore dell’architetto veneziano. Il “punto di vista” eletto a criterio cardine nell’estetica moritziana, presiede anche alla progettazione di nuove forme editoriali: una sorta di moderno atlante di viaggio italiano con brevi testi scritti, invece del classico resoconto illustrato, che purtroppo non arriverà mai a vedere la luce. 7 Cfr. J-J. Wunenburger, La vie des images, Presses Universitaire de Strasbourg, 1995; Id., Philosophie des images, Paris, PUF, 1997 (trad. it. di S. Arecco, La filosofia delle immagini, Torino, Einaudi, 1999).

14

Lo sguardo reciproco

La Ideenwelt di Moritz si ricostruisce all’interno di un percorso di formazione che è fondamentalmente visivo e quindi capace di far rientrare al suo interno le mille sfaccettature della città eterna. Due procedimenti, quello delle immagini e quello della scrittura, che si completano vicendevolmente e che seguono le pieghe dell’oggetto reale e mentale, dei monumenti romani e del “concetto” che Moritz ha di Roma. Nel caso della Seghers i colori diventano la cifra per leggere la carica di realismo dei suoi scritti. Rita Calabrese, attraverso un close reading dei testi della Seghers, riesce a metterne in risalto il gioco di luci e ombre, alla Rembrandt, e la dipendenza della narrazione dal valore dei colori, come indicato nella rappresentazione dello spirituale nell’arte di Kandinskij. Un’attenta disamina delle componenti della cultura visuale della scrittrice tedesca fa emergere tecniche di rappresentazione dell’arte figurativa e del cinema – dalle immagini fisse dei tableaux alle sequenzialità filmiche delle immagini in movimento – nella sua produzione narrativa, in particolare nelle descrizioni e nelle metafore visive maggiormente utilizzate nei suoi romanzi. Il saggio su Calvino mette invece in evidenza più di un procedimento di omologia tra i due ambiti. Valeria Cammarata analizzando la complessa questione del doppio processo immaginativo di Calvino – dalla immagine al verbale e viceversa – esplora i diversi aspetti della cultura visuale dello scrittore, mostrando come la letteratura e le immagini si fecondano reciprocamente. Tre gli aspetti analizzati: il processo dall’immagine alla narrazione, le ottiche dello sguardo, le descrizioni. Se nella letteratura di Calvino raccontare e descrivere si fondono, nell’immaginario visuale dello scrittore ricorrono materiali diversi: gli scritti sul senso della vista e sul visibile, le gallerie personali di immagini, le relazioni personali con scrittori-pittori. Nelle tre sezioni di questo volume la reciprocità di sguardi tra letteratura e arte si trova così declinata secondo gradi e qualità di diverso tipo: dalla cooperazione come progetto nelle sopravvivenze, alla competizione espressiva della descrizione e, infine, al confronto negli specchi multipli della rappresentazione. Alla teoria della letteratura è dunque affidato il compito di costruire cartografie che, per quanto in continua evoluzione, possano rendere conto di un panorama in cui scritture ed immagini si incontrano.

I Sopravvivenze

NEMESI-ADRASTEA SULLA CULTURA VISUALE DI HERDER E DI HÖLDERLIN Michele Cometa

Filosofia dell’avvenire Si è giustamente insistito sullo stretto e duraturo rapporto che lega Hölderlin1 a Herder2, sia sul piano della frequentazione personale che su quello squisitamente poetico e poetologico3. Anche quando l’allievo si allontana dal maestro. È il caso dell’interpretazione di una figura mitologica centrale nella riflessione herderiana e che compare solo sporadicamente in quella di Hölderlin: la Nemesi-Adrastea. Le rare citazioni nell’opera di Hölderlin e l’interpretazione sostanzialmente anti-herderiana che egli ne diede non traggano però in inganno. Anche nel caso di questa figura Hölderlin, soprattutto sul piano della cultura visuale che ne rese possibile la “sopravvivenza”, è fortemente debitore nei confronti di Herder e, certamente, anche di una tradizione interpretativa di cui quest’ultimo rappresenta uno degli snodi fondamentali nella cultura tedesca. La figura di Nemesi-Adrastea si colloca nel cuore della filosofia della speranza di Herder, una filosofia che ebbe importanti rielaborazioni in tutta la Goethezeit e la cui eco si avverte ancora negli scritti di Hölderlin, Goethe e Hegel4. Si tratta di una forma e di uno stile di pensiero, più che un insieme di teoremi, che attraversa 1 Per le opere di Hölderlin si veda l’edizione: F. Hölderlin, Sämtliche Werke und Briefe, a cura di J. Schmidt, Frankfurt a.M., Deutscher Klassiker Verlag, 1992 (d’ora in poi SWB, il volume e la pagina). Quando non altrimenti indicato le traduzioni sono mie. 2 Per le opere di Herder si veda l’edizione: J.G. Herder, Sämtliche Werke, a cura di B. Suphan (C. Redlich, R. Steig), Berlin, Weidmannsche Buchhandlung, 1878 ss. (d’ora in poi SW, il volume e la pagina). Quando non altrimenti indicato le traduzioni sono mie. 3 Si cfr. soprattutto U. Gaier, Der gesetzliche Kalkül. Hölderlins Dichtungslehre, Tübingen, Niemeyer, 1962, passim. 4 Cfr. M. Cometa, L’età di Goethe, Roma, Carocci, 20072, p. 19 ss.

18

Lo sguardo reciproco

le Idee (1787) e Dio. Alcuni dialoghi (1787) e che culmina nella rivista Adrastea (1802 ss.), esempio insuperato, nella cultura tedesca di quegli anni, di equilibrio tra istanze teoretiche e vis divulgativa. La rivista Adrastea, al di là della sua forma, si potrebbe dire, “romantica”, è – come è stato notato – il precipitato più maturo della “filosofia della storia”5 di Herder e con essa della sua peculiare filosofia della speranza. Un’influenza decisiva sulla formazione della filosofia della storia della Goethezeit ebbero quegli scritti di Herder che rispondono, più o meno esplicitamente, alle questioni poste da un dibattito cruciale del tardo illuminismo tedesco, quello sull’“immortalità” (Unsterblichkeit)6, che com’è noto fu sustanziato dall’idea di un ritorno delle anime (Seelenwanderung) e di una palingenesi di tutte le cose. Ci riferiamo a Titone e Aurora (1792), cui Hölderlin si richiamerà per la sua metaforica dello “schlummern”, e ai tre saggi apparsi sui Fogli sparsi del 1797: Palingenesi. Sul ritorno dell’anima umana (SW XVI 341-359), Del sapere e non-sapere del futuro (SW XVI 368-381), Su sapere, presagire, desiderare, sperare e credere (SW XVI 382-386). È nel quadro di questa radicale filosofia del futuro che Herder ricorre alla figura di Nemesi-Adrastea7 per disattivarne – attraverso una complessa sequenza di risemantizzazioni che tengono conto di 5 Sulla filosofia della storia di Herder e in particolare sulla sua filosofia del futuro si cfr. almeno M. Maurer, Nemesis-Adrastea oder Was ist und wozu dient Geschichte?, in K. Mueller-Vollmer (a cura di), Herder Today: Contributions from the International Herder Conference, Nov. 5-8, 1987, Stanford, California, Berlin, de Gruyter, 1990, pp. 4663 e W. Koepke, Nemesis und Geschichtsdialektik, ivi, pp. 85-96; L.W. Spitz, Natural Law and the Theory of History in Herder, in «Journal of the History of Ideas», 16.4 (1955), pp. 453-475; J. Schneider, Herders Vorstellung von der Zukunft, in «The German Quartely», 75.3 (2002), pp. 297-307; H.D. Irmscher, Gegenwartskritik und Zukunftsbild in Herders Schrift Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit. Beitrag zu vielen Beiträgen des Jahrhunderts, in «Recherches Germaniques», 23 (1993), pp. 33-44; E. Palti, The “Metaphors of Life”: Herder’s Philosopy of History and Uneven Development in Late Eighteenth-Century Natural Sciences, in «History and Theory», 38.3 (1999), pp. 322-347. 6 Su ciò mi permetto di rimandare al mio studio Il romanzo dell’Infinito. Mitologie, metafore e simboli dell’età di Goethe, Palermo, Aesthetica edizioni, 1990, pp. 11-86. 7 Sulla Nemesi nella tradizione letteraria si cfr. almeno: A. von. Premerstein, Nemesis und ihre Bedeutung für die Agone, in «Philologus», 53 (1894), pp. 400-415 e, soprattutto, H. Psnansky, Nemesis und Adrasteia, in «Breslauer philologische Abhandlungen», 5.2 (1890), pp. 1-184.

Nemesi-Adrastea

19

molti elementi visuali antichi e moderni – la pagana terribilità ed esaltarne invece le caratteristiche di equanimità e misura. Forze che appunto operano nella storia8 per farne ciò che essa deve divenire: il territorio pianeggiante dello sviluppo dell’Umanità. Studiare la valenza simbolica della Nemesi-Adrastea significa individuare quelle leggi della storia che stanno alla base di una “scienza del futuro” (Wissenschaft der Zukunft) che sappia interpretare correttamente gli aspetti di progressività e prevedibilità del cammino dell’umanità. La Nemesi è il simbolo incarnato di questa “scienza” giacchè essa rappresenta la forza divina che presiede alla storia, intesa organicisticamente come tessuto di passato-presentefuturo; la Nemesi è, proprio in quanto dea della giustizia e della retribuzione, colei che letteralmente intreccia le tre forme del tempo, permettendo di costruire sulla trama di passato e presente, la prospettiva in cui il futuro potrà svolgersi: «Se si deve parlare di vita futura, dobbiamo considerarla come prosecuzione e risultato, come il risvolto capovolto di questa vita» (SW XVI, 377). Per questo in Del sapere e non-sapere del futuro Herder considera proprio la “reincarnazione” un’occasione per la realizzazione dei piani di Nemesi: Portiamo dentro di noi la Nemesi. Ognuno sa di che colpe e di che omissioni si è macchiato nella sua vita precedente, cosa deve espiare, compensare, recuperare, annientare, spesso annientare con la sua propria rovina (SW XVI 374 ss.).

La risemantizzazione dei mitologemi classici legati a NemesiAdrastea passa, come sempre in Herder, da un’indagine genealogica di grande respiro filologico ed ermeneutico. Sin dal primo, e decisivo saggio, del 1786 intitolato Nemesi. Un emblema didattico (SW XV 395 ss.), pubblicato sui Fogli sparsi e poi ripreso nel 1791, Herder ricorre ad un complesso apparato di riferimenti letterari e iconografici per determinare le molteplici tradizioni della Nemesi-Adrastea, mostrando, nella sua infinita erudizione, di preferire i percorsi meno noti, quelli dimenticati o silenziosamente addormentati negli angoli della storia. La figura della Nemesi, così reinterpretata, ritorna poi al centro di uno degli scritti filosoficamente più rilevanti di Herder, Dio. Al8

Si cfr. il capitolo Nemesis der Geschichte nell’Adrastea (SW XXIV, 326 ss.).

20

Lo sguardo reciproco

cuni dialoghi (SW XVI 468 ss.) e nel titolo della rivista che inaugura il nuovo secolo, l’Adrastea, nome attribuito alla Nemesi dalla tradizione che fa risalire ad Adrasto la costruzione del suo tempio. L’Adrastea fu un contenitore enciclopedico in cui Herder intendeva proprio segnalare ciò che della cultura dei secoli precedenti era destinato ad una palingenesi nell’incipiente Ottocento.

Un atlante delle immagini Chi è dunque Nemesi nell’ideale “atlante della memoria” dell’idealismo tedesco e in particolare per Herder e per quelli, come Hölderlin, che terranno conto delle riscritture herderiane? A quale patrimonio di miti e di immagini poteva attingere la loro fantasia? Ascoltiamo innanzitutto la narrazione del mito che ci offre Karol Kerényi, il più autorevole mitologo del XX secolo, certo memore delle riscritture mitologiche herderiane: Tra i figli della Notte figurava, come certamente si ricorda, una figlia di questa dea primordiale, Nemesi. Il nome significa la giusta ira, che si rivolge contro coloro che hanno violato un ordinamento, soprattutto l’ordine della natura, disprezzando le sue regole e le sue norme. Quando si manca di rispetto a Temi, ecco apparire la Nemesi. Essa ha le ali, almeno nelle raffigurazioni più tarde […] Aidos, la sua compagna, la dea “Pudore”, che secondo la profezia di Esiodo doveva abbandonare l’umanità insieme a Nemesi, appare alata in tempi molto più antichi. Artemide, cui entrambe stanno molto vicine, aveva parimenti le ali nei tempi più antichi. Le Erinni, spiriti dell’ira e della vendetta, sono tanto simili a Nemesi o alle Nemesi […] da confondersi con esse […] Della celebre immagine cultuale della Nemesi di Ramnunte si raccontava che originariamente fosse stata fatta dallo scultore Agoracrito come Afrodite e soltanto poi nell’ira l’avesse trasformata in una statua di Nemesi. La testa era adorna di una corona di fanciulle alate e di cervi. La dea reggeva in mano un ramo d’albero con pomi, come se fosse stata un’Esperide. Del resto era ritenuta anche una Oceanina9.

È in epoca classico-romantica che Nemesi torna prepotentemente nell’immaginario letterario, soprattutto tedesco, proprio grazie a 9 K. Kerényi, Gli dei e gli eroi della grecia, trad. it. di V. Tedeschi, Milano, Garzanti, 1976, vol. I, p. 100 ss.

Nemesi-Adrastea

Herder cui si deve senz’altro, come vedremo, la sua rivalutazione in ambito artistico. La mediazione herderiana fu essenziale anche se i suoi immediati successori seppero integrarla con felici intuizioni che si rifacevano alle origini greche del mitologema, uno scenario da cui Herder – da buon avanguardista – aveva voluto, sia pure con la consueta moderazione, emanciparsi. Modernizzazione che – va detto subito – sta tutta sotto il segno di una cristianizzazione del mitologema, e con esso di tutta la filosofia della storia. Herder nella sua raffinatissima ricostruzione mitologica si sofferma sui principali attributi della dea, attributi che hanno avuto però una modesta ricaduta iconografica in Occidente. Lo stesso Herder è in difficoltà quando deve illustrare la Nemesi di Ramnunte 10, «ein attisches Kunstbild» (fig. 1)11, di cui sa l’esistenza da Plinio 12, che consi-

21

Fig. 1. Nemesi di Ramnunte, II secolo d.C.

10 Il tempio della dea si trova a Ramnunte e risale al V secolo a.C. Si cfr. l’approfondito studio di M.M. Miles, A Reconstruction of the Temple of Nemesis at Rhamnous, in «Hesperia», 58.2 (1989), pp. 133-249; A. Trevor Hodge, R.A. Tomlinson, Some Notes on the Temple of Nemesis at Rhamnous, in «American Journal of Archaeology», 73.2 (1969), pp. 185-192; K.D. Shapiro Lapatin, A Family Gathering at Rhamnous? Who’s Who on the Nemesis Base, in «Hesperia», 61.1 (1992), pp. 107-119. 11 La statua, oggi attribuita allo scultore attico Agoracrito, allievo di Fidia, è datata 430-420 a.C. e se ne conservano molte copie romane ma pochissimi frammenti (della testa al Louvre e della base a Ramnunte). La copia conservata alla Ny Carlsberg Glyptothek di Copenhagen è la più attendibile. 12 Cfr. Plinio il Vecchio, Storia delle arti antiche (Naturalis Historia Libri XXXIVXXXVI), introduzione di M. Harari, testo critico, traduzione e commento di S. Ferri, Milano, BUR, 2000, p. 275: «Discepolo di Pheidias fu anche Agorakritos di Paro, caro assai al maestro anche per la sua gioventù, sicchè Pheidias lasciò circolare sotto il nome dello scolaro molte delle opere sue stesse. Alkamenes e Agorakritos gareggiarono tra loro per un’Afrodite, e Alkamenes vinse non per merito intrinseco dell’opera ma per i

22

Lo sguardo reciproco

derò la statua della dea solo un “adattamento” di una Venere rifiutata dagli Ateniesi ma su cui aveva posto mano Fidia stesso: Sul capo aveva una corona sulla quale erano raffigurati cervi e altri segni di vittoria; nella mano sinistra reggeva un ramo di melo, nella destra una coppa su cui erano raffigurati degli Etiopi. Questa era la famosa Vergine di Ramnunte, una statua alta dieci cubiti che nella forma era una Nemesi-Cipride (SW XV 400 ss.).

La trasformazione di una Venere in Nemesi aveva fornito agli interpreti, da Plinio a Winckelmann, materia di riflessione e l’apparato esplicativo esibito da Herder dimostra quanto quest’ultimo ne fosse consapevole. Del resto sulla base di questa sovrapposizione i Greci spiegano la bellezza di Elena e dei Dioscuri figli di una Nemesi mondana, Leda, caratteristica che si trasmette ovviamente anche alla figlia, la più bella tra i Greci (SW XV 403)13. Se la statua di Ramnunte era destinata a rimanere un’icona mentale – a parte alcune rare ed incerte raffigurazioni in resoconti di viaggio come la notissima Relazione di un viaggio nel Levante di Joseph Pitton de Tournefort14 (fig. 2) – più verificabile era l’immagine della dea sulle monete e sulle gemme che Herder richiama nel suo saggio, presenti nelle raccolte di Laurentius Beger, James Tassie, Joseph Hilarius Eckhel e nel catalogo di Stosch redatto da Winckelmann, nonché la rarissima scultura riprodotta nei Monumenti antichi inediti (1760)15 e le pitture delle Antichità di Ercolano (1757-92)16. voti dei cittadini che favorirono uno dei loro contro il forestiero. Perciò Agorakritos si dice vendesse la statua a questa condizione, che non rimanesse ad Atene, e la chiamò Nemesis. Questa statua fu posta a Ramnunte, villaggio dell’Attica, e Marco Varrone la preferisce a tutte le altre statue». 13 Anche l’altra grande fonte della cultura visuale emblematica, i Hieroglyphica (1556) di Giovanni Pierio Valeriano, concorda in questo sincretismo. Cfr. Ioannis Pieri Valeriani Bellvnensis Hieroglyphica seu De Sacris Aegyptiorvm Aliarumque Gentivm Literis Commentarii, Lugduni, Sumptibus Pauli Frelon, M. DCIL, p. 575. 14 J. Pitton de Tournefort, Relation d’un voyage du Levant fait par ordre du Roy: contenant l’histoire ancienne et moderne de plusieurs isles de l’Archipel, de Constantinople, des côtes de la mer Noire, de l’Arménie, de la Géorgie, des frontières de Perse et de l’Asie mineure, Paris, De l’Imprimerie Royal, 1717, vol. I, p. 332. 15 J.J. Winckelmann, Monumenti antichi inediti, voll. I e II (facsimile della prima edizione, Roma 1760), Baden-Baden-Straßbourg, Heitz, 1967, fig. 25. 16 Antichità di Ercolano esposte con qualche spiegazione, Napoli, 1762, vol. III, tav. 10. Si cfr. anche le note alla tavola IX.

Nemesi-Adrastea

23

Fig. 2. J. Pitton de Tournefort, Figura della dea Nemesi nell’Isola di Zia, 1717.

Nelle tavole ercolanensi Nemesi – dopo esser stata citata nel commento alla tavola dedicata a Leda che ne allattò la figlia Elena17 – viene così descritta: Quantunque la donna rappresentata in questa pittura di campo turchino comparisca in abito ed in figura interamente diversa dalla precedente; potrebbe ad ogni modo dubitarsi, se forse esprima la stessa Nemesi non in sembianze da innamorar Giove, ma in atto di aborrire i colpevoli, e di minacciare i superbi. Ha ella coverto il capo di una cuffia color giallo, ed è vestita di bianco, sostenendo colla sinistra mano una spada chiusa nel fodero, e alzando con la destra al pari del petto l’estremità della gialla sopravveste, mentre rivolge dalla parte opposta il volto sdegnoso, e schivo, 17 Ivi, vol. III, p. 47 ss. Secondo la testimonianza di Pausania: «I Greci di qui (Smirne) dicono che a Elena fu madre Nemesi, mentre Leda le offrì il seno e la allevò» (Pausania, Viaggio in Grecia. Libro primo: Attica e Magaride, introduzione, traduzione e note di S. Rizzo, Milano, BUR, 1991, p. 289). Sul nesso Nemesi-Elena si veda il bel saggio di F. Jesi, L’Egitto infero nell’Elena di Euripide, in «Aegyptus», 45.1-2 (1965), pp. 56-69 che a sua volta si rifà a K. Kerényi, Die Geburt der Helena, Zürich, Rhein-Verlag, 1945 (trad. it. di A. Brelich, La nascita di Elena, in K. Kerényi, Miti e misteri, Torino, Bollati Boringhieri, 1979, pp. 35-56).

Lo sguardo reciproco

24

quasi voglia riparare, e sfuggir la vista di cosa che le dispiaccia18.

L’estensore delle note ercolanensi, il quale ci offre un piccolo trattato di iconografia19, insiste sul nesso tra Nemesi e Pudore, già associate in Esiodo e costantemente coniugate in autori più tardi come Ovidio, Eustachio, e Ammiano Marcellino, secondo un percorso che – come vedremo più avanti – porta alla cristianizzazione della Nemesi greca. S’introduce comunque nettamente il tema del velo retto dalla mano destra in segno di pudore e – come crede l’autore – soprattutto espressione della volontà di coprirsi gli occhi per lo sdegno, nonchè la spada, attributo della Giustizia, che ha una lunga tradizione iconografica nell’emblematica. La rigida postura della donna raffigurata a Ercolano ricorda ovviamente le Nemesi di Ramnunte. Sempre a Leda infine la associa Montfaucon che nella tavola dedicata alle due dee riporta, come di consueto, alcuni disegni dei suoi predecessori (La Chausse, Bandouri etc.) i quali le avevano assegnato l’attributo della ruota (comune alla Fortuna), la briglia, il ramo e le ali (fig. 3)20. Questa iconografia viene per così dire “antologizzata” («come se al nostro cospetto stesse una serie di statue» scrive Herder) (SW XV 407), attraverso alcuni epigrammi greci e un celeberrimo inno attribuito a Mesomede (Mesodemos) che Herder cita qualche pagina più avanti probabilmente in una sua traduzione (SW XV 409). Si tratta per Herder della sintesi testuale di un repertorio di immagini che proviene dal passato e che determinerà tutti gli sviluppi futuri: Alata Nemesi, Tu che della vita decidi/ Dea dallo sguardo grave, figlia della Giustizia,/ Tu che dei mortali la corsa tracotante e ansiosa/ dirigi con ferrea briglia;/ E odi la loro perniciosa baldanza,/ E scongiuri la loro nera invidia.// Intorno alla tua ruota che incessante si muove,/ senza lasciar traccia, si avvolge l’ilare fortuna degli uomini./ Nascosta segui i loro passi/ e pieghi il capo orgoglioso.// E misuri la misura sempre della vita mortale,/ E guardi il tuo seno con sguardo severo,/ mentre la mano regge 18

Ivi, vol. III, pp. 50-52. Ivi, vol. III, p. 52, soprattutto le note a pie’ di pagina. 20 B. de Montfaucon, L’antiquité expliquée et représentée en figures, tome premier, Les Dieux des Grecs & des Romains, Première Partie, Paris, chez Florentin Delaulne-La Veuve d’Hilaire Foucault-Michel Clousier-Jean-Geoffroy Nyon-Etienne Ganeau-Nicolas Gosselin et Pierre-Francois Giffart, 1722, vol. I, p. 195, tav. CXCV. 19

Nemesi-Adrastea

25

Fig. 3. B. de Montfaucon, Leda e Nemesi, 1722.

il giogo.// Sii clemente, o divina, Tu dispensatrice di diritto,/ Nemesi alata, Tu che decidi la vita,/ Nemesi, a Te, infallibile, cantiamo,/ E a chi siede con Te, la Giustizia.// La Giustizia che con ampie ali vola,/ La potente che purifica i cuori tracotanti dei mortali,/ e Nemesi stessa ed il Tartaro21. 21 Mesomedes, Hymnos auf Nemesis, in Griechische Lyrik, Berlin, Aufbau-Verlag, 1980, p. 450 ss.: «Geflügelte Nemesis, Du des Lebens Entscheiderin,/ Göttin mit ernstem Blick, Tochter der Gerechtigkeit,/ Du die der Sterblichen stolz-schnaubenden Lauf/ Mit ehernem Zügel lenkt;/ Und haßet ihren verderblichen Uebermuth,/ Und bannt hinweg den schwarzen Neid.// Ringsum dein Rad, das immer-bewegliche,/ Spurlose, wendet sich um der Menschen lachendes Glück./ Verborgen gehst du ihrem Fuße nach/ Und beugst der Stolzen Nacken.// Und mißest am Maase stets der Sterblichen Leben ab,/ Und blickst zum Busen hinunter mit ernstem Blick,/ Indes die Hand das

26

Lo sguardo reciproco

Gli attributi sono dunque le “ali”, lo “sguardo ripiegato sul seno”, il “braccio che regge il gomito”, una “ruota sotto i piedi” e le “briglie” (Zügel) o il “giogo” (Joch) che spesso vengono interpretati come una “bilancia”. Nemesi poi incede con gli occhi chinati sul petto e misura con il cubito lo spazio che percorre. Più raramente l’iconografia classica riporta una “fionda” (Schleuder) e un “ramo” (Zweig). Nonostante le palesi imprecisioni di Winckelmann, che Herder puntualmente contesta, la descrizione della Nemesi che si trova nel Saggio sull’allegoria specialmente per l’arte (1766) rimane per la cultura tedesca la più approfondita descrizione ed interpretazione degli attributi iconografici classici: Nemesi chiamata anche Adrastea, la dea della Ricompensa delle buone e delle cattive azioni, viene generalmente rappresentata con una ruota ai piedi e con una fionda. La ruota le è attribuita come dea della fortuna (sotto un altro nome) e la fionda allude alla capacità di raggiungere anche a distanza i malfattori. In questo modo appare sulle monete. Sulle pietre incise sta con il capo inclinato in avanti, tiene nella destra un ramo e con la sinistra raccoglie il manto sul petto, ma alquanto sollevato: questo braccio piegato forma, dal gomito fino alla prima falange delle dita, la misura che i Greci chiamavano tpugwvn, come esplicazione della giusta e proporzionata ricompensa di tutte le azioni. Lo sguardo rivolto al seno, che dipende da come solleva dal petto il manto e lo fa sfilare sul volto sopra la testa, esprime la ricerca delle cose nascoste; e in questo senso Esiodo la chiama “figlia della notte”. Perciò su una moneta dell’imperatore Adriano è rappresentata con un dito sulla bocca. Il ramo che tiene in mano è di faggio (meliva) e la portata della sua durezza e rigidità si rapporta alle decisioni circa i premi e i castighi. Così raffigurata, troviamo la Nemesi in marmo della Villa Albani, unica statua conosciuta che la raffiguri. Si veda nel nono capitolo la mia congettura circa le figure di Etiopi che si trovano su una coppa in mano alla Nemesi di Fidia22. Joch hält.// Sei gnädig, o Selige, du, des Recht Vertheilerin,/ Geflügelte Nemesis, Du, des Lebens Entscheiderin,/ Nemesis, dich die Untrügliche singen wir,/ Und ihre Beisitzerin, die Gerechtigkeit.// Die Gerechtigkeit, die mit weitem Flügeln fliegt,/ Die Mächtige, die der Sterblichen hochaufstrebendes Herz/ Der Nemesis und dem Tartarus selbst entzeucht». Corsivi miei. 22 J.J. Winckelmann, Versuch einer Allegorie, besonders für die Kunst, (facsimile della prima edizione, Dresden, 1766), Baden-Baden-Straßbourg, Heitz, 1964, p. 54; trad. it. a cura di E. Agazzi, Saggio sull’allegoria, specialmente per l’arte, Bologna, Minerva edizioni, 2004, p. 82 ss.

Nemesi-Adrastea

27

L’altro luogo classico cui la Goethezeit poteva attingere era ovviamente il celebre Lessico mitologico fondamentale (1770) di Benjamin Hederich il quale, pur tenendo conto di tutte le fonti e delle loro descrizioni nell’antiquaria settecentesca e in Winckelmann, esordisce apoditticamente: Essa veniva raffigurata come una donna di bell’aspetto che aveva una corona sul capo sui cui stavano alcuni cervi e l’immagine della Vittoria, in una mano teneva un ramo di frassino e nell’altra una coppa. Pausania Att. C. 33. p. 62. E in questo modo, cioè con un ramo di melo in mano Fidia la raffigurò nel suddetto pezzo di marmo […]. Altrimenti aveva in una mano una briglia e, nell’altra, la misura di un cubito23.

La tradizione iconografica pesca dunque in un repertorio duplice. Nella prima versione la dea, che ha gli attributi della Fortuna e della Vittoria, la ruota e le ali, tiene in mano gli emblemi della misura (il cubito) e della moderazione (la briglia), nell’altra – che si ricollega al modello di Ramnunte – invece un ramo, per lo più di melo, simbolo della durezza e irrevocabilità delle sue punizioni e una “coppa” secondo la fondativa descrizione di Pausania: Lungo la strada litoranea che porta a Oropo, a circa sessanta stadi da Maratona, c’è Ramnunte. Le abitazioni della gente sono sul mare, mentre a monte, un po’ distante dal mare, sorge il santuario di Nemesi, la più inesorabile fra gli dei nei riguardi degli uomini violenti. E si crede che anche contro i barbari sbarcati a Maratona si sia scatenata l’ira di questa dea. Essi infatti, nella loro tracotanza, credettero che non avrebbe costituito per loro ostacolo alcuno la conquista di Atene e perciò recavano con sé un blocco di marmo di Paro per costruirne un trofeo, convinti di aver già portato a compimento la loro impresa. Da questo blocco Fidia trasse una statua di Nemesi. Essa porta sulla testa una corona ornata di cervi e di piccole statue di Nike; nella mano sinistra reca un ramo di melo e nella destra una coppa sulla quale sono raffigurati degli Etiopi. Riguardo ai quali né io personalmente ero in grado di fare congetture, né mi sentivo di accettare proposte di chi era persuaso di capirne il motivo. Sostengono comunque, che sono stati rappresentati sulla coppa per via del fiume Oceano: gli Etiopi infatti abiterebbero sulle sue sponde e Oceano sarebbe padre di Nemesi24. 23 B. Hederich, Grundliches mythologisches Lexicon, (1770), Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1996, col. 1703 ss. Corsivi miei. 24 Pausania, Viaggio in Grecia. Libro primo: Attica e Magaride, cit., p. 285 ss. (33, 2-3).

28

Lo sguardo reciproco

Pausania in fondo non si sa dare spiegazione per la presenza degli Etiopi. Winckelmann nel suo Saggio sull’allegoria cerca di dare un’interpretazione per questa immagine di cui si è perduto il significato e ipotizza che la rappresentazione degli Etiopi sia dovuta all’aggettivo ajmuvmwn, “senza macchia”, che Omero usa per descrivere questo popolo degno appunto della benevolenza della Nemesi. Tuttavia in questa sede è più importante concentrarsi sul “contenitore” piuttosto che sulla decorazione, giacchè questa “coppa” è ciò che ha dato adito alle interpretazioni più ardite in ambito figurativo. Una ricostruzione della Nemesi di Ramnunte, presumibilmente aderente all’originale, presenta la coppa come una “scodella”, da qui la corretta traduzione tedesca con Schale/Schaale, anche se le rare rappresentazioni della Nemesi in ambito umanistico tendono a trasformare questa piatta scodella in un calice coperto o in un’urna. È il caso della straordinaria Nemesi incisa da Dürer tra il 1501 e il 1503 (fig. 4)25 che significativamente opera un sincretismo tra i due filoni più sopra citati. La sua Nemesi – di cui chiara è la sovrapposizione semantica con Fortuna/Occasione – è una dea alata che si libra su una sfera che attraversa un paesaggio (probabilmente il villaggio di Chiusa/Klausen) e tiene nella mano destra in precario equilibrio uno stupendo calice decorato e nella sinistra le briglie. Inutile dire quanto quest’immagine dovesse fare parte del repertorio figurativo di tutta la Goethezeit. Con Dürer – Panofsky tra gli altri ha ricostruito questa genealogia – giunge a figurazione una tradizione testuale che risale almeno al poema Manto (1482) di Agnolo Poliziano. Singolare, e certamente modellata su Dürer, è l’interpretazione che di questa “coppa” dà Herder nella già citata caratteristica mitologica: «Un orientale le avrebbe dato in mano a tal fine il calice della confusione con il quale essa sprofonda nell’ebbrezza e nel sopore l’anima dei tracotanti» (SW XV 420). Un campo semantico che ritornerà nelle liriche che Hölderlin dedica alla Nemesi. Il riferimento a Dürer è però tutt’altro che casuale. Si tratta qui 25 H. Tietze, E. Tietze-Conrat, Dürer’s First Drawings for the Nemesis, in «The Burlington Magazine for Connoisseurs», 62. 32 (1933), pp. 243-245.

Nemesi-Adrastea

29

Fig. 4. A. Dürer, La grande Fortuna, 1501-03.

infatti di gettare uno sguardo sulla cultura visuale di Herder che vada al di là del confronto con le fonti da lui esplicitamente citate. Chi legge il saggio sulla Nemesi non può fare a meno di notare che Herder cita tutto il repertorio classico della Nemesi così come il vincente neoclassicismo winckelmanniano e postwinckelmanniano se la raffigurava. Le fonti erano, ovviamente, oltre che lo stesso Winckelmann – Herder cita più volte i Monumenti antichi inediti e il catalogo delle gemme di Stosch26 – i repertori numismatici, le rare rappresentazioni “etrusche” nel Gori, e gli immancabili Montfaucon e le Antichità di Ercolano. Non c’è biosgno di insistere sul fatto che ci troviamo nel cuore delle fonti visuali del neoclassicismo europeo, giustamente considerate da Winckelmann, e innumerevoli volte fonte di ispirazione per gli artisti di tutta Europa. Citandole Herder in qualche modo esibiva il proprio credo neoclassico, e si predisponeva ad essere accettato dai contempora26 J.J. Winckelmann, Description des Pierre Gravées du feu Baron de Stosch, BadenBaden-Straßbourg, Heitz, 1970.

30

Lo sguardo reciproco

nei, soprattutto dal vicino Goethe. Tuttavia è difficile immaginare che le sue fonti visive e la sua cultura visuale si limitassero alle incerte e “primitive” rappresentazioni di Bernard de Montfaucon e delle pitture di Ercolano. Del resto sappiamo come Herder non andasse troppo per il sottile quando si apprestava a collezionare apparati visivi per la stesura delle sue opere e che vigesse in lui il sano eclettismo del collezionista e dell’antiquario, piuttosto che il rigore del classicista. Proprio nel contesto della sua filosofia della palingenesi, ad esempio, non esita ad aprire il saggio più importante dedicato a questa figura, non con un mitologema classico – poniamo Titone ed Aurora – ma con la descrizione di un’incisione indiana. In controtendenza col suo tempo egli dette prova di grande lungimiranza quando, nonostante il divieto classicista sull’allegoria, ebbe a chiedersi, nell’ambito dei suoi studi su Johann Valentin Andreae apparsi sui Fogli sparsi del 1793: Una grande quantità di libri e cataloghi simbolico-emblematici apparve sul finire del sedicesimo secolo e agli inizi del diciassettesimo. – Perché? La storia di questa epoca e di questo gusto è avvolta ancora nel buio (SW XVI 161).

Questa attenzione per quelli che Herder – anticipando Benjamin – chiama Denkbilder 27, gli emblemi, le imprese e le allegorie28, è unanimemente interpretata dai critici come l’atto di nascita della moderna Emblemforschung, che – oltre all’enorme valore sul piano della storia dell’arte, culminata nella novecentesca iconologia – ha avuto un significato che non sfuggiva allo stesso Herder: quello di essere il luogo precipuo della “sopravvivenza degli antichi dei”, per dirla con Seznec29, ovvero della trascrizione cristiana dell’olimpo pagano. Il saggio herderiano sulla Nemesi è una tappa fondamentale di questa cristianizzazione. E ciò avviene con tutta probabilità pro27 Herder stesso chiarisce che Sinnbilder, Denkbilder e Embleme sono per lui sinonimi. Cfr. SW XVI 160. 28 Le pagine più importanti sull’allegoria e sugli emblemi, sui Denkbilder, Herder le scrive nella parte poetologica dell’Adrastea. Cfr. SW XXIII 314 ss. 29 Che ovviamente resta il testo classico su questa trasmigrazione di simboli. Cfr. J. Seznec, La sopravvivenza degli antichi dei. Saggio sul ruolo della tradizione mitologica nella cultura e nell’arte rinascimentali, trad. it. di G. Niccoli e P. Gonnelli Niccoli, Torino, Bollati Boringhieri, 1990.

Nemesi-Adrastea

31

prio grazie alle immagini che stanno in due libri che determinano tutta la tradizione emblematica ed iconologica: mi riferisco al Libro degli emblemi (1531) di Andrea Alciato e a Le imagini de i dei de gli antichi (1556) di Vincenzo Cartari, due raccolte la cui eco iconografica resistette per alcuni secoli. Se, come abbiamo già accennato, la Nemesi herderiana opera un sincretismo moderno – utile alla filosofia della storia – tra vendetta e temperanza, nel segno della cristianizzazione, questo lo si deve, innanzitutto a queste fonti visuali. Alciato risente ancora pienamente dell’indecisione semantica che sembra avvolgere l’iconografia della Nemesi. Nella prima edizione conosciuta, e non autorizzata dall’autore, quella di Augusta del 153130 (fig. 5), la dea, nell’incisione di Jörg Breu, ha ancora decisamente gli attributi della Fortuna. È infatti una dea alata in equilibrio su una ruota con i caratteristici capelli legati. Tiene in mano le briglie mentre la mano destra, nonostante l’epigramma alluda al “cubito”, è libera e sembra indicare il cielo. Non a caso nel testo della traduzione tedesca di Jeremias Held, apparsa a Francorforte sul Meno nel 1567, manca il riferimento al “cubito”31. Nel primo Alciato la Nemesi appare altre due volte, con l’attributo della spada, oltre che della briglia e delle ali, nell’emblema 46, Illicitum non sperandum, dove viene declinata insieme alla Speranza: «Spes simul & Nemesis nostris altaribus adsunt,/ Scilicet ut speres non nisi quod liceat» e nell’emblema 11132. In altre edizioni la pictura cambia completamente. Permane solo l’attributo della briglia. Nell’edizione parigina del 1534 (fig. 6) a quest’ultima si associa esplicitamente un cubito, l’unità di misura che la dea brandisce con la mano destra. Nell’edizione parigina del 154233 (fig. 7), la prima col testo tedesco, si vede invece una donna finemente vestita, con i capelli fermati da una cuffia che incede sullo sfondo in un paesaggio 30 Se ne può trovare una riproduzione in A. Henkel, A. Schöne (a cura di), Emblemata. Handbuch zur Sinnbildkunst des XVI. und XVII Jahrhunderts, Stuttgart, Metzler, 1967, col. 1811. 31 Ivi, col. 1812. 32 Cfr. Viri clarissimi d. Andree Alciati Iurisconsultiss. Meiol. Ad D. Chonradum Peutingerum Augustanum, Iurisconsultum Emblematum Liber, M. D. XXXI, emblemi 46 e 111. 33 Si cfr. il reprint: A. Alciatus, Emblematum Libellus, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1987, pp. 42-43.

32

Lo sguardo reciproco

Fig. 5. A. Alciato, Nec uerbo nec facto quenquam lædendum, 1531 (incisione di J. Breu).

Fig. 7. A. Alciato, Nec uerbo nec facto quenquam lædendum/Niemand verletzen, mit wort noch that, 1542.

Fig. 6. A. Alciato, Nec uerbo nec facto quenquam lædendum, 1534.

Fig. 8. G. Whitney, Nec verbo, nec facto, quenquam laedendum/Neither in word nor in deed should we offend anyone, 1586.

appena accennato. Nella mano sinistra regge la briglia, mentre la mano destra, in maniera un po’ innaturale, regge il gomito della sinistra. È l’altra interpretazione del “cubito” di cui si dice nell’epigramma latino.

Nemesi-Adrastea

33

Nelle più tarde edizioni dell’Alciato – per esempio quelle riprese da Geffrey Whitney la cui edizione inglese del 1586 (fig. 8) ebbe un gran significato per la diffusione del testo – si vede infine una donna, il cui panneggio classico è fortemente connotato da tratti rinascimentali la quale regge con entrambe le mani una briglia e si muove leggiadra sullo sfondo di un paesaggio antropizzato e solare34. In questo Alciato la dea perde completamente le connotazioni di figlia della notte dedita alla vendetta e alla punizione dell’hybris umana. Al contrario essa appare in un paesaggio decisamente pacificato e le connotazioni classiciste e rinascimentali del vestito e dell’incedere spogliano del tutto la figura della sua terribilità greca. Whitney che in margine fa riferimento al Manto (ca. 1480) del Poliziano, ad esempio, scrive: HEARE, NEMESIS the Goddesse iuste dothe stande,/ With bended arme, to measure all our waies,/ A raine shee houldes, with in the other hande,/ With biting bitte, where with the lewde shee staies:/ And pulles them backe, when harme they doe intende,/ Or when they take in wicked speeche delite,/ And biddes them still beware for the offende,/ And square theire deeds, in all things vnto righte:/ But wicked Impes, that lewdlie runne their race,/ Shee hales them backe, at lengthe to theire deface35.

Alla subscriptio inglese Whitney fa quindi seguire la descrizione in latino – leggermente modificata e abbreviata – che apre il poema di Poliziano: Est dea, quae uacuo sublimis in aere pendens/ It nimbo succincta latus sed candida pallam,/ Sed radiata comam, stridetibus insonat alis./ Immine, huic celsas hominum contundere mentes./ Successusq; datum, & nimios turbare paratus./ Quam ueteres Nemesin genitam de nocte silenti/ Oceano dixere patri. Stant sidera fronti./ Frena manu, pateramq; gerit, semperq; uerendum/ Ridet, & insanis obstat contraria coeptis./ Improba nota domans, ac summis ima reuoluens/ Miscet, & alterna nostros uice temperat actus36. 34

Cfr., ad esempio, Alciato, Emblemas, a cura di S. Sebastian, Madrid, Akal, 1985,

p. 61. 35 A Choise of Emblemes, and Other Devises, For the moste parte gathered out of fundrie writers, Englished and Moralized. And Divers Newly Devised, by Geffrey Whitney, Imprinted at Leyden, In the house of Christopher Plantyn, by Francis Raphelengius, M D. LXXXVI, p. 19. 36 A. Politianus, Opera omnia, Venetiis, Aldus Manutius, 1498, s. p. Abbiamo riportato il testo completo del Manto.

34

Lo sguardo reciproco

Panosfky ha spiegato che proprio a Poliziano si deve l’introduzione del “piatto” (patera) al posto della coppa, variante che aprirà la strada alla sovrapposizione definitiva di Nemesi e Giustizia37. In tutte le edizioni dell’Alciato, che alternano sostanzialmente due iconografie, la subscriptio, nella versione latina, è del resto più che rassicurante, come del resto la traduzione tedesca: Assequiter, Nemesisque virum vestigia servat,/ Continet et cubitum duraque; frena manu./ Ne male quid facias, neve improba verba loquaris./ Et iubet in cunctis rebus adesse modum38.

Che Alciato voglia dare alle Nemesi solo connotazioni positive che la legano più alla “moderazione” che alla “vendetta” è confermato dall’emblema dedicato alla speranza (In simulacrum spei) (fig. 9), dove la dea, chiamata coll’appellativo classico di Ramnusia, appare alle spalle della Speranza che spezza le armi e siede sul vaso di Pandora. O, come nella citata edizione di Augusta, viene rappresentata, sempre al cospetto della Speranza che spezza le armi, anch’essa raffigurata con le ali, una spada – mutuata dalla Giustizia – e le briglie. Vincenzo Cartari introduce decisamente la Nemesi nel capitolo dedicato alla Fortuna, seguendo in questo, come abbiamo già ricordato, un’idea già presente nel Poliziano e trasmessasi a Dürer. Nello stesso capitolo tratta, tra l’altro, della Giustizia e dell’Occasione, instaurando un campo semantico complesso di cui Herder è perfettamente consapevole: Ma prima ch’io vada oltre parlando della Fortuna, voglio dire chi fosse Nemesi, perché sono queste due molto simili tra loro, e tanto che le hanno credute alcuni una medesima cosa […]; nondimeno fu pure adorata ciascheduna da sé et ebbero quella e questa immagini tra loro differenti, come apparirà per lo mio disegno. Fu dunque Nemesi una dea la quale era creduta mostrare ciascheduno quello che gli stesse bene a fare, et Ammiano Marcellino dice di lei: questa è dea che punisce i malvagi e dà pre37 E. Panofsky, Virgo et Victrix. A Note on Dürer’s Nemesis, in C. Zigrosser (a cura di), Prints. Thirteen Illustrated Essays on the Art of Print, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1962, pp. 13-38. 38 A. Alciatus, Emblematum Libellus, cit., pp. 42-43: «Das ist die Göttin Nemesis,/ Die get unnß auff dem fueßtrit nach,/ Helt yren arm, tregt ein gebiß,/Lernt das wier nit seyen so gach,/ Zu thuen aynichem menschen schmach,/ Es sey mit wortten, oder that:/ Dan gar bald kumbt gewise rach,/Vnd puest sich alle vbelthat».

Nemesi-Adrastea

35

Fig. 9. A. Alciato, In simulacrum spei, 1542.

mio a’ buoni, conoscitrice di tutte le cose, onde la finsero gli antichi teologi figliuola della Giustizia, che da certa secreta parte della eternità se ne stesse a risguardare le opere de’ mortali […] Fu fatta Nemesi alle volte ancora che nell’una mano tiene un freno e nell’altra un legno con che si misura, volendo perciò mostrare che debbono gli uomini porre freno alla lingua e fare tutto con misura39.

La strategia ermeneutica di Cartari è estremamente raffinata, giacchè per lui si tratta di ricostruire per analogie e differenze il campo semantico della Fortuna, applicando per così dire una sorta di decostruzione delle immagini e dei simbolismi pervenuti dalla tradizione. Herder ne è consapevole perché anche per lui si tratta di recuperare il patrimonio didattico-figurativo della grecità, rimasto insuperato: Nessuna nazione li [i Greci] ha eguagliati, né tantomeno superati; così che si dovette considerare una vera perdita per l’umanità il fatto che la loro filosofia e la loro simbolica, che la loro poesia e la loro lingua furono esiliate dal mondo e in particolare bandite dalla vista della gioventù. Io non vedo come le si potrebbero rimpiazzare. Una prova è il concetto figurato che ho analizzato (SW XV 423).

Non è questo il luogo per insistere sulle potenzialità di questa metaforica. Ci limitiamo a segnalare la centralità della cultura visuale greca («von den Augen der Jugend» «der bildliche Begriff») 39 V. Cartari, Le imagini de i dei de gli antichi, a cura di G. Auzzas, F. Martignago, M. Pastore Stocchi, P. Rigo, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1996, p. 408.

Lo sguardo reciproco

36

e la necessità ermeneutica del lavoro decostruttivo («den ich zergliedert habe»), l’eredità più importante di questo Herder. Egli distinge dunque due immagini della Nemesi che concorrono alla formazione degli attributi assorbiti dalla Fortuna. La prima «nell’una mano tiene un freno e nell’altra un legno con che si misura, volendo perciò mostrare che debbono gli uomini porre freno alla lingua e fare tutto con misura»40, la cui fonte è l’Antologia Palatina. L’altra, che riprende Pausania e l’enfasi sulla vittoria degli Ateniesi, «teneva un ramo di frassino nella sinistra mano e nella destra un vaso con alcuni Etiopi scolpiti dentro»41, immagine, quest’ultima, della quale non sa darsi spiegazione come lo storico greco. Nella bellissima tavola (fig. 10) si vede molto di più di quanto si apprenda dal testo: una Nemesi alata che si libra sopra una ruota – attributo della Fortuna – e un timone. Con una nettezza mai altrove raggiunta il “cubito” che la dea regge con la mano destra è certamente uno strumento di misura. Mentre Alciato aveva preferito insistere sul “cubito” misurato dal braccio destro. La seconda immagine mostra invece la dea coronata che porta alto con la mano destra un calice finemente decorato e nella sinistra un ramo di frassino. Entrambe le figure incedono leggiadre e la loro andatura è sottolineata dal panneggio. Quello stesso panneggio che dona alla Nemesi di Dürer una dinamicità che sembra contraddetta dal rigoroso equilibrio della donna sulla sfera.

Una nuova mitologia Basta leggere tra le righe del testo herderiano per veder comparire in trasparenza le immagini di Alciato e Cartari. Assolutamente evidente è che Herder conoscesse Alciato nell’edizione parigina latino-tedesca del 1542, che ci viene presentata però con una variante: Chi è quella bella dea che avete dinnanzi? – chiede Philolaus in Dio. Alcuni dialoghi (1787 e 1800) – Bella come l’amore e seria come la saggezza: guarda in basso il seno velato e tiene il braccio sinistro come se misurasse qualcosa; la mano compassata tiene un ramo. Vi è qualcosa di 40 41

V. Cartari, Le imagini de i dei de gli antichi, cit., p. 410. Ibidem.

Nemesi-Adrastea

37

Fig. 10. V. Cartari, Fortuna, 1556.

silente nel suo procedere e una grazia sublime in tutto il suo portamento (SW XVI 468 ss.).

La risposta di Theophron è, a sua volta, un sapiente sincretismo creato dalle immagini di Cartari: È seria e bella: poiché è la figlia della Giustizia che non può essere altro che saggia e benevola. Per questo misura con la destra il comportamento e la fortuna dei mortali e abbassa gli occhi sul seno senza prendere

38

Lo sguardo reciproco

partito; a colui però che mantiene la misura porge il ramo della ricompensa. Talvolta ha anche una ruota sotto i piedi: un segno del fatto che sa precipitare e mandare in rovina la fortuna del tracotante in un attimo con tocco leggero […]. Il volto serio e benevolo della dea, la sua saggia misura e il ramo della fortuna che tiene in mano sono simboli sufficienti per rammentarci l’inflessibile verità naturale: “che ogni patrimonio, ogni benessere, sì l’esistenza stessa delle cose si basa sulla misura, la proporzione e l’ordine e sussistono solo grazie ad essi” (SW XVI 469).

Qui Herder si è ormai già decisamente emancipato dalla semantica pagana della Nemesi. L’ordine delle cose cui la Nemesi presiede è ormai illuminato da un dio personale che infonde panteisticamente la propria misura nell’intera natura. Spinozianamente – almeno nei dialoghi su Dio – Herder insiste sull’ordine sostanziale dell’universo confutando con argomentazioni scientifiche e teologiche le paure tipiche della fisico-teologia dell’epoca, ad esempio l’idea che un corpo celeste potesse investire la terra e sconvolgere le orbite dei pianeti del sistema solare, un tema caro sia alla filosofia (Hemsterhuis) che alla letteratura (Shelley, Jean Paul, Wieland)42. Nei dialoghi Herder riconduce pure quest’ordine “naturale” del cosmo alla simbolica della Nemesi: Che fine fa, per esempio, la vacua paura che una cometa possa investire la terra da quando si conosce esattamente la traiettoria di questi corpi celesti e dopo che sulla base delle misurazioni fatte si possono calcolare i casi in cui un simile impatto deve essere temuto? La possibilità di questo accidente è diventata dopo questo calcolo così rara che, in rapporto alla grande interazione tra le forze che reggono l’universo, è quasi ridotta a zero […]. Questa vacua paura è scomparsa grazie ad una più chiara visione della cosa stessa, poiché si è trovato che tutte le deviazioni dei pianeti vengono tenute periodicamente entro certi limiti secondo leggi immutabili e che queste irregolarità si compensano reciprocamente; il sistema dei pianeti è dunque costante, e rimane. Benevola e bella necessità sotto il cui scettro onnipresente noi viviamo! Essa è figlia della somma Saggezza, sorella gemella della forza eterna, la madre di ogni bene, d’ogni felicità e sicurezza e ordine. Se dovessi scegliere un’immagine più bella dall’antichità direi che la Nemesi deve cedere il proprio posto a questa superiore Adrastea (SW XVI 472).

42 Cfr. M Cometa, Visioni della fine. Apocalissi, catastrofi, estinzioni, Palermo, :duepunti, 2004, p. 79 ss.

Nemesi-Adrastea

39

L’atteggiamento di Herder è comunque quello tipico di un mitologo moderno, quale egli fu in maniera forse insuperata. Per Herder non si tratta di dipanare la complessa genealogia delle forme consegnataci dalla tradizione figurativa, soprattutto emblematica, e le testimonianze mitologiche e storiche. Al contrario, da vero “bricoleur” – nel senso dato da Lévi-Strauss a questo termine – egli intende riattivarne la complessa semantica per i propri fini: che sono quelli di una risemantizzazione cristiana. Gli sarebbe stato facile infatti, attenendosi alla lirica di Mesomede, individuare nell’Alciato parigino o lyonese, la forma definitiva della Nemesi. O avrebbe potuto – in omaggio a Dürer – insistere sulle contaminazioni con la Fortuna o l’Occasione. Herder invece propende per il sincretismo che già abbiamo visto in Vincenzo Cartari, una forma sottile di remitologizzazione moderna. Nello stesso anno Herder infatti pubblica uno dei suoi testi più acuti e significativi, un capolavoro di filologia ed antiquaria, e il cuore del progetto di una palingenesi culturale dell’umanità a partire da un uso creativo del mito. Già il titolo, Nemesis. Ein lehrendes Sinnbild, non nasconde la sua provenienza dal mondo visuale dell’emblematica. Sinnbild è nel lessico di Herder decisamente sinonimo di emblema, prima ancora che di simbolo. In questo saggio – una rimitologizzazione della Nemesi in pieno spirito romantico – Herder compie il passo decisivo che riconduce la dea pagana nell’alveo iconografico e semantico della temperantia cristiana. Per Herder si tratta subito di sconfessare l’Esiodo della Teogonia che descrive la Nemesi come una “sciagura ai mortali”43, Plaggöttinn, figlia della notte come la falsità o la vecchiaia, e di confutare la tesi aristotelica che la vedeva solo come una mediazione tra invidia (Neid) e il piacere maligno (Schadenfreude)44. Nulla di più facile allora che esaltare la contaminazione iconografica tra Venere, la dea della bellezza e la Nemesi di Ramnunte di cui Pausania racconta. 43 La teogonia di Esiodo e tre inni omerici, nella traduzione di C. Pavese, a cura di A. Dughera, Torino, Einaudi, 1981, p. 17. 44 Una tesi ancora vigente in Hegel: G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, in Id., Sämtliche Werke. Jubiläumsausgabe in zwanzig Bänden, a cura di H. Glockner et al., Stuttgart-Bad Cannstadt, Friedrich Frommann Verlag (Günther Holzboog), 1965, vol. XVIII, p. 249 (trad. it a cura di E. Codignola e G. Sanna, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, La Nuova Italia, 1964, vol. II, p. 229). Cfr. anche, ivi, p. 316 (trad. it. p. 294).

40

Lo sguardo reciproco

Herder ricostruisce meticolosamente tutti i contesti in cui la dea viene presentata come una controfigura di Venere (Lais, Callimaco, Plinio, Strabone etc.), e in generale tutte le tradizioni che vogliono Nemesi madre dei Dioscuri – un tema ripreso da Hölderlin – e di Elena (SW XV 399 ss.). Fausta sovrapposizione poiché celebra la vittoria degli Atenisiesi sui Persiani, colpevoli di hybris (Vermessenheit) nei confronti di Atene, e poi la giusta pace (SW XV 405). È tuttavia il già citato inno di Mesomede lo snodo semantico decisivo nella tradizione della Nemesi. Da dea della vendetta che era, figlia della notte, essa diviene una “figlia della Giustizia” (Tochter der Gerechtigkeit), secondo la vecchia tesi platonica delle Leggi. Herder la distingue dunque da Ate, la dea della vendetta, e dalla stessa Fortuna e Giustizia, cui pure è apparentata da alcuni attributi simbolici. Nemesi è la dea della misura (Maaß) e della moderazione (Einhalt), la «misbilligende Göttin des Uebermuths» (SW XV 413), il suo simbolismo ci invita alla misura, soprattutto nella fortuna, il più difficile dei proponimenti. La Nemesi è la dea che accompagna la Fortuna e la ammonisce a non trasformare i vantaggi del fato in un atto di hybris (Uebermuth). Mäßigkeit im Glück cioè temperanza nella fortuna: Un orientale le avrebbe dato in mano a tal fine il calice della confusione con il quale essa sprofonda nell’ebbrezza e nel sopore l’anima dei tracotanti; il Greco invece si sarebbe attenuto ai simboli della Giustizia e della Fortuna, la ruota, la briglia, la misura, la bilancia; e così Nemesi divenne […] una benefattrice dell’intera umanità (SW XV 420).

Nella propria ricostruzione della semantica della Nemesi ovviamente non può mancare il riferimento all’Etica Nicomachea in cui Aristotele pone Nemesi come via di mezzo tra l’invidia e la malevolenza, attestandola tra le virtù in quanto moderazione: Il giusto sdegno (Nemesi) è una via di mezzo tra l’invidia e la malevolenza; e queste disposizioni concernono il dolore e il piacere che nascono sulle vicende che capitano al prossimo. Infatti l’uomo sdegnoso s’affligge per coloro che immeritatamente hanno successo; l’invidioso, andando più in là, s’affligge del successo di tutti; la persona malevola di tanto difetta dall’addolorarsene che anche ne gioisce45. 45 Aristotele, Etica Nicomachea, introduzione, traduzione e commento di M. Zanatta, Milano, BUR, 1994, vol. I, p. 175.

Nemesi-Adrastea

41

Non a caso Herder conclude il suo percorso interpretativo citando l’inno orfico dedicato alla Nemesi in cui la dea è ormai quasi interamente spogliata d’ogni terribilità e viene invocata perché ormai si è conciliata (versöhnen) con l’umanità intera e da dea di vendetta si è trasformata in soccorritrice: O Nemesi, ti celebro, dea, somma regina,/ tutto vedi, osservando la vita dei mortali dalle molti stirpi;/ eterna, augusta, che sola ti rallegri di ciò che è giusto,/ che muti il discorso molto vario, sempre incerto,/ che temono tutti i mortali che mettono il giogo al collo:/ perché a te sempre sta a cuore il pensiero di tutti, né ti sfugge/ l’anima che si inorgogliosisce con impulso indiscriminato di parole./ Tutto vedi e tutto ascolti, tutto decidi;/ in te sono i giudizi dei mortali, demone supremo./ Vieni, beata, santa, agli iniziati sempre soccorritrice:/ concedi di avere una buona capacità di riflettere, ponendo fine/ agli odiosi pensieri empi, arroganti, incostanti46.

La cristianizzazione della Nemesi Tutti questi attributi, ma soprattutto le “briglie” che costituiscono il basso continuo di questa iconografia, concorrono a svelare il nesso, certamente inscindibile sul piano iconografico dal Medioevo al Settecento, tra Nemesi e la virtù cristiana della Temperantia, ovvero la Mäßigkeit. Il campo semantico della Temperantia nella scolastica e nella patristica era infatti dominato dal verbo “refraenare”, riferito al dominio delle passioni e alla pratica della misura. Direttamente derivata dall’Etica nicomachea, l’idea che Temperantia e Continentia fossero virtù preposte alla “moderazione”/”misura” degli istinti, si tramette alla Summa Theologica di Tommaso d’Aquino. Non stupisce – come ha verificato David M. Greene in un importante articolo sull’iconografia della temperanza – che Giotto nella raffigurazione della Temperantia nella Cappella degli Scrovegni, trasformi in una briglia sensibile il freno morale evocato dallo stagirita e dai padri della chiesa (fig. 11). Del resto non è un caso che la terza grande fonte dell’iconografia pittorica moderna, l’Iconologia del Ripa, rubrichi la Nemesi 46

Inni orfici, a cura di G. Ricciardelli, Milano, Valla-Mondadori, 2000, p. 161.

42

Lo sguardo reciproco

Fig. 11. Giotto, Temperantia, 1306.

direttamente sotto la voce Temperanza47 (fig. 12). Nell’edizione padovana del 1630, accanto alla figura che tiene in mano la caratteristica briglia, si legge: Il freno dichiara, che deue essere la Temperanza principalmente adoperata nel gusto, & nel tatto, l’vno de’ quali solo si partecipa per la bocca, & l’altro è steso per tutto il corpo. Gli antichi col freno dipingeuano Nemesis figliuola della Giustitia, la quale con seuerità castigaua gli effetti intemperati de gli huomini…48. 47 Cfr. anche Ioannis Pieri Valeriani Bellvnensis Hieroglyphica seu De Sacris Aegyptiorvm Aliarumque Gentivm Literis Commentarii, cit., p. 378. 48 C. Ripa, Della più che novissima iconologia, ampliata dal Sig. Cav. Gio. Zaratino Castellini Romano, Per Donato Pasquardi, In Padova, MDCXXX, Parte terza, p. 118.

Nemesi-Adrastea

43

Dopo aver delimitato, attraverso la puntuale decostruzione degli attributi simbolici delle figure, il campo semantico della Nemesi, Herder comincia dunque il percorso inverso, costruendo sullo snodo Nemesi-Temperantia la genealogia di alcune virtù che nonostante gli esempi greci citati non lasciano dubbi sulla compiuta cristianizzazione di questa simbolica. Il doppio movimento non stupisca. Come ha dimostraFig. 12. C. Ripa, Temperanza, 1630. to Wilfried Malsch49 anche in Herder questo è il frutto di pensare tipologico che scorge analogie tra tipi e antitipi, cioè tra prefigurazioni precristiane e loro compimenti (postfigurazioni) nell’era cristiana. Tutta la filosofia della storia di Herder si articola nella tipica tripartizione tipologica che vede nel moderno solo il gradino intermedio tra l’antichità e il futuro. Il rapporto tra Nemesi e Temperantia va letto probabilmente su questo sfondo, ed è infatti una componente di quel sincretismo tipologico che avrà importanti ricadute poetiche in Novalis e Hölderlin. Nemesi è nell’antichità quello che Temperantia è nell’era cristiana e Adrastea, il nuovo nome proposto da Herder50, sarà nel futuro. Al culto della Nemesi appartiene secondo Herder l’«umile rispetto», die bescheidne Scheu (SW XV 427), nei confronti del giusto disappunto degli déi – la Nemesi emblematica abbassava gli occhi sul petto –, il sentimento del «pudore», Schaam, e la moderazione persino nella speranza, Hoffnung. Nella tarda Adrastea Herder parla ormai esplicitamente di «Nemesi del Cristianesimo»: 49 W. Malsch, Zur möglichen Bedeutung von Hamanns Bibeltypologie für die Geschichtssicht Herders und der Goethezeit, in B. Gajek (a cura di), J.G. Hamann. Acta des Internationalen Hamann-Colloquiums in Lüneburg 1976, Frankfurt a.M., Klostermann, 1979, pp. 93-116. 50 Che probabilmente tenne conto in particolare del Cartari, cit., p. 408 ss.

44

Lo sguardo reciproco

Tu ora sai, Winnfried – si legge nel capitolo Die Adrastea des Christentums [L’Adrastea del Cristianesimo] – che cos’è la mia religione delle religioni. Una Adrastea, ma in una similitudine molto più alta di quella che diedero i Greci. Per i Greci essa fu dapprima una dea invidiosa, poi una dea ammonitrice e infine una dea punitrice; il suo motto sommo era: “mai oltre misura”. La Nemesi del Cristianesimo riporta, sia nel mondo morale che in quello fisico, equilibrio e ricompensa in tutto, sia nelle cose minime sia nelle cose grandi, ponendole a fondamento come legge naturale; essa esalta benignamente la missione dell’uomo nel superamento del male attraverso il bene, nella magnanimità perserverante. Essa fa infine dell’umanità l’ago della bilancia e, come compensazione della provvidenza, la voce decisiva del Giudice del mondo; del Giudice che sempre viene ed è sempre tra noi, che tutto accoglie e tutto risarcisce (SW XXIV 58 ss.).

Scheu, Scham, Vergeltung, Gleichgewicht, Großmut, Hoffnung: virtù definitivamente cristianizzate che Herder consacra in uno dei suoi migliori distici che mima un epigramma dell’Antologia Palatina51: «Nemesi e Speranza adoro su un unico altare;/ “Spera!” m’apostrofa la prima; l’altra: “Mai troppo però!” (SW XV 428)52.

Al genio della Grecia A fronte di questo piccolo capolavoro di erudizione, a metà tra antiquaria e filologia, il cui senso sta proprio nella riscrittura mitologica che Herder proprio in quegli anni professava con il progetto dei “paramiti”53, i riferimenti di Hölderlin alla dea sono piuttosto occasionali e comunque limitati se si guarda al piano delle mere occorrenze testuali. Tuttavia basta ricondurre – come è necessario – la Nemesi al campo semantico che più le è proprio, cioè quello della “misura-moderazione-temperanza”54, per rendersi 51 Antologia Palatina, a cura di F.M. Pontani, Torino, Einaudi, 1980, vol. III, p. 75: «Presso l’altare disposi Speranza e Nemesi: “Spera!” l’una, “Non possedere!” l’altra dica». 52 Anche nella tarda Adrastea Herder riprende questo distico nell’ambito di una riflessione sulla misura e sulla speranza. Cfr. SW XXIII 485 ss. (Säkularische Hoffnungen). Sul nesso Nemesi-Speranza si cfr. F. H. Marschall, Elpis-Nemesis, in «The Journal of Hellenic Studies», 33 (1933), pp. 84-86. 53 Cfr. M. Cometa, Il romanzo dell’infinito, cit., p. 28 ss. 54 Cfr. E. Polledri, „… immer besteht ein Maas“. Der Begriff des Maßes in Hölderlins Werk, Würzburg, Königshausen & Neumann, 2002, p. 71 ss.

Nemesi-Adrastea

45

conto che essa non è argomento marginale nell’interpretazione dell’intera poesia hölderliniana. Ancorchè consapevole della nuova interpretazione herderiana Hölderlin ne rielabora i significati soprattutto nell’Iperione (1796) dove, pur accogliendo lo spirito della filosofia della storia del maestro – quello che lo rende diffidente nei confronti di un concetto di rivoluzione basato sulla violenza e sulla sopraffazione – utilizza la figura della Nemesi sempre dalla parte di Alabanda e dei suoi, i quali si credono interpreti in terra della “giustizia” e invece non fanno altro che perpetuare il disastro della storia. È l’hybris guerresca – che la Nemesi a rigore punisce –, ciò che anima i giovani rivoluzionari, e significativamente Hölderlin insiste sulla paradossalità e fatalità di questo fraintendimento facendo di Alabanda ed Iperione degli invasati: Come si destava allora, nel suo profondo, la mia anima, come esplodevano fuori dalle mie labbra le sonanti parole di una giustizia inesorabile! Simili a messaggeri della Nemesi, i nostri pensieri percorrevano la terra e purificavano sino a che non rimaneva traccia alcuna di tutte le maledizioni (SWB II 35)55.

I due, nella loro hybris rivoluzionaria, tendono infatti a sostituirsi alla Nemesi stessa, il che costituisce proprio la trasgressione che la dea punisce. Nulla è più sacrilego, già nella visione di Herder, che accelerare arbitrariamente il corso della storia e del progresso umano, con il risultato di consumare anzitempo le energie spirituali di una vita: «La violenza della lotta ti frantumerà, o nobile anima, tu invecchierai, o beato spirito, e alla fine, stanco di vivere, domanderai: dove siete, ora, ideali della mia giovinezza?» (SWB II 108)56. A poco varranno i ripensamenti di Iperiore che fa appello alla “moderazione” e – com’è stato ampiamente documentato – ad un modello di rivoluzione esemplato sulle orbite dei pianeti piuttosto che sugli eccessi disumani della rivoluzione francese e delle guerre che ne seguirono57: «“O violenti”, gridò ella infine, “voi che ricor55 F. Hölderli, Iperione, trad. it. a cura di G.V. Amoretti, Iperione, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 48. 56 Ivi, p. 117. 57 Cfr. M. Cometa, Il romanzo dell’infinito, cit., pp. 87-132.

Lo sguardo reciproco

46

rete subito alle misure estreme, pensate alla Nemesi!”»58. Nel corso del romanzo la Nemesi ricompare più volte e nella sua doppia declinazione: come incarnazione della «vana tracotanza» (eitel Übermut) che Diotima ad esempio rinfaccia all’esaltato Iperione (SWB II 108), nel nome della “Lega della Nemesi”, i rivoluzionari di Smirne (SWB II 152), ovvero come colei che punisce e restituisce l’equilibrio tra l’agire e il patire: «Ma ogni azione dell’uomo ha, in ultima analisi, la sua punizione e la Nemesi risparmia solamente gli dei e i bambini»59. Fa capolino qui per altro la concezione kantiana del castigo come effetto necessario di ogni agire e sua “misura” ex-negativo, che Hölderlin riprenderà nel saggio incompiuto Sul concetto di pena (1795), come vedremo più avanti. Per il momento intendiamo concentrarci non sul significato metaforico che la dea e i campi semantici ad essa collegati hanno nella poesia e nella filosofia della storia di Hölderlin, quanto segnalare un percorso della cultura visuale del poeta che risale ad Herder, ma mostra un’estrema vitalità anche all’altezza temporale in cui il poeta ne affronta esplicitamente il tema. Ci riferiamo in particolare alle uniche due liriche in cui Hölderlin cita esplicitamente la dea ricorrendo ad un bagaglio figurale che è necessario leggere in trasparenza se si vuole coglierne sino in fondo le implicazioni metaforiche. Si tratta dell’inno Al genio dell’audacia (1793-95) e dell’ode La pace (1799) che ci giunge in due versioni per altro di difficile restituzione testuale. Sono due testi di enorme rilevanza per la definizione del rapporto tra Hölderlin e gli accadimenti storici del suo tempo (sino alla Pace di Rastatt), ma soprattutto rappresentano un concentrato della sua filosofia della storia proprio a partire dalla figura della Nemesi. L’eccezionalità della citazione esplicita della dea – altrimenti presente nelle liriche solo per riflesso attraverso le figure dei Dioscuri (SWB I 760) –, non tragga in inganno: ci troviamo nel cuore di un complesso intreccio di elementi testuali e visuali che concorrono alla definizione del mitologema in funzione anti-herderiana, come vedremo, ma che nel contempo mettono Herder pure al riparo dal riduzionismo grecofilo che la vorrebbe semplicemente una “dea della vendetta e dell’invidia” (degli dèi per gli umani!) 58 59

SWB II 108 (trad. it. p. 116). SWB II 153 (trad. it. p. 159).

Nemesi-Adrastea

47

cui non è esente gran parte delle interpretazioni contemporanee, compresa quella, altissima, di Hegel. Fu Hegel, ad esempio, evidentemente ostile al moralismo di Herder, a cercare di ricollocare la Nemesi al di fuori della Sittlichkeit mondana come la volevano i Greci. E per far questo è costretto a ricorrere ad un’idea di divinità che, a differenza di quella cristiana, può anche conoscere l’invidia: Del resto, che Dio non nutra alcuna invidia, è pensiero grande, bello, verace, schietto. Presso gli antichi invece l’unico carattere determinato negli Dei è la Nemesi, la Dike, il Fato, l’invidia, per cui essi abbattono e fanno piccolo ciò ch’è grande, e non possono tollerare ciò che è degno ed elevato. Questo modo di vedere è combattuto dai nobili filosofi venuti più tardi. Infatti nella semplice rappresentazione della Nemesi non è ancora contenuta alcuna determinazione etica, giacchè la pena tende unicamente ad abbattere ciò che passa la misura; ma questa misura non è ancora concepita come eticità60.

Lo studio della cultura visuale che presiede alla stesura dei versi in questione dimostra invece che Hölderlin, pur tenendo conto delle origini greche del mito ad un altissimo livello di consapevolezza filologica, del resto stimolato da Herder, e non volendo procedere alla sua “cristianizzazione” che è, come abbiamo visto, il portato ultimo dell’interpretazione herderiana, cerca in tutti i modi di salvarne il significato per la filosofia della storia. Per far ciò ricorre ad una iconografia della Nemesi che, pur segnando la tipica “sopravvivenza” moderna degli antichi déi non ha per esito una decisa cristianizzazione del mitologema e con esso della storia. Al genio dell’audacia viene composta nel 1792-93, immediatamente a ridosso dello scritto sulla Nemesi (1791) di Herder, delle Idee (1784-91) e di Titone e Aurora (1792). A questi scritti Hölderlin implicitamente fa riferimento per il tono e per la criptica filosofia della storia che evoca. Si tratta di un inno che declina tutta la dialettica Unermeßliches/Maß e dunque si colloca al cuore della problematica herderiana della storia. Mutando la spada con la toga,/ Con severa e imparziale bilancia giudicasti,/ Parlasti, e vacillarono i Sardanapali,/ Ebbri del calice della vertigi60 G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, cit., vol. XVIII, p. 249 ss. (trad. it a cura di E. Codignola e G. Sanna, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, La Nuova Italia, 1964, vol. II, p. 229). Cfr. Anche, ivi; trad. it. p. 294.

48

Lo sguardo reciproco

ne della tua ira;/ Invano spaventa con la sua rabbia di tigre/ L’antica tenebra il tuo tribunale./ Grave ascoltasti la sommessa voce dell’innocenza/ Alla sacra Nemesi tributasti sacrifici61.

Qui Hölderlin compie una contaminazione tra l’iconografia della Nemesi che regge verticale la Schale, come nelle immagini di Dürer e di Cartari, e il testo herderiano in cui questi, rifacendosi probabilmente a Lutero, allude al «Becher der Verwirrung» attraverso cui – come abbiamo visto – si potrebbe stemperare nel sonno e nell’estasi l’hybris di un’anima inquieta. Con «Becher der Verwirrung» Lutero, com’è noto, traduce Isaia 51, 17 e 22, una criptocitazione biblica che Hölderlin fa rilucere con il suo «Taumelkelche deines Zornes». Va anche ricordato – tra le più dirette fonti di Hölderlin – che Friedrich Klopstock nel Messias più volte richiama il testo biblico62 e che anche Friedrich Schleiermacher ritorna su questa figurazione nei Discorsi sulla religione63. Esplicitamente Hölderlin lavora alla sovrapposizione tra il calice della dea, cui già Pausania allude con la «flache Opferschale», la fiala che sembra potersi confondere con il “piatto” della bilancia della Giustizia, e il calice istoriato della Nemesi moderna di Dürer e Cartari. Con un’importante risemantizzazione però, che sembra ricondurre al «dio degli audaci» (Gott der Kühnen), i cui attributi apparentemente greci (Nacht, Schlaf) presto si colorano di iconografie cristiane («Der Wahrheit Flamme», «auf bange Thale»). Laddove il richiamo all’innocenza (Unschuld) dell’ultimo verso è, per converso, non necessariamente un riferimento ad una virtù cristiana, ma un richiamo all’innocenza degli Etiopi tradizio61 SWB I 152: «Du wogst mit strenggerechter Schale,/ Wenn mit der Toge du das Schwert vertauscht,/ Du sprachst sie wankten die Sardanapale,/ Vom Taumelkelche deines Zorns berauscht;/ Es schröckt umsonst mit ihrem Tigergrimme / Dein Tribunal die alte Finsternis/. Du hörtest ernst der Unschuld leise Stimme,/ Und opfertest der heilgen Nemesis» (trad. it., Al genio dell’audacia, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, edizione tradotta e commentata e revisione del testo critico tedesco a cura di L. Reitani, con uno scritto di A. Zanzotto, Milano, Mondadori, 2001, p. 103 ss.). 62 F.G. Klopstock, Der Messias, in Id., Ausgewählte Werke, a cura di K.A. Schleiden, München, Hanser, 1962, p. 416: «Von dem Taumelkelche des Rächers»; p. 499: «Der Rache Taumelkelch voll»; p. 513: «mit dem Taumelkelche der Rache». 63 F. Schleiermacher, Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern, con una postfazione di C.H. Ratschow, Stuttgart, Reclam, 1980, p. 13. Anche Schleiermacher, in queste pagine fondamentali per l’idealismo tedesco, riprende più volte la figura della Nemesi mostrando di conoscerne le raffigurazioni emblematiche.

Nemesi-Adrastea

49

nalmente scolpiti sul calice della Nemesi come abbiamo visto in Herder (SW XV 400). Se nei testi in prosa il riferimento alla Nemesi era comunque ricondotto alla «divinità vendicatrice» (rächende Gottheit) di omerica memoria, nell’inno del 1792-93 si coglie un cedimento verso una risemantizzazione cristiana che, pur basandosi su alcune figure herderiane, è connotata da elementi dionisiaci (l’ebbrezza, l’ira) in linea con la poetica hölderliniana, ma ben lontana in fin dei conti dal quietismo della tolleranza e dell’umiltà herderiana. Tanto è vero che la ripresa del motivo, a pochi anni di distanza, nella tumultuosa lirica La pace (1799), spazza via ogni allusione cristiana. Qui la Nemesi si riappropria di tutti i suoi attributi greci (e latini): Si involavano come onde le forze degli eroi/ E dileguavano, e tu abbreviavi, vendicatrice!/ Sovente il lavoro ai tuoi servi e rapida/ Riportavi a casa i combattenti.// Tu che inesorabile e mai vinta/ Cogli il più vile e tracotante,/ E al colpo trema la sua misera/ Stirpe fino all’ultimo membro,// Tu che segretamente tieni redini e pungolo/ per frenare e spronare, Nemesi/ Ancora punisci i morti che dormivano/ Sotto il lauro dei giardini d’Italia64.

Qui è la Nemesi alata dell’iconografia classica che velocemente fa giustizia e vendetta. Come l’Adrastea herderiana essa è «die Unentfliehbare», colei a cui non si sfugge e tutto raggiunge («unerbittlich» e «unbesigt» scrive Hölderlin): «La Nemesi in quanto Adrastea – si legge in un’importante nota del saggio herderiano – ricevette secondo Strabone il suo nome dal tempio di Adrasto: ma poiché la parola poteva significare colei a cui non si può sfuggire, colei che è sempre efficace, e questo significato si adattava bene al suo compito, non si potè fare a meno di intensificare sempre più il concetto, dato che Phurnutus (Cap. 13) la interpreta come la potenza di alti destini» (SW XV 413). Nemesi ha 64 SWB I 228: «Die Heldenkräfte flogen, wie Wellen, auf/ Und schwanden weg, du kürzest o Rächerin!/ Den Diener oft die Arbeit schnell und/ Brachtest in Ruhe sie heim, die Streiter.// O du die unerbittlich und unbesiegt/ Den Feigern und den Übergewaltgen trifft,/ Daß bis ins letzte Glied hinab vom/ Schlage sein armes Geschlecht erzittert. // Die du geheim den Stachel und Zügel hältst/ Zu hemmen und zu fördern o Nemesis,/ Strafst du die Toten noch es schliefen / Unter Italiens Lorbeergärten» (trad. it. La pace, in F.Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 711 ss).

Lo sguardo reciproco

50

qui riscoperto decisamente i propri attributi iconografici greci che non lasciano adito a dubbi. Hölderlin, oltre ad attingere all’iconografia classica, recupera probabilmente una suggestione testuale di Ezechiel Spanheim commentatore di Callimaco, ovviamente citata da Herder, secondo cui Nemesi quando compare come Upis (Oupis, Opi), come pre-videnza (Voraussehung), tiene in mano un pungolo (ein Spieß)65. Significativa è inoltre la chiusa dell’ode che pone Helios a testimone della «sicura orbita» (sichre Bahn) (SWB I 229) della terra, lo stesso Sole che Herder – ricollegandosi ai Saturnalia di Macrobio – associa ancora una volta alla Nemesi: «Et, ut ad solis multiplicem potestatem revolvatur oratio, Nemesis quae contra superbiam colitur quid aliud est quam solis potestas, cuius ista natura est ut fulgentia obscuret et conspectui auferat quaeque sunt in obscuro inluminet offerat conspectui?» (SW, XXII, 1). Difficile ricostruire la complessa semantica che Hölderlin propone nella lirica recuperando un attributo della Nemesi di cui non c’è traccia nella letteratura, a prescindere dall’eventuale suggestione herderiana, e che però corrisponde pienamente al tema herderiano della misura («per frenare e spronare»66), evocata immancabilmente nell’ode pochi versi più avanti, quando il poeta lamenta l’infinito regno umano della discordia (Zwist): Chi iniziò? Chi portò la maledizione? Non è/ Di oggi né di ieri e i nostri padri non/ Sapevano chi per primo perse la/ Misura, e li incalzò il loro spirito67.

La completa riconversione semantica della Nemesi, la sua rigrecizzazione, era avvenuta del resto in un testo destinato a rimanere inedito all’epoca Sul concetto di pena la cui stesura risale al 65

Né va dimenticato che la Opi di Virgilio, ninfa al seguito di Diana e a volte controfigura di Diana stessa, vendica la morte di Camilla uccidendo con un dardo l’assassino Arrunte (SW XI, 836 ss.). Riluce qui probabilmente anche una citazione dall’elegia di Alessandro alle muse dove Opi viene definita «die Herrin der schnellenden Pfeile» (cfr. Alexandros Aitolos, Aus der Elegie “Die Musen”, in D. Ebner (a cura di), Griechische Lyrik in einem Band, cit., p. 425). 66 SWB I 228: «zu hemmen und zu fördern». 67 SWB I 229: «Wer hub es an? Wer brachte den Fluch? Von heut/ Ists nicht und nicht von gestern und die zuerst/ Das Maß verloren unsre Väter/ Wußten es nicht, und es trieb ihr Geist sie»; trad. it. La pace, in F. Hölderlin, Tutte le liriche, cit., p. 713.

Nemesi-Adrastea

51

179568. Qui Hölderlin riprende la vecchia definizione esiodea della Nemesi “Figlia della Notte” (Tochter der Nacht) rifunzionalizzandola in una teoria della punizione che è innanzitutto una rilettura critica di Kant, ma riscopre nel contempo tutto il fascino pagano di un mitologema le cui origini – come aveva ben visto Herder – sono misteriose («geheimnisvollen Ursprungs» SWB II 499). Nel testo – come è noto – Hölderlin discute la questione, tipicamente kantiana, di una determinazione negativa della libertà, già posta con chiarezza nel frammento filosofico Sulla legge della libertà (1793), allorchè stabiliva che «la prima volta che la legge della libertà si manifesta a noi, appare come punitiva. L’inizio di ogni nostra virtù procede dal male» (SWB II 47). Il principio kantiano assume però nel frammento del 1795, tutto centrato su concetti come punizione, castigo e pena, tonalità cupe, si potrebbe dire gnostiche. Qui la legge morale, e dunque la libertà, si riconoscono solo nel momento del loro fallimento, quando si scontrano con una resistenza (Widerstand) che le annienta. Della legge si ha percezione solo come ciò che produce il castigo e dunque la sofferenza. Da ciò Hölderlin deduce che «Ogni sofferenza è punizione» (SWB II 500). Al di là del circolo vizioso che Hölderlin intende contestare a Kant, pur non maturando alcuna soluzione alternativa, riluce qui una nozione di Strafe con connotazioni indiscutibilmente malinconiche. Giacchè il mondo della prassi si dà in questo scenario solo come «violazione della legge» (Übertretung des Gesetzes), senza possibilità di redenzione o di riscatto. Qui Nemesi diviene effettivamente la dea che presiede con la punizione all’accadere mondano, alla prassi, che è appunto, in questa interpretazione, solo il disperato ed eterno dispiegarsi della punizione stessa, e con essa della pena. Dieter Henrich69 ha opportunamente suggerito che nel frammento si passa da una sistematica confutazione delle tesi kantiane esposte a circoli viziosi ad un’interpretazione estremistica di Fichte. 68 Anche in una lettera al fratello del 1793, durante la stesura del primo inno dunque, Hölderlin insisteva sull’idea greca di Nemesi nella storia: «Che Marat, il turpe tiranno è stato ucciso, a quest’ora lo sai. La santa Nemesi, quando sarà tempo, darà anche agli altri profanatori del popolo la ricompensa per i loro bassi intrighi e per i loro disumani progetti» (SWB III 105). 69 D. Henrich, Der Grund im Bewußtsein. Untersuchungen zu Hölderlins Denken (1794-1795), Stuttgart, Klett-Cotta, 1992, pp. 391-407.

52

Lo sguardo reciproco

Leggendo il frammento sullo sfondo del più maturo Giudizio ed essere (1795) Henrich stabilisce che il rapporto tra Gesetz e Strafe non è più dato nella prassi ma si presenta come un «necessario presupposto» (notwendige Voraussetzung), si dà pertanto ab origine, come quello tra soggetto ed oggetto della conoscenza. In questo senso Henrich suggerisce che Nemesi e Strafe non sono conseguenze di un agire pratico puntuale e storicamente dato, ma la conditio sine qua non di ogni agire morale, una correlazione data in principio nella coscienza. L’incipit dedicato alle Nemesi – probabilmente aggiunto solo dopo la stesura del frammento – assume alla luce della dissertazione che segue una tonalità ben più radicale: Sembra che la Nemesi degli antichi fosse stata rappresentata come figlia della Notte non tanto per la sua terribilità ma per via della sua origine misteriosa (SWB II 499).

Non è tanto la terribilità a rendere la Nemesi unheimlich – come del resto aveva ben compreso Herder – quanto la sua origine misteriosa70 accanto alla Strafe. Si fa spazio qui – insieme ad una consapevolezza della Ineinsbildung di soggetto ed oggetto necessaria allo sviluppo dell’idealismo filosofico – l’idea che nell’origine inconoscibile – Gesetz, Strafe e Leiden si danno prima di ogni Urtheilung: «La Nemesi – scrive Henrich – mostra tratti che perciò da un lato corrispondono al fallimento originario della vita e dall’altro ad una punizione che fa capolino già con questo fallimento originario»71. Stachel e Zügel, presenti nell’ode del 1799, sono allora, in quest’ottica profondamente antiherderiana, non gli strumenti di un indirizzamento gioioso della storia, ma strumenti di tortura che la Nemesi usa infliggendo agli uomini dolorose “correzioni” (Zurechtweisungen). Una “correzione” che non risparmia neppure dopo la morte come si legge ne La pace: «Ancora punisci i morti che dormivano/ Sotto il lauro dei giardini d’Italia»72. Si conclude qui il tortuoso sentiero semantico della Nemesi nel70 Geheim è aggettivo presente anche nell’ode Der Frieden, proprio nei versi dedicati alla Nemesi (SWB I 228). 71 D. Henrich, Der Grund im Bewußtsein. Untersuchungen zu Hölderlins Denken, cit., p. 404. 72 SWB I 228: «Strafst du die Todten noch, es schliefen/ Unter Italiens Lorbeergärten».

Nemesi-Adrastea

53

l’età di Goethe. Ed è una conclusione che in qualche modo affida alle generazioni future un’immagine ormai gravida di implicazioni. Perché è evidente che la paganizzazione in extremis operata da Hölderlin pur essendo ben lontana dalla cristianizzazione operata da Herder – all’insegna di un’apologia delle virtù profondamente ottimistica ed orientata alla prassi – è pur tuttavia interna al tipico sincretismo pagano-cristiano di cui Hölderlin è comunque uno dei grandi interpreti moderni. Sullo sfondo del frammento Sul concetto di pena appare evidente infatti che la greca Nemesi si è ormai colorata del sangue cristiano versato nella storia. Una storia che si costitusce, è vero, attraverso l’eterna ripetizione dell’uguale, ma è decisamente attraversata dal dolore e dall’espiazione. Dioniso e il Crocifisso hanno iniziato il comune cammino che solo le pagine di Sulla genealogia della morale73 dedicate al concetto di “pena” porteranno a paradossale compimento.

73 F. Nietzsche, Kritische Studienausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, Berlin, DTV-de Gruyter, 1999, vol. V, p. 313 ss. (trad. it., Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1976, vol. VI, tomo II, p. 275 ss).

PSICHE E LA PIRAMIDE LE ARTI E LA MORTE NELL’ETÀ NEOCLASSICA Elena Agazzi

«C’è un monumento funerario di una donna molto virtuosa e bella, che ha perso la vita per una gravidanza difficile. Questo monumento consiste in una tomba ricoperta da una pietra molto brutta. Se, però, ci si avvicina, ci si trova improvvisamente nel bel mezzo di una scena sorprendente, in cui le tombe si aprono e i morti tornano alla vita. La lastra tombale è stata spaccata nel mezzo come per un violento terremoto, e dall’apertura che si è prodotta si vede la persona sepoltavi, con dipinti sul volto tutti i sentimenti di quel mondo spirituale in cui dovrà andare ora incontro con il bambino. Essa porta il bimbo [...] Sul braccio sinistro e con il destro sospinge verso l’alto la lastra tombale infranta»1 (fig. 1). Questa descrizione di una sepoltura borghese, contraddistinta dal tragico pathos con cui l’artista fissa l’immagine del morto ormai affidato alla terra e che è esemplare per lo spirito con cui nel Settecento si rappresentavano le virtù del personaggio compianto, si deve a Johann Georg Sulzer, che nella Teoria generale delle Belle Arti alla voce Monumento2 fornisce un quadro sintetico del rapporto 1 J.G. Sulzer, Allgemeine Theorie der schönen Künste, 2 voll., Leipzig, Weidmann, 1792. La voce Denkmal si trova nel vol. I, pp. 596-600, la citazione è a p. 599. La tomba di Maria Magdalena Langhans (1723-1751), di cui resta oggi solo un modello in terracotta, si trovava nella chiesa parrocchiale di Hindelbank in Svizzera ed era stata realizzata da Valentin Sonnenschein (1749-1828) su disegno di August Nahl (1710-1781). 2 Sulzer, che mette mano alla sua opera nel 1763, è ancora lontano dal formulare un giudizio sul “gusto”, che solo Kant riuscirà a esprimere in modo concreto. Continuatore nella linea Baumgarten-Meier del dibattito sul principio imitativo della classicità greca e romana, Sulzer non riuscirà ancora a risolvere la sudditanza dell’immaginazione alla ragione e rimarrà frenato sulla soglia di un produttivo rinnovamento della teoria estetica proprio dal tentativo di razionalizzare l’azione creativa dell’artista. Nonostante questi limiti, l’autore offre un serio contributo critico al raffronto fra il prodotto figurativo del passato e quello del presente, cercando di stimolare il lettore al recupero di una prospettiva etica e morale che si faccia garante dell’imperitura validità dell’opera d’arte come modello. I testi fondamentali cui si rifà Sulzer sono: A.G. Baumgarten, Aesthetica, Frankfurt a.M., Klyeb, 1750; G. Fr. Meier, Anfangsgründe aller schö-

56

Lo sguardo reciproco

Fig. 1. V. Sonnenschein, Tomba di Maria Magdalena Langhans, II metà del XVIII secolo.

che nel XVIII secolo univa i vivi al mondo dei defunti attraverso il rito commemorativo. Cercando di raggruppare sotto voci specifiche definizioni e caratteri delle arti figurative e di quelle che, più in generale, venivano definite arti belle, e particolarmente attento all’aspetto della ricezione dell’opera artistica presso i suoi contemporanei, all’efficacia conseguita nel perfezionamento della tecnica e nell’adattemento alla richiesta del pubblico, Sulzer avverte un rinnovamento illuminista in atto anche nel campo dell’arte funeraria. Philippe Ariès, che ha fornito un contributo rilevante allo studio sulla morte dal Medioevo ai nostri giorni3, attribuisce al pietinen Wissenschaften, Halle, Carl H. Hemmerde, 1754. Per un approfondimento su Baumgarten e Meier si rimanda a E. Bergmann, Die Begründung der deutschen Aesthetik durch Alexander Baumgarten und G. Fr. Meier, Leipzig, Röder & Schunke, 1911. 3 Ph. Ariès, Essais sur l’histoire de la mort en Occident du Moyen Âge à nos jours, Paris, Seuil, 1975 (trad. it. di S. Vigezzi, Storia della morte in Occidente, Milano, Rizzoli, 1978). Cfr. p. 54 e p. 128 della traduzione italiana.

Psiche e la piramide

57

smo e al cattolicesimo romantico certe manifestazioni di “affettività macabra” che sono tipiche di questo secolo, pur sottolineando che per reazione all’iconologia tanatologica del passato, pullulante di scheletri e di corpi putrefatti, l’uomo del Settecento sviluppa una particolare attenzione per la bellezza fisica dello scomparso. Questa viene sfruttata in quanto medium giustificativo delle buone qualità che gli sono state riconosciute da vivo, seguendo il principio antico del kalòs kai agathòs. Proprio a quest’epoca, infatti, grazie al recupero dell’antichità classica e dei motivi estetici ed etici che contraddistinsero in particolare il V secolo a.C. della grandezza repubblicana di Atene, gli antiquari e gli studiosi di filologia classica incominciarono ad occuparsi, tra l’altro, del simbolismo e dei significati allegorici delle opere greco-romane. Si trattava, in realtà, di un atteggiamento culturale volto alla tesaurizzazione delle esperienze più alte delle civiltà antiche, per trarne la linfa necessaria per il progetto di un nuovo Rinascimento. L’armonia perfetta tra uomo e mondo esterno viene ripristinata. L’alacre studio sui grandi scrittori greci e romani, l’avvio degli scavi di Ercolano (a partire dal 1737) e di quelli di Pompei (dal 1748), uniti al desiderio di uscire dal clima torbido della Controriforma, favoriscono il ritorno degli stili architettonici e scultorei delle grandi civiltà mediterranee. Winckelmann esprime nella formula «nobile semplicità e quieta grandezza», riferita in particolare al gruppo statuario del Laocoonte4, la convinzione che la soluzione vincente per il rinnovamento dell’indirizzo artistico sia da cercarsi nella sobrietà dei contorni e nella difesa del «buon gusto». Al centro della prima teorizzazione di Winckelmann sull’estetica della classicità si trova appunto l’opera scultorea raffigurante il 4 J.J. Winckelmann, Gedanken über Nachahmung der griechischen Werke in Malerey und Bildhauerkunst in Id., Kleine Schriften, Vorreden und Entwürfe, a cura di W. Rehm, con un’introduzione di H. Sichtermann, Berlin, Walter de Gruyter & Co., 1968, p. 44 ss. Se ne veda l’edizione italiana curata da M. Cometa, J.J. Winckelmann, Pensieri sull’Imitazione, Palermo, Aesthetica edizioni, 1992, p. 43. Per una ricca documentazione sui più recenti studi winckelmanniani si rimanda agli atti del ciclo di conferenze svoltosi a Parigi tra l’11 dicembre 1989 e il 12 febbraio 1990, Winckelmann: la naissance de l’historie de l’art à l’Epoque des Lumières, a cura di E. Pommier, Paris, La Documentation Française, 1991 e al volume degli atti del convegno di Firenze del 14-15 dicembre 1990, J. J. Winckelmann tra letteratura ed archeologia, a cura di M. Fancelli, Venezia, Marsilio, 1993, che si avvale in appendice di un’interessante tavola rotonda condotta tra i relatori e altri studiosi intervenuti all’incontro.

58

Lo sguardo reciproco

sarcedote di Apollo, Laocoonte, che muore, aggredito con i due figliuoli da una coppia di serpenti marini, dopo aver tentato di impedire l’ingresso dei Greci a Troia. Dunque, il tema della morte ha un posto centrale nell’interpretazione critico-artistica di Winckelmann. La sua valutazione non rimane, però, del tutto legata all’espressione del corpo e dello sguardo, cioè esteriore. Winckelmann, turbato dalla domanda sul perché l’artista abbia scelto di raffigurare la morte contrastando gli spasmi dolorosi dell’agonia con l’espressione di rassegnazione e di autocontrollo dipinti sul volto di Laocoonte, sottolinea l’alta eticità contenuta nel messaggio dell’artefice dell’opera. Istituisce un rapporto tra morte e serenità puntando sul significato eroico del gesto protettivo nei confronti dei figli, ma soprattutto sulla dignità del popolo greco, composto anche nell’estrema sofferenza. Per Winckelmann conta molto, infine, il riscontro dell’immagine plastica con il passo poetico di Virgilio, che indirizza alla comprensione spirituale dell’atteggiamento eroico. Gotthold Ephraim Lessing, di lì a qualche anno (1766) riprende il tema del Laocoonte in una monografia interamente dedicata a questo soggetto artistico, sostenendo, però, apertamente, che è l’ideale estetico dell’autore del gruppo statuario ad averne guidato la mano, anziché la convinzione della traducibilità dell’ethos greco in immagine. Non ci soffermeremo oltre su questo dibattito, al cui proposito molto è già stato scritto5. Vorremmo, invece, rinviare al passo del trattato lessinghiano, in cui il tema della morte viene discusso in modo diretto anche se in termini ancora generali. Scrive 5 Tra i contributi più validi sull’argomento cfr. H. Althaus, Laokoon. Stoff und Form, Bern-München, Francke Verlag, 1968; D.E. Wellbery, Lessing’s Laokoon. Semiotics and Aesthetics in the Age of Reason, Cambridge-New York-Melbourne, Cambridge University Press, 1984. Per un’analisi più circostanziata del mito culturale di Laocoonte e della sua datazione cfr. B. Andreae, Laocoonte e la fondazione di Roma, Milano, Il Saggiatore, 1988; e Id., Laokoon und die Kunst von Pergamon. Die Hybris der Giganten, Frankfurt a.M., Fischer, 1991. Per Winckelmann in rapporto al gruppo del Laocoonte, cfr. tra l’altro M. Bieber, Laocoon. The influence of the Group since its Rediscovery, New York, Columbia University Press, 1942 (Detroit, 19672); W. Rasch (a cura di), Bildende Kunst und Literatur. Beiträge zum Problem ihrer Wechselbeziehungen im 18. Jahrhundert, Frankfurt a.M., Klostermann, 1970, pp. 59-78; H.B. Nisbet, Laokoon in Germany: The Reception of the Group since Winckelmann, in «Oxford German Studies», 10 (1979), pp. 22-63; N.R. Schweizer, The Ut Pictura Poesis Controversy in Eighteenth Century England and Germany, Frankfurt a. M.-Bern, Lang, 1972; Aa.Vv., Laocoonte 2000, Palermo, Aesthetica edizioni, Preprint, 35, 1992.

Psiche e la piramide

59

Lessing: «Il diletto che scaturisce dal soddisfacimento della nostra brama di conoscenza, è il momentaneo e, rispetto all’oggetto per il quale esso viene appagato, solo accidentale; il dispiacere, invece, che accompagna la visione della bruttezza, è permanente e, rispetto all’oggetto che lo suscita, è essenziale [...]. Gli animali feroci suscitano terrore anche quando non sono brutti; e questo terrore, e non la loro bruttezza è ciò che nell’imitazione viene risolto in sentimento di piacere. Lo stesso per i cadaveri. L’acuto senso di compassione, il terribile richiamo al nostro annientamento è ciò che in natura ci rende un cadavere un oggetto ripugnante; ma nell’imitazione questa riflessione perde, in virtù della persuasione dell’inganno, la sua acutezza, e un’aggiunta di circostanze lusinghiere ci può liberare interamente da questo fatale richiamo, o legarsi ad esso così indissolubilmente che noi crediamo di vedervi più qualcosa di desiderabile che di terribile»6. Se gli accenni al tema della morte sono ancora fugaci nel Laocoonte, solo a tre anni dalla pubblicazione di questo saggio esce un trattatello per l’editore Voß, che reca il titolo Come gli antichi raffiguravano la morte7 e si fa finalmente chiaro come l’autore stesse affilando le proprie armi teoriche contro quel retaggio del mondo barocco che aveva intimidito l’uomo ponendolo di fronte alla vanitas della sua esistenza. A Lessing sembrava ossessivo e sgradevole l’uso di scheletri e teschi a cui neppure Bernini era riuscito a sottrarsi nei suoi monumenti funebri. Se è vero che bruttezza, deformità e morte fanno parte della reale esperienza umana, essi offendono nell’arte quel senso di piacere che nasce dalla fissazione di un’immagine che dovrebbe darsi come promessa positiva per un futuro di oblio dalle preoccupazioni del mondo. L’unica bruttezza lecita in arte, per Lessing – anche 6 G.E. Lessing, Laokoon oder über die Grenzen der Malerey in Id., Schriften II. Antiquarische Schriften, a cura di K. Beyschlag, Frankfurt a.M., Insel Verlag, 19863, cit., p. 138. Per l’edizione italiana si veda G.E. Lessing, Laocoonte, a cura di M. Cometa, Palermo, Aesthetica edizioni, 1991, p. 102 ss. 7 G.E. Lessing, Wie die Alten den Tod gebildet, in Id., Schriften II, cit., pp. 172223 (trad. it. di S. Sciacca, Come gli antichi raffiguravano la morte, prefazione di A. Pes, Palermo, Novecento, 1983). Nel 1981 è stata organizzata a Kassel una mostra dal titolo Wie die Alten den Tod gebildet. Wandlungen der Sepulkralkultur 1750-1850 che partendo proprio dall’esempio di Sulzer sopra citato, illustra le tappe dei cambiamenti nella concezione culturale cimiteriale tra la seconda metà del Settecento e la seconda metà dell’Ottocento.

60

Lo sguardo reciproco

le sue teorie sul teatro lo ribadiscono in continuazione – è quella che suscita compassione, mentre quella che viene classificata come innocua rischia di tramutare il farsesco in disgustoso. Lessing difende quella serenità e quella grandezza su cui Winckelmann si era pronunciato nei Pensieri sull’imitazione delle opere greche in pittura e scultura del 1755 e cita una serie di esempi che mostrano il senso di mite rassegnazione con cui viene accettato il momento del trapasso. I sarcofaghi di epoca greco-romana sono rappresentativi per un’allegoresi che allude alla morte senza offendere il gusto. Lessing prende le mosse, seppur in modo implicito, da alcuni passi dell’opera di Winckelmann che avevano accennato al tema della morte. Nella Storia dell’arte nell’antichità8, pubblicata a Dresda nel 1764, Winckelmann si era impegnato a esaltare le doti del popolo greco rispetto alle qualità degli altri – Egizi, Fenici, Persiani ed Etruschi – e a mostrare la positiva influenza che essi avevano esercitato sui Romani, loro conquistatori nel I secolo a.C. con le guerre mitridatiche. A proposito dei riti funerari greci, l’accento di lode si fa particolarmente intenso, soprattutto per sottolineare il contrasto tra il carattere bellicoso degli Etruschi (di cui ai tempi di Winckelmann poco o niente si sapeva) e quello pacifico e sobrio dei Greci, sostenuto con opinabile parzialità di vedute: «Riguardo al carattere degli Etruschi, si potrebbero poi trarre conclusioni dai sanguinosi combattimenti, in occasione di cerimonie funebri e nei teatri, che erano abituali presso di loro e il cui uso venne poi introdotto anche presso i Romani; tali combattimenti erano una cosa abominevole secondo i buoni costumi dei Greci. Anche in tempi più recenti furono inventate per la prima volta in Toscana le autoflagellazioni. Per questo si vedono rappresentati generalmente sulle urne funerarie etrusche combattimenti sanguinosi per i loro morti, quali mai si verificarono tra i Greci. Le urne funerarie romane, essendo per la maggior parte opera di artisti greci, recano invece immagini gradevoli: in genere sono favole che si riferiscono alla vita umana, amabili rappresentazioni della morte, come quella su numerose urne, di Endimione dormiente, e poi le Naiadi che rapiscono Illo, oppure danze delle Baccanti, e nozze, come il bel8 J.J. Winckelmann, Geschichte der Kunst des Altertums, Dresden, Walther, 1764; per l’edizione italiana cfr. J.J. Winckelmann, Storia dell’arte nell’antichità, trad. it. di M.L. Pampaloni, con uno scritto di E. Pontiggia, Milano, SE, 1990.

Psiche e la piramide

61

l’imeneo di Peleo e Teti, che si trova nella Villa Albani. Scipione Africano volle che nella sua tomba si libasse e i Romani avevano l’uso di danzare davanti alla salma»9. Nella Descrizione delle pietre intagliate del fu Barone di Stosch10 del 1760 Winckelmann aveva individuato vari pezzi della collezione di pietre incise che recavano l’immagine di un giovinetto con la fiaccola rovesciata (tra le altre, la n. 798), riconoscendovi ora un’allegoria della Morte (appunto la n. 798), ora quella del Sonno (n. 834). In entrambi i casi, però, il precursore dell’archeologia moderna definiva amour il soggetto, convinto della valenza erotica dell’immagine e del messaggio sereno sottinteso dell’artista. Ancora, nel meno noto Trattato sull’allegoria, particolarmente per l’arte11 del 1766, Winckelmann registra: «Il Sonno è simboleggiato mediante una figura che giace fra le braccia di Morfeo: così dorme Endimione, l’amato di Diana, sul monte Latmo, sopra due urne sepolcrali del Campidoglio [...]. Il Sonno è rappresentato anche in figura di un genio giovane, il quale si appoggia ad una fiaccola rovesciata, come si vede colla iscrizione somno, in una pietra sepolcrale del Palazzo Albani, accanto a sua sorella, la morte, per parlare con Omero; e così rappresentati veggonsi questi due geni in un sepolcro del Museo Clementino a Roma»12. Fin dall’inizio, come si è visto, Winckelmann era stato molto esplicito sul fatto che gli antichi sceglievano per i bassorilievi funerari simboli lieti, che era quanto avevano già rilevato soprattutto il Fabretti e il Montfaucon13, e che se molti di questi sarcofaghi presentavano una standardizzazione dei motivi che risultavano dall’essere prodotti in serie, non pochi di essi, commissionati direttamente all’artista dai 9

Ivi, p. 83 ss. (trad. it. p. 78 ss). J.J. Winckelmann, Description des pierres gravées du feu Baron de Stosch, (1760), Baden-Baden-Straßbourg, Heitz, 1970. 11 J.J. Winckelmann, Versuch einer Allegorie, besonders für die Kunst (1766), Baden-Baden-Straßbourg, Heitz, 1964; per la trad. it. cfr. Saggio sull’Allegoria, particolarmente per l’arte in Id., Opere di G.G. Winckelmann, prima edizione italiana, a cura di C. Fea, Prato, Fratelli Giachetti, 1830-34, vol. VII. 12 Ivi, voll. IV, p. 76 ss. (trad. it., vol. VII, p. 423 ss). 13 Cfr. R. Fabretti, Inscriptionum antiquarum, quae in aedibus paternis osservantur, explicatio et additamentum (una cum aliquot emendationibus Gruterianis), Collectanea antiquitatum in domo Co. Ottavii Archinti, Romae, ex officina D.A. Herculis, 16991702; B. de Montfaucon, L’Antiquité expliquée et representée en figures, 5 voll., Paris, Delaulne, 1719 (seguita da cinque volumi di supplementi, Paris, Delaulne, 1724). 10

62

Lo sguardo reciproco

Fig. 2. N. Poussin, Castore e Polluce, ca. 1630.

familiari, recavano iscrizioni e scene allusive agli eventi più gioiosi della vita del defunto. Intorno al tema della morte si muovono, oltre alle figure dei due giovinetti dolenti appoggiati alla fiaccola rovesciata (fig. 2) (spesso scambiati, come fa notare Lessing riferendosi al gruppo marmoreo di Villa Ludovisi, per Castore e Polluce), anche la dea Diana che spia e bacia nel sonno l’amato Endimione. Psiche, secondo la mitologia classica, a causa della costrizione all’obbedienza nei confronti di Venere, che la manda nell’oltretomba, è tra le figure più comuni dei bassorilievi funerari. In particolare, però, l’accenno alla raffigurazione dell’anima come farfalla (psiché) sarà un elemento importante delle argomentazioni di Lessing a favore della leggiadria della concezione iconografica tanatologica della classicità. Winckelmann interpreta nella raffigurazione dell’anima come farfalla un’allusione diretta alla teoria di Platone sull’immortalità dell’anima e cita una «pasta antica del Museo Stoschiano [in cui l’anima è] indicata col mezzo di una farfalla seduta sopra un

Psiche e la piramide

63

Fig. 3. Platone o altro filosofo col simbolo dell’immortalità dell’anima.

teschio, sul quale un filosofo seduto sta riflettendo»14 (fig. 3). Lessing in Come gli antichi raffiguravano la morte mette da parte l’atteggiamento dell’antiquario e del filologo e prende le mosse da una posizione più speculativa per la quale si chiede: «perché negli antichi la bellezza è stata la legge fondamentale delle arti figurative?» Così prende spunto dalla premessa di Anne-Claude Philippe, conte di Caylus, al suo trattato sulla storia e sull’arte15, pubblicato nella traduzione tedesca di Mausel nel 1769, per schierarsi contro di lui, quando questi, riferendosi alla morte di Sarpedonte16 dice che difficilmente la morte avrebbe potuto avere gli stessi connotati del Sonno, in quanto oggetto di raccapriccio per gli antichi. Riconoscendo nell’antichista Klotz un alleato di Caylus, Lessing lo attacca per la sua teoria sull’apprezzamento e uso dello scheletro come soggetto iconografico della classicità. Klotz si era 14

J.J. Winckelmann, Versuch einer Allegorie, cit., p. 77 (trad. it., vol. VII, p. 426). G.E. Lessing, Schriften II, cit., p.174 (trad. it. p. 73). 16 Sarpedonte, figlio di Giove e di Europa, fratello di Minosse, abbandonò Creta e si recò in Licia da dove corse in aiuto di Troia contro i Greci; Patroclo lo uccise in battaglia. 15

64

Lo sguardo reciproco

appellato nella propria opera, Sull’utilità e l’uso delle antiche pietre incise e sulle loro copie (1768), all’esempio di un’urna cineraria conservata nella galleria ducale di Firenze, la pietra incisa raffigurante uno scheletro citata e illustrata da Buonarroti nelle Osservazioni sopra alcuni frammenti di vasi antichi (1716) e l’esempio n. 998 della Dattiloteca di Lippert17. Esaminiamo, allora, i postulati principali della posizione di Lessing in polemica con Klotz e successivamente alcuni momenti dell’argomentazione: gli scheletri fanno parte dell’iconologia degli Antichi, ma non coincidono necessariamente con la rappresentazione della Morte come divinità (Thanatos); su questo punto possiamo concentrare anche l’altra osservazione, che completa la prima, cioè che la divinità della morte non era pensata in forma di macabre ossa umane; le figure più comuni per indicare la morte sono giovani genii che si appoggiano ad una fiaccola rovesciata e spenta, tenendo per lo più una gamba accavallata sull’altra. I genii possono essere uno o due, Morte da sola oppure Sonno e Morte insieme. In ogni caso, non sono da intendersi come amorini. Lessing, appellandosi ora a testimonianze di autori contemporanei, ora a classici come Pausania ed elencando un gran numero di bassorilievi conservati nei musei e nelle ville italiane, dà conto della coincidenza dell’immagine della morte con il quieto riposo, lungi da ogni terribile incubo legato al trapasso. Proprio la religione e la cultura della classicità suggerivano un rapporto non traumatico con il mondo dell’oltretomba ed investivano nell’arte funeraria le energie positive dei buoni auspici con cui i parenti accompagnavano il defunto: «Così dorme la presunta Cleopatra del Belvedere [Ariadne nella galleria delle statue del Museo Vaticano a Roma]; così dorme la ninfa collocata su un antico monumento, secondo la lezione del Boissard; così dorme, o vuole addormentarsi appunto dolcemente l’ermafrodito del Dioscuride»18. Come si è poi rilevato, sia la ninfa che l’ermafrodito sono opere

17 Ph. D. Lippert (1702-1785) fu, a partire dal 1764, professore di arte antica presso l’Accademia di Dresda e collezionista di gemme. La sua collezione fu molto d’aiuto a quanti, nel Settecento, non avevano la possibilità di andare sul luogo in cui erano ospitate sculture greche per contemplarle di persona. 18 G.E. Lessing, Schriften II, cit., p. 184 (trad. it. cit., p. 37). J.J. Boissard (15281602) è l’autore di Romanae urbis topographia et antiquitates (1597-1602).

Psiche e la piramide

65

molto più recenti di quanto Lessing sapesse. Se è vero che Lessing finisce col vedere Sonno e Morte raffigurati dappertutto, anche sul monumento funebre di Amempto, che si trova oggi al Louvre e che reca in realtà l’immagine di due centauri musici montati da due amorini che a loro volta suonano, è altrettanto vero che egli riesce a presentare un’ipotesi convincente, che cioè questa simbologia avrebbe avuto lo scopo di rendere immediatamente riconoscibile l’allusione alla morte da parte degli Antichi. Urbanitas e laetitia sono espressioni di un codice del rituale funerario che esorcizza gli oscuri fantasmi dell’ignoto. Lessing, con quel suo tipico gusto retorico che è già figurativo, e con quella messe di dati iconografici cui abbiamo potuto solo accennare, ha creato il “caratteristico” della morte computando l’incidenza numerica di soggetti ricorrenti su sarcofaghi, stele e monumenti funerarii. Con questo non sono negati né la sporadica presenza di scheletri nell’iconografia antica, né l’elemento orrifico che i poeti introducono per parlare dell’aldilà, come ben si vede nella Tebaide di Stazio, in cui si legge: «Stant Furiae circum, variaeque ex ordine Mortes» (VIII, 24). La poesia, però, come già rilevava Lessing nel Laocoonte, dispone di strumenti descrittivi che la scultura non può utilizzare, e non va comunque dimenticato il momento pedagogico-didattico della lezione artistica sulla morte difeso da Greci e Romani, che aveva funzione edificante e si appellava all’ideale della bellezza. Ludwig Uhlig, che ha studiato a fondo il Lessing interprete della classicità, espone la ragione ultima di Come gli Antichi raffiguravano la morte: «La morte naturale sopraggiunge, dopo una strenua lotta mortale, come sonno liberatorio. Lo scheletro, a cui si riduce il cadavere, è solo la morta materia che non ha alcun rapporto con l’Io sensibile dell’uomo vivo»19. Resta comunque il fatto che, pur non esistendo il concetto di “peccato” nel mondo pagano, anche gli antichi distinguevano tra anime dei defunti buoni e anime dei defunti cattivi; le prime diventavano lares, divinità protettrici della famiglia, le altre, larvae che, come scrive Lessing «erravano senza meta, fuggiasche per la terra, oggetto di vane paure per i pii, di 19 L. Uhlig, Wie die Alten den Tod gebildet. Das Bild des Todesgenius bei Winckelmann, Lessing und Herder, in «Lessing Yearbook» 6 (1974), pp. 13-35. L. Uhlig ha scritto anche un lavoro più esteso sull’argomento, dal titolo Der Todesgenius in der deutschen Literatur. Von Winckelmann bis Th. Mann, Tübingen, Niemeyer, 1975.

Lo sguardo reciproco

66

tremendi spaventi per gli iniqui»20. Questa duplicità dell’immagine della morte, che si caratterizza come morte naturale e come violenta, o comunque colpevole, occuperà in modo vario l’immaginario dell’uomo del secondo Settecento, a mezza strada tra Classicismo e Romanticismo il quale, come giustamente ha osservato Frederick Antal21, non può vivere le due dimensioni culturali in modo separato. Füssli, con il suo Sarpedonte morente che viene portato in cielo tra le braccia di Sonno e Morte, sceglie un tema classico e lo inserisce in un clima decisamente preromantico, guadagnandosi il titolo di massimo artista del «leggendario moderno». Nella letteratura tedesca, invece, uno tra gli esempi più efficaci dell’ambiguità fra gusto illuminista e pensiero romantico può essere ritenuto il testo, che non a caso ha incerta connotazione di genere, le Veglie di Bonaventura, pubblicate anonimamente nel 1804. Sebbene la percezione “gotica” della morte prevalga ormai decisamente su quella mutuata dall’esempio classico, aumenta visibilmente la varietà di metafore scelte per connotarla. L’autore avvia un’operazione di sistematica distruzione di tutti i luoghi comuni del “cimiterialismo” romantico, polemizzando con quel “cattivo gusto” che Lessing aveva così ben sintetizzato nello “scheletro” di Klotz: «Amico dell’arte, a che punto siamo arrivati, se osiamo frugare in questi sepolcri divini e riportare alla luce questi morti immortali mentre sappiamo che presso i Romani veniva punito duramente anche il semplice danneggiamento di tombe umane? Naturalmente solo alcuni uomini d’ingegno considerano questi defunti alla stregua di idoli, e così l’arte si è ridotta a una setta pagana in qualche modo insinuatasi nella vita moderna, che continua a venerarli e a supplicarli: ma che possono mai queste preci, o amico dell’arte?»22. 20

G.E. Lessing, Schriften II, cit., p. 212 (trad. it. p. 68). F. Antal, Classicism and Romanticism, London, Routledge, 1966 (trad. it. di R.J. Wilcock, Classicismo e Romanticismo, Torino, Einaudi, 1975). 22 A. Klingemann, Nachtwachen von Bonaventura, a cura di J. Schillemeit, Frankfurt a. M., Insel Verlag, 1974; delle Veglie esistono due edizioni italiane: una a cura di P. Collini, Veglie, Venezia, Marsilio, 1990, che preferisce non optare per uno dei presunti autori dell’anonimo libretto, e una di E. Agazzi, Veglie di Bonaventura, Parma, Guanda, 1989, in cui si accetta invece l’attribuzione dell’opera a Klingemann (1773-1831), direttore teatrale noto per la sua prima rappresentazione del Faust (1829). La citazione è tratta da questa edizione a p. 114. 21

Psiche e la piramide

67

Che l’affinamento del gusto estetico volto al bello dell’arte classica abbia dovuto soccombere all’onda d’urto dello Sturm und Drang e all’orrore della Rivoluzione Francese è testimoniato dal fatto che il protagonista delle Veglie, Kreuzgang, non riesce a pensare alla mutilazione delle statue raffiguranti gli dei come al risultato delle offese del tempo, che ha deturpato la bellezza delle forme, ma come a una vera e propia mostruosità di corpi incompleti che si oppongono alla sublimazione dell’immaginario collettivo: «Alla luce ingannevole delle torce, quell’intero Olimpo silenzioso parve prendere vita intorno a me; l’irascibile Giove cercava di levarsi dal trono, il grave Apollo mise mano al suo arco e alla lira melodiosa, i draghi si inalberarono poderosi intorno al combattivo Laocoonte e ai suoi figli morenti, Prometeo con i suoi moncherini dava vita agli uomini, Niobe, muta, proteggeva il più giovane dei suoi figli dai dardi del sole che sfolgoravano, le Muse, senza mani, senza braccia, senza labbra, si agitavano confusamente come per cantare e suonare antichi canti caduti nell’oblio [...] Solo sullo sfondo, non illuminato, stava un coro di Furie, rigido e pietrificato, e fissava cupo e spaventoso, il tumulto»23. La battaglia della cultura del XVIII secolo per la conquista dell’ideale della bellezza si frantuma alla soglia della colpa umana percepita dal cristianesimo romantico, per aver sfidato Dio con i lumi della ragione; lo scetticismo e il razionalismo di Faust risospingono Elena e i personaggi dei poemi omerici, oggetto di ispirazione poetica e artistica, nelle tenebre dell’ade, negando all’eroe la partecipazione all’immortalità estetica. Per tornare nel vivo del XVIII secolo dobbiamo ricordare che le impressioni di viaggio dei primi studiosi che si avventurarono in Italia e, in taluni casi, in Grecia, e che erano ormai svincolate dalla prospettiva del Grand Tour, echeggiano dell’emozione che per primo Winckelmann aveva provato recandosi a Roma nel 1755. Johann Gottfried Herder, ad esempio, che nella prima delle sue Selve critiche del 1769 aveva criticato l’interpretazione della morte esposta da Lessing a proposito del Laocoonte, compie un viaggio in Italia tra il 1788 e il 1789, rivivendo in gran parte le suggestioni paesaggistiche ed artistiche di Goethe, che lo aveva preceduto nella penisola nel 1786. Subito all’inizio del viaggio, giungendo ai pri23

Ivi, p. 116.

68

Lo sguardo reciproco

mi di settembre del 1788 a Verona, Herder osserva: «Tra le antiche pietre, che per la maggior parte sono pietre sepolcrali e sarcofaghi, mi sovvenne a tal punto il pensiero della nostra felicità e del nostro comune lavoro, che immergendomi nella riflessione, mi sciolsi quasi in lacrime. Stavano lì quieti i soggetti degli epigrammi greci, le mani che si stringevano in segno di fedeltà anche sulla pietra sepolcrale, e i bimbi fra loro. Qui un gruppo familiare intorno al tavolo, laggiù persone in riposo e quattro o cinque volte il nostro amico Sonno con la fiaccola rovesciata»24. Herder, sebbene memore degli itinerari percorsi da precedenti viaggiatori, avvolge la descrizione odeporica di accenti di forte intimità, che devono toccare nel più profondo del cuore la moglie lontana e purtuttavia attenta alle esperienze dello scrittore. Come dice la dedica, «Bloß für Dich geschrieben» (Scritto solo per te), le annotazioni di Herder non sono pensate per la pubblicazione e per questo risultano ancora più raffinati i commenti personali che egli aggiunge via via che si fa più saldo il rapporto con la terra e l’arte italiana. Herder vorrebbe poter saper disegnare, la scrittura è insufficiente a riferire le magnifiche linee e le forme delle statue delle divinità e degli eroi conservate nei Musei Vaticani, perché solo la diretta contemplazione può aiutare l’estimatore del bello artistico nell’instaurare un rapporto di pace e serenità con il mondo25. Non si può stare in Italia senza sentirsi parte di quel “divino” che la storia ha risparmiato nello scorrere dei secoli: «In realtà, amata Karoline, gli dei e i genii incedono e giocano con il nostro destino, sebbene tutto dipenda, in ultima istanza, dalle cause, dalla ragione e dall’irrazionalità degli uomini»26. Herder è teso a serbare nel ricordo la “parte migliore” di ciò che ha visto, sia esso sacro o profano. Oltre all’epistolario con Karoline, abbiamo anche frammenti del diario di viaggio, tra cui delle note sul Palazzo Rondanini, in 24 J.G. Herder, Briefe und Aufzeichnungen Über eine Reise nach Italien 1788/1789, Berlin, Rütten & Loening, 1980, p. 53. Vale la pena di ricordare qui che Herder scrisse un discorso commemorativo in onore di Winckelmann dal titolo Denkmal Johann Winckelmanns. Demselben vor der Fürstl. Akademie der Alterthümer zu Cassel bei Anlaß der ersten Preisgabe im Jahre 1777 errichtet, che in realtà fu pubblicato solo nel 1842; ne apparve un’edizione ridotta sul Teutscher Merkur dell’autunno 1781 insieme ai necrologi per Lessing e Sulzer. 25 J.G. Herder, Briefe und Aufzeichnungen. Über eine Reise nach Italien 1788/ 1789, cit., p. 113. 26 Ivi, p. 178.

Psiche e la piramide

69

cui vengono descritti alcuni pezzi della collezione. Tra gli altri: «Un Romano disteso con il busto della moglie sul grembo e le gambe incrociate l’una sull’altra. Un monumento funerario; [...] Un grande bassorilievo: Peleo va da Teti e Amore la disvela. Sull’altro lato Diana fa visita a Endimione con presente Morfeo che ha ali di farfalla. Dev’essere presente nei Monumenti di Winckelmann [...]. Un bel bassorilievo che raffigura un morente; un altro lo sorregge. Nei Monumenti di Winckelmann»27. Ma è sicuramente nel Museo Capitolino che Herder può trovare il maggior numero di soggetti funerari e scoprire nuovi simboli iconografici. Nel sarcofago numerato come primo, Herder osserva che la figura giacente, probabilmente il morto, tiene nella mano destra un papavero. Questo fiore è presumibilmente indicativo di una dolce dipartita dalla vita, senza traumi né dolori. Il defunto è assistito da un genio che imbecca un uccello con dei chicchi d’uva, un motivo ripreso da uno degli Epigrammi veneziani di Goethe, composto dallo scrittore nel 1790 e intitolato Sarcofagi ed urne, in cui si dice: «Sarcofagi ed urne ornava il pagano con espressioni di vita: intorno danzano fauni, e col coro delle baccanti./ Variopinta teoria formano; il capripede trae, enfiando le guance, un suono roco e selvaggio dell’echeggiante corno./ Cembali e tamburi rullano; il marmo lo vediamo e l’udiamo. Uccelli svolazzanti, come piace al vostro becco la frutta squisita! Né lo strepito vi spaventa, e ancora meno spaventa Amore, il quale della fiaccola allora comincia a godere, che si trova nel variopinto tumulto./ Così sulla morte l’opulenza domina e le ceneri entro l’arca, tranquillo recinto, ancora sembrano goder della vita./ Così, dunque, in un lontano futuro, attorno al sarcofago del poeta questo volume si stenda, ch’egli ornò riccamente di vita»28. Poiché il bassorilievo del sarcofago è costruito per riquadri, avviene che alcune figure caratteristiche diano luogo ad un vero e proprio rito narrativo: da qui derivano al soggetto, ancorché funebre, vita e letizia. Amore e Psiche, Psiche che regge un fuso e fila, Minerva che tiene in mano una farfalla, il 27 Ivi, p. 373. Herder si riferisce a J.J. Winckelmann, Monumenti antichi inediti (1760), Baden-Baden-Straßbourg, Heitz, 1967; nell’edizione di C. Fea i Monumenti costituiscono i voll. IV-V delle Opere. 28 J.W. Goethe, Sämtliche Gedichte, München, DTV, 1961, vol. IV, p. 170 (trad. it. e cura di G. Manacorda, Le elegie, le epistole e gli epigrammi veneziani, Firenze, Sansoni, 1982, pp. 141-143).

70

Lo sguardo reciproco

genio con la fiaccola rovesciata che si raccolgono intorno alla storia del destino del morto e della migrazione della sua anima, accolta in cielo da Mercurio, sono le figure descritte da Herder. Herder osserva che le figure, per quanto accalcate, seguono una regola di forte simmetria, creando con la continuità dei loro gesti una specie di poema scultoreo. Per il sarcofago n. 2 Herder annota che sopra la testa di Amore compare la scritta genius, così che questa osservazione sembra rendere superflua la distinzione che Lessing aveva insistentemente sottolineato tra Amore e il Genio, considerando poco opportuno l’apparire di una presenza ludica nel contesto della tematica funeraria. L’insistenza con cui Amore appare come soggetto di un monumento sepolcrale, però, può essere giustificato tanto dal rapporto mitologico con Psiche29, quanto per l’allusione alla relazione di Diana con Eros, suo allievo e complice negli intrighi divini. Come osserva Claude Calame: «Gli Amori ed Afrodite [...] quando intervengono con violenza, privano gli esseri umani del piacere, gettando la donna in un letto estraneo, turbando il talamo degli sposi, privandoli di patria e di focolare, precipitandoli nella disperazione e nella morte»30. Come si vede, la presenza di Amore nella cornice della commemorazione funebre ha tutt’altro che una funzione eterogenea rispetto all’evento luttuoso; probabilmente, però, il fatto che spesso un amorino regga sopra la testa di Diana un velo, allude alla volontà dei parenti del defunto di propiziare la fedeltà tra uomo e donna anche dopo la morte. Naturalmente oggi possediamo molti più elementi per valutare il pieno significato dei bassorilievi che decoravano i sarcofaghi. Fino a Winckelmann, invece, come ha giustamente osservato Nikolaus Himmelmann31, alle rappresentazioni dei monumenti funerari 29 Sullo specifico tema del culto delle anime e della fede degli antichi Greci nell’immortalità si segnala di E. Rohde, Die Religion der Griechen: Rede zum Geburtsfeste des hochstseligen, Heidelberg, Univ.-Buchdruckerei Horning, 1895 e Psiche. Seelenkult und Unsterblichkeitsglaube der Griechen, 1898 Heidelberg (1893; trad. it. di E. Codignola e A. Oberdorfer, Psiche: culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci, 2 voll., Bari, Laterza, 1914-16), che per quanto datato, offre interessanti spunti sull’argomento alla luce di un confronto con i poemi omerici. 30 C. Calame, I Greci e l’eros. Simboli, pratiche e luoghi, Bari, Laterza, 1992, p. 116. 31 N. Himmelmann, Winckelmanns Hermeneutik, in «Abhandlungen der Geistesund Sozialwissenschaftlichen Klasse», n. 12, 1971, Mainz, Verlag der Akademie der Wissenschaften und der Literatur, pp. 3-22.

Psiche e la piramide

71

Fig. 4. Gruppo di Amori allegorico.

veniva per lo più attribuita l’appartenenza a episodi della leggenda romana o della storia romana. Winckelmann fu il primo a supporre, invece, che sarcofaghi e steli funerarie mostrassero scene tratte dalla mitologia greca e che queste fossero saldamente legate a testi di poeti greci. Winckelmann, come faranno poi i suoi successori, non circoscrive l’analisi ermeneutica alle figure principali, ma cerca di capire la funzionalità del quadro nel suo insieme. Questo vale ad esempio per una coppa d’argento di proprietà della famiglia Corsini, in quanto Winckelmann rifiuta l’ipotesi che le scene riportatevi in rilievo concernano la raffigurazione dell’oracolo della Fortuna di Anzio, suggerendo trattarsi dell’episodio del giudizio di Oreste all’aeropago tratto dalle Eumenidi di Eschilo. Winckelmann non si era reso conto, però, del fatto che la maggior parte dei bassorilievi erano di epoca imperiale e che derivavano i loro soggetti da scritti storico-artistici di età ellenistica. Per questo Himmelmann può dire: «Significativo per la concezione assoluta dell’arte di Winckelmann è il fatto che egli non si ponesse quesiti sull’utilizzo dei monumenti e sul senso delle immagini che ne poteva

Lo sguardo reciproco

72

derivare. Normalmente guarda alla rappresentazione come a qualcosa di assoluto, indipendente dal medium e cerca comunque il suo senso sul terreno dell’allegoria»32. Himmelmann cita ad esempio l’errore compiuto da Winckelmann nell’interpretazione della gemma raffigurante due amorini: uno porta la fiaccola rivolta verso l’alto, mentre sostiene un putto dall’aria implorante, l’altro si allontana con una lanterna (fig. 4). Questa scena costituirebbe l’allegoria della passione amorosa portata alla disperazione e consolata da una luce di speranza. In realtà, la rappresentazione era collegata ai misteri dionisiaci ed era frequente su sarcofaghi romani con funzione escatologica (non a caso, molti sarcofaghi di fanciulli recano questo motivo, rendendo l’ipotesi attendibile). Comunque, ai viaggiatori tedeschi del secondo Settecento rimane l’opzione di seguire le indicazioni di Winckelmann per la scelta dei monumenti da visitare e i suoi itinerari artistico-concettuali, che fanno da Baedeker agli stranieri. Sia che le impressioni sul paesaggio e sull’arte che Winckelmann trasmette soprattutto attraverso il carteggio con i suoi amici e benefattori restino a livello di superficiale “rovinismo”, seguendo un immaginario ancora tipico della pittura di Poussin, sia che le emozioni dell’antiquario vengano introiettate più profondamente in una dimensione storico-critica, come nel caso di Goethe, Winckelmann è sempre presente alla mente dei visitatori d’Oltralpe. Goethe fa costante riferimento alla Storia dell’arte dell’antiquario, attribuendo all’autore il merito del proprio interesse per le antichità greco-romane: «Egli giunse qui trentun anni fa nella medesima stagione, povero mentecatto ancor peggio di me, altrettanto pieno di coscienziosità tedesca per la profonda sicurezza che viene dalle cose antiche e dall’arte. Con quanto coraggio e tenacia seppe aprirsi la giusta strada! E quanto valore ha per me il ricordo di quest’uomo in questo luogo!»33. Non è, però, solo il Winckelmann a guidare l’itinerario storico-artistico di Goethe. Appena giunto a Verona, memore di aver letto la Verona illustrata di Scipione Maffei (1732)34, lo scrittore si reca al 32 33

Ivi, p. 14. J.W. Goethe, Viaggio in Italia, a cura di E. Castellani, Milano, Mondadori, 1983,

p. 164. 34 S. Maffei, Verona illustrata, con giunte, note e correzioni inedite dell’autore, 4 voll., Milano, Società Tipografica dei Classici, 1826.

Psiche e la piramide

73

Museo lapidario fondato dal geniale studioso tra il 1714 e il 1715. Qui, con tono di intenso raccoglimento, Goethe ammira le scene di vita privata raffigurate sugli antichi sarcofaghi e ha modo di sottolineare che non vi è apparente frattura tra vita e morte, non v’è pathos religioso a deturpare l’iconografia di un evento che vien fatto dipendere dalla “Necessità”. Lo scrittore si trova così a commentare nel Viaggio in Italia: «La brezza che spira dalle tombe degli antichi arriva carica di profumi soavi, quasi avesse sorvolato una collina piena di rose. I monumenti sepolcrali sono dolci e commoventi, e rappresentano sempre la vita. Qui un uomo, accanto a sua moglie, si affaccia da una nicchia come se fosse alla finestra. Là un padre e una madre in piedi, col figlio in mezzo a loro, si guardano l’un l’altro con naturalezza indicibile. Qui una coppia si porge le mani, mentre là un padre, steso sul divano, sembra intrattenersi con la famiglia. La realtà immediata di queste pietre mi ha commosso all’estremo. Sono opere della decadenza, ma parlano un linguaggio semplice, naturale e universale»35. Dunque Goethe è convinto del fatto che la spinta a operare nel mondo, la tensione verso il conseguimento di una completezza nella vita costituisca il naturale e necessario presupposto all’eternità. La felicità non è il corredo con cui ci si presenta a Dio nel momento del trapasso, ma lo è piuttosto l’operosità con cui si è scelto di connotare la propria esistenza individuale. È anche per questo che la sepoltura di un qualsiasi cittadino del mondo antico può essere apprezzata in tutta la sua grandezza etica, bastante il fatto che il semplice rigore nel vivere quotidiano lo abbia accompagnato con coerenza fino alla morte. Non può sfuggire del resto l’accento polemico con cui Goethe pensa per contrasto alle scene di martirio spesso riprese dall’iconografia cristiana e condite di retorica e a cui risponde con il mito greco di Ifigenia che notoriamente viene sottratta al sacrificio finale dalla benevolenza divina. Anche in vecchiaia, però, quando si sentirà più vicino al cattolicesimo, Goethe continuerà a sostenere il principio della quotidiana e dimessa operosità a garanzia di una gratificazione oltremondana. Basta citare per questo la sua lettera ad Eckermann del settembre 1829: «Non dubito affatto della nostra eternità, poiché la natura non può fare a meno dell’entelecheia; ma 35

J.W. Goethe, Viaggio in Italia, cit., pp. 41-42.

Lo sguardo reciproco

74

noi non siamo tutti immortali allo stesso modo e per potersi manifestare in futuro come grande entelecheia, bisogna anche esserlo»36. A proposito del mutato atteggiamento nei confronti delle sepolture dopo il 1760, Philippe Ariès ricorda: «Si rimproverava alla Chiesa d’aver fatto tutto per l’anima e niente per il corpo, di prendere i soldi delle messe e di disinteressarsi delle tombe. Si ricordava l’esempio degli antichi, la loro pietà per i morti, testimoniata dai resti delle loro tombe, dall’eloquenza della loro epigrafia funeraria [...]. Si va dunque a visitare la tomba di una persona cara allo stesso modo in cui si va da un parente o in casa propria, piena di ricordi. Il ricordo conferisce al morto una specie di immortalità, che in principio era estranea al cristianesimo»37. Per Ariès questo nuovo atteggiamento ritualistico può essere indubbiamente attribuito al fatto che proprio in questo periodo, soprattutto tra le famiglie borghesi dotate di maggiori mezzi economici, viene inaugurato l’uso della “sepoltura di famiglia”, attuato per mezzo di cappelle e di loculi raggruppati. Per tutto il Medioevo, al contrario, le sepolture venivano effettuate individualmente, anche in virtù della convinzione che l’anima non dovesse attendere il Giudizio Finale per essere giudicata, ma venisse rimessa alla volontà divina fin dall’istante del decesso. La morte di un individuo, nel Settecento, rende partecipi tutti i congiunti della sorte dell’estinto, non più affidata esclusivamente alle preghiere in chiesa, ma anche alla pietà di coloro i quali gli furono più vicini in vita. L’archeologia moderna, che in questi anni tra il 1750 e il 1800 è ai suoi albori, assegna alla visita dei luoghi in uso per i culti funerari il senso di un intimo incontro con quei defunti che, commemorati dai loro cari molti secoli fa, possono essere ancora ricordati per la semplicità degli affetti, cui rinviano i gesti e i riti quotidiani scolpiti nella pietra. Nello stesso anno in cui Goethe è in viaggio in Italia, un altro grande tedesco assapora la gioia di visitare quei luoghi «cari agli dei». Si tratta di Karl Philipp Moritz che, in seguito alla propria esperienza nella penisola, dedica gran parte delle riflessioni sul mondo mediterraneo alla mitologia greca, cioè la Mitologia o poe36

J.P. Eckermann, Gespräche mit Goethe, Wiesbaden, Brockhaus, 1959, p. 282. Ph. Ariès, Essais sur l’histoire de la mort en Occident du Moyen Âge à nos jours, cit., (trad. it. cit., pp. 60-61). 37

Psiche e la piramide

75

mi mitologici degli Antichi, pubblicata nel 1791. Moritz non si limita a seguire idealmente il dibattito di Winckelmann, Lessing, Goethe e Herder e di quanti mostrino sensibilità nei confronti del bello in arte, ma si ispira proprio ai climi e ai luoghi dell’Ifigenia goethiana e alla poesia della grecità di Schiller, come dello stesso Goethe. La quiete, la grandezza e la purezza dell’arte plastica greca e greco-romana, vengono restituite da Moritz attraverso riflessioni che proclamano la necessità che l’oggetto artistico sia compiuto in se stesso, potendo esso garantire solo in questo caso il godimento estetico. Moritz non è in grado di riflettere su arte e natura se non a partire dalla prospettiva del bello. Persino la morte viene giustificata in quest’ottica e assume i contorni del divino Apollo. Apollo è una divinità dalla doppia valenza, positiva o negativa, a seconda che si cimenti con la lira o che scocchi frecce letali per l’uomo: «Non è forse attraverso la perenne distruzione dell’individuo che il genere umano si mantiene nell’eterna giovinezza e nell’eterna bellezza? E non è la bellezza e la gioventù personificata in un Dio dall’immaginazione più pura, quella che uccide gli uomini con un colpo leggero, o irrompe adirata con arco e faretra, terribile e sinistra, come terrore nella notte, tende l’arco d’argento e lancia nel campo dei Greci le frecce pestifere?»38. Gli dei, però, secondo Moritz, subirebbero come gli uomini il ricatto dell’ignoto, sarebbero a loro volta soggetti al timore delle tenebre. Nella Mitologia si parla ad un certo punto, infatti, della Notte e del Fato che «dominano sopra gli dei e sopra gli uomini»39 e Moritz rinvia al passo di Pausania, in cui questi avrebbe descritto un sarcofago di Cipselo sul quale doveva essere scolpita una Notte in sembianze femminili, che teneva sotto il manto due fanciulli: uno nero e dormiente e l’altro bianco, forse anch’esso immerso nel sonno. Tutte e tre le figure stanno con le gambe incrociate con chiaro riferimento simbolico, soprattutto la Notte, che si trova in una posizione di evidente costrizione40. I due fanciulli, poi, recano 38 K. Ph. Moritz, Über die bildende Nachahmung des Schönen, in Id., Werke, a cura di H. Günther, Frankfurt a.M., Insel Verlag, 1981, vol. II, pp. 576-577 (trad. it. in Id., Scritti di Estetica, a cura di P. D’Angelo, Palermo, Aesthetica edizioni, 1990, p. 89). 39 K. Ph. Moritz, Götterlehre oder Mythologische Dichtungen der Alten, in Id., Werke, cit., p. 633. 40 Ivi, cfr. p. 634, figura in alto.

76

Lo sguardo reciproco

Fig. 5. A.J. Carstens, La Notte e il Fato, 1791.

ciascuno il segno distintivo della morte: uno la fiaccola rovesciata, l’altro uno stelo di papavero. Più complessa è, invece, la raffigurazione della gemma, descritta in seguito, che porta incisa la figura di Morfeo giovane al cospetto della Notte, la quale porge un papavero; dietro di lei, un vecchio inchinato e probabilmente raffigurante il fratello di Morfeo, che insieme con il dio dei sogni e quello del sonno raccoglie steli di papavero, volutamente seminati per terra dalla Notte (fig. 5). Le incisioni più arcaiche, dunque, sottolineano il timore di fronte all’ignoto, il quale abitualmente viene incarnato da figure in atto di svolgere rituali allusivi a morte ed oblio. Moritz

Psiche e la piramide

77

espone un vero e proprio catalogo di creature delle tenebre, includendovi le Parche, le Furie e le Cure. Neppure Zeus, osserva Moritz, può opporsi al Fato, quando l’amato figlio Sarpedonte, recatosi a Troia, deve perire per mano di Patroclo. Comunque, anche per Moritz le fonti iconografiche più preziose per la raffigurazione della morte sono le pietre incise del barone von Stosch. Il rapporto dello scrittore con il mito greco antico resta, in un certo senso, di distanza, mentre più coinvolgente è senz’altro il rituale religioso cristiano che lo travolge emotivamente fin dai primi giorni del suo soggiorno in Italia. Nel novembre, quando giunge a Roma, le chiese sono addobbate con teschi e tibie, a commemorare i defunti. Il sinistro quadro del rito funebre viene completato dai toni grigi del cielo e dai lamenti dei medicanti che affollano le gradinate delle chiese, un tormentoso scenario di cui anche Seume lascerà annotazioni nella Passeggiata a Siracusa nell’anno 180241. Il pensiero delle povere anime della gente umile, affidate alle preghiere espiatorie dei fedeli, angoscia Moritz. Nel Foro romano, invece, lo scrittore sembra ritrovare equilibrio e serenità; le rovine invitano ad un laico raccoglimento, a distanza dal clamore della folla. Il mondo cristiano e il mondo pagano, messi l’uno di fronte all’altro o costretti a coesistere in Roma vengono infine sopraffatti dalla Notte, una Notte gotica, accompagnata dal suono sinistro della campanella di un convento... Siamo già ad un passo dalle suggestioni romantiche delle Veglie di Bonaventura. Fra tutte le testimonianze di viaggio di questo periodo, quella di un nobile tedesco, il conte Friedrich Leopold zu Stolberg42, ci dà le maggiori emozioni nel contesto di una appassionata riflessione sui riti funerari antichi. Una sua riflessione smitizza completamente l’idilliaca opinione che la cultura illuministica aveva sviluppato sulla “morte bella” degli antichi: «Se Lessing avesse visto più 41 Dello Spaziergang nach Syrakus im Jahre 1802 di Seume esistono quattro edizioni ottocentesche del 1803, 1805, 1811, 1817-19. Si fa qui riferimento a una delle edizioni più ampie delle opere, J.G. Seume, Werke in zwei Bänden, 2 voll., a cura e con un’introduzione di A. Klingenberg, K.H. Klingenberg, Weimar, Volksverlag, 19623, che contiene un estratto dello Spaziergang. Per l’edizione italiana, cfr. J.G. Seume, L’Italia a piedi 1802, a cura di A. Romagnoli e G. Garbin, introduzione di A. Romagnoli, note di F. Marenco, Milano, Longanesi, 1973. 42 F.L. Graf zu Stolberg, Reise in Deutschland, der Schweiz, Italien und Sicilien in den Jahren 1791-92, 4 voll., Hamburg, Perthes und Besser, 1822.

Lo sguardo reciproco

78

opere dell’arte antica, non avrebbe mai supposto che i Greci avessero solo rappresentato il bello. È vero che anche una Furia può avere una sua spaventosa bellezza, così come le Grazie possono dotarsi forse di terribilità [...]. Alcune delle loro Furie sono, però, dotate di disgustosa terribilità»43. Stolberg, diversamente dagli altri viaggiatori in visita in Italia, i quali per lo più circoscrivevano le loro riflessioni sulla morte in occasione delle visite ai musei o ai luoghi di devozione, sente aleggiare costantemente in Roma la presenza di quei defunti che, nell’onore o nell’ignominia, sono stati affidati alla memoria dei loro eredi spirituali. Una considerazione sull’arte plastica e sulla volontà dell’artista antico di immortalare l’uomo del suo tempo merita particolare attenzione: «Un certo qual carattere di durezza, di mancanza di partecipazione connota la maggior parte delle teste delle statue antiche, sia degli dei che degli uomini, sia di sesso maschile che femminile. A condizione che non mi sbagli, così ebbe il suo effetto la rappresentazione della transitorietà e della morte, che si protende ancora sulla fantasia dell’artista pagano [Tanelegéos thanatoìo]; ebbe vario effetto, a seconda che il suo carattere si piegasse a questa impressione o cercasse di resistervi. Agì a partire dal cuore, attraverso il braccio e lo scalpello [...] Sui tratti stessi dell’eterna giovinezza divina aleggia, come una nube oscura, il pensiero della morte»44. Non si può avere un quadro più efficace del rispetto e dell’entusiasmo con cui l’uomo del Settecento coltivò il proprio interesse per il mondo antico, di quello che ci fornisce Giovanni Paolo Panini nella tela intitolata Galleria immaginaria con le vedute di Roma antica del 1756, cioè dello stesso anno in cui furono pubblicati i Pensieri sull’imitazione di Winckelmann. Una composizione, questa, che pur nella ricchezza dei soggetti che vi vengono raffigurati (tele di celebri monumenti romani, sarcofaghi, lastre incise, statue e vasi ornati di bassorilievi) non trascura il clima di quiete melanconia di cui il XVIII secolo, con la nostalgia per l’antica grandezza imperiale romana e per quella repubblicana ateniese, è pervaso. I monumenti romani, strappati al loro contesto paesaggistico e trasformati in quadri, sono incorniciati e costretti alla legge della bidimensionalità. Sempre in quanto quadri, riempiono ogni 43 44

Ivi, vol. II, p. 249. Ivi, vol. I, pp. 310 ss.

Psiche e la piramide

79

spazio di questa galleria senza concedere neanche un centimetro alla parete bianca, ricordando che la passione antiquaria è anche moda e mania collezionistica. Abbiamo già accennato ad un altro viaggiatore che nel 1802 compì un viaggio da Lipsia a Siracusa, Johann Gottfried Seume. Nel suo resoconto, Seume sembra badare molto più alle abitudini sociali e ai costumi delle persone del paese straniero che alle bellezze artistiche che l’Italia può offrirgli. A Roma, però, incontrando altri studiosi, Seume ha occasione di esprimere la propria ammirazione per il Canova, che già da un ventennio circa risiede nella capitale: «Ho appena incontrato Canova e i nostri amici, Reinhart e Fernow. Si ottiene sempre un effetto positivo, quando persone che hanno interessi in comune si incontrano; ma quando costoro si ritrovano sul suolo classico, il sentimento consegue una magia propria di bella umanità. Canova ha scolpito una seconda Ebe per i Parigini, che tuttavia, per le modifiche che egli vi ha apportato e che certamente considera miglioramenti, mi piace di gran lunga meno di quella veneziana [...]. Ha scolpito anche due combattenti, seguendo la lezione di Pausania che, dopo lo sfinimento dell’indecisione, si colpiscono l’un l’altro in modo letale. Uno dei due ha appena ricevuto il colpo più terribile sulla fronte e con rabbia spaventosa, strappa d’un tratto all’avversario le viscere tenendo il pugno chiuso. Hanno valore di modelli per l’anatomia e l’espressione. Dal momento che non hanno alcun stretto rapporto con l’umanità più pura e bella, non potrebbero impegnarmi più di tanto: infatti, terrore e rabbia sono due passioni da cui prendo volentieri distanza»45. Seume è ancora condizionato dalla edle Einfalt (nobile semplicità) winckelmanniana; tuttavia, il suo giudizio riflette l’esigenza di un itinerario culturale libero, sia per la scelta dei luoghi da visitare sia per la partecipazione al dibattito storico-artistico, che lo vede indifferente al cliché del “bello ideale”. Non a caso, Seume dedica 45 J.G. Seume, Werke, cit., vol. I, pp. 289-290. J.C. Reinhart (1761-1847), allievo di Oeser a Lipsia e di Klengel a Dresda, entrò in rapporti di amicizia con Schiller. Il suo stile realistico subì l’influenza di J. A. Koch e quando fu a Roma la sua pittura si connotò per un tono eroico-classicista. Scrisse anche saggi e poesie, permeate di forti accenti satirici. K.L. Fernow (1763-1808) visse tra il 1794 e il 1797 a Roma, dove divenne amico di Carstens e dove tenne lezioni sull’arte influenzate dalle teorie di Kant. Nel 1802 divenne professore di filosofia a Jena e nel 1804 bibliotecario della Granduchessa Amalia a Weimar.

Lo sguardo reciproco

80

pochissime pagine a Roma, perché, come ha rilevato Marlis Ingenmey nel suo ricco studio L’Illuminismo pessimistico di J.G. Seume: «coscientemente o no, anzi, a volte contro le sue stesse intenzioni, Seume ha rifiutato almeno tre aspetti del gusto corrente. Oltre a quello dello stile coltivato, ha emarginato quello artistico-figurativo dell’Italia: gli fa omaggio quando può, lo evita dichiaratamente, tagliandosi fuori con umile coraggio dall’immensa tradizione eruditofigurativa delle Bildungsreisen, viaggi di formazione in Italia, da quello del padre di Goethe ai viaggi immaginari dei romantici»46. Nondimeno, la breve, ma preziosa testimonianza della visita a Roma dello scrittore fornisce un’idea alquanto chiara dello spartiacque artistico che contraddistingue la prima fase operativa di Canova da quella definita da Hugh Honour47 della “restaurazione”. Prima di questa riforma abbiamo opere come il rappresentativo gruppo dei «due combattenti», nell’espressione di Seume, quale non venne mai ultimata in quella versione «crudamente realistica» che lo fece inorridire. Forse l’autore si limitò a sentirne parlare, ma non lo vide direttamente e dal momento che Pausania ne dà una minuziosa descrizione, poté solo riferirne. Così Pausania: «Allora, dunque, Creugante diede a Demosseno una percossa in testa. Ed egli comandò a Creugante che tenesse ben alta la mano, così tenendola levata, egli percosse con le dita intirizzite così fittamente in un fianco, che sì per la durezza e l’acutezza delle unghie, come per la gran forza che mise a percuoterlo, gli cacciò dentro la mano, con la quale straziandogli le interiora, gliele trasse di corpo»48. Se Canova aveva prediletto, negli anni giovanili, la rappresentazione di soggetti mitologici colti «in atteggiamento di drammatica animazione»49, come osserva Giuseppe Pavanello pensando soprattutto alla scena di separazione tra Orfeo ed Euridice e ad 46

M. Ingenmey, L’Illuminismo pessimistico di J. G. Seume, Venezia, Marsilio, 1978,

p. 196. 47 H. Honour, Neo-classicism, Harmondsworth, Penguin, 1968. Per l’edizione italiana, trad. di R. Federici, Neoclassicismo, Torino, Einaudi, 19932. 48 Questo episodio è menzionato in Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova del conte Leopoldo Cicognara per servire di continuazione alle opere di Winckelmann e di D’Agincourt, Prato, F.lli Giachetti, 1823-242, vol. VII, p. 176. 49 G. Pavanello, Antonio Canovae Veneto..., in Antonio Canova, catalogo della Mostra tenutasi presso la Gipsoteca del Museo Correr di Venezia, 22 marzo-30 settembre 1992, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 45-50.

Psiche e la piramide

81

Apollo, che trasforma Dafne in alloro, con l’ultimo tentativo di esprimere un grado elevato di pathos nel combattimento di Teseo con il Minotauro, Canova sceglierà temi di tono più pacatamente drammatico; si pensi, ad esempio, alla realizzazione di monumenti funerari per la Chiesa, per i regnanti e per nobili famiglie. Honour coglie con sintetica precisione la metamorfosi artistica di Canova: «Educato nella Venezia rococò, ben presto raggiunse un grado di virtuosismo tecnico, di eleganza e raffinatezza naturalistiche che incantarono i suoi compatrioti sulla laguna. Ma egli non mostrò tendenze ribelli se non dopo il 1780, quando si recò a Roma ed entrò in una cerchia internazionale di artisti e teorici (in particolare Gavin Hamilton); rinunciò allora agli allori che già aveva conquistato, per dedicarsi alla creazione di un nuovo stile, rivoluzionario nella sua severità ed intransigente nella sua idealistica purezza. Il suo Teseo e il Minotauro morto ne fu il risultato. In un primo momento egli aveva pensato di rappresentare le due figure in combattimento ma, dietro suggerimento di Hamilton, decise di rappresentare il momento di calma dopo la vittoria. Si è tentati di vedere nel gruppo il simbolo della sua stessa conversione stilistica»50. Fu per questo suo voto ad un nuovo stile più pacato e sommesso, che rispondeva idealmente all’invito di Winckelmann a superare gli eccessi passionali di Bernini, che Canova realizzò i famosi monumenti funebri di Clemente XIV (1783-87) e di Clemente XIII (1783-92). Canova rappresenta in una composizione a schema triangolare il Papa assiso sul trono pontificio in atteggiamento di comando, allusivo tanto di un estremo, autorevole saluto, quanto di una garanzia di protezione dei fedeli anche dopo la dipartita da questo mondo. A mitigare il tono enfatico ed austero della figura maschile, due donne ai lati del sarcofago, la Temperanza e la Mansuetudine, simboleggiano le virtù dello scomparso e l’universale rimpianto del popolo della Chiesa. Il drappeggio delle vesti contribuisce a conferire compostezza ai personaggi femminili, che con gesti più morbidi e curvilinei e lo sguardo abbassato, esprimono la rassegnazione di fronte alla volontà divina (fig. 6). Si è notato che per la statua del papa, Canova ha seguito in parte ancora la lezione barocca (aveva presente lo schema fissato da Bernini per il 50

H. Honour, Neo-classicism, cit. (trad. it. cit., p. 25).

82

Lo sguardo reciproco

Fig. 6. A. Canova, Monumento per Papa Clemente XIV, 1783-87.

monumento di Urbano VII in S. Pietro); le due Virtù sono invece inequivocabilmente di gusto classico ed è stato Honour a sottolineare la somiglianza fra le figure femminili che David ha posto a lato della scena del Giuramento degli Orazi (1784-85), contemporaneo all’opera del Canova. Il monumento funebre a Clemente XIII segue lo stesso schema di quello precedente, anche se la figura del pontefice ha un atteggiamento più raccolto, essendo egli ritratto in preghiera dopo che la mitra è stata deposta in segno di venerazione e di umiltà. Si comprende bene, pertanto, che le due statue della Temperanza e della Mansuetudine inserite nel precedente gruppo plastico non avrebbero avuto più alcun posto qui; l’effetto d’insieme sarebbe stato troppo dimesso. Vi fu un tedesco, però, che osò mettersi contro corrente e sferrare un attacco diretto all’opera canoviana; la sua azione ebbe l’effetto di suscitare l’indignazione di molti studiosi anche a distanza di tempo e di sottolineare una nobiltà ancora

Psiche e la piramide

83

maggiore dello scultore, il quale reagì pacatamente alla provocazione. Il Cicognara, che ci ha lasciato una preziosa Storia della Scultura in sette volumi, ebbe modo di osservare a proposito di questo personaggio: «pare che l’invidia una volta tentasse di morderlo; e un libretto andò circolando nel 1806 stampato in Zurigo, di cui diede immediatamente gli estratti un giornale enciclopedico di Napoli: ma il dente trovò una cute troppo dura e non poté altrimenti ferirla, cadendo nell’oscurità il libro e l’autore»51. Oggetto della sua polemica era Carl Ludwig Fernow52, che nel 1806 aveva scritto un lungo trattato sull’opera del Canova, accusandolo di una certa inespressività formale. Le statue degli dèi e degli eroi, osserva il detrattore di Canova, devono essere “carattere” e Canova avrebbe invece conferito una certa sdegnosa distanza alle espressioni dei personaggi, rendendoli freddi. Ma è proprio vero che con questo apparente distacco il Canova si allontanava dalla scuola dell’autentico classicismo? Quanto, invece, egli si trovasse sulla linea di Winckelmann e dei suoi discepoli è ben rilevato da Eugenio Battisti, il quale scrive: «Per il Winckelmann l’eroismo è come una scintilla nascosta nella selce, la quale senza scemare né la freddezza né la trasparenza, vi dorme dentro tranquilla, finché una forza esterna la sveglia». Gli eroi neoclassici non hanno dunque slanci di misericordia e di pietà. La loro grandezza d’animo «consiste nel durare inalterabilmente tanto nell’amore verso gli amici, come nell’odio verso i nemici». Eccoli dunque impietriti, come statue nelle pitture, lucidi, definiti, senza ombre [...]. Tuttavia l’eroico neoclassico non doveva essere solo ritegno (invece che pietismo e predicazione), i teorici volevano trovarvi odio, urlo, potenza [...]. Il neoclassicismo non fu tuttavia, uno stile reazionario. Anche rispetto al Rinascimento esso si affaccia con una chiarissima pretesa di novità, o almeno, con maggior coscienza e conoscenza. Però, al confronto, appare poverissimo di miti»53. Dunque, il viaggiatore studioso proveniente dal Nord percepirebbe, nel contatto con la scultura di ispirazione greco-romana l’ormai avvenuta emancipazione dal 51

L. Cicognara, Storia della scultura, cit., vol. VII, p. 99. C.L. Fernow fu tra l’altro autore delle Römische Studien, 3 voll., Zürich, Gessner, 1806, in cui si esplicita la polemica con Canova. 53 E. Battisti, Ragioni politiche e religiose della «querelle» fra neoclassici e romantici, in Arte Neoclassica, Atti del Convegno del 12-14 ottobre 1957, «Civiltà veneziana di Studi», 17 (1964), pp. 39-66, citaz., p. 52. 52

84

Lo sguardo reciproco

Fig. 7. A. Canova, Monumento funebre per Maria Cristina d’Austria, 1805.

modello antico. I Tedeschi, oltretutto, sentono il divario ideologico tra la loro visione protestante del mondo, estranea all’encomio nei confronti di una Chiesa romana tutta pompa e autorità, e la sfera culturale del cattolico Canova che pur essendo interamente «piena di dèi», si integra perfettamente con la religione ufficiale. Il Cicognara, dal canto suo, come è denunciato esplicitamente anche dal titolo della sua opera, attribuisce ai tedeschi una funzione fondativa nella critica all’arte scultorea e quindi il merito di aver favorito il dibattito sull’antichità senza irrigidirsi sulle posizioni di una querelle des anciens et des modernes. Descrivendo il monumento funebre a Maria Cristina d’Austria (fig. 7) commenta: «Il gruppo del cieco che sta sul davanti sui primi gradini del mausoleo è un modello di bellezza affatto nuova, che nelle arti antiche non trovò certamente il suo tipo; e il rappresentare un cieco, vecchio e povero con tanta verità congiunta a tutta quella nobiltà che non lo toglie dallo stato della miseria, e rispetta ad un tempo i pre-

Psiche e la piramide

85

cetti di Lessing che prescrivono il rigore di ogni convenienza nelle arti, fu opera di altissimo merito per lo scultore»54. È sufficiente una sola frase di Cicognara per capire come egli condividesse molto di più le scelte artistiche del Canova della “restaurazione” rispetto a quelle della sua prima fase, più umorali e drammatiche. Se per Lessing il sentimento del terrore aveva posto la tragedia in una posizione di grande precarietà rispetto al gusto estetico moderno, e se solo il Mitleid poteva produrre una reale partecipazione del pubblico sia nel campo del teatro, che in quello dell’arte, Cicognara utilizza questi argomenti per esaltare la sobrietà del Canova “tardo” e per scagliare uno strale contro il Maestro del “sublime” settecentesco, Edmund Burke: «Il sublime dell’arte certamente non esprimesi, come vorrebbe esclusivamente il Burk, col terrore, ma indubitabilmente la strada più sicura di attingerlo è il patetico; e nessun’opera di Canova essendo più patetica di questa [del Bassorilievo sepolcrale della marchesa di S. Cruz], partecipa maggiormente alla prerogativa della sublimità»55. La perdita del carattere dello stile canoviano denunciata, invece, da Fernow, coincide in un certo senso con il passaggio dal “naiv” al “sentimentale” su cui aveva scritto Schiller circa un decennio prima. Valga per questo l’esempio del gruppo di Amore e Psiche (fig. 8), di cui Fernow esprime questo giudizio: «La composizione può essere definita artificiosa e ricercata, piuttosto che bella. L’idea è stata presa in prestito dal noto dipinto antico di Ercolano, dove un fauno si avvicina di soppiatto ad una ninfa e la bacia dall’alto. Allo stesso modo anche Amore si è avvicinato alla Psiche giacente, si piega sulle ginocchia sopra di lei e la bacia dall’alto. Psiche, dal canto suo afferra con le braccia tese all’insù il capo dell’amato. Così l’ingenuo scherzo cui si adattavano queste posizioni, è trasformato in una delicata sentimentalità cui esse non corrispondono»56. Nel saggio Sullo scultore Canova e le sue opere di cui stiamo parlando, Fernow dedica una decina di pagine alla descrizione e al commento del monumento funebre dedicato alla Granduchessa Maria Cristina d’Austria, moglie del Duca Alberto von Sachsen54 55 56

L. Cicognara, Storia della scultura, cit., p. 193. Ivi, p. 203. L. Fernow, Römische Studien, cit., vol. I, p. 89.

Lo sguardo reciproco

86

Fig. 8. A. Canova, Gruppo di Amore e Psiche, ca. 1787.

Teschen. Pur ammettendo l’originalità della rappresentazione, costituita da tre gruppi di figure allegoriche che si volgono al monumento a forma di piramide, Fernow lamenta la scarsa incisività nell’allusione di Canova alla virtù che voleva rappresentare. Il rinvio a valori e a significati astratti è ammissibile per Fernow solo nella misura in cui esista un’immediata chiave d’accesso per interpretarli. È quanto teorizzava Lessing in Come gli antichi raffiguravano la morte. Qui, però, si fa ancora più analitica la domanda sulla rappresentabilità delle esequie funebri e su quale sia la tecnica migliore per attuarla. Fernow osserva: «Così ci chiederemmo se la rappresentazione di un corteo funebre con il suo seguito sia un soggetto conveniente per la scultura a tutto tondo o se essa non si confaccia di più al bassorilievo, alla pittura o al teatro. Inoltre ci dovremmo domandare se sia conveniente scegliere come tema per il monumento del defunto le sue proprie esequie funebri»57. E osserva ancora: «Nel caso dei Moderni, i monumenti funebri si trovano raramente nello stesso rapporto favorevole con i meriti per cui vengono costruiti, in cui si trovavano per gli Antichi, presso i 57

Ivi, p. 174.

Psiche e la piramide

87

quali erano le azioni e le benemerenze nei confronti dello Stato e non il ceto e le ricchezze a far avanzare diritti sui monumenti. Oltretutto, tanto i monumenti quanto le virtù cui essi erano dedicati erano palesi, e l’artista non aveva bisogno di cercare materiale per la rappresentazione di azioni memorabili. L’artista moderno, invece, si troverebbe spesso in imbarazzo nel rinvenire materia per la sua opera, dopo avere avuto la commissione di allestire un monumento. Infatti, nessuno gliene offre, a meno che, in mancanza di quelle vere virtù che si esprimono nell’azione, non potesse attingere a quelle allegoriche; invisibili nella vita, si lasciano comodamente ascrivere sulla tomba di un morto»58. Fernow, evidentemente disturbato dal grande fasto dei mausolei e dei monumenti funebri che sembrano voler nascondere l’effettivo valore dell’intervento sociale di coloro i quali vengono così riccamente commemorati (nel frattempo anche la Rivoluzione Francese aveva portato con sé il gusto della grandiosità con i cenotafi di Boulleé) auspica un medium artistico più confacente ad un’epoca in cui non esistono più eroi, ma solo benefattori. Gli anni nei quali Canova opera a Roma coincidono con quelli degli «editti napoleonici», tra i quali uno dei più noti è la riforma sui criteri di sepoltura che, per decreto dell’imperatore, dovrà avvenire fuori dalla cerchia delle mura cittadine e comunque non più a ridosso dei luoghi di culto (cappelle, chiese, cattedrali etc.). Del resto, anche i decreti giuseppini avevano già provveduto su suolo germanico, tra il 1772 e il 1784, a proibire l’inumazione di nobili e vescovi all’interno degli edifici di preghiera, facendo riferimento soprattutto a misure igienico-sanitarie. Questo fatto determinò, naturalmente, una maggiore valorizzazione del contesto paesaggistico in cui avveniva la sepoltura e un più sentito rapporto con la natura per contrasto o in sintonia con il pensiero della morte. D’altro lato, l’allontanamento dei defunti dai luoghi di preghiera finì per conferire alla morte un significato di definitivo distacco dal mondo dei vivi, con una conseguente demonizzazione dell’evento che, nel Settecento, si era tentato il più possibile di sdrammatizzare. Tra l’altro, ammirando l’opera artistica funeraria, l’uomo del XVIII secolo era riuscito ad esorcizzare per quanto possibile l’inquietante spettro dell’ignoto aldilà, accompagnando alla riflessione 58

Ivi, p. 175 ss.

Lo sguardo reciproco

88

sui cari scomparsi la sapienza degli scrittori greci e, soprattutto, latini, che si erano soffermati a parlarne. Si pensi all’espressione di Seneca «Non mortem timemus, sed cogitationem mortis»; oppure a quella di Orazio, «Mors ultima linea rerum». Con il riferimento alla sepoltura di Dafne, descritta da Virgilio nel sereno mondo dell’arcadia, nasce sul progetto del quadro di Poussin il manifesto culturale di tutto il tardo Settecento tedesco: «Et in Arcadia ego», eletto da Goethe come titolo originario di quello che sarebbe divenuto il Viaggio in Italia. Tuttavia, se la cultura religiosa di area cattolica ammetteva l’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio al momento della morte, ben altra fu la realtà delle cose: per quanti, tedeschi in visita a Roma e per la maggioranza di confessione protestante, avrebbero desiderato una sepoltura a fianco dei loro fratelli cattolici, fu escogitata una sorta di esilio post-mortem. Fu così che vennero riservati ai protestanti i prati circostanti la piramide di Cestio dove, all’ombra di un paganesimo senza tempo, avrebbero potuto trovare il conforto del riposo eterno59. I prati intorno alla piramide erano stati comunque, dal Medioevo in poi, luoghi di divertimento, quando non venivano utilizzati come pascolo per il bestiame. Forse solo con papa Benedetto XIV ne fu autorizzata la destinazione per la sepoltura, sebbene nulla fosse intrapreso per impedire che il bestiame continuasse a pascolarvi (fig. 9). Il fatto che la Chiesa non desse, fino almeno alla metà dell’Ottocento, l’autorizzazione a usare croci o, in generale, simboli specificatamente cattolici, per definire il luogo della sepoltura, si sposa perfettamente con l’ideale antico della morte che i tedeschi avevano coltivato nel gusto classicista. Le loro tombe sono ornate di bassorilievi e medaglioni raffiguranti genii alati e personaggi mitologici; al posto dei piccoli altari, si trovano stele e are per onorare la memoria dei defunti. August von Goethe, figlio del poeta, Wilhelm Waiblinger, lo scrittore svevo, morti entrambi nel 1830, riposano qui. E ancora: il pittore Jakob Asmus Carstens (morto nel 1798), l’ottimo scultore Alexander Trippel (morto nel 1795) e i figli di Wilhelm von Humboldt. In questo clima di perplessi rapporti con la Chiesa di Roma, intorno alla quale, seppure a debita distanza, si riunirono i più gran59

Cfr. Fr. Noack, Das deutsche Rom, Roma, Verlag von Frank, 1912, pp. 40-49.

Psiche e la piramide

89

Fig. 9. G.P. Pannini, La Piramide di Caio, ca. 1739.

di artisti tedeschi del tempo, Goethe celebrò dalla sua Weimar la memoria di Winckelmann, con parole che lasciano trasparire una sua certa amarezza al ricordo della “tormentata” conversione di Winckelmann al cattolicesimo appena giunto nella capitale: «Se è vero che si celebra solennemente il più degno dei concittadini soltanto una volta, in occasione del suo funerale, pur essendosi costui prodigato per il Paese e per la città, in grande e in piccolo, ci sono, al contrario, persone che, in quanto hanno meriti istituzionali, ottengono di venire commemorate annualmente, di modo che sia esaltato il piacere perenne della loro bontà»60. Agli occhi di Goethe, la morte di Winckelmann non può essere salutata, così come vuole il sentimento dell’uomo del Classicismo, con un addio. Essa è, infatti, tutt’al più una “dipartita”: «Nella memoria dei posteri gode del vantaggio di apparire come eternamente alacre e vigoroso; nelle stesse sembianze, infatti, con cui un uomo lascia la terra, si aggira poi tra le ombre, ed è per 60 Il saggio goethiano, compreso nel volume Winckelmann und sein Jahrhundert, Tübingen, Cotta, 1805, viene qui citato nell’edizione delle Schriften zur Kunst, vol. XIII della Gedenkausgabe (GA), a cura di Ch. Beutler, Zurigo, Artemis, 1954, pp. 407-450; per la trad. it. si veda J.W. Goethe, Vita di J.J. Winckelmann, a cura di E. Agazzi, con uno scritto di G. Cusatelli, Bergamo, Moretti & Vitali, 1992, citaz., p. 29.

Lo sguardo reciproco

90

questo che Achille resta sempre per noi un giovinetto in perpetuo slancio»61 (fig. 10).

Fig. 10. G. Bracci, Mausoleo in onore di Winckelmann, 1770.

Morte demonizzata, morte idealizzata: in questo modo il mondo classico del paganesimo e il mondo romantico della redenzione cristiana si fanno sempre più vicini. In quegli anni a cavallo tra i due secoli, in cui la cultura tedesca vive un fermento del tutto nuovo con l’apparizione della rivista Athenäum62 dei fratelli Schlegel, il grande vate romantico della vita e della morte, Novalis, consegna 61

J.W. Goethe, Vita di J.J. Winckelmann, cit., p. 64. Athenäum. Eine Zeitschrift von August Wilhelm Schlegel und Friedrich Schlegel, Berlin, Vieweg, 1798, Frölich 1799-1800. Sull’epoca dell’Athenäum e sui suoi illustri collaboratori, cfr. lo studio di E. Behler, Frühromantik, Berlin, de Gruyter, 1992. Per la traduzione italiana si veda ora Athenaeum 1798-1800, a cura di G. Cusatelli, Milano, Rizzoli, 2000. 62

Psiche e la piramide

91

alla cultura europea i suoi Inni alla Notte63. L’occasione del capolavoro fu la scomparsa dell’amata, Sophie von Kühn, che spira a soli quindici anni. Come si evince dalle annotazioni del diario di Novalis su quei difficili giorni del maggio 1797, il rapporto con l’oggetto della sua passione viene risolto eroticamente grazie ad una costante visita alla tomba; là egli confessa di aver provato «selvaggi momenti di gioia»64. Attraverso questo rito matura via via in Novalis un irrefrenabile desiderio di ricongiungersi con la cara sposa in un mondo in cui il sacrificio della vita stessa possa avere il significato di una purificazione universale nell’amore. Questa tensione dei sensi e dell’anima, che potrebbe risolversi da un momento all’altro in follia, sfocia invece nell’impareggiabile vibrazione poetica degli Inni. Dalle evidenti contrapposizioni (giorno e notte) e implicazioni (amore e morte), il poema si dipana in una sorta di viaggio attraverso «una sfumata pluralità di percorsi, collegamenti, rispondenze»65. L’osservazione di Luciano Zagari su questo magico mutamento di paradigma abbraccia d’un sol colpo tutto il clima culturale dell’epoca: «Solo su questa nuova base si compirà lo sviluppo che assicura agli Inni alla Notte una posizione poetica inconfondibile nell’ambito di quella grande polemica settecentesca che ha investito la densità antropologica della dimensione della civiltà. Questa polemica ha dato luogo a una ripresa alluvionale dei grandi miti culturali, solari e notturni, in cui si sono cristallizzati opposti approcci al grande tema della civiltà da accettare o da respingere, in connessione o in contrapposizione con l’affiorare incalzante della nuova soggettività o addirittura interiorità»66. Se il tema degli Inni alla Notte è lo spegnersi del giorno e l’accendersi delle luci segrete e interiori della notte, all’interno di questo graduale passaggio vengono attratti tutti i simboli di quell’ico63 Degli Hymnen an die Nacht esiste un’agile edizione nei Werke in einem Band, a cura di H.-J. Mähl e R. Samuel, München, Hanser, 1981; per i versi tradotti si fa riferimento alla trad. it. curata da G. Cusatelli, Novalis, Opere, Milano, Guanda, 1982 (trad. degli Inni a cura di A. Lumelli). 64 Novalis, Schriften, 4 voll. a cura di P. Kluckhohn, Leipzig, 1929, Bibliogr. Inst. vol. IV, p. 386. Ne dà conto, tra gli altri, G. Schulz nella sua monografia Novalis, Reinbek bei Hamburg, Rowohlt, 1987, p. 69. 65 L. Zagari, «Quando sarà l’ultimo mattino». Gli «Inni alla Notte» di Novalis e la strutturazione romantica del nulla, in Aa.Vv., Problemi del Romanticismo, Atti del Convegno, Taranto, 21-23 aprile 1983, Milano, Shakespeare & Co., 1983, vol. II, p. 422. 66 Ibidem.

Lo sguardo reciproco

92

nografia che accompagnò la cultura tedesca del XVIII secolo, carica di nostalgia per il mondo antico. La sera, che cala come un manto sul mondo, si accompagna al Sonno, «perché c’è sonno nelle cose/nel mandorlo e nel suo unguento profondo/sonno buio nel papavero»67, mentre alla Notte, che avvolge Sonno e Morte come nel medaglione di Carstens, il poeta si rivolge con queste parole: «Sotto il tuo mantello/ un invisibile richiamo/ mi prende adesso con forza che cos’è/ che come di unguento/ sento sparsa la tua mano/ affondo nel tuo fascio di papaveri»68. L’Antico arretra però davanti alla tomba di Sophie, dove passato e presente sprofondano nel «grande nido della notte» fino alla luce della resurrezione in Cristo; chi ha veduto questo nido, come Orfeo destinato a morire, non potrà più soddisfare Apollo con il proprio canto: «Ma l’uomo ebbe coraggio/ nel suo cuore accalorato, per amore/ anche l’orrenda larva fece bella,/ un dolce giovinetto che si china/ spegne la lampada e dorme»69.

67 68 69

Novalis, Opere, cit., II Inno, p. 13. Ivi, I Inno, p. 9. Ivi, V Inno, p. 31.

AMARE UNA STATUA LA MODELLA E L’AMANTE NELLA LETTERATURA EUROPEA Paolo D’Angelo

Accadde, si voleva dire, che nello stesso tempo o in un altro punto del sistema […] lei fosse rimasta immobile come una statua, promettendo e permettendo con ciò tutto e niente, con induzione in, e con divieto di, tentazione. Non fu detto che cosa ne seguisse in particolare, ma in ogni caso improbabilmente qualcosa di apprezzabile dall’esterno. Anzi si fece intendere che era quasi impossibile stabilire, a quelle condizioni di sensualità eidetica, se si producesse o no un reale godimento, sempre difficilmente distinguibile dai godimenti immaginari. E. Garroni

Pigmalione rovesciato La letteratura è piena di storie di amori per le statue. Di statue viventi, di statue animate, di statue innamorate, di statue amate. Di convitati di pietra, di Veneri risvegliate, di scultori vittime del fascino delle opere da loro stessi prodotte. Di ritratti dallo sguardo stregato, parlanti, che invecchiano come persone reali o che sottraggono la vita ai loro modelli. Di personaggi che si innamorano di uno sguardo, di un sorriso, di un volto che hanno visto effigiato in qualche morta immagine e che non hanno pace finché non li ritrovano in un corpo vivente, o viceversa di artisti sventurati che li imprigionano nel marmo o nella tela e che solo così li sanno amare. Ci sono nuclei tematici, in proposito, che sembrano possedere una sorprendente capacità di scavalcare ogni confine temporale, linguistico e geografico, e di durare per secoli e millenni attraverso infinite variazioni. Uno, naturalmente, è il mito di Pigmalione, lo scultore che si innamora della statua bellissima da lui scolpita ed ottiene in dono

94

Lo sguardo reciproco

dagli dèi che essa si animi e diventi una fanciulla in carne ed ossa; un mito che dall’archetipo ovidiano, nel decimo libro delle Metamorfosi, trapassa nell’ultima parte del Romanzo della rosa e poi va incontro a riprese innumerevoli, in particolare nella letteratura del diciottesimo secolo1. Un altro è la storia della statua antica di Venere della quale un giovane si innamora dopo averle posto al dito, per gioco, il proprio anello nuziale: una storia che si ritrova, probabilmente per la prima volta, in una cronaca inglese del dodicesimo secolo, Le gesta del re degli Angli di William of Malmesbury, e che poi transita in tutte le letterature occidentali, dal Diavolo innamorato di Cazotte al racconto di Achim von Arnim Raffaello e le sue vicine, dalla Venere d’Ille di Merimée al racconto di James L’ultimo dei Valerii, fino alle riprese novecentesche di D’Annunzio, nella Pisanella, o di Anthony Burgess, in Santa Venere2. E c’è, quasi ad ammonire che la creazione dell’immagine dipinta o scolpita cela sempre un innamoramento per la persona ritratta, il mito raccontato da Plinio sull’origine della pittura e della scultura: la storia di Butade di Sicione, il vasaio che scorge il profilo che la figlia ha tracciato con un pezzo di carbone sul muro, seguendo i contorni dell’ombra del suo amato, prossimo a partire, e ne trae l’idea di forgiare in creta la medesima immagine. Così 1 Sul mito di Pigmalione si dovrà vedere l’ampio inventario di H. Dörrie, Pygmalion. Ein Impuls Ovids und seine Wirkungen bis in die Gegenwart, Opladen, Westdeutscher, 1974, da integrare con H. Schlüter, Das Pygmalion-Symbol bei Rousseau, Hamann, Schiller. Drei Studien zur Geistesgeschichte der Goethezeit, Zürich, Juris, 1968 e J.L. Carr, Pygmalion and the Philosophes. The animated statue in Eighteenth Century France, in «The Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», n. 23 (1960), pp. 339 ss.; lo studio, in italiano, di G. Rosati, Narciso e Pigmalione, Firenze, Sansoni, 1983, è opera di un latinista, che si concentra quasi eclusivamente sulla trattazione ovidiana dei due miti; sul tema di Pigmalione e in generale dell’amore per l’immagine nella cultura medioevale ha ottime osservazioni G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1977, soprattutto la parte terza. Da ultimo il fondamentale V. Stoichita, L’effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock, Milano, Il Saggiatore, 2006. 2 Un’ampia trattazione del tema dell’“anello di Venere” (la storia del giovane che si innamora di una statua antica alla quale ha per gioco infilato un anello al dito), con molte indicazioni delle sue riprese in letteratura è la voce «Statuenverlobung», in E. Frenzel, Stoffe der Weltliteratur, Stuttgart, Kröner, 1962; si può vedere poi P. Baum, The Young Man Bethroted to a Statue, in «Publications of the Modern Language Association», n. 34 (1919), pp. 523-579.

Amare una statua

95

nascono non solo le due arti, ma anche un topos che andrà incontro ad infinite variazioni, quello dell’effigie come sostituto della persona amata3. Per rifare la storia di ognuno di questi temi non basterebbe un libro voluminoso; di fatto ce ne sono già molti, e alcuni pregevoli, su tali argomenti4. Non seguiremo dunque questa strada. Vorremmo lasciarci alle spalle anche tutte le riprese degli stessi temi o di temi simili nelle letterature dell’età romantica, nelle quali abbondano le passioni per le immagini dipinte o scolpite (dall’Hoffmann degli Elisir del Diavolo allo Heine delle Notti fiorentine) e gli haunted portraits (dal Castello di Otranto di Walpole al Ritratto ovale di Poe), per puntare su di una particolare declinazione del tema del fascino dell’immagine artistica per il suo creatore in alcuni testi tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo scorso. Ci occuperemo più estesamente di tre testi teatrali che presentano alcune notevoli analogie tematiche: Quando noi morti ci destiamo di Ibsen5, la Gioconda di D’Annunzio6 e Diana e la Tuda di Pirandello7. Nel passare dall’uno all’altro di questi testi, dediche3 Per il tema della figlia di Butade e della origine della pittura e della scultura (la cui fonte è in Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 151), soprattutto da un punto di vista iconografico: R. Rosenblum, The Origin of Painting: a Problem in the Iconography of Romantic Classicism, in «The Art Bulletin», n. 39 (1957), e gli Addenda di G. Levitine, sempre in «The Art Bulletin», n. 40 (1958). 4 In generale sui temi relativi alle immagini animate andrà visto Th. Ziolkowski, Disenchanted Images. A Literary Iconology, Princeton, Princeton UP, 1977 (contiene tre capitoli tematici: uno dedicato a «Venus and the Ring», uno a «The haunted Portrait», uno a «The magic Mirror»); D. Freedberg, The Power of Images, Chicago, University of Chicago Press, 1989 (trad. it. di G. Perini, Il potere delle immagini, Torino, Einaudi, 1993), tratta molti temi vicini a quelli da noi toccati, in particolare nel cap. XII, «Arousal by Image». Il volume di Maurizio Bettini, Il ritratto dell’amante, Torino, Einaudi, 1992, si sofferma su molti temi relativi alla passione per l’immagine dipinta o scolpita, e tra di essi anche su quelli di Pigmalione e di Butade. Il testo di Bettini, molto ampio e documentato, è centrato principalmente sulle letterature classiche, ma non manca di interessanti aperture sulle riprese dei temi dell’amore per l’immagine nelle letterature moderne. In più, si tratta di un testo di piacevole lettura, e ricco di segnalazioni su altra letteratura in argomento. 5 Tutte le citazioni da Quando noi morti ci destiamo di Ibsen sono tratte dalla traduzione italiana di L. Ulisse, in H. Ibsen, Tutto il teatro, con introduzione di P. Chiarini, Roma, Newton Compton, 1973. 6 Citiamo da G. D’Annunzio, La Gioconda, introduzione, bibliografia e note di I. Caliaro, Milano, Mondadori, 1990. 7 Citiamo da L. Pirandello, Diana e la Tuda. Sagra del signore della nave, a cura di C. Simioni, Milano, Mondadori, 1980.

96

Lo sguardo reciproco

remo due intermezzi ad altrettanti romanzi, L’opera di Zola8 e Afrodite di Pierre Louÿs9, nei quali vedremo delineati situazioni e problemi sorprendentemente affini10. Ma cosa unisce questi testi e al contempo li distacca abbastanza nettamente dalle precedenti variazioni sul tema? Essenzialmente due circostanze, entrambe significative e tali da configurare una vera e propria autonomia del nuovo nucleo tematico. La prima è il fatto che in tutti questi testi non viene più messo in scena un rapporto a due, tra artista ed immagine, o innamorato ed immagine, ma un rapporto complicato dall’ingresso di un terzo personaggio, la modella che viene rappresentata nella statua. In Ibsen come in D’Annunzio e in Pirandello, come negli altri testi che leggeremo, non abbiamo tanto a che fare con la passione dell’artista per la statua da lui creata, quanto con i riflessi di questo legame sul rapporto che lega l’artista a colei che nella statua è raffigurata, e che ne è stata l’ispiratrice (fig. 1). Queste opere ci riportano ad un mondo di consuetudini artistiche (gli amori tra artisti e modelle, le ore di posa in atelier, una scultura legata alla figura umana e forse irrimediabilmente impregnata di Accademia, una pittura quale ci viene incontro nei quadri di Tommaso Grosso) che oggi è tramontato per sempre: «Il tempo delle modelle negli studi dei pittori – scrive Ceronetti – è remoto come i giardini di Babilonia»11. Di quel mondo, essi sfruttano 8 Citiamo la traduzione italiana di F. Cordelli, E. Zola, L’opera, Milano, Garzanti, 1978, tenendo presente l’edizione francese a cura di A. Erhard, Paris, Garnier-Flammarion, 1974. Per le fonti letterarie di Zola, oltre che per gli altri problemi connessi al romanzo, è da vedere soprattutto P. Brady, L’”Oeuvre” d’Emile Zola: roman sur les arts, manifeste, autobiographie, roman à clef, Ginevra, Droz, 1967. 9 Del romanzo di Pierre Louÿs Aphrodite. Moeurs Antiques esiste una traduzione italiana di L. Marinoni, Milano, Dall’Oglio, 1961, che abbiamo seguito, modificandola tuttavia in più punti, sulla base del testo francese pubblicato da Albin Michel, Parigi, 1986. 10 Le analogie tra Quando noi morti ci destiamo, La Gioconda, e Diana e la Tuda sono state notate molte volte, ma non risulta siano state fatte oggetto di una considerazione specifica e soprattutto allargata ai riscontri tematici nella letteratura coeva. Si può vedere, da ultimo, A. Bisicchia, D’Annunzio e il Teatro, Milano, Mursia, 1991, pp. 4057; I. Caliaro, Introduzione, in G. D’Annunzio, La Gioconda, Milano, Mondadori, 1990; P. Perria, Tra applausi e fischi: “La Gioconda” di Gabriele D’Annunzio, Firenze, Atheneum, 1992. 11 La citazione di Ceronetti sulle modelle negli studi dei pittori è tratta da G. Ceronetti, in La modella elettronica, D.D. Deliri Disarmati, Torino, Einaudi, 1993. Sul tema vedi anche L. Spadanuda, Le modelle di nudo, Roma, Mare Nero, 2001.

Amare una statua

97

Fig. 1. Jean-Léon Gérôme nel suo studio, fotoincisione del 1890 ca.

molto evidentemente l’attrazione che doveva esercitare sul lettore o lo spettatore borghese, messo dinanzi ad una vita irregolare e bohémienne, ma soprattutto ad un rapporto che non può non figurarsi come basato su un erotismo venato di elementi sadici, magari perché ricorda quel che ha letto nella Vita di Cellini («la facevo chiamare, la ritraevo: ognidì le davo trenta soldi; e faccendola stare ignuda, voleva la prima cosa che io li dessi li sua dinari dinnanzi; la seconda voleva molto bene da far colezione; la terza io per vendetta usavo seco, rimproverando a lei e al marito le diverse corna che io gli facevo; la quarta si era che io la facevo stare con gran

98

Lo sguardo reciproco

disagio parecchi e parecchi ore; e stando in questo disagio a lei veniva molto a fastidio, tanto quanto a me dilettava, perché lei era di bellissima forma e mi faceva grandissimo onore»12), o perchè ha sentito raccontare la storia di Filippo Lippi che si innamora di Lucrezia Buti, la religiosa che gli fa da modella, in convento, per un’immagine della Madonna13, o ancora quella di Apelle che si innamora di Campaspe, l’amante di Alessandro Magno, mentre la ritrae14. Ma la sfruttano per illuderla, per rovesciare le aspettative del lettore mettendolo davanti alla situazione inversa rispetto a quella cui egli si aspetta di assistere. È questo il secondo tratto discriminante. In tutti questi testi il rapporto dell’artista con l’opera d’arte è avvertito esplicitamente come estraneo ed opposto al desiderio, in un accoglimento perfino troppo letterale dell’idea moderna del disinteresse come atteggiamento fondamentale della fruizione estetica. Potremmo dire che in tutte le opere di cui ci occuperemo (il caso di D’Annunzio fa in parte, ma solo in parte, eccezione), il vero tema è il trasferirsi dell’atteggiamento dell’artista nei riguardi dell’opera al rapporto reale che lega l’artista alla ispiratrice di essa, alla modella. È una sorta di rovesciamento del mito originario di Pigmalione: se lo scultore di Ovidio era spinto ad implorare che la sua creatura di marmo si animasse e diventasse corpo, qui son piuttosto delle donne in carne ed ossa a diventare agli occhi dell’artista delle statue di marmo. Il legame della immagine con la vita, che tanto peso aveva nelle variazioni precedenti del tema, sembra qui interamente perduto. Ma si tratta, come vedremo, di una apparenza. In realtà esso continua ad agire, neanche troppo sotterraneamente, a riprova del fatto che la storia dei temi letterari non conosce cesure nette, ma piuttosto una storia infinita di riprese e di spostamenti15. È proprio questo secondo punto, quello della trasposizione del rapporto supposto scevro di desiderio che unisce l’artista e l’opera 12 B. Cellini Vita, a cura di E. Camesasca, Milano, Rizzoli, 1985, libro II, cap. XXXIV, p. 482. 13 La storia di Filippo Lippi e di Lucrezia Buti è narrata da Vasari nelle Vite. 14 La storia di di Apelle e Campaspe o Pancaspe si ritrova in Plinio, Naturalis Historia, XXXV, pp. 85-86. 15 Sull’uso di modelli, maschili e femminili, nelle Accademie dell’Ottocento è da vedere N. Pevsner, Academies of Art, Past and Present, Cambridge, Cambridge UP, 1940 (trad. it. di A. Pinelli, Le accademie d’arte, Torino, Einaudi, 1982).

Amare una statua

99

al rapporto erotico tra artista e amante, quello che impedisce di cominciare più indietro il nostro cammino. Il Capolavoro sconosciuto di Balzac, ad esempio, è certamente non solo la storia di un compito impossibile e di un’opera suprema che non si raggiunge e anzi si autodistrugge, ma anche una storia di artisti e modelle. Porbus e Poussin riescono a vedere la Belle Noiseuse di Frenhofer, l’opera cui il grande pittore ha dedicato tutte le sue energie da dieci anni e che tiene gelosamente custodita, solo perché Gillette, la bellissima moglie di Poussin, accetta, riluttante e solo per le pressioni di quest’ultimo, di posare per l’anziano pittore. Il tema dell’artista e della modella è proprio quel che nel Capolavoro sconosciuto ha colpito Picasso (che ne ha illustrato un’edizione) ed anche il regista Jaques Rivette che ha trasposto la storia in un film16. Il racconto di Balzac, inoltre, e la cosa ci dovrà interessare ancora di più, è una storia del contrasto tra la mobilità della vita e la rigidità della pietra («io non saprei credere questo bel corpo animato dal tiepido soffio della vita; mi pare che se posassi la mano su questa gola, di una rotondità così corposa, la troverei fredda come il marmo. No, amico mio, non scorre il sangue sotto questa pelle di avorio»17), tra i corpi viventi e le statue morte («prova a modellare la mano della tua amica e poi mettitela davanti, e ti troverai di fronte ad un orribile cadavere privo di ogni veridicità»18). Tuttavia Frenhofer è ancora un Pigmalione («Noi non sappiamo quanto tempo impiegò il grande Pigmalione per compiere la sola statua che abbia camminato»19): egli ama la propria tela come amerebbe una persona viva («Sono dieci anni ormai che vivo con quella donna: ella è mia, solo mia, e mi ama; non mi ha forse sorriso ad ogni pennellata che le ho dato […]? L’opera che tengo lassù, sotto chiave, è un’eccezione nella nostra arte: non è una tela, è una donna […]. Son certamente più amante che pittore»20). Più vicino al nostro tema è il racconto Il vello d’oro di Théophile Gautier, pubblicato nel 1839. Ma esso, anche a non voler considerare il fatto che 16 Il film di Rivette al quale si allude nel testo si intitola La belle noiseuse, ed è uscito nelle sale nel 1992. 17 H. de Balzac, Il capolavoro sconosciuto, trad. it. di C. Montella e L. Merlini, Firenze, Passigli, 1983, p. 29. 18 Ivi, p. 31. 19 Ivi, p. 43. 20 Ivi, p. 57.

100

Lo sguardo reciproco

ha un tono lieve di scherzo e di favola, mentre tutti i testi con cui noi avremo a che fare vanno a sfociare nella tragedia, segue un percorso opposto a quello che noi saremo chiamati a ripercorrere: non dalla passione sensuale alla sua sublimazione nel rapporto con l’opera ma al contrario, dalla sospensione del desiderio dinanzi all’arte al suo appagamento nella vita. Un giovane dandy, Tiburce, non riesce ad amare nessuna donna perché le trova tutte inferiori alle bellezze dell’arte («guardava con gli occhi del pittore, e conosceva più ritratti che volti. La realtà gli ripugnava […] ciò che scambiava per amore non era altro che ammirazione d’artista. Nella sua amante trovava difetti di disegno; senza che neppure se ne rendesse conto, per lui la donna non era altro che una modella»21). Nella cattedrale di Anversa, durante un viaggio nelle Fiandre, vede la bellissima Maddalena della Deposizione di Rubens e se ne innamora (di nuovo un Pigmalione: «finalmente aveva trovato la passione che stava cercando, ma era stato punito col suo stesso peccato; per aver troppo amato la pittura era stato condannato ad amare un quadro […] una passione stravagante, insensata e disposta a tutto; e soprattutto splendidamente disinteressata»22). Qualche tempo dopo vede per strada una ragazza che somiglia perfettamente alla Maddalena del dipinto; riesce a fare la sua conoscenza, lei si innamora di lui, ma Tiburce non riesce ad amarla, perché ama la Donna dipinta. La guarigione di Tiburce avverrà dopo che i due si sono trasferiti a Parigi: grazie all’intuito di Gretchen il giovane si scoprirà pittore, userà la ragazza come modella, e finalmente sarà in grado di amarla anche come donna. Se Tiburce è ancora un Pigmalione che riesce a far vivere l’immagine di cui si è innamorato, gli artisti di cui ci parlano i testi che leggeremo trasformeranno in statue le donne che hanno posato per loro, non solo rendendole immagine, ma togliendo loro la vita. Pigmalione rovesciato, dunque, anche se subito si comprenderà che le cose non sono così semplici. Perché come Pigmalione non è soltanto colui che ama una statua, ma innanzitutto colui che non può amare una donna in carne ed ossa («offensus vitiis, quae plurima menti/femineae natura dedit, sine coniuge caelebs/vivebat thalami21 Th. Gautier, Il vello d’oro e altri racconti, trad. it. di L. Binni, Firenze, Giunti, 1993, p. 27. 22 Ivi, p. 49.

Amare una statua

101

que diu consorte carebat»23, scrive Ovidio) così per gli scultori di Ibsen, Louÿs o Pirandello non si sarà così ingenui dal prestare fede alle loro giustificazioni esplicite. Tutti protestano di non poter desiderare l’ispiratrice delle loro opere perché hanno proiettato su di lei quella rescissione dei legami effettuali che è necessaria perché l’opera d’arte prenda forma; ma come si fa ad essere sicuri che si tratti di una abolizione del desiderio, e non di uno spostamento feticistico di esso? Questi artisti ci ricordano un’altra storia che racconta del rifiuto di una donna reale coperto dall’innamoramento per una statua, scritto proprio in quegli anni, la Gradiva di Jensen24, resa famosa dalla interpretazione e dalla magistrale “riscrittura” di Freud. Anche per Norbert Hanold, il suo protagonista, «marmi e bronzi non erano morti minerali, ma piuttosto l’unica realtà vivente capace di conferire scopo e valore alla vita degli uomini»25: solo che egli non traveste la sua resistenza all’erotismo e la sua difficoltà nei rapporti con l’altro sesso sotto la veste del disinteresse estetico dell’artista, ma sotto il distacco dello studioso di antichità: è un archeologo, non uno scultore. Anche Hanold può amare la sua vicina di casa Zoe Bertgang solo uccidendola, e assimilandola all’immagine di una morta, che abbia “il freddo aspetto del marmo”. Quando Zoe comincia a mettere in atto la sua strategia psicoterapeutica, dirà «mi sono abituata da gran tempo ad essere morta»26. Perché l’amore per le statue confina con la necrofilia. Il protagonista di un racconto che fa parte delle Notti Fiorentine di Heine, tutto dedicato al tema dell’amore per le statue, lo confessa nel modo più chiaro, quando, alla domanda stupita del suo interlocutore «Ma voi avete amato soltanto donne scolpite o dipinte?» risponde «No, ho amato anche donne morte»27. L’uno e l’altro aspetto, resistenza verso il coinvolgimento erotico e inclinazione verso il morto, così come pure le implicazioni masochistiche dell’amore per il simulacro, saranno evidenti in tutti i testi, ma particolarmente trasparenti in quelli di Ibsen e Louÿs: non avremo bisogno, dunque, 23

Ovidio, Metamorfosi, libro X, vv. 243-244. La novella di Wilhelm Jensen, Gradiva. Una fantasia pompeiana, si può leggere nella traduzione italiana di Cesare Musatti nel vol. II dei Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, di S. Freud, Torino, Bollati Boringhieri, 1969. 25 Ivi, p. 34. 26 Ivi, p. 75. 27 H. Heine, Notti Fiorentine, trad. it. di B. Ziliotto, Milano, TEA, 1988, p. 36. 24

102

Lo sguardo reciproco

di ricordare di continuo quel che tutte le protagoniste delle storie narrate sanno fin dall’inizio, e cioè che le teorie estetiche cui si appellano gli artisti di cui si parlerà, possono essere uno schermo, una maschera, un alibi.

Quando noi morti ci destiamo Arnold Rubek, scultore di successo, è rientrato in patria dopo lunghi anni di soggiorno all’estero, accompagnato dalla giovane moglie Maja. Da quando ha scolpito il suo capolavoro, il Giorno della Resurrezione, il gruppo che lo ha reso celebre in tutto il mondo, Rubek ha perso ogni vera ispirazione artistica. Scolpisce solo busti su commissione, ritratti di gente facoltosa nei quali si diverte a scorgere, o forse a proiettare, tratti animaleschi. In uno stabilimento balneare egli incontra Irene, la donna che posò come modella per lui al tempo della creazione del capolavoro. Nella didascalia che accompagna il suo ingresso, Ibsen la presenta così: «Il suo viso è pallido; i lineamenti sono irrigiditi; le palpebre sono abbassate come se gli occhi non avessero più vita […]. Il suo portamento è immobile, i suoi passi sono cadenzati»28. Una statua, insomma. Anche se, invitando Rubek a sedersi accanto a lei, lo negherà: «Il mio corpo non si è ancora trasformato in una statua di ghiaccio»29. Irene sostiene di esser morta, di esserlo precisamente dal giorno in cui Rubek terminò il suo gruppo marmoreo. «Io ti donai la mia anima, la mia anima piena di vita e di giovinezza, e rimasi con un vuoto nel petto […], senz’anima. Dopo averti fatto quel dono sono morta, Arnold»30. Non sarebbe giusto, però, riportare tutto all’idea dell’arte che sottrae vita alla vita, al contrasto generico tra forma e vita. In Ibsen le cose sono molto più esplicite. Che cosa rimprovera esattamente Irene a Rubek? Irene indica subito, fin dal primo colloquio, il delitto dello scultore nel rifiuto dell’amore carnale che ella gli offriva, a favore di una contemplazione puramente artistica del suo corpo. «Irene: Promisi di servirti in tutto. Rubek: Come modella 28 29 30

H. Ibsen, Quando noi morti ci destiamo, cit., pp. 607-608. Ivi, p. 615. Ivi, p. 619.

Amare una statua

103

per il mio capolavoro […]. Irene: Col mio corpo liberamente e completamente nudo […]. Rubek: E tu mi servisti … con tanto coraggio … Con tanta gioia … Senza riserbo!»31. Alle deboli discolpe dell’uomo («non ti ho mai trattata male»), Irene risponde scagliandogli contro la sua accusa senza reticenze: «Mi hai offeso in quello che era di più intimo nella mia natura! Mi misi in mostra dinanzi a te, come si può esporre un corpo … E tu non lo toccasti mai, neppure una volta»32. Di fronte a queste rimostranze, Rubek si difende teorizzando un’estetica: «Irene, tu non capivi. Dinanzi alla bellezza del tuo corpo io ero quasi sempre fuori di me… Io ero un artista, Irene […]! Sì, io ero anzitutto un artista. Andavo brancolando intorno come un febbricitante e volevo creare il capolavoro della mia vita; e quel capolavoro doveva chiamarsi Il giorno della Resurrezione, e la Resurrezione doveva essere rappresentata da una giovane donna che si desta dal sonno della morte […] e la risorta doveva essere la donna più pura e più ideale della terra. Fu allora che io ti trovai. Potevo adoperarti per ogni lineamento. E tu mi offristi i tuoi servigi così volonterosamente, così allegramente […]. Io ti ho potuto adoperare per il mio capolavoro meglio di chiunque altra. Diventasti per me un’opera sacra della creazione, che si poteva sfiorare solo con religione! In quel tempo si era lentamente insinuata in me una strana superstizione: incominciai, cioè, a credere che se io ti avessi toccata, se avessi desiderato il tuo corpo, tutti i miei pensieri sarebbero stati profanati e non avrei potuto più condurre a termine quell’opera che così ardentemente anelavo di creare. E anche oggi continuo a credere che in quella superstizione ci fosse qualcosa di vero»33. Quella che Rubek chiama “superstizione”, in effetti, non è che l’applicazione letterale, e perciò semplificata, della convinzione che l’opera d’arte si costituisce a partire dalla rescissione dei legami affettivo-sensuali diretti, istituendo su di essi una sospensione, una messa in parentesi. Egli sembra ignorare che solo pochi anni prima Nietzsche aveva messo alla berlina chi ragionava come lui, per prendere le distanze da quello che gli pareva, a torto, essere il nucleo della dottrina kantiana del piacere disinteressato dell’arte: 31 32 33

Ivi, p. 616. Ibidem. Ivi, pp. 616-617.

104

Lo sguardo reciproco

«Certo che se i nostri esteti non si stancheranno di buttare sulla bilancia, a favore di Kant, il fatto che grazie alla magia dell’arte si possono guardare “senza interesse” anche statue di donne nude, ci sarà ben concesso di ridere un po’ alle loro spalle – le esperienze degli artisti, relativi a questa scabrosa questione, sono molto “più interessanti”, e Pigmalione non dovette essere, in nessun caso, necessariamente, un “uomo non estetico”»34. L’estetica di Rubek non riesce a convincere il senso comune di sua moglie Maja, che ha una visione molto più prosaica dei rapporti fra artista e modella. Tanto che il suo primo impulso, di fronte alla sconosciuta Irene, è di gelosia. «Maja: Rubek, rifletti un po’! Forse quella signora ti sarà servita da modella … una volta! Rubek: Da modella? Maja: Sì, nei tuoi anni giovanili. Chissà quante modelle hai avuto … allora, naturalmente! […] Maja: E puoi dimenticare anche una donna che ti è servita da modella? Rubek: Quando non ne ho più bisogno … Maja: Ed anche quando ha posato per te con il suo corpo nudo? Rubek: Questo particolare non ha nessuna importanza, almeno per noi artisti!»35. È la stessa visione che anche Irene mostra di condividere, quando, di fronte a Rubek che assicura: «Dopo di te non ho trovato nessun altro ideale!»36 commenta sarcastica: «Nemmeno altre modelle, Arnold?»37. Irene accentua deliberatamente l’aspetto di esibizione, di sensualità connesso al fatto di posare. Dopo aver abbandonato Rubek, o piuttosto dopo essere stata abbandonata da lui, racconta, «ho fatto mostra del mio corpo nei teatri di varietà … ho fatto la statua nuda nei quadri viventi»38. Curioso: Irene non condivide le convinzioni estetiche di Rubek, ma mostra di seguirlo almeno nella persuasione che altro sia il posare per una scultura, che è arte nobile ed elevata, altro offrirsi per un’arte effimera e di mero intrattenimento, come, nella sua assiologia, il varietà o i tableaux vivants. Irene ora odia Rubek, perché l’ha amato ed egli ha rifiutato 34 Le ironie nietzschiane contro il “disinteresse” degli artisti sono in Genealogia della Morale, III, 6: le citiamo nella traduzione di V. Perretta, Roma, Newton Compton, 1977. 35 H. Ibsen, Quando noi morti ci destiamo, cit., pp. 622-623. 36 Ivi, p. 617. 37 Ibidem. 38 Ivi, p. 614.

Amare una statua

105

quell’offerta di amore. Le giustificazioni dello scultore, che si appella al diritto ed anzi alla necessità che ha l’artista di recidere ogni rapporto effettuale con la realtà, non possono convincerla della innocenza di Rubek, perchè quel che ha offeso Irene è proprio l’indifferenza nei suoi confronti che la creazione dell’opera ha richiesto. «Irene: Io cominciai piuttosto a sentire un odio … Rubek: Un odio? Contro di me? Irene: Sì, contro di te … contro l’artista, che aveva preso con tanta indifferenza e con tanta incuria un corpo, in cui pulsava un sangue caldo, una giovane vita umana, e che le avevi rubato la sua anima … per creare un’opera d’arte»39. È l’artista che Irene ha odiato. «Irene: Debbo farti una confessione, Arnold. Non ho mai amato la tua arte. Rubek: Però hai amato l’artista. Irene: L’artista? No, io lo odio. Rubek: Dunque odi in me anche l’artista? Irene: Sì, proprio l’artista. Quando io stavo dinanzi a te, completamente nuda, il mio cuore era sempre pieno di odio per te, Arnold. Ti odiavo, perché tu restavi sempre così indifferente … o almeno perché tu avevi tanta forza da dominare te stesso. Ti ho odiato perché tu non eri che un artista, soltanto un artista, e non un uomo»40. Quel che ha umiliato e annientato Irene, nel rapporto con Rubek, è stato il fatto di essere subordinata ad un’opera inanimata, lei creatura vivente: prima l’opera d’arte, riassume, e poi la creatura umana. Ma Irene per prima non sembra affatto essere rimasta immune da quella trasposizione di affetti umani in pure e ineffettuali contemplazioni artistiche che rimprovera a Rubek. Il suo delirio non è che il doppio speculare, e dunque inverso, della sospensione di vita in cui a suo parere Rubek è prigioniero. La statua di marmo creata dallo scultore diventa, nella fantasia sconvolta di Irene, una sorta di figlio, una creatura frutto di entrambi, di lei e di Rubek. Quell’amore fisico che non c’è stato, quella generazione mancata, hanno trovato un Ersatz nella creazione artistica. Ancora una volta, Irene è inconsapevolmente nietzschiana: «Gli artisti, se servono a qualcosa, hanno forti inclinazioni (anche fisicamente), esuberanza, energia animale, sensualità; senza una certa sovreccitazione del sistema sessuale un Raffaello non è pensabile. Il far musica è un altro modo di fare figli; e in ogni caso anche negli artisti la fecon39 40

Ivi, p. 630. Ibidem.

106

Lo sguardo reciproco

dità cessa con la forza generativa»41. Irene si informa subito presso Rubek della sorte, anzi dello stato di salute del gruppo marmoreo, come si farebbe per una persona cara. «Irene: E la creatura di marmo? Sta bene, vero? la nostra creatura sopravvive a me»42. Verso quella creatura Irene in un primo tempo ha provato odio, ha desiderato ucciderla. «Irene: Arnold, se quella volta io avessi fatto uso del mio diritto … Rubek: Ebbene … che cosa avresti fatto? Irene: Io avrei ucciso la nostra creatura! Rubek: Ucciso? Irene: Sì, l’avrei uccisa, prima di lasciarti. Io l’avrei frantumata, ridotta in polvere»43. Come negli altri testi di cui ci occuperemo, anche in Quando noi morti ci destiamo il confine tra la statua e il vivente è mobile e quasi evanescente. Che Irene entri in scena come una statua, l’abbiamo visto. All’occhio ingenuo ma proprio perciò non velato di teorie di Maja, Irene appare proprio quale essa si crede, una scultura di pietra inanimata. «Maja: Osserva laggiù. Cammina come una statua di marmo»44. Perfino in Rubek, il sostenitore della separazione tra vita e arte, i confini cominciano a vacillare; «Rubek: E dire che io ebbi il coraggio di trascurarla … di metterla nell’ombra … di mutilarla»45, egli dice di Irene. Si mutila una statua, appunto. Nel sistema di Rubek, nella sua estetica, alla caduta delle pulsioni sensuali nei confronti dell’oggetto artistico corrisponde una nuova vita ideale, intangibile e proprio perciò eterna; ma questa vita è per Irene, e anche per Maja, mero simulacro, mera parvenza: privata dei legami con la realtà, essa diventa paurosamente simile alla morte. Questo è visibilissimo nelle battute che chiudono il primo atto. «Rubek: Sì, tu eri allora molto prodiga, Irene! Mi offristi tutta la bellezza del tuo corpo nudo … Irene: … Per guardarla … Rubek: e per eternarla … Irene: Sì, per dare l’eternità a te e alla nostra creatura! Rubek: E per eternare anche te, Irene! Irene: Tu però hai dimenticato il dono più prezioso che ti ho fatto! Rubek: Il più prezioso dono? Quale? Irene: Io ti donai la mia anima … la 41 La citazione nietzschiana proviene da un frammento della Primavera 1888 per il Wille zur Macht (nella edizione Colli-Montinari, Frühjahr 1888, 14 [117]). 42 H. Ibsen, Quando noi morti ci destiamo, cit., p. 612. 43 Ivi, p. 613. 44 Ivi, p. 627. 45 Ivi, p. 628.

Amare una statua

107

mia anima piena di vita e di giovinezza … e rimasi con un vuoto nel petto … senz’anima! Dopo averti fatto quel dono sono morta, Arnold!»46. Per Irene le opere d’arte sono, alla lettera, dei morti. I musei in cui sono conservate sono dei cimiteri («Rubek: I musei furono sempre il tuo terrore: li chiamavi sepolcri»47). Irene è morta perché nascesse quel simulacro di vita che è la scultura di Rubek; ella, viva, si è immolata per un corpo morto: «Irene: Quando ebbi finito di servirti col mio corpo e con la mia anima … perché la tua statua … il nostro bambino, come tu la chiamavi a quel tempo … era compiuta … io deposi davanti ai tuoi piedi il mio caro sacrificio … e mi sono distrutta per tutta l’eternità»48. Tuttavia dell’illusione che il capolavoro di Rubek fosse qualcosa di diverso da una morta statua Irene stessa ha partecipato; è stata la prima a credere che essa fosse una creatura vivente, “il bambino”, come entrambi la chiamavano: «Irene: Ma quella statua di tenera argilla, quella statua vivente, oh, quella sì, l’amavo! Via via che da quella rozza e informe massa andava nascendo una creatura umana dotata di un’anima … io l’amavo quel nuovo essere che era la nostra creatura, il nostro bambino, il mio e il tuo»49. Solo più tardi ella doveva essersi resa conto che la trasposizione della sua immagine nell’opera d’arte aveva significato per lei il passaggio dalla vita nella morte, e che quella creatura inanimata non avrebbe mai potuto sostituire le creature viventi che lei e Rubek non avevano messo al mondo: «Irene: Io però allora ero una creatura umana! Ed avevo ancora da vivere una vita … e da compiere un destino. E, vedi, mi sono spogliata di tutto ciò … anzi l’ho gettato via per votarmi a te. Oh, questo è stato un suicidio, un peccato contro me stessa! Avrei dovuto mettere al mondo dei figli, molti figli, di carne viva; non di quelli che si conservano nei sepolcri»50. La situazione che Ibsen ha delineato nel primo atto di Quando noi morti ci destiamo, e che qui abbiamo ripercorso di scorcio, appare sostanzialmente statica, sembra rifiutare uno sviluppo e uno svolgimento; il conflitto drammatico c’è, ma giace tutto nel passa46 47 48 49 50

Ivi, p. 619. Ivi, p. 631. Ivi, p. 630. Ivi, p. 631. Ivi, p. 633.

108

Lo sguardo reciproco

to: è il dramma vissuto da Irene, ma che è rimasto del tutto estraneo a Rubek. Perché si dia sviluppo all’azione, dunque, occorre innanzi tutto che anche Rubek sia attratto nel mondo di Irene, quel mondo in cui, però, pare che egli non possa entrare, perché il suo concetto dell’arte è l’antitesi di quello di Irene. Nel secondo atto assistiamo allora ad una sorta di conversione dello scultore. Rubek, si è visto, non ha più avuto la forza di creare nulla di grande dopo il capolavoro. L’abbandono di Irene ha significato per lui anche l’abbandono dell’arte. Egli comincia ora a convincersi che l’incontro con Irene possa significare la possibilità di ritrovare se stesso, ossia in primo luogo la sua arte. La sua illusione è quella di potere ora amare Irene e di tornare ad essere creativo grazie a quell’amore. Così spiega alla moglie: «Rubek: Qui dentro, vedi … c’è un piccolo scrigno chiuso, dove sono conservati tutti i miei sogni d’artista. Dal giorno in cui quella donna scomparve senza lasciare traccia dietro di sé, il coperchio si chiuse. Ella ne teneva le chiavi, e le portò via con sé. Tu, mia piccola Maja, non avevi nessuna chiave, ed è perciò che tutto quello che vi era dentro è rimasto intatto. E gli anni passano! Ed io non posso toccare il mio tesoro!»51. Rubek crede fino all’ultimo che gli sia ancora possibile ritrovare l’amore di Irene e con esso l’ispirazione perduta: le due cose gli sembrano anzi, alla fine, coincidere. Per questo egli accetta di seguire Irene sulla montagna, e per questo conserverà la sua illusione fino all’ultimo. «Il nostro amore non è certo morto!»52 esclama Rubek nell’ultimo colloquio. Ma Irene sa che non è vero, non può essere vero perché, come lei stessa, così anche Rubek è morto dopo aver compiuto il suo capolavoro. «Irene: l’amore, quello di questo mondo … di questo magnifico, meraviglioso mondo, è morto in noi due […]! dov’è ora quella passione che nutrivi per me, quella passione di fuoco, con cui lottavi e combattevi quando posavo dinanzi a te libera, come la donna risorta?»53. A Rubek non basterà ammettere il suo torto dinanzi a Irene: «Rubek: Accecato, com’ero allora, anteposi un simulacro d’argilla alla felicità della vita … alla felicità dell’amore»54. È troppo tardi: Rubek cre51 52 53 54

Ivi, p. 627. Ivi, p. 646. Ibidem. Ibidem.

Amare una statua

109

de di avviarsi verso la festa delle nuove nozze, verso la luce, e Irene lo conduce invece là dove la valanga li travolgerà entrambi. La statua, la morte, il calco, la maschera funebre. Nel calco, il modello è prelevato in tutta la sua presenza reale e trasposto nell’opera. Il calco è un doppio, ma un doppio senza vita. Si può fare un calco da un corpo vivo, ma nulla toglierà l’apparenza mortuaria, né solo per il ricordo del calco delle fattezze dei defunti. In una delle lettere che scambiò con Freud dopo che questi gli aveva inviato il proprio studio su Gradiva, Jensen dichiara di non conoscere i motivi che lo hanno spinto fin dall’inizio a collegare il bassorilievo della Gradiva, che si trova in realtà ai Musei Vaticani di Roma, con Napoli o meglio con Pompei. Ma tutto lascia pensare che a spingere lo scrittore tedesco a fare di Gradiva una pompeiana sia stato il ricordo dei calchi delle vittime dell’eruzione del Vesuvio che egli aveva visto al Museo Nazionale di Napoli. Questi calchi, che materializzano il passaggio dalla vita alla morte, dal corpo alla statua e viceversa (un tema che percorre tutto il racconto di Jensen) ritornano in due sviluppi decisivi della vicenda. Quando Hanold per errore si ritrova invece che nel proprio albergo in quello in cui alloggiano Zoe e il padre di lei, il padrone dell’albergo gli racconta di essere stato presente «quando nei pressi del Foro era stata trovata quella giovane coppia di amanti, che accortisi della catastrofe inevitabile si erano strettamente abbracciati e avevano atteso così la morte»55. E il colloquio che porterà al chiarimento finale tra Zoe-Gradiva e Hanold si svolge nella casa di Arrio Diomede, là dove erano stati ritrovati decine di corpi di cittadini di Pompei, dai quali erano stati tratti i calchi del Museo nazionale, e tra questi «il calco perfetto del collo, delle spalle e del busto di una giovane ragazza, vestito di un leggero abito di velo»56. Jensen, sollecitato da Freud in questo senso, non seppe indicare fonti letterarie per la propria “fantasia pompeiana”. C’è però – anche se naturalmente non si può provare che Jensen lo conoscesse – un altro racconto di Théophile Gautier che racconta una storia molto simile a quella di Gradiva, sia pure accentuando il tema dell’amore con lo spettro: Arria Marcella. Ricordo di Pompei. Il protagonista in questo racconto, pubblicato nel 1852, non si 55 56

W. Jensen, Gradiva, cit., p. 80. Ivi, p. 99.

110

Lo sguardo reciproco

innamora di una statua, ma del calco della fanciulla trovata nella Villa di Arrio Diomede («Gli parve che quelle rotondità si adattassero perfettamente all’impronta del Museo di Napoli che l’aveva gettato in un’appassionata fantasticheria, e una voce gli gridò dal fondo del cuore che era quella la donna soffocata dalla cenere del Vesuvio nella villa di Arrio Diomede»57). Ma non sarà un caso che alla sua fantasia eccitata la donna/spettro si presenti innanzi tutto come una statua («Il collo presentava quelle belle linee pure che oggi si ritrovano soltanto nelle statue» «il suo piede nudo, più puro e più bianco del marmo» «il suo braccio era freddo come il marmo di una tomba»58), né che di lui ci venga detto già nella presentazione che “talvolta si innamorava delle statue”, e non vengano taciuti i tratti più esplicitamente necrofiliaci («la vista di una folta capigliatura a treccia riesumata da un’antica tomba lo aveva gettato in un bizzarro delirio»59). Il calco, la morte. In una breve prosa di Ramón Gómez de la Serna, La donna assassinata dallo scultore60, si racconta questa storia: uno scultore decide di fare un calco dei seni della propria amante, sapendo che non sarebbe mai riuscito a scolpire qualcosa di altrettanto perfetto. Ne ricava «due seni che possedevano una certa vita, che quelli dei musei non avevano»61, ma che alla donna paiono «i seni della sua morte, i seni dopo l’imbalsamazione»62. Per colpa del calco con il gesso freddo e umido, la donna si ammala di polmonite e ne muore «e da allora i seni di gesso brillarono solitari nello studio, come i seni del mausoleo ideale della morte»63.

57 Il racconto di Gautier Arria Marcella. Ricordo di Pompei è compreso anch’esso nella raccolta Il vello d’oro e altri racconti, cit., p. 164. 58 Ivi, p. 163. 59 Ivi, pp. 146-147. 60 R. Gómez de la Serna, La donna assassinata dallo scultore, in Id., Seni, trad. it. di E. Carpi Schirone, Milano, ES, 1991. 61 Ivi, p. 113. 62 Ibidem. 63 Ivi, p. 114.

Amare una statua

111

Afrodite Anche Demetrio, il protagonista di Afrodite di Pierre Louÿs (pubblicato nel 1896, tre anni prima del dramma di Ibsen) è uno scultore. Il romanzo è ambientato ad Alessandria d’Egitto nel primo secolo avanti Cristo. Demetrio ha scolpito una statua di Afrodite per il tempio della città, e per lui ha posato come modella la stessa regina della città, della quale poi egli è diventato l’amante. Ma Demetrio, “bello come Apollo”, prova ormai disgusto per la vita: «Aveva orrore della vita, non usciva di casa che nell’ora in cui la vita cessava e rientrava quando l’alba attirava verso la città i pescatori e gli ortolani. Il piacere di non vedere al mondo che l’ombra della città e la sua propria, diventava per lui una tale voluttà che egli non ricordava di avere visto il sole di mezzogiorno che a distanza di mesi»64. La passione per la regina è dileguata dopo che la bellezza di lei è stata fissata nei tratti immortali della statua divina: comparata a quel modello perfetto, la modella di un tempo non può reggere il confronto: «Tutte le bellezze della regina, tutto ciò che d’ideale si poteva inventare intorno alle linee morbide del suo corpo, lo fece emergere dal marmo, e da quel giorno s’immaginò che nessun’altra donna sulla terra raggiungerebbe più il livello del suo sogno. La sua statua divenne l’oggetto del suo desiderio»65. Demetrio non ama ormai che la sua creatura di marmo. La regina sembra complice dell’incanto. «Prendi un marmo e il tuo scalpello, e fammi vedere agli uomini dell’Egitto. Voglio che si adori la mia immagine»66, aveva detto allo scultore, e Demetrio, con una sincerità che certo doveva sfuggire all’amante, aveva riposto: «Sono io il primo ad adorarla»67. Ma, appunto, egli adora l’immagine, non più la donna. La bellezza vivente ormai non ha più attrattive per Demetrio, che inevitabilmente confronta i corpi e i visi reali a quelli ideali dell’arte. Preferisce anzi i corpi che presentano qualche difetto, perché più le forme reali sono perfette più richiamano il confronto con quelle prodotte 64 65 66 67

P. Louÿs, Afrodite, cit., p. 12. Ivi, p. 45. Ivi, p. 43. Ivi, p. 46.

112

Lo sguardo reciproco

dall’artista, un confronto che per loro non può non essere schiacciante «il turbamento che gli cagionava l’impressione della bellezza vivente era una sensualità puramente cerebrale, che riduceva a nulla l’impulso di generazione»68. La regina non solo avverte la trasformazione che si è compiuta in Demetrio, ma sa anche coglierne la causa: «Dov’eri? Eri al tempio? Non eri per caso nei giardini, con quelle donne straniere? No, vedo dai tuoi occhi che non hai amato. Ma allora cosa facevi, sempre lontano da me? Eri davanti alla statua? Sì, ne sono sicura, eri là. Adesso tu l’ami più di me. È in tutto simile a me: ha i miei occhi, la mia bocca, i miei seni; ma è lei che tu cerchi. Io, sono una povera abbandonata. Ti annoi con me, lo vedo bene. Pensi ai tuoi marmi e alle tue cattive statue come se io non fossi bella più di tutte loro, e viva, per lo meno»69. Quando Demetrio incontra per la prima volta Criside, la bellissima cortigiana che viene dalla Galilea e che ha tutta Alessandria ai suoi piedi, può credere per un istante che il suo trasporto sia solo un sentimento d’artista, una passione che non infiamma la carne ma resta chiusa nel cerchio della contemplazione estetica: «Credette di ammirare il suo passo aggraziato per un sentimento unicamente estetico, si disse che ella poteva essere un agognato modello per la Carite con il ventaglio che si proponeva di sbozzare domani»70 (una Carite col ventaglio: lo sfondo ellenistico del romanzo di Louÿs ha la consistenza della quinta di un teatro, qua e là aperta da piccoli squarci, come questo in cui ci vediamo trasportati da un tempio greco in un dipinto di Alma Tadema). Ma la passione di Demetrio, questa volta, è un vero innamoramento, che coinvolge i sensi non meno dello spirito. Egli tenta di abbracciare Criside, di possederla, ma Criside rifiuta. Lei, la cortigiana, non si piegherà al desiderio di Demetrio, l’uomo più amato e più potente di Alessandria. L’incantamento dello scultore è descritto come improvviso, totale; pur di avere Criside promette di procurarle qualsiasi cosa lei voglia. Criside chiede tre cose: uno specchio d’argento; un pettine d’avorio; una collana di perle. Demetrio capisce che deve trattarsi di qualcosa di difficilissimo ad ottenersi, ma non può sottrarsi alla seduzione, e giura che procu68 69 70

Ivi, p. 88. Ivi, p. 124. Ivi, p. 51.

Amare una statua

113

rerà i tre doni. Lo giura – e non è un caso – per la statua di Afrodite che ha scolpito. Lo specchio è quello di Bacchide, la cortigiana amica di Criside, preziosissimo: Demetrio non potrà averlo che rubandolo. Il pettine è il pettine cesellato che porta tra i capelli la moglie del grande sacerdote. Per averlo, dovrà uccidere. La collana è la collana di perle a sette fili che pende dal collo della statua di Afrodite: e Demetrio dovrà strappargliela commettendo sacrilegio. Il confine tra la pietra e la carne è quanto mai esile nel romanzo di Louÿs, e non solo nell’immaginazione estenuata di Demetrio. Fin dalle prime pagine del romanzo, mentre assistiamo alla toeletta di Criside, leggiamo: «Quando tutto fu finito, Djala si inginocchiò davanti alla padrona e rase il suo pube rigonfio, perché la fanciulla avesse, agli occhi dei suoi amanti, tutta la nudità di una statua»71; mentre la statua di Afrodite per la quale ha posato la regina appare a sua volta animata come un corpo: «Tra le svelte colonne, la dea appariva tutta viva su di un piedistallo di pietra rosa, carica dei tesori sospesi. Era nuda e sessuata, vagamente tinta secondo i colori della donna»72. Questa descrizione tornerà, parola per parola, nella seconda parte del libro, quando Demetrio sta per strappare la collana di perle alla dea, ed esita e la rimette al suo posto. Passerà la notte nel santuario, nascosto nel piedistallo bronzeo della statua, e quando al mattino sembra ormai deciso a rinunziare al sacrilegio, Criside entrerà nel tempio, avanzandosi verso la statua. La vista dell’amata farà superare a Demetrio ogni remora, ed egli commetterà il delitto supremo. Ma come gli appare Criside? Esattamente come una statua, anzi «bianca come la statua stessa». Quando Criside appare in sogno a Demetrio, la sua descrizione non trova che metafore dell’inanimato, e i suoi capelli, ad esempio, sono come «un vaso d’oro su di una colonna di ebano»73. Demetrio, dunque, ormai schiavo dei voleri di Criside, commette i tre delitti per procurarsi i doni per l’amata: ruba lo specchio di Bacchide, uccide la moglie del grande sacerdote (che pure era stata sua amante), sottraendole poi il pettine d’avorio, e, con le esitazioni che abbiamo visto, depreda il simulacro della dea. La 71 72 73

Ivi, p. 25. Ivi, p. 103. Ivi, p. 179.

114

Lo sguardo reciproco

parte centrale del romanzo è tutta occupata dalla descrizione del baccanale a casa di Bacchide, al quale partecipa anche Criside. Il furto dello specchio c’è già stato, ma Criside non può ancora saperlo; perciò cerca per tutta la cena di capire se Demetrio ha compiuto il suo primo misfatto. Ella sa infatti che una volta piegatosi al primo delitto Demetrio non si arresterà neppure di fronte agli altri. Quando Bacchide scopre il furto, del quale viene incolpata la schiava Afrodisia, che proprio quella notte avrebbe dovuto guadagnare la libertà, e che viene subito punita dalla padrona con la crocifissione, per lei è il trionfo, anche se deve stare ben attenta a nascondere il suo tripudio. La situazione, però, si rovescia di colpo. Demetrio, dopo avere strappato i doni per Criside, ha un sogno in cui gli appare la donna che ama. E, ancora una volta, l’immagine ha partita vinta sulla donna reale. Demetrio ha sognato l’amore di Criside; non avrà più bisogno della Criside vivente. I due si incontrano, la cortigiana è felice, si direbbe quasi che abbia dimenticato i pegni richiesti e che non voglia altro che abbracciare Demetrio. Ma le parti si sono rovesciate. È Demetrio, adesso, ad essere freddo e scostante. Dicendo addio per sempre a Criside, spiega quel che gli è accaduto: «Mi concederai, che dopo aver sognato l’Afrodite del tempio, la mia immaginazione non ebbe troppa pena a figurarmi la donna che tu sei? Ancora una volta, io non ti dirò se si tratta di un sogno notturno o dell’errore di un uomo desto. Ti basti sapere che, sognata o concepita, la tua immagine mi è apparsa in una cornice straordinaria. Illusione; ma a qualunque costo t’impedirò di disilludermi»74. Dinanzi alla disperazione di Criside che viene abbandonata, Demetrio ritorce su di lei le richieste che lo avevano spinto a diventare ladro ed assassino. Criside si dichiara pronta a tutto pur di riconquistare l’amore di Demetrio, e questi le fa giurare che ella indosserà il pettine e la collana, e appenderà lo specchio, e con i gioielli indosso entrerà nella città. Una volta di più, tutto ciò si compirà sotto lo sguardo cieco di una statua, perché i terribili doni Demetrio li ha nascosti all’interno del simulacro di Ermete Stigio. Nel frattempo la popolazione di Alessandria ha scoperto i tre crimini, e soprattutto il sacrilegio perpetrato contro la dea. Quando Criside appare, «attraverso la porta d’occidente, sulla prima 74

Ivi, pp. 199-200.

Amare una statua

115

terrazza» del faro di marmo rosso, la sua sorte è segnata. Ma ella è come totalmente identificata, ora, nella statua della dea Afrodite («era nuda come la dea») e per la divinità la scambiano i primi abitanti che la vedono. La scena si riapre, all’inizio della quinta parte, con Criside già in carcere in attesa della morte, essendo stata condannata a bere la cicuta. Entra Demetrio, e Criside sarebbe ancora pronta a lanciarglisi tra le braccia, se lo scultore non la frenasse con la sua attitudine impassibile. Le riflessioni fra sé e sé di Demetrio ci sono comunicate da Louÿs in una sorta di a parte che è un artificio molto impacciato – non l’accetteremmo, oggi, in una mediocre sceneggiatura – ma a noi non interessano gli aspetti dell’Afrodite che possono legittimamente far sorridere, per esempio la stessa Criside-Socrate di queste ultime pagine: non ci interessano le forme, ma le idee. Demetrio dunque filosofeggia sulle nefaste conseguenze della passione. Ritiene che vi siano solo due possibilità: la voluttà senza passione (precisamente quella che egli aveva sempre cercato con tutte le donne, e che solo con Criside non era stato in grado di ottenere) o “l’idée sans jouissance”, il legame che lo avvince alle sue statue. Non c’è una terza possibilità, e Criside, che ha tentato di donargli un piacere congiunto all’idea, ha dovuto soccombere perché Demetrio non può più unire l’idea ad altro che non sia una statua immobile e morta. La conferma decisiva arriva nel capitolo culminante dell’ultima parte (“Criside immortale”). Rientrato nella sua abitazione, Demetrio ha un’illuminazione improvvisa. Quel corpo che egli non ha potuto amare perché voleva offrirglisi nella passione, potrà bene eternarlo nell’arte. Fa allora portare un blocco di argilla fresca nella cella dove giace Criside morta, e si avvia egli stesso verso il carcere. È come se si rompesse un incantamento. Avviandosi a ridare vita, una vita eterna (“Criside immortale”) alla donna che è morta per lui, Demetrio sente riaffluire quell’amore per la vita che a lui sembrava ormai precluso. Questa nuova vita di Demetrio sembra frutto diretto di una conversione estetica di Louÿs, di un ritorno dell’autore ad una posizione molto tradizionale e tranquillizzante. Se prima l’opera e il sentimento dovevano restare separate, adesso il difetto dell’arte di Demetrio viene fatto consistere nella mancanza di passione. Prima la bellezza del marmo non poteva che nascere dalla freddezza della carne (e dunque la passione sensuale era

116

Lo sguardo reciproco

inibita dal confronto schiacciante con l’opera), ora invece tutte le sculture precedenti di Demetrio sembrano fredde e inanimate per mancanza di passione. «Troppo a lungo aveva preso per luce il chiaro di luna e per ideale la linea incerta di un movimento troppo delicato […]. Sulla pelle delle sue statue correva un fremito glaciale. Durante la tragica avventura che aveva sconvolto la sua intelligenza, per la prima volta aveva sentito il grande soffio della vita gonfiare il suo petto»75. Lo scopo supremo non è il marmo, la forma, ma l’espressione, dunque l’umanità: «Per lo meno, stava comprendendo che vale la pena di essere immaginato solamente quel che attraverso il marmo, il colore o la frase raggiunge una delle profondità dell’emozione umana, – e che la bellezza formale non è che una materia indecisa, suscettibile di essere sempre trasfigurata dalla espressione del dolore o della gioia»76. Strana passione per la vita, che si nutre della morte, e strana esaltazione della espressione, che vive in un corpo morto. Demetrio non sembra coerente con la poetica sentimentale che Louÿs gli mette in bocca. Come accadeva prima, la creazione artistica non può darsi per lui che una volta interrotto il circolo con la vita. Solo dopo morta Criside è disponibile a diventare statua. Anzi, è già diventata una statua: «Nella bianchezza azzurrina delle guance, alcune venature cilestrine davano alla testa immobile un’apparenza di marmo freddo. La fragilità delle orecchie aveva qualcosa di immateriale. Giammai, sotto nessuna luce, neppure in quella del suo sogno, Demetrio aveva visto una bellezza così sovrumana e una tale luminosità della pelle»77. Quando le due amiche di Criside, Rodide e Mirtocleia, verranno a reclamarne il corpo per donargli sepoltura, il corpo di Criside apparirà loro come “una effimera statua addormentata”. Demetrio può finalmente «conservare dei suoi tre giorni di passione un ricordo che durerà più a lungo di lui stesso […], e creare a partire dal cadavere la statua della Vita Immortale»78. Il corpo di Criside viene messo in posa da Demetrio: «Con le due mani sotto le ascel75 76 77 78

Ivi, p. 225. Ivi, p. 226. Ivi, pp. 226-227. Ivi, p. 227.

Amare una statua

117

le fresche. Demetrio fa scivolare la morta fin sull’alto del letto, volge la testa sulla guancia, […] piega l’avambraccio al di sopra della fronte, fa increspare le dita ancora molli sulla stoffa di un cuscino. […] Il modello ha preso la sua posa. Demetrio getta sulla tavola il blocco d’argilla umida che ha fatto portare là, lo preme, lo impasta, l’allunga secondo forma umana: una specie di barbaro mostro nasce dalle sue dita ardenti […]. Demetrio continua. L’abbozzo si anima, si precisa, prende vita. Un prodigioso braccio sinistro si inarca al di sopra del corpo come se stringesse qualcuno»79. A sera, il modello in creta è terminato. Demetrio lo fa trasportare nel suo studio, fa sgrossare un blocco di marmo pario e comincia a lavorare per trasferire nel marmo la forma del modellato.

La Gioconda Le statue, nella Gioconda di Gabriele D’Annunzio (rappresentata per la prima volta a Palermo nel 1899, cioè nello stesso anno in cui veniva messo in scena il dramma di Ibsen) non vengono dalla morte, ma dalla vita; non uccidono ma vivificano; e corre il rischio di morire chi viene lasciato da parte dall’arte, non chi la serve e la crea. L’estetica di Lucio Settala, lo scultore protagonista dell’opera dannunziana, è per molti versi l’esatto opposto di quella di Rubek; noi però non la apprendiamo da lui, che sembra collocarsi, in quanto artista, in un territorio che è al di là di ogni riflessione e di ogni consapevolezza, ma dagli altri personaggi della tragedia. Questa si apre su di un dramma già consumato: lo scultore, diviso tra l’amore per Gioconda Dianti, la bellissima modella che ha posato per lui nella creazione del suo ultimo capolavoro, una Sfinge, e la moglie Silvia, ha tentato di uccidersi sparandosi un colpo di pistola nel suo atelier, proprio ai piedi della grande statua. Ora, grazie alle cure di Silvia, sta lentamente tornando alla vita. Ma il gesto disperato non è bastato a recidere il legame con l’amante, che lo attende sempre, giorno dopo giorno, nello studio di lui. Quando Lucio riceve una lettera della Gioconda, la moglie Silvia decide di affrontare direttamente la rivale, incontrandosi con lei e

79

Ibidem.

118

Lo sguardo reciproco

intimandole di restituire le chiavi dell’atelier, rinunziando ad ogni tentativo di rivedere l’antico amante. Nel terzo atto, quello in cui culmina l’azione, le due donne si affrontano. Silvia fa valere i suoi diritti di moglie e rimprovera a Gioconda di aver strappato Lucio non solo “alla pace della casa” ma anche “alla nobiltà dell’arte”, e rinfaccia alla modella di non essersi mai occupata dello stato di salute di Lucio dopo il tentato suicidio, mentre ella lo accudiva, restituendogli col suo affetto la vita. Silvia vuole contrapporre la sua capacità vivificatrice a quella mortifera dell’amante. Ma le ragioni dell’arte, da lei incautamente invocate, possono facilmente esserle ritorte contro dalla Gioconda, che «obbedisce a una potenza che può essere implacabile»80. Come ispiratrice dell’artista, anche lei ha creato la vita; l’amore che per lei Lucio ha nutrito ha favorito ed anzi reso possibile l’arte di lui, lungi dal deprimerla: «Gioconda: La donna cui faceste tante accuse fu ardentemente amata d’un glorioso amore. Ella non abbassò ma sollevò una vita forte»81. Perché la creazione artistica, per Gioconda e ovviamente per D’Annunzio (non a caso proprio in questi anni lettore di Nietzsche82) non si nutre affatto di un indebolimento dei desideri reali, di una sospensione degli affetti, come credeva Rubek in Ibsen. Essa, anzi, è frutto dell’ebbrezza sensuale, della passione, della esaltazione di tutte le forze vitali: «Gioconda: Quando egli entrava dove io l’attendeva come si attende il dio che crea, era trasfigurato. Egli ritrovava dinanzi alla sua opera la forza, la gioia, la fede. Sì, una febbre continua gli ardeva nel sangue, tenuta accesa da me […] ma al fuoco di quella febbre egli ha foggiato un capolavoro»83. Diversamente dalla Irene di Quando noi morti di destiamo, Gioconda Dianti sa che la sua presenza e il suo amore sono indispensa80

G. D’Annunzio, La Gioconda, cit., p.112. Ivi, p. 113. 82 Per il rapporto Nietzsche-D’Annunzio si veda, tra l’altro, G. Tosi, D’Annunzio découvre Nietzsche, in «Italianistica», Sett.-Dic. 1973; M.T. Marabini Moevs, D’Annunzio e le estetiche di fine secolo, L’Aquila, Japadre, 1976; M. Montinari, Nietzsche e la décadence, in D’Annunzio e la cultura germanica, Atti del VI convegno internazionale di studi D’Annunziani, Pescara 3-5 maggio 1984, Centro Nazionale di Studi D’Annunziani, Pescara, 1985; P. Sorge, D’Annunzio tra Wagner e Nietzsche, in G. D’Annunzio, Il caso Wagner, Roma-Bari, Laterza, 1996. 83 Ivi, p. 115. 81

Amare una statua

119

bili all’artista, ed è consapevole del fatto che accettando di essere uno strumento dell’arte ella in realtà acquisisce un potere particolarissimo nei confronti dell’uomo: un potere che ella è in grado di opporre trionfalmente ai vincoli riconosciuti dalla società ed invocati da Silvia. Quest’ultima crede di potere estendere la sua giurisdizione dalla casa maritale alla officina del genio, ma Gioconda sa invece che lo studio dell’artista è il suo regno, e che da lì lei non potrà essere scacciata. «Gioconda: Questa non è una casa. Gli affetti familiari non hanno qui la loro sede; le virtù domestiche non hanno qui il loro sacrario. Questo è un luogo fuori dalle leggi e dai diritti comuni. Qui uno scultore fa le sue statue. Vi sta egli solo con gli strumenti della sua arte. Ora io non sono se non uno strumento dell’arte sua»84. Comprendendo di essere impotente di fronte alle ragioni della Gioconda, Silvia ricorrerà alla menzogna, attirando su di sé la sventura che precipita sul finire dell’atto. Finge di essere a conoscenza della lettera che la Gioconda ha inviato al marito, e afferma che la missiva gli è stata mostrata da Lucio stesso, che l’ha incaricata di incontrare la rivale per intimarle di abbandonare lo studio e di allontanarsi definitivamente da lui. Sentendosi tradita e scacciata Gioconda reagisce rabbiosamente, e tanto più violentemente quanto più è consapevole che Lucio tradisce così non soltanto il loro legame, ma la stessa sua arte. Gioconda sa che il capolavoro dello scultore non appartiene soltanto a lui, che esso appartiene altrettanto ed anzi di più a lei, perché è grazie alla energia che ha saputo infondere nell’artista che il capolavoro è stato creato. La sua vendetta sarà allora la distruzione, l’annientamento della statua. «Gioconda: E quella statua che è mia, che m’appartiene, ch’egli ha fatta con la vita che ha spremuta da me stilla a stilla, quella statua che è mia […] ebbene io la spezzerò, l’abbatterò»85. Di fronte a Gioconda che si avventa sulla statua per distruggerla, Silvia acquista di colpo la coscienza della bassezza commessa mentendole, e sente che il suo dovere è salvare l’opera del marito. Grida di aver mentito; troppo tardi. La statua rovina, e, in un disperato tentativo di salvarla, tentativo che riuscirà solo in parte perché la statua perderà le braccia nella caduta, ha le mani sfracellate sotto la massa marmorea. Tra le statue di pietra e i corpi di carne corrono, nel dramma di 84 85

Ivi, p. 117. Ivi, p. 121.

120

Lo sguardo reciproco

D’Annunzio, misteriose analogie. Le belle mani di Silvia, quelle mani che poi saranno troncate, il vecchio scultore Lorenzo Gaddi, nella prima scena della tragedia, le assomiglia a quelle della famosa Donna del Mazzolino del Verrocchio. «Gaddi: Voi avete dunque già riconosciuto la parentela. Quelle mani sembrano consanguinee alle vostre, sono della medesima essenza. Vivono, è vero? d’una vita così luminosa che il resto della figura ne è oscurato»86. La didascalia dell’atto quarto ed ultimo, nel descrivere la casa a Bocca d’Arno dove Silvia si è trasferita dopo la disgrazia, e dove attende di rivedere la figlia Beata, recita: «da un lato della porta, su una mensola, è la Donna del Mazzolino […] ospite nuova, venuta dall’altra casa come compagna fedele, le cui belle mani sono pur sempre intatte, atteggiate di grazia verso il cuore»87. Il busto del Verrocchio, dirà poi Silvia in una scena successiva, «ha qualcosa di funebre per me: tuttavia non ho saputo distaccarmene»88. Le proiezioni biografiche tanto care ad un certo tipo di critica, e così facili nel caso di un dramma come questo di D’Annunzio (come già lo erano, senza dubbio, per il vecchio Ibsen di Quando noi morti ci destiamo), non ci interessano. Non ci vuole molta applicazione per leggere La Gioconda come un dramma a chiave, nel quale sarebbe adombrato il conflitto di D’Annunzio tra il vecchio legame con Maria Gravina (che dunque sarebbe Silvia) e la nuova passione per la Duse (che vivrebbe quindi nel personaggio di Gioconda), salvo poi notare che tutto potrebbe essere rimescolato dalla dedica iniziale («Per Eleonora Duse dalle belle mani»). Importa molto di più capire come anche nella pièce di D’Annunzio la dialettica tra i personaggi è innanzi tutto una dialettica di concezioni estetiche: altrimenti sarebbe difficile non sottoscrivere il rimprovero che venne mosso alla Gioconda fin dalle sue prime rappresentazioni, e cioè che i suoi personaggi sembrano figure indipendenti, incapaci di entrare veramente in relazione tra di loro. All’inizio del dramma, quando potrebbe sembrare che Lucio Settala abbia dimenticato l’amante e sia tornato al vecchio affetto, tanto la moglie Silvia quanto l’amico Cosimo Dalbo possono illudersi che il compimento del capolavoro abbia agito come catartico 86 87 88

Ivi, p. 45. Ivi, p. 125. Ivi, p. 140.

Amare una statua

121

sull’anima dell’artista, liberandolo dalla passione per la modella, che sarebbe stata sublimata nella creazione artistica. Il tentato suicidio viene allora interpretato come un gesto supremo, quasi rivolto a dimostrare agli altri che il vecchio legame è finito, trasfigurato. «Dalbo: Egli aveva finito in quei giorni la statua, e io pensavo che quel marmo stupendo fosse la sua liberazione»89. Più avanti, Dalbo esporrà la stessa convinzione allo scultore, tentando di convincerlo che ormai il legame che lo univa alla Gioconda è risolto e come neutralizzato nella creazione artistica: «Dalbo: Tu hai già ubbidito al comando della natura, generando il capolavoro. Quando vidi la tua statua, pensai che ella ti fosse liberatrice. Tu hai perpetuato in tipo ideale e incorruttibile un esemplare caduco della specie. Non sei dunque pago?»90. Ma questa idea dell’arte come catarsi delle passioni e degli affetti reali può illudere Settala solo per un momento, nelle prime scene del dramma: «Io penso qualche volta alla sorte di colui che naufragò in una tempesta con tutto il suo carico. In una giornata serena come oggi, egli prese una barca e una rete; e tornò sul luogo del naufragio con la speranza di trarre dal fondo qualche cosa. E, dopo molta fatica, trasse a riva una statua. E la statua era così bella che, al rivederla, egli pianse di gioia; e si sedette sulla riva del mare a contemplarla, e fu pago di quel bene, e non volle altro cercare; e obliò tutto il resto»91. Presto però si fa chiaro a lui come a noi spettatori che quest’idea dell’arte come quietivo delle passioni non può essere di Settala così come non è di D’Annunzio. L’artista non crea sospendendo il rapporto che lo lega agli oggetti, troncando il desiderio, ma anzi sull’onda di questo, in un’ebbrezza che coinvolge i sensi e nella quale non è dato separare un lato ideale da un lato carnale. Lucio ha pensato, nei primi giorni di convalescenza, di essere ormai salvo, al riparo dal dissidio che lo divideva tra Silvia e Gioconda, ma si è presto reso conto che la rinunzia all’amore per Gioconda sarebbe stata possibile solo se egli avesse, contemporaneamente, rinunziato anche all’arte: «Lucio Settala: Poi riconobbi che v’era qualche altra cosa da abolire in me: questa forza che affluisce alle mie dita incessantemente per riprodurre 89 90 91

Ivi, p. 52. Ivi, p. 81. Ivi, p. 59.

122

Lo sguardo reciproco

[…]. Intendo che forse sarei salvo, se avessi dimenticato anche l’arte»92. Per lo scultore, i corpi sono importanti quanto le anime, anzi più delle anime. «Lucio Settala: [Silvia] è un’anima di pregio inestimabile. Ma io non scolpisco le anime […]. Quando mi apparve l’altra, io pensai a tutti i blocchi di marmo contenuti nelle cave delle montagne lontane, per la volontà di fermare in ciascuno un suo gesto […]. Una specie di affinità elettiva era tra la sua carne e il marmo che chinandosi ella sfiorava con l’alito. Un’aspirazione confusa pareva salire verso di lei da quella bianchezza inerte»93. Nella didascalia che introduce l’atto terzo, e descrive l’interno dello studio di Settala, D’Annunzio scrive: «La scelta e le analogie di tutte le forme rivelano qui l’ispirazione verso una vita carnale, vittoriosa e creatrice»94, e di questa vita l’animatrice è Gioconda. L’Irene di Quando noi morti ci destiamo si sentiva morta per aver fatto nascere un’opera d’arte; Gioconda si sente tanto più viva quanto più è sicura che le opere d’arte prodotte da Lucio sono state create grazie a lei. «Gioconda Dianti: Io sono viva e sono presente; ed egli ha trovato in me più di un aspetto, e mi inebriano ancora le parole ch’egli diceva per significare la sua visione diversa ogni mattina quando gli apparivo»95. Di questa vita che trascorre dal corpo vivente alla statua, senza che la seconda la sottragga al primo, la tragedia dannunziana ha un simbolo assolutamente esplicito, quasi tangibile. Quando Lucio ha tentato di togliersi la vita, aveva appena cominciato a modellare un’altra scultura, modellandone un abbozzo nella creta. Egli la credeva perduta, perché pensava ormai indurito e non più plasmabile il blocco di argilla; ma ha scoperto che Gioconda, esperta delle tecniche degli scultori, ha provveduto a tenere molle la creta, mentre egli guariva. «Cosimo Dalbo: Dunque ella penava a tenere umida la creta, mentre tu morivi? Lucio Settala: Non era forse anche quello un modo di contrastare la morte? Non era anche quello un atto di fede ammirabile? Ella conservava la mia opera»96. Ancora una volta, lo scultore e Gioconda dimostreranno di essere 92 93 94 95 96

Ivi, p. 79. Ivi, p. 81. Ivi, p. 103. Ivi, p. 118. Ivi, p. 84.

Amare una statua

123

partecipi di un unico segreto, che rimane ignoto, almeno inizialmente, all’amico Dalbo e alla moglie Silvia. Quando quest’ultima affronta Gioconda, crede di potere opporre alla rivale la certezza che Lucio saprà creare altre opere, anche senza il suo aiuto («Silvia Settala: Non è il primo [capolavoro], non sarà l’ultimo»), non immagina che proprio Gioconda ha conservato intatto l’abbozzo dello scultore, il blocco da cui sorgerà la nuova creazione: «Gioconda Dianti: certo, non sarà l’ultimo, perché un altro è pronto a balzare dal suo viluppo di creta, un altro ha palpitato già sotto il pollice animatore, un altro è là semivivo, e attende d’attimo in attimo che il miracolo dell’arte lo tragga alla luce. Ah, voi non potete comprendere questa impazienza della materia a cui fu promesso il dono della vita perfetta»97. Silvia credeva di essere l’unica depositaria di un’opera vivificante, giacché ella ha ridonato la vita al marito; scopre ora che un’altra salvazione ha avuto luogo, e che accanto alla vita che ha salvato un’altra vita avanza la richiesta di vivere, una vita sulla quale ella non ha più alcun potere. «Gioconda Dianti: La mia fede era pari alla vostra; certo, si collegò con la vostra contro la morte […]. Nulla è più sacro dell’opera che comincia a vivere»98. Tuttavia non è vero che Silvia non abbia avuto alcun presagio di questa vita diversa. Forse fin dall’inizio ha sentito avvicinarsi la sua sconfitta e ha avvertito l’impossibilità di contrastare la rivale sul terreno dell’arte. Deve essere questa consapevolezza la spiegazione più vera del fatto che ella si abbassi a mentire. Quando entra per la prima volta nello studio dello scultore, sorda alle preghiere della sorella che vorrebbe trattenerla o accompagnarla, Silvia è come abbagliata dalla visione improvvisa del capolavoro. La bellezza impreveduta sembra toglierle per un attimo le forze, e, come recita la didascalia dannunziana, «i suoi occhi restano intenti, come abbagliati non da una visione di morte, ma da una immagine di vita perfetta»99.

97 98 99

Ivi, p. 115. Ivi, p. 116. Ivi, p. 108.

124

Lo sguardo reciproco

L’opera È un pittore, e non uno scultore, il protagonista de L’opera, il romanzo che Zola scrisse nel 1885 trasferendovi molte delle esperienze accumulate frequentando gli ambienti artistici parigini (ancora una volta, quindi, un testo che si potrebbe leggere, ed è stato fatto, come un romanzo a chiave, come proiezione di esperienze personali: noi ci terremo lontani da tutto questo). Ma il pittore Claude Lantier, nella sua vita di bohème, conosce ovviamente anche alcuni scultori, e tra di essi il poverissimo Mahoudeau, che vorrebbe esprimersi in opere colossali ma non ha i mezzi per pagare il materiale che gli occorrerebbe, il marmo o la pietra, e neppure quelli per comprarsi il ferro necessario a costruire l’armatura per una argilla di grandi dimensioni. È nello studio di Mahoudeau, anzi nello squallido sotterraneo gelato ove egli si è ridotto a lavorare, che assistiamo ad una scena la quale, anche solo per la sua collocazione nel romanzo (quasi esattamente alla metà di esso, e nel giorno del matrimonio del protagonista) non può non assumere un valore simbolico, premonitore. Claude, impaziente, si è recato a prendere l’amico che deve fargli da testimone di nozze. Lo trova già pronto, ma preoccupato che il freddo intenso non guasti la creta umida della grande Bagnante che sta sbozzando. Visto che i panni bagnati con i quali ha ricoperto il blocco di creta sono già ghiacciati, accenderà un po’ di fuoco: «La tela scricchiolava sotto le sue dita, si rompeva in pezzi di ghiaccio. Dovette aspettare che il calore la disgelasse un poco: e, con mille precauzioni, la scoprì, prima la testa, poi il petto, poi i fianchi, felice di ritrovarla intatta, sorridendo come un amante di fronte alle nudità della sua adorata donna»100. Anche Claude è colpito dai progressi dell’amico: «La sua Bagnante possedeva già una notevole bellezza, con quelle spalle rabbrividenti, le braccia strette che mettevano in evidenza i seni, seni amorosi, scolpiti col desiderio della donna che la miseria esasperava; e, forzatamente casto, aveva plasmato una carne così sensuale, da turbare»101. I due artisti siedono un poco a chiacchierare, aspettando che i panni si scongelino completamente. La stufa ora è in100 101

E. Zola, L’opera, cit., p. 222. Ibidem.

Amare una statua

125

fuocata, il calore aumenta. «In quel momento la Bagnante, collocata lì vicino, sembrava rivivere, sotto il soffio tiepido che le saliva lungo la schiena»102. Ad un tratto, Claude crede di essere vittima di una allucinazione: «La Bagnante si muoveva, il ventre aveva un fremito d’onda leggera, il fianco sinistro si era inarcato come se la gamba stesse per camminare […]. Poco a poco la statua si animava tutta. Le reni si muovevano, il petto si gonfiava in un grande sospiro fra le braccia socchiuse. E improvvisamente la testa si inclinò, le cosce si piegarono, cadeva come una persona viva, con l’angoscia smarrita, lo scatto doloroso di una donna che si butta»103. È successo che lo scultore ha impiegato, in luogo dell’armatura di metallo, un traliccio di manici di scopa, troppo fragili per reggere al movimento dell’argilla che si disgelava. Mahoudeu si slancia per salvare la sua statua, «con lo stesso gesto d’amore con cui si era inebriato accarezzandola da lontano»104. La statua gli rovina addosso, lo travolge: «E lei parve cadergli al collo, lui accoglierla nella sua stretta: serrò le braccia su quella grande nudità verginale che s’animava come al primo risvegliarsi della sua carne»105. Per fortuna, lo scultore non rimane ferito, ne ha solo «la pelle contusa come dopo essere uscito dall’abbraccio di un’amante di pietra»106. Può raccogliere i frantumi con l’aiuto di Claude, e li ricompone: «Presto la figura fu di nuovo intera, simile a una di quelle suicide per amore che si schiantano dall’alto di un monumento e che si ricompongono, figure comiche e pietose, per essere trasportate alla Morgue»107. La rovina della statua incombe su tutti i testi che stiamo leggendo. Irene vorrebbe distruggere il capolavoro di Rubek, la Gioconda si avventa contro quello di Settala, che è salvato soltanto dal sacrificio cruento di Silvia, e, come vedremo, anche alla fine di Diana e la Tuda c’è qualcuno che si avventa contro una statua per distruggerla, e la salvezza della statua sarà in questo caso acquistata a prezzo di un omicidio. Ne L’Opera, tuttavia, questo è solo uno dei tanti simboli (per 102 103 104 105 106 107

Ivi, p. 223. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 224. Ibidem. Ivi, pp. 224-225.

126

Lo sguardo reciproco

quanto forse il più trasparente e suggestivo) che affollano le pagine del romanzo. Il racconto di Zola avrà certo, come è parso alla critica, le sue parti più riuscite nelle descrizioni degli ambienti artisticoletterari della Parigi del tempo, ma non vi è dubbio che esso sia percorso, dalla prima all’ultima pagina, dalla fascinazione ancora molto romantica per il misterioso legame che unisce la figura rappresentata sulla tela, o scolpita nella pietra, con il modello che la ispira. Se il crollo della Bagnante di Mahoudeau sembra evocare una ripresa della leggenda dell’innamoramento per la statua di Venere, con il finale capovolto (solitamente è la statua che trionfa e l’innamorato che soccombe), l’inizio del romanzo può ben essere l’ennesima variante del mito di Butade e della invenzione della pittura. L’Opera si apre con l’incontro casuale di Claude e di Christine. Per ripararsi dal diluvio torrenziale, quest’ultima, sola a Parigi in piena notte per un seguito di contrattempi, accetta, pur timorosa, il rifugio che le offre Claude. Esausta, si addormenta. Al mattino, il pittore ruberà alla ragazza ancora addormentata l’immagine che gli serve per il quadro che sta dipingendo: «Era quella, esattamente quella, la figura che aveva inutilmente cercato per il suo quadro, e già quasi in posa»108. Il tempo di prendere un cartone e un pastello, e Claude è al lavoro: «Tutto il suo turbamento e il desiderio contrastato sfumavano nello stupore dell’artista […] già aveva dimenticato la ragazza»109. Claude dapprima darà alla figura centrale del quadro che sta dipingendo (en plein air) i tratti del volto di Christine, poi cancellerà tutto, ma solo per ritrovarsi incapace di finire quell’immagine femminile: «Era soprattutto alla figura centrale, la donna sdraiata, che il pittore lavorava: non aveva più toccato la testa, si accaniva sul corpo, cambiando modella ogni settimana»110. Non meno turbata di lui è Christine, che sulle prime non è affatto contenta di vedere la sua immagine utilizzata nel quadro, ma poi, quando la vede cancellata, comincia a provare un disagio che è una gelosia: «lei che si era pudicamente ribellata il primo giorno, ora provava un dispiacere sempre più forte nel vedere che nulla dei suoi tratti rimaneva. […] Forse non l’amava, se la lascia108 109 110

Ivi, p. 9. Ibidem. Ivi, p. 86.

Amare una statua

127

va uscire così dalla sua opera?»111. Christine acconsente a posare, ma solo per il viso; Claude, però, non può completare il dipinto con il corpo di un’altra. Quando manca solo un giorno alla apertura del Salon al quale Claude dovrebbe rinunziare, Christine decide che poserà nuda per lui: in poche ore la tela è pronta per il vernissage dell’indomani. Ma è un’opera troppo ardita perché il pubblico la possa capire, e Claude non raccoglie che l’irrisione dei conformisti. L’insuccesso però non lo avvilisce, anche perché nel frattempo Christine gli ha confessato il suo amore per lui. I due vivranno insieme, fuggiranno dalla città, trascorreranno un periodo idilliaco in un piccolo paese nei dintorni di Parigi. Dopo qualche anno, tuttavia, le cose cominciano a guastarsi. Claude lavora di malavoglia, il suo genio promettente non trova modo di sbocciare. Convinta che solo la vita della città e il ritrovato contatto con i compagni di bohème possa ridargli la forza di creare, Christine convince Claude a rientrare a Parigi. Anche qui, però le cose non fanno che peggiorare. Il gruppo di amici di un tempo si disperde, ognuno insegue il proprio successo e la propria strada, mentre le gelosie e le rivalità li separano; Claude non ritrova la sua vena, e si affatica in progetti senza esito; consumata una piccola rendita, i due amanti vedono affacciarsi l’incubo della miseria, e Claude è costretto ad accettare piccoli lavori su commissione per sbarcare il lunario; infine il piccolo Jacques, frutto della loro unione, muore non ancora decenne. Il piccolo quadro nel quale Claude ritrae il figlioletto morto (ancora una pittura che non può affermarsi se non togliendo la vita a ciò che rappresenta) riuscirà ad entrare nel Salon solo grazie ai buoni uffici pietosi di un vecchio amico divenuto nel frattempo pittore influente, ma passerà del tutto inosservato. Tutto precipita, con Claude che alterna abulia ed esaltazione, ormai interamente concentrato su di un’unica opera, una grande tela con un paesaggio parigino e un nudo di donna in primo piano. Per quel nudo, Christine è tornata a fargli da modella, tutti i giorni, e non più saltuariamente come accadeva prima. Ma se in precedenza l’aveva fatto di buon grado, «lusingata, felice di farlo contento, ignara della tremenda rivale a cui stava cedendo»112, ora non tarderà ad accorgersi che l’immagine dipinta si è totalmente 111 112

Ivi, p. 115. Ivi, p. 156.

128

Lo sguardo reciproco

sostituita a lei nel cuore di Claude. «Il quadro immenso si drizzava tra loro, li separava come infrangibile barriera; ed era al di là che lui viveva, con un’altra. Lei ci diventava pazza, gelosa di questo sdoppiamento della sua persona […] e tuttavia non si sbagliava, capiva bene che preferiva la sua copia a lei stessa, che quella copia era la donna adorata, l’unica preoccupazione, l’amore di ogni minuto. La uccideva con la posa per fare l’altra più bella113. Come fra Rubek ed Irene, la passione fisica è scacciata dalla fredda contemplazione dell’artista, e Claude in Christine non vede più la donna amata, ma solo la modella per il suo quadro. Christine è in posa. «Immobile, sotto la brutalità della posa, sentiva il disagio della propria nudità. In ogni parte dove era stata toccata dalle dita di Claude, le permaneva una impressione di gelo, come se il freddo che la faceva tremare entrasse proprio da quei punti. L’esperimento era stato fatto, a che scopo protrarre la speranza? Quel corpo, ovunque ricoperto dai suoi baci innamorati, or non lo guardava più, non lo adorava più se non come artista. Una sfumatura del seno lo entusiasmava, una linea del ventre lo metteva devotamente in ginocchio laddove, un tempo, accecato dal desiderio, la schiacciava tutta contro il suo petto, senza vederla, in abbracci in cui l’uno e l’altra avrebbero voluto fondersi. Ah, era davvero la fine, non esisteva più, amava in lei soltanto la propria arte, la natura, la vita. E, gli occhi remoti, conservava la rigidità di un marmo, tratteneva le lacrime che le gonfiavano il cuore […]. La sua passione dalla carne si era trasferita nell’opera»114. Il passaggio dalla vita all’immagine, dal corpo alla statua, dalla carne alla pittura è anche, come Christine percepisce oscuramente, un transito verso la morte. Il legame tra l’arte e la morte è un tema ricorrente nell’Opera. Quando Claude entra nel miserabile atelier di Mahoudeau, dove assisterà alla rovina della Bagnante, è come se si addentrasse in un obitorio o in un lazzeretto: «Negli angoli, altre statue di gesso, meno ingombranti, fatte con passione, esposte, poi tornate lì, in mancanza d’acquirenti, battevano i denti, il naso contro il muro, allineate in lugubre fila d’ammalati, la maggior parte già rotte, ad ostentare mutilazioni, tutte incrostate di polvere, inzaccherate di argilla; e tali miserabili nudità trascinava113 114

Ivi, p. 244. Ivi, p. 242.

Amare una statua

129

no così da anni la loro agonia sotto gli occhi dell’artista che aveva trasmesso loro la sua energia; inizialmente conservate con passione gelosa, malgrado il poco spazio, cadute in seguito nell’orrore grottesco delle cose morte, fino al giorno in cui, preso un martello, le aveva finite da sé, riconducendole in gesso, per buttarle fuori dalla sua vita»115. E già proprio all’inizio del romanzo, quando in un impeto di furore Claude raschia via dalla tela la testa della donna del plein air, quel volto che come sappiamo aveva già i tratti del viso di Christine, è una uccisione, un omicidio quello cui assistiamo. «Fu un autentico assassinio, un annientamento: tutto scomparve in una poltiglia melmosa. Allora, accanto a quel signore nella sua giacca aitante fra gli arbusti luminosi […] non rimase altro, di quella donna nuda ormai priva della testa, che un troncone mutilo, vaga macchia cadaverica, carne di sogno dissolta e morta»116. Ma è soprattutto nell’episodio agghiacciante del ritratto del figlio morto che l’equivalenza tra l’immobilità del modello e la rigidità del cadavere si fa completa. «Da principio resistette, il pensiero confuso si precisava, finiva per diventare ossessivo. Alla fine capitolò, andò a prendere una piccola tela, cominciò uno schizzo del figlio morto. Poi, il lavoro gli seccò le palpebre, rese sicura la mano; e presto non ebbe più davanti il figlio stecchito, ma un modello, un soggetto che l’appassionò per l’insolito interesse. […] Quando Christine si alzò, lo trovò immerso nel lavoro. Allora, ripresa da un accesso di lacrime, disse solamente: ah!, puoi dipingerlo, non si muoverà più»117. Nella scena conclusiva del romanzo, Christine tenta uno sforzo supremo per riaffermare i diritti della vita sulla pittura. È notte. Christine sente che Claude non è più accanto a lei («Il loro letto, da molti mesi, era gelido; ci si allungavano fianco a fianco come due estranei, dopo una lenta rottura dei vincoli che univano i loro corpi: volontaria astinenza, castità teorizzata a cui era giunto per offrire tutta la sua forza alla pittura»118). Si alza, lo trova davanti al grande quadro incompiuto. Da mesi, ormai, Claude non osava rimettere le mani sulla grande figura di donna che campeggia al 115 116 117 118

Ivi, p. 221. Ivi, p. 48. Ivi, p. 268. Ivi, p. 345.

130

Lo sguardo reciproco

centro della composizione, «ed era questo a tranquillizzare Christine, a renderla tollerante e misericordiosa nella sua acida gelosia: finché non tornava da quell’amante agognata e temuta, si sentiva meno tradita»119). Ma è proprio quella donna che ora Claude sta dipingendo. «Allora Christine aprì la porta e si fece avanti. Una invincibile ribellione, il furore di una sposa oltraggiata in casa sua, tradita durante il sonno, nella stanza vicina, la incalzava. Sì, lui stava proprio con l’altra, dipingeva il ventre e le cosce come un visionario delirante che il tormento del vero gettava nell’esaltazione dell’irreale […]. Una così strana nudità da ostensorio, dove sembrava che le pietre preziose risplendessero per qualche religiosa adorazione, finì d’infuriarla»120. La gelosia di Christine esplode: «Ah! Questa pittura, sì! la tua pittura, è lei l’assassina, che ha avvelenato la mia vita»121. La donna dipinta ha preso il suo posto. «Perché dillo, se hai il coraggio, dillo che non si è impossessata di te pezzo a pezzo, il cervello, il cuore, la carne, tutto!»122. Ma Christine è viva, e questa è la sua indubitabile superiorità sulla rivale. «Lo vedi bene che sei sconfitto, perché ostinarti ancora? È una cosa insensata, è questo che mi fa ribellare… Se non puoi essere un grande pittore, ci resta la vita, ah!, la vita […]. Ascolta, c’è la vita […]! Mi hai preso come modella, hai voluto le copie del mio corpo. A che scopo, dì? forse queste copie valgono me? Sono spaventose, sono rigide e fredde, come cadaveri! E io ti amo, e io voglio averti […]. Quando ti offro di posare, quando sono lì, a sfiorarti, con il mio alito, è perché ti amo, lo capisci?, è perché sono viva, io!»123. La vittoria di Christine, il ravvedimento di Claude («Che ho fatto? … Allora è proprio impossibile creare? le nostre mani non hanno il potere di creare degli esseri?»124) durano solo poche ore. Il mattino successivo, Claude non è già più accanto a lei. Come Frenhofer, il pittore del racconto di Balzac Il capolavoro sconosciuto, il cui riverbero tante volte si proietta sul romanzo di Zola, si è impiccato davanti al quadro che era diventato tutta la sua vita.

119 120 121 122 123 124

Ivi, p. 347. Ibidem. Ivi, p. 348. Ibidem. Ivi, p. 352. Ibidem.

Amare una statua

131

Diana e la Tuda La Diana che Sirio Dossi scolpisce in Diana e la Tuda di Pirandello è parente stretta della Belle Noiseuse di Frenhofer e della tela gigantesca di Claude Lantier. Anch’essa aspira ad essere un’opera d’arte assoluta, unica. Come Frenhofer, anche Sirio Dossi non è un artista che debba vivere del proprio lavoro. Ricchissimo, ha deciso di consacrarsi interamente a quella scultura, e più volte ha ripetuto che, quando l’avrà compiuta, si ucciderà. Ma la Diana non sarà mai finita, e trascinerà alla morte il suo autore come era accaduto al Giorno della Resurrezione di Rubek. Sirio Dossi però non commetterà il premeditato suicidio: sarà il vecchio scultore Nono Giuncano ad ucciderlo, per impedire che egli, a sua volta, non uccida la Tuda che si lancia contro la statua per distruggerla, novella Gioconda. Rappresentata in prima assoluta a Zurigo nel Novembre del 1926, messa in scena a Palermo all’inizio dell’anno successivo, Diana e la Tuda è tra le opere meno frequentate dell’intero repertorio pirandelliano. È stata riproposta sulle scene, a quanto ci consta, solamente due volte, nel 1971 e nel 1984, sempre con la regia di Arnoldo Foà. La critica ha mostrato di non amarla in modo particolare. Forse le nuoce proprio la facilità con la quale si presta ad essere inquadrata nel fin troppo noto schema tilgheriano del dualismo di vita e forma, della impossibilità della vita di esaurirsi in quella forma in cui pure necessariamente deve calarsi. Non ci vorrebbe molto, in effetti, per riportare Diana e la Tuda nel contesto della poetica pirandelliana, e notare per esempio le analogie con le dichiarazioni di Hinkfuss, il regista di Questa sera si recita a soggetto («Ogni scultore […] dopo aver creato una statua, se veramente crede d’averle dato vita per sempre, deve desiderare che essa, come una cosa viva, debba potersi sciogliere dal suo atteggiamento e muoversi, e parlare. Finirebbe d’esser statua …»125); ma quello che interessa qui è invece seguire il filo del nostro tema, cogliere, piuttosto che le risonanze interne al corpus pirandelliano, gli echi dei testi appena letti. L’eco del grido di Christine, ad esempio. L’urlo disperato che risuona nella chiusa dell’Opera, «perché sono viva, io!», è il grido 125 Le dichiarazioni di Hinkfuss si leggono in Questa sera si recita a soggetto; richiama l’attenzione su di esse C. Vicentini, L’estetica di Pirandello, Milano, Mursia, 1970.

132

Lo sguardo reciproco

di Tuda nelle primissime battute del testo di Pirandello: «Sono di carne, oh!»126. Non è ancora tragedia, a questo punto. È solo la protesta della modella stanca per la posa troppo lunga cui la costringe Sirio Dossi, e che trova appoggio nel vecchio scultore Giuncano. Quest’ultimo ha smesso di fare statue per la rabbia e l’impotenza di vederle immobili, eterne ma senza tempo, mentre la vita è un fluire, e dunque anche un invecchiare. Se potesse farle vive, le statue, tornerebbe a scolpire. «Poter dar loro, con la forma, il movimento, e avviarle, dopo averle scolpite, per un viale infinito, sotto il sole, dov’esse potessero andare, andare sempre, sognando di vivere lontano, fuori dalla vista di tutti, in un luogo di delizia che sulla terra non si trova, la loro vita divina»127. Ma lo sviluppo tragico incombe già in questo avvio, se si affaccia nella battuta premonitrice di Giuncano a Sirio: «Uccidila, uccidila, sarà fermissima!»128. Il dramma non è ancora iniziato, e già l’immobile freddezza della statua sembra far segno verso l’immobilità della morte. «Ah, papà Giuncano – scherza Tuda ancora in posa – vorrei darle un bacio! ma glielo do qua, senta, sul mio braccio. Ah, Dio, freddo come se fosse morto!»129. Poco più avanti, ancora uno scambio di battute tra la modella e il vecchio scultore. «Tuda: Dorme, maestro? Giuncano: Fumo. Ti vedo nell’ombra. Tuda: Son bella? Giuncano: Sì, cara. Morta. Tuda: Come, morta? Sirio (con un urlo): Ferma! Tuda: Eh, dice morta … Giuncano: Appunto perché ti vuole ferma così»130. Per Giuncano Tuda, con tutta la sua vitalità e la sua bellezza rappresenta una sfida che l’arte ha già perso in partenza. «Fanne ora una statua! Tutta un fremito continuo di vita: ogni attimo un’altra!»131. Silvio Settala, nella pièce di D’Annunzio, era pronto a raccogliere la sfida analoga che gli veniva dal corpo sempre diverso di Gioconda («Immagina questo mistero su tutto il suo corpo! Imagina per tutte le sue membra, dalla fronte al tallone, questo apparire di vite fulminee […]! Mille statue, e non una!»132); Sirio Dossi pensa che solo l’arte possa dare consistenza 126 127 128 129 130 131 132

L. Pirandello, Diana e la Tuda, cit., p. 4. Ivi, p. 17. Ivi, p. 4. Ivi, p. 6. Ivi, p. 16. Ivi, p. 18. G. D’Annunzio, La Gioconda, cit., p. 82.

Amare una statua

133

alla vita, facendola durare nella forma: «E se non la fermi in un gesto in cui consista, che è? Nulla. Giuncano: Vita! Vita! Sirio: Che passa! Giuncano: Appunto! Sirio: Oggi non è più quella di ieri, domani non più questa d’oggi! Ogni attimo un’altra! tante! io la faccio una: quella! (indica la statua) per sempre! Giuncano: Una – e per sempre – che non si muova più? Sirio: È l’ufficio dell’arte. Giuncano: E della morte: che farà anche di te, di me una statua: su un letto o per terra, quando vi giacerai, stecchito»133. A questo inizio corrisponderà, simmetricamente, la chiusa dell’ultimo atto. «Giuncano: Io ho voluto rispettar in te [ossia in Tuda] la vita! Al contrario di quanto sta facendo ora lui! Sirio: Ah, io non la rispetto? Hai il coraggio di dire che io non la rispetto, perché voglio che serva a qualche cosa che stia sopra e oltre quello che possiamo soffrire tu-lei-io stesso? Giuncano (con derisione): Tu? Sirio: Se ci metto dentro tutta la mia vita, e quella degli altri. Giuncano: Uccidendola? Sirio: No, anzi, perché non muoia più! Giuncano: E intanto muoia sempre?»134. Ma se l’arte è la nemica della vita, allora, ancora una volta, la creazione dell’opera dovrà presupporre l’uccisione del desiderio, la cancellazione della passione. Come Rubek, come Demetrio, come Lantier, anche Sirio Dossi non può amare la sua modella, che pure è l’ispiratrice della sua opera, la sola che possa aiutarlo a compierla. È proprio intorno a questo tema che si sviluppa l’azione del dramma. Solo con Tuda Sirio riesce a lavorare alla sua Diana. Ma la giovane modella è molto richiesta, e posa anche per altri, perfino per un pittore che Sirio giudica un mediocre, un tale Caravani. Quando viene a sapere che anche quest’ultimo vuole lavorare con Tuda ad una Diana, Sirio ha uno scoppio d’ira, una scena di gelosia: che è, però, gelosia d’artista verso la modella e non gelosia di innamorato vero l’amante. Ma Tuda, nella sua ingenuità fin troppo perspicace, centra subito il punto. «Ne sei geloso? Ma quando un artista vuole una modella tutta per sé, sai che fa? la sposa, caro!»135. E Sirio accetterà di sposare Tuda, ma con un patto assai chiaro: egli ha bisogno di una modella, non di una moglie. Tuda, dunque, si impegnerà a posare per lui soltanto, al133 134 135

Ivi, p. 19. Ivi, p. 96. Ivi, p. 14.

134

Lo sguardo reciproco

loggerà nella casa di lui, avrà tutti i diritti di una moglie. Ma entrambi conserveranno la loro libertà. Tuda potrà uscire con chi vuole, Sirio continuerà a frequentare la sua amante Sara Mendel. Un semplice affare, dunque, agli occhi di Sirio, non altrettanto a quelli di Tuda. «Sirio: Tu avrai fatto comunque un ottimo affare, stai sicura. Tuda: Affare! Non è affare soltanto! Sirio: Ah no, soltanto. Il tuo corpo, per quel che mi deve servire. […] Tuda: Io dovrò allora servire soltanto per la tua statua? Sirio: A me, soltanto per la mia statua. Tuda (sta a guardarlo un pezzo; poi, ambigua, con aria di sfida): bada, oh, che io sono viva!»136. Tuda non starà ai patti. Si innamorerà (o forse, meglio, è sempre stata innamorata) di Sirio, e, offesa e umiliata dal comportamento di lui, deciderà di vendicarsi nel solo modo che ha a disposizione, decidendo di tornare a posare per l’odiato Caravani. «Tuda: Perché questo sarebbe l’unico tradimento che io potrei fargli. Sara: Sicuro: da modella. Non potendo tradirlo come moglie»137. Nella scena che oppone Sara Mendel a Tuda nel secondo atto, sembra che quel che ha indignato la modella e la spinge a rifiutare tutti i vantaggi materiali della sua nuova situazione sia la gelosia per l’amante di Sirio, che continua a frequentare la casa di lui ed anzi si è perfino fatta dare la chiave dello studio in cui Tuda posa. Nel corso del terzo atto, tuttavia, comprendiamo che le cose sono più complesse e che la vera rivale di Tuda non è una donna in carne ed ossa, ma una statua. La sua statua, la Diana. Nel racconto che Sara Mendel fa a Giuncano abbiamo ancora l’interpretazione più semplice, in chiave di gelosia tradizionale. Sara racconta di come ha spinto Tuda al ‘tradimento’, di come si è procurata la chiave dello studio di Caravani in modo da poter far sorprendere Tuda mentre posava nuda per il rivale, racconta il duello che ne è seguito fra Dossi e Caravani. Da allora, Tuda è sparita, e Sirio non è più riuscito a lavorare alla sua statua («Giuncano: Ormai non può più finirla, quella statua, se non con lei […] se ne accorge adesso che sente mancarsi tra il pollice e la creta il dono con cui lavorava»138). La nuova modella che ha convocato, Jonella, non gli servirà, e lui per primo ne è consapevole, se è andato di persona a ri136 137 138

Ivi, p. 35. Ivi, p. 60. Ivi, p. 74.

Amare una statua

135

cercare Tuda, e ha tentato in tutti i modi di ricondurla da lui. Nella scena culminante e conclusiva tutti i protagonisti si ritrovano nello studio di Sirio. È a questo punto che Tuda rivela il suo vero dramma. Tuda si è accorta che Sirio ha usato le sue sofferenze di innamorata non corrisposta, il suo tormento per la passione ignorata, perché gli serviva trasferirli nella sua opera. E allora mette in guardia la nuova modella dal destino che l’attende se accetta di posare. Le mostra la statua, e grida «Guardala! Guardala bene! Guardale gli occhi! gli occhi! – e or guarda qui i miei! – vedi? vedi? sono i miei, là – questi – come me li stai vedendo ora – da pazza – e così, perché me li hanno fatti diventare così – da pazza – tutti e due […]! Non li aveva lei (indica la statua) prima, questi occhi – erano altri, i suoi occhi! – Lui me li ha presi e glieli ha dati: guardala: – e quella mano là che tocca il fianco – la vedi? – era aperta, prima, quella mano! vedi, ora? chiusa, serrata a pugno. Me l’hanno fatta chiudere, serrare loro così, per resistere al supplizio, e la statua, vedi, anche lei – l’aveva aperta: ha dovuto chiuderla! gliel’ho veduta chiudere – non ha potuto farne a meno! Non è più quella che lui voleva fare! Sono io ora là, capisci?»139. Quello che Sara Mendel non ha compreso è che Sirio si è servito di lei tanto quanto si è servito di Tuda, sacrificandole entrambe alla statua: «Tuda: S’è approfittato di voi, come di me, per la sua statua – di quanto voi m’avete fatto soffrire – […] perché giovava alla sua statua!». Sirio, insomma, si è servito della gelosia suscitata in Tuda dall’amante, ha fatto anche di lei uno strumento, perché voleva impiegare la sofferenza di Tuda per la sua scultura («Sirio: io non stavo qui come un gonzo a fare la ridicola figura dell’uomo conteso da due donne»140). Ecco come Tuda è arrivata a capire quel che stava accadendo: «Tuda: Lo compresi subito, sa perché? perché quand’ero lassù [in posa sul piedistallo] avrebbe dovuto gridarmi “Non fare questi occhi!” “Apri quella mano!”. Non me lo gridò mai. Giuncano: lasciò la statua serrare la mano, e avere quegli occhi! Tuda: Oh, ecco! e di questo, vede, sono andata a vendicarmi con quello stupido là (a Sirio) perché tu che in me t’eri comprata la modella, della modella ti dovevi servire per la tua statua com’era; e non di me che soffrivo, 139 140

Ivi, p. 89. Ivi, p. 91.

136

Lo sguardo reciproco

per farla diventare un’altra!»141. È a questo punto, mentre Sara Mendel, infuriata, vorrebbe troncare tutto, che Tuda intravvede la possibilità di un’estrema rivincita. Ogni cosa deve rimanere uguale, perché la statua possa essere compiuta: «Tuda: Vorreste, dopo quello che m’avete fatto soffrire, che egli non finisca ora la sua statua? Eh no, la deve finire, la deve finire! E dunque voi dovete seguitare a venire qua»142. Se Tuda è stata sacrificata alla statua, pure conserva su di essa un potere, giacché è solo grazie a lei che la statua potrà essere finita. Tuda potrebbe ancora essere Gioconda. Sarà Giuncano a toglierle questa estrema illusione. Quella sofferenza che Sirio le ha causato a bella posta per riprodurla nell’opera, ha anche macerato il corpo e i lineamenti di Tuda, sì che ella non solo non potrà più essere amata, ma nemmeno potrà più essere la modella della Diana. Solo a questo punto Tuda si accorge che per lei è veramente tutto perduto. «Ah già, è vero … è vero … Oh Dio, come faccio? È vero, … così non posso più … è vero! Non posso più! Ma lei lo capisce? Là, con la mia carne, col mio sangue, con gli occhi che vedevano ciò che faceva di me, che mi prendeva, mi prendeva tutta per la sua statua; essere io, là – viva – e non essere nulla […]! Lo so, lo so, non dovevo essere nulla per lui; ma ero di carne, io! di carne che mi si è macerata così»143. Nell’ultimo scontro tra Sirio e Giuncano tornano a contrapporsi le convinzioni estetiche che già avevamo visto in conflitto nel primo atto. «Giuncano: un fantoccio di cartapesta tu dovevi sposare per la tua statua! Ti sarebbe rimasto lì fermo, come doveva essere – per la tua statua, là ferma anch’essa, come doveva essere: tempo senza età: la cosa più spaventosa […]! L’età che è il tempo quando diventa umano – il tempo quando duole – noi, di carne: questa poverina che non è più come dovrebbe essere per la tua statua, ma come può essere dopo aver sofferto quello che voi – tu e quell’altra – le avete fatto soffrire […]. Sirio: Hai tu coscienza che la mia statua sia bella? bella, veramente bella? E che vuoi che m’importi d’altro, dunque, se poi pagherò io più di tutti la mia opera compiuta? Giuncano: Se per te la vita non ha più prezzo. Sirio: Ma questo prezzo: la 141 142 143

Ivi, p. 92. Ivi, p. 94. Ibidem.

Amare una statua

137

mia statua!»144. Mentre udiamo le ultime grida di Tuda disperata («Prendimi, prendimi, prendi la vita che mi resta, e chiudimi là nella tua statua! […] Sì, che io vi muoia dentro! Se non mi vuoi far vivere! […] cercava una pasta ardente da colare dentro alle statue? Eccola! Eccola […]! Ci voglio essere io, là dentro»145), mentre assistiamo al precipitare dell’azione (Tuda si avventa contro la statua, o almeno Sirio crede che ella lo stia per fare, e si slancia contro di lei minacciando di ucciderla; Giuncano, per impedirglielo, lo aggredisce e lo uccide) ci accorgiamo che il rapporto che lega Diana e la Tuda agli altri testi che abbiamo esaminato è diverso da quello che potevamo a tutta prima supporre, e si sviluppa su più piani. Molti indizi lasciavano ritenere che il dramma pirandelliano fosse quello in cui il legame tra artista, modello e statua era maggiormente risolto in una dialettica astratta, intellettuale (vita e forma, informe vita che anela alla sua forma, etc.). si poteva legittimamente supporre che il tema decisivo fosse quello ibseniano della inibizione del desiderio (il che, almeno al livello elementare del puro dipanarsi dell’intreccio resta immediatamente vero). Ci accorgiamo ora, però, anche senza bisogno della suggestione delle didascalie («nello studio si è fatto buio. Solo la statua, con la luce che cola dal lucernario, appare distinta. I quattro che vi stanno sono come ombre nell’ombra»146) che il dramma di Pirandello non potrebbe funzionare se non vi agisse in profondo il tema romantico dell’immagine che sottrae vita alla vita, che svuota il personaggio che dovrebbe rappresentare. Nella Diana, al di là di ogni diversità, c’è qualcosa che ricorda il Ritratto ovale di Poe. Forse è fatta dello stesso marmo nel quale è scolpita l’immagine della Zambinella nel misterioso Sarrasine di Balzac. Forse, come il titolo autorizza del resto a pensare, la vera protagonista della pièce è lei, l’immobile statua di pietra.

144 145 146

Ivi, pp. 95-96. Ivi, p. 97. Ivi, p. 95.

AMARE UNA STATUA LA MODELLA E L’AMANTE NELLA LETTERATURA EUROPEA Paolo D’Angelo

Accadde, si voleva dire, che nello stesso tempo o in un altro punto del sistema […] lei fosse rimasta immobile come una statua, promettendo e permettendo con ciò tutto e niente, con induzione in, e con divieto di, tentazione. Non fu detto che cosa ne seguisse in particolare, ma in ogni caso improbabilmente qualcosa di apprezzabile dall’esterno. Anzi si fece intendere che era quasi impossibile stabilire, a quelle condizioni di sensualità eidetica, se si producesse o no un reale godimento, sempre difficilmente distinguibile dai godimenti immaginari. E. Garroni

Pigmalione rovesciato La letteratura è piena di storie di amori per le statue. Di statue viventi, di statue animate, di statue innamorate, di statue amate. Di convitati di pietra, di Veneri risvegliate, di scultori vittime del fascino delle opere da loro stessi prodotte. Di ritratti dallo sguardo stregato, parlanti, che invecchiano come persone reali o che sottraggono la vita ai loro modelli. Di personaggi che si innamorano di uno sguardo, di un sorriso, di un volto che hanno visto effigiato in qualche morta immagine e che non hanno pace finché non li ritrovano in un corpo vivente, o viceversa di artisti sventurati che li imprigionano nel marmo o nella tela e che solo così li sanno amare. Ci sono nuclei tematici, in proposito, che sembrano possedere una sorprendente capacità di scavalcare ogni confine temporale, linguistico e geografico, e di durare per secoli e millenni attraverso infinite variazioni. Uno, naturalmente, è il mito di Pigmalione, lo scultore che si innamora della statua bellissima da lui scolpita ed ottiene in dono

94

Lo sguardo reciproco

dagli dèi che essa si animi e diventi una fanciulla in carne ed ossa; un mito che dall’archetipo ovidiano, nel decimo libro delle Metamorfosi, trapassa nell’ultima parte del Romanzo della rosa e poi va incontro a riprese innumerevoli, in particolare nella letteratura del diciottesimo secolo1. Un altro è la storia della statua antica di Venere della quale un giovane si innamora dopo averle posto al dito, per gioco, il proprio anello nuziale: una storia che si ritrova, probabilmente per la prima volta, in una cronaca inglese del dodicesimo secolo, Le gesta del re degli Angli di William of Malmesbury, e che poi transita in tutte le letterature occidentali, dal Diavolo innamorato di Cazotte al racconto di Achim von Arnim Raffaello e le sue vicine, dalla Venere d’Ille di Merimée al racconto di James L’ultimo dei Valerii, fino alle riprese novecentesche di D’Annunzio, nella Pisanella, o di Anthony Burgess, in Santa Venere2. E c’è, quasi ad ammonire che la creazione dell’immagine dipinta o scolpita cela sempre un innamoramento per la persona ritratta, il mito raccontato da Plinio sull’origine della pittura e della scultura: la storia di Butade di Sicione, il vasaio che scorge il profilo che la figlia ha tracciato con un pezzo di carbone sul muro, seguendo i contorni dell’ombra del suo amato, prossimo a partire, e ne trae l’idea di forgiare in creta la medesima immagine. Così 1 Sul mito di Pigmalione si dovrà vedere l’ampio inventario di H. Dörrie, Pygmalion. Ein Impuls Ovids und seine Wirkungen bis in die Gegenwart, Opladen, Westdeutscher, 1974, da integrare con H. Schlüter, Das Pygmalion-Symbol bei Rousseau, Hamann, Schiller. Drei Studien zur Geistesgeschichte der Goethezeit, Zürich, Juris, 1968 e J.L. Carr, Pygmalion and the Philosophes. The animated statue in Eighteenth Century France, in «The Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», n. 23 (1960), pp. 339 ss.; lo studio, in italiano, di G. Rosati, Narciso e Pigmalione, Firenze, Sansoni, 1983, è opera di un latinista, che si concentra quasi eclusivamente sulla trattazione ovidiana dei due miti; sul tema di Pigmalione e in generale dell’amore per l’immagine nella cultura medioevale ha ottime osservazioni G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1977, soprattutto la parte terza. Da ultimo il fondamentale V. Stoichita, L’effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock, Milano, Il Saggiatore, 2006. 2 Un’ampia trattazione del tema dell’“anello di Venere” (la storia del giovane che si innamora di una statua antica alla quale ha per gioco infilato un anello al dito), con molte indicazioni delle sue riprese in letteratura è la voce «Statuenverlobung», in E. Frenzel, Stoffe der Weltliteratur, Stuttgart, Kröner, 1962; si può vedere poi P. Baum, The Young Man Bethroted to a Statue, in «Publications of the Modern Language Association», n. 34 (1919), pp. 523-579.

Amare una statua

95

nascono non solo le due arti, ma anche un topos che andrà incontro ad infinite variazioni, quello dell’effigie come sostituto della persona amata3. Per rifare la storia di ognuno di questi temi non basterebbe un libro voluminoso; di fatto ce ne sono già molti, e alcuni pregevoli, su tali argomenti4. Non seguiremo dunque questa strada. Vorremmo lasciarci alle spalle anche tutte le riprese degli stessi temi o di temi simili nelle letterature dell’età romantica, nelle quali abbondano le passioni per le immagini dipinte o scolpite (dall’Hoffmann degli Elisir del Diavolo allo Heine delle Notti fiorentine) e gli haunted portraits (dal Castello di Otranto di Walpole al Ritratto ovale di Poe), per puntare su di una particolare declinazione del tema del fascino dell’immagine artistica per il suo creatore in alcuni testi tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo scorso. Ci occuperemo più estesamente di tre testi teatrali che presentano alcune notevoli analogie tematiche: Quando noi morti ci destiamo di Ibsen5, la Gioconda di D’Annunzio6 e Diana e la Tuda di Pirandello7. Nel passare dall’uno all’altro di questi testi, dediche3 Per il tema della figlia di Butade e della origine della pittura e della scultura (la cui fonte è in Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 151), soprattutto da un punto di vista iconografico: R. Rosenblum, The Origin of Painting: a Problem in the Iconography of Romantic Classicism, in «The Art Bulletin», n. 39 (1957), e gli Addenda di G. Levitine, sempre in «The Art Bulletin», n. 40 (1958). 4 In generale sui temi relativi alle immagini animate andrà visto Th. Ziolkowski, Disenchanted Images. A Literary Iconology, Princeton, Princeton UP, 1977 (contiene tre capitoli tematici: uno dedicato a «Venus and the Ring», uno a «The haunted Portrait», uno a «The magic Mirror»); D. Freedberg, The Power of Images, Chicago, University of Chicago Press, 1989 (trad. it. di G. Perini, Il potere delle immagini, Torino, Einaudi, 1993), tratta molti temi vicini a quelli da noi toccati, in particolare nel cap. XII, «Arousal by Image». Il volume di Maurizio Bettini, Il ritratto dell’amante, Torino, Einaudi, 1992, si sofferma su molti temi relativi alla passione per l’immagine dipinta o scolpita, e tra di essi anche su quelli di Pigmalione e di Butade. Il testo di Bettini, molto ampio e documentato, è centrato principalmente sulle letterature classiche, ma non manca di interessanti aperture sulle riprese dei temi dell’amore per l’immagine nelle letterature moderne. In più, si tratta di un testo di piacevole lettura, e ricco di segnalazioni su altra letteratura in argomento. 5 Tutte le citazioni da Quando noi morti ci destiamo di Ibsen sono tratte dalla traduzione italiana di L. Ulisse, in H. Ibsen, Tutto il teatro, con introduzione di P. Chiarini, Roma, Newton Compton, 1973. 6 Citiamo da G. D’Annunzio, La Gioconda, introduzione, bibliografia e note di I. Caliaro, Milano, Mondadori, 1990. 7 Citiamo da L. Pirandello, Diana e la Tuda. Sagra del signore della nave, a cura di C. Simioni, Milano, Mondadori, 1980.

96

Lo sguardo reciproco

remo due intermezzi ad altrettanti romanzi, L’opera di Zola8 e Afrodite di Pierre Louÿs9, nei quali vedremo delineati situazioni e problemi sorprendentemente affini10. Ma cosa unisce questi testi e al contempo li distacca abbastanza nettamente dalle precedenti variazioni sul tema? Essenzialmente due circostanze, entrambe significative e tali da configurare una vera e propria autonomia del nuovo nucleo tematico. La prima è il fatto che in tutti questi testi non viene più messo in scena un rapporto a due, tra artista ed immagine, o innamorato ed immagine, ma un rapporto complicato dall’ingresso di un terzo personaggio, la modella che viene rappresentata nella statua. In Ibsen come in D’Annunzio e in Pirandello, come negli altri testi che leggeremo, non abbiamo tanto a che fare con la passione dell’artista per la statua da lui creata, quanto con i riflessi di questo legame sul rapporto che lega l’artista a colei che nella statua è raffigurata, e che ne è stata l’ispiratrice (fig. 1). Queste opere ci riportano ad un mondo di consuetudini artistiche (gli amori tra artisti e modelle, le ore di posa in atelier, una scultura legata alla figura umana e forse irrimediabilmente impregnata di Accademia, una pittura quale ci viene incontro nei quadri di Tommaso Grosso) che oggi è tramontato per sempre: «Il tempo delle modelle negli studi dei pittori – scrive Ceronetti – è remoto come i giardini di Babilonia»11. Di quel mondo, essi sfruttano 8 Citiamo la traduzione italiana di F. Cordelli, E. Zola, L’opera, Milano, Garzanti, 1978, tenendo presente l’edizione francese a cura di A. Erhard, Paris, Garnier-Flammarion, 1974. Per le fonti letterarie di Zola, oltre che per gli altri problemi connessi al romanzo, è da vedere soprattutto P. Brady, L’”Oeuvre” d’Emile Zola: roman sur les arts, manifeste, autobiographie, roman à clef, Ginevra, Droz, 1967. 9 Del romanzo di Pierre Louÿs Aphrodite. Moeurs Antiques esiste una traduzione italiana di L. Marinoni, Milano, Dall’Oglio, 1961, che abbiamo seguito, modificandola tuttavia in più punti, sulla base del testo francese pubblicato da Albin Michel, Parigi, 1986. 10 Le analogie tra Quando noi morti ci destiamo, La Gioconda, e Diana e la Tuda sono state notate molte volte, ma non risulta siano state fatte oggetto di una considerazione specifica e soprattutto allargata ai riscontri tematici nella letteratura coeva. Si può vedere, da ultimo, A. Bisicchia, D’Annunzio e il Teatro, Milano, Mursia, 1991, pp. 4057; I. Caliaro, Introduzione, in G. D’Annunzio, La Gioconda, Milano, Mondadori, 1990; P. Perria, Tra applausi e fischi: “La Gioconda” di Gabriele D’Annunzio, Firenze, Atheneum, 1992. 11 La citazione di Ceronetti sulle modelle negli studi dei pittori è tratta da G. Ceronetti, in La modella elettronica, D.D. Deliri Disarmati, Torino, Einaudi, 1993. Sul tema vedi anche L. Spadanuda, Le modelle di nudo, Roma, Mare Nero, 2001.

Amare una statua

97

Fig. 1. Jean-Léon Gérôme nel suo studio, fotoincisione del 1890 ca.

molto evidentemente l’attrazione che doveva esercitare sul lettore o lo spettatore borghese, messo dinanzi ad una vita irregolare e bohémienne, ma soprattutto ad un rapporto che non può non figurarsi come basato su un erotismo venato di elementi sadici, magari perché ricorda quel che ha letto nella Vita di Cellini («la facevo chiamare, la ritraevo: ognidì le davo trenta soldi; e faccendola stare ignuda, voleva la prima cosa che io li dessi li sua dinari dinnanzi; la seconda voleva molto bene da far colezione; la terza io per vendetta usavo seco, rimproverando a lei e al marito le diverse corna che io gli facevo; la quarta si era che io la facevo stare con gran

98

Lo sguardo reciproco

disagio parecchi e parecchi ore; e stando in questo disagio a lei veniva molto a fastidio, tanto quanto a me dilettava, perché lei era di bellissima forma e mi faceva grandissimo onore»12), o perchè ha sentito raccontare la storia di Filippo Lippi che si innamora di Lucrezia Buti, la religiosa che gli fa da modella, in convento, per un’immagine della Madonna13, o ancora quella di Apelle che si innamora di Campaspe, l’amante di Alessandro Magno, mentre la ritrae14. Ma la sfruttano per illuderla, per rovesciare le aspettative del lettore mettendolo davanti alla situazione inversa rispetto a quella cui egli si aspetta di assistere. È questo il secondo tratto discriminante. In tutti questi testi il rapporto dell’artista con l’opera d’arte è avvertito esplicitamente come estraneo ed opposto al desiderio, in un accoglimento perfino troppo letterale dell’idea moderna del disinteresse come atteggiamento fondamentale della fruizione estetica. Potremmo dire che in tutte le opere di cui ci occuperemo (il caso di D’Annunzio fa in parte, ma solo in parte, eccezione), il vero tema è il trasferirsi dell’atteggiamento dell’artista nei riguardi dell’opera al rapporto reale che lega l’artista alla ispiratrice di essa, alla modella. È una sorta di rovesciamento del mito originario di Pigmalione: se lo scultore di Ovidio era spinto ad implorare che la sua creatura di marmo si animasse e diventasse corpo, qui son piuttosto delle donne in carne ed ossa a diventare agli occhi dell’artista delle statue di marmo. Il legame della immagine con la vita, che tanto peso aveva nelle variazioni precedenti del tema, sembra qui interamente perduto. Ma si tratta, come vedremo, di una apparenza. In realtà esso continua ad agire, neanche troppo sotterraneamente, a riprova del fatto che la storia dei temi letterari non conosce cesure nette, ma piuttosto una storia infinita di riprese e di spostamenti15. È proprio questo secondo punto, quello della trasposizione del rapporto supposto scevro di desiderio che unisce l’artista e l’opera 12 B. Cellini Vita, a cura di E. Camesasca, Milano, Rizzoli, 1985, libro II, cap. XXXIV, p. 482. 13 La storia di Filippo Lippi e di Lucrezia Buti è narrata da Vasari nelle Vite. 14 La storia di di Apelle e Campaspe o Pancaspe si ritrova in Plinio, Naturalis Historia, XXXV, pp. 85-86. 15 Sull’uso di modelli, maschili e femminili, nelle Accademie dell’Ottocento è da vedere N. Pevsner, Academies of Art, Past and Present, Cambridge, Cambridge UP, 1940 (trad. it. di A. Pinelli, Le accademie d’arte, Torino, Einaudi, 1982).

Amare una statua

99

al rapporto erotico tra artista e amante, quello che impedisce di cominciare più indietro il nostro cammino. Il Capolavoro sconosciuto di Balzac, ad esempio, è certamente non solo la storia di un compito impossibile e di un’opera suprema che non si raggiunge e anzi si autodistrugge, ma anche una storia di artisti e modelle. Porbus e Poussin riescono a vedere la Belle Noiseuse di Frenhofer, l’opera cui il grande pittore ha dedicato tutte le sue energie da dieci anni e che tiene gelosamente custodita, solo perché Gillette, la bellissima moglie di Poussin, accetta, riluttante e solo per le pressioni di quest’ultimo, di posare per l’anziano pittore. Il tema dell’artista e della modella è proprio quel che nel Capolavoro sconosciuto ha colpito Picasso (che ne ha illustrato un’edizione) ed anche il regista Jaques Rivette che ha trasposto la storia in un film16. Il racconto di Balzac, inoltre, e la cosa ci dovrà interessare ancora di più, è una storia del contrasto tra la mobilità della vita e la rigidità della pietra («io non saprei credere questo bel corpo animato dal tiepido soffio della vita; mi pare che se posassi la mano su questa gola, di una rotondità così corposa, la troverei fredda come il marmo. No, amico mio, non scorre il sangue sotto questa pelle di avorio»17), tra i corpi viventi e le statue morte («prova a modellare la mano della tua amica e poi mettitela davanti, e ti troverai di fronte ad un orribile cadavere privo di ogni veridicità»18). Tuttavia Frenhofer è ancora un Pigmalione («Noi non sappiamo quanto tempo impiegò il grande Pigmalione per compiere la sola statua che abbia camminato»19): egli ama la propria tela come amerebbe una persona viva («Sono dieci anni ormai che vivo con quella donna: ella è mia, solo mia, e mi ama; non mi ha forse sorriso ad ogni pennellata che le ho dato […]? L’opera che tengo lassù, sotto chiave, è un’eccezione nella nostra arte: non è una tela, è una donna […]. Son certamente più amante che pittore»20). Più vicino al nostro tema è il racconto Il vello d’oro di Théophile Gautier, pubblicato nel 1839. Ma esso, anche a non voler considerare il fatto che 16 Il film di Rivette al quale si allude nel testo si intitola La belle noiseuse, ed è uscito nelle sale nel 1992. 17 H. de Balzac, Il capolavoro sconosciuto, trad. it. di C. Montella e L. Merlini, Firenze, Passigli, 1983, p. 29. 18 Ivi, p. 31. 19 Ivi, p. 43. 20 Ivi, p. 57.

100

Lo sguardo reciproco

ha un tono lieve di scherzo e di favola, mentre tutti i testi con cui noi avremo a che fare vanno a sfociare nella tragedia, segue un percorso opposto a quello che noi saremo chiamati a ripercorrere: non dalla passione sensuale alla sua sublimazione nel rapporto con l’opera ma al contrario, dalla sospensione del desiderio dinanzi all’arte al suo appagamento nella vita. Un giovane dandy, Tiburce, non riesce ad amare nessuna donna perché le trova tutte inferiori alle bellezze dell’arte («guardava con gli occhi del pittore, e conosceva più ritratti che volti. La realtà gli ripugnava […] ciò che scambiava per amore non era altro che ammirazione d’artista. Nella sua amante trovava difetti di disegno; senza che neppure se ne rendesse conto, per lui la donna non era altro che una modella»21). Nella cattedrale di Anversa, durante un viaggio nelle Fiandre, vede la bellissima Maddalena della Deposizione di Rubens e se ne innamora (di nuovo un Pigmalione: «finalmente aveva trovato la passione che stava cercando, ma era stato punito col suo stesso peccato; per aver troppo amato la pittura era stato condannato ad amare un quadro […] una passione stravagante, insensata e disposta a tutto; e soprattutto splendidamente disinteressata»22). Qualche tempo dopo vede per strada una ragazza che somiglia perfettamente alla Maddalena del dipinto; riesce a fare la sua conoscenza, lei si innamora di lui, ma Tiburce non riesce ad amarla, perché ama la Donna dipinta. La guarigione di Tiburce avverrà dopo che i due si sono trasferiti a Parigi: grazie all’intuito di Gretchen il giovane si scoprirà pittore, userà la ragazza come modella, e finalmente sarà in grado di amarla anche come donna. Se Tiburce è ancora un Pigmalione che riesce a far vivere l’immagine di cui si è innamorato, gli artisti di cui ci parlano i testi che leggeremo trasformeranno in statue le donne che hanno posato per loro, non solo rendendole immagine, ma togliendo loro la vita. Pigmalione rovesciato, dunque, anche se subito si comprenderà che le cose non sono così semplici. Perché come Pigmalione non è soltanto colui che ama una statua, ma innanzitutto colui che non può amare una donna in carne ed ossa («offensus vitiis, quae plurima menti/femineae natura dedit, sine coniuge caelebs/vivebat thalami21 Th. Gautier, Il vello d’oro e altri racconti, trad. it. di L. Binni, Firenze, Giunti, 1993, p. 27. 22 Ivi, p. 49.

Amare una statua

101

que diu consorte carebat»23, scrive Ovidio) così per gli scultori di Ibsen, Louÿs o Pirandello non si sarà così ingenui dal prestare fede alle loro giustificazioni esplicite. Tutti protestano di non poter desiderare l’ispiratrice delle loro opere perché hanno proiettato su di lei quella rescissione dei legami effettuali che è necessaria perché l’opera d’arte prenda forma; ma come si fa ad essere sicuri che si tratti di una abolizione del desiderio, e non di uno spostamento feticistico di esso? Questi artisti ci ricordano un’altra storia che racconta del rifiuto di una donna reale coperto dall’innamoramento per una statua, scritto proprio in quegli anni, la Gradiva di Jensen24, resa famosa dalla interpretazione e dalla magistrale “riscrittura” di Freud. Anche per Norbert Hanold, il suo protagonista, «marmi e bronzi non erano morti minerali, ma piuttosto l’unica realtà vivente capace di conferire scopo e valore alla vita degli uomini»25: solo che egli non traveste la sua resistenza all’erotismo e la sua difficoltà nei rapporti con l’altro sesso sotto la veste del disinteresse estetico dell’artista, ma sotto il distacco dello studioso di antichità: è un archeologo, non uno scultore. Anche Hanold può amare la sua vicina di casa Zoe Bertgang solo uccidendola, e assimilandola all’immagine di una morta, che abbia “il freddo aspetto del marmo”. Quando Zoe comincia a mettere in atto la sua strategia psicoterapeutica, dirà «mi sono abituata da gran tempo ad essere morta»26. Perché l’amore per le statue confina con la necrofilia. Il protagonista di un racconto che fa parte delle Notti Fiorentine di Heine, tutto dedicato al tema dell’amore per le statue, lo confessa nel modo più chiaro, quando, alla domanda stupita del suo interlocutore «Ma voi avete amato soltanto donne scolpite o dipinte?» risponde «No, ho amato anche donne morte»27. L’uno e l’altro aspetto, resistenza verso il coinvolgimento erotico e inclinazione verso il morto, così come pure le implicazioni masochistiche dell’amore per il simulacro, saranno evidenti in tutti i testi, ma particolarmente trasparenti in quelli di Ibsen e Louÿs: non avremo bisogno, dunque, 23

Ovidio, Metamorfosi, libro X, vv. 243-244. La novella di Wilhelm Jensen, Gradiva. Una fantasia pompeiana, si può leggere nella traduzione italiana di Cesare Musatti nel vol. II dei Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, di S. Freud, Torino, Bollati Boringhieri, 1969. 25 Ivi, p. 34. 26 Ivi, p. 75. 27 H. Heine, Notti Fiorentine, trad. it. di B. Ziliotto, Milano, TEA, 1988, p. 36. 24

102

Lo sguardo reciproco

di ricordare di continuo quel che tutte le protagoniste delle storie narrate sanno fin dall’inizio, e cioè che le teorie estetiche cui si appellano gli artisti di cui si parlerà, possono essere uno schermo, una maschera, un alibi.

Quando noi morti ci destiamo Arnold Rubek, scultore di successo, è rientrato in patria dopo lunghi anni di soggiorno all’estero, accompagnato dalla giovane moglie Maja. Da quando ha scolpito il suo capolavoro, il Giorno della Resurrezione, il gruppo che lo ha reso celebre in tutto il mondo, Rubek ha perso ogni vera ispirazione artistica. Scolpisce solo busti su commissione, ritratti di gente facoltosa nei quali si diverte a scorgere, o forse a proiettare, tratti animaleschi. In uno stabilimento balneare egli incontra Irene, la donna che posò come modella per lui al tempo della creazione del capolavoro. Nella didascalia che accompagna il suo ingresso, Ibsen la presenta così: «Il suo viso è pallido; i lineamenti sono irrigiditi; le palpebre sono abbassate come se gli occhi non avessero più vita […]. Il suo portamento è immobile, i suoi passi sono cadenzati»28. Una statua, insomma. Anche se, invitando Rubek a sedersi accanto a lei, lo negherà: «Il mio corpo non si è ancora trasformato in una statua di ghiaccio»29. Irene sostiene di esser morta, di esserlo precisamente dal giorno in cui Rubek terminò il suo gruppo marmoreo. «Io ti donai la mia anima, la mia anima piena di vita e di giovinezza, e rimasi con un vuoto nel petto […], senz’anima. Dopo averti fatto quel dono sono morta, Arnold»30. Non sarebbe giusto, però, riportare tutto all’idea dell’arte che sottrae vita alla vita, al contrasto generico tra forma e vita. In Ibsen le cose sono molto più esplicite. Che cosa rimprovera esattamente Irene a Rubek? Irene indica subito, fin dal primo colloquio, il delitto dello scultore nel rifiuto dell’amore carnale che ella gli offriva, a favore di una contemplazione puramente artistica del suo corpo. «Irene: Promisi di servirti in tutto. Rubek: Come modella 28 29 30

H. Ibsen, Quando noi morti ci destiamo, cit., pp. 607-608. Ivi, p. 615. Ivi, p. 619.

Amare una statua

103

per il mio capolavoro […]. Irene: Col mio corpo liberamente e completamente nudo […]. Rubek: E tu mi servisti … con tanto coraggio … Con tanta gioia … Senza riserbo!»31. Alle deboli discolpe dell’uomo («non ti ho mai trattata male»), Irene risponde scagliandogli contro la sua accusa senza reticenze: «Mi hai offeso in quello che era di più intimo nella mia natura! Mi misi in mostra dinanzi a te, come si può esporre un corpo … E tu non lo toccasti mai, neppure una volta»32. Di fronte a queste rimostranze, Rubek si difende teorizzando un’estetica: «Irene, tu non capivi. Dinanzi alla bellezza del tuo corpo io ero quasi sempre fuori di me… Io ero un artista, Irene […]! Sì, io ero anzitutto un artista. Andavo brancolando intorno come un febbricitante e volevo creare il capolavoro della mia vita; e quel capolavoro doveva chiamarsi Il giorno della Resurrezione, e la Resurrezione doveva essere rappresentata da una giovane donna che si desta dal sonno della morte […] e la risorta doveva essere la donna più pura e più ideale della terra. Fu allora che io ti trovai. Potevo adoperarti per ogni lineamento. E tu mi offristi i tuoi servigi così volonterosamente, così allegramente […]. Io ti ho potuto adoperare per il mio capolavoro meglio di chiunque altra. Diventasti per me un’opera sacra della creazione, che si poteva sfiorare solo con religione! In quel tempo si era lentamente insinuata in me una strana superstizione: incominciai, cioè, a credere che se io ti avessi toccata, se avessi desiderato il tuo corpo, tutti i miei pensieri sarebbero stati profanati e non avrei potuto più condurre a termine quell’opera che così ardentemente anelavo di creare. E anche oggi continuo a credere che in quella superstizione ci fosse qualcosa di vero»33. Quella che Rubek chiama “superstizione”, in effetti, non è che l’applicazione letterale, e perciò semplificata, della convinzione che l’opera d’arte si costituisce a partire dalla rescissione dei legami affettivo-sensuali diretti, istituendo su di essi una sospensione, una messa in parentesi. Egli sembra ignorare che solo pochi anni prima Nietzsche aveva messo alla berlina chi ragionava come lui, per prendere le distanze da quello che gli pareva, a torto, essere il nucleo della dottrina kantiana del piacere disinteressato dell’arte: 31 32 33

Ivi, p. 616. Ibidem. Ivi, pp. 616-617.

104

Lo sguardo reciproco

«Certo che se i nostri esteti non si stancheranno di buttare sulla bilancia, a favore di Kant, il fatto che grazie alla magia dell’arte si possono guardare “senza interesse” anche statue di donne nude, ci sarà ben concesso di ridere un po’ alle loro spalle – le esperienze degli artisti, relativi a questa scabrosa questione, sono molto “più interessanti”, e Pigmalione non dovette essere, in nessun caso, necessariamente, un “uomo non estetico”»34. L’estetica di Rubek non riesce a convincere il senso comune di sua moglie Maja, che ha una visione molto più prosaica dei rapporti fra artista e modella. Tanto che il suo primo impulso, di fronte alla sconosciuta Irene, è di gelosia. «Maja: Rubek, rifletti un po’! Forse quella signora ti sarà servita da modella … una volta! Rubek: Da modella? Maja: Sì, nei tuoi anni giovanili. Chissà quante modelle hai avuto … allora, naturalmente! […] Maja: E puoi dimenticare anche una donna che ti è servita da modella? Rubek: Quando non ne ho più bisogno … Maja: Ed anche quando ha posato per te con il suo corpo nudo? Rubek: Questo particolare non ha nessuna importanza, almeno per noi artisti!»35. È la stessa visione che anche Irene mostra di condividere, quando, di fronte a Rubek che assicura: «Dopo di te non ho trovato nessun altro ideale!»36 commenta sarcastica: «Nemmeno altre modelle, Arnold?»37. Irene accentua deliberatamente l’aspetto di esibizione, di sensualità connesso al fatto di posare. Dopo aver abbandonato Rubek, o piuttosto dopo essere stata abbandonata da lui, racconta, «ho fatto mostra del mio corpo nei teatri di varietà … ho fatto la statua nuda nei quadri viventi»38. Curioso: Irene non condivide le convinzioni estetiche di Rubek, ma mostra di seguirlo almeno nella persuasione che altro sia il posare per una scultura, che è arte nobile ed elevata, altro offrirsi per un’arte effimera e di mero intrattenimento, come, nella sua assiologia, il varietà o i tableaux vivants. Irene ora odia Rubek, perché l’ha amato ed egli ha rifiutato 34 Le ironie nietzschiane contro il “disinteresse” degli artisti sono in Genealogia della Morale, III, 6: le citiamo nella traduzione di V. Perretta, Roma, Newton Compton, 1977. 35 H. Ibsen, Quando noi morti ci destiamo, cit., pp. 622-623. 36 Ivi, p. 617. 37 Ibidem. 38 Ivi, p. 614.

Amare una statua

105

quell’offerta di amore. Le giustificazioni dello scultore, che si appella al diritto ed anzi alla necessità che ha l’artista di recidere ogni rapporto effettuale con la realtà, non possono convincerla della innocenza di Rubek, perchè quel che ha offeso Irene è proprio l’indifferenza nei suoi confronti che la creazione dell’opera ha richiesto. «Irene: Io cominciai piuttosto a sentire un odio … Rubek: Un odio? Contro di me? Irene: Sì, contro di te … contro l’artista, che aveva preso con tanta indifferenza e con tanta incuria un corpo, in cui pulsava un sangue caldo, una giovane vita umana, e che le avevi rubato la sua anima … per creare un’opera d’arte»39. È l’artista che Irene ha odiato. «Irene: Debbo farti una confessione, Arnold. Non ho mai amato la tua arte. Rubek: Però hai amato l’artista. Irene: L’artista? No, io lo odio. Rubek: Dunque odi in me anche l’artista? Irene: Sì, proprio l’artista. Quando io stavo dinanzi a te, completamente nuda, il mio cuore era sempre pieno di odio per te, Arnold. Ti odiavo, perché tu restavi sempre così indifferente … o almeno perché tu avevi tanta forza da dominare te stesso. Ti ho odiato perché tu non eri che un artista, soltanto un artista, e non un uomo»40. Quel che ha umiliato e annientato Irene, nel rapporto con Rubek, è stato il fatto di essere subordinata ad un’opera inanimata, lei creatura vivente: prima l’opera d’arte, riassume, e poi la creatura umana. Ma Irene per prima non sembra affatto essere rimasta immune da quella trasposizione di affetti umani in pure e ineffettuali contemplazioni artistiche che rimprovera a Rubek. Il suo delirio non è che il doppio speculare, e dunque inverso, della sospensione di vita in cui a suo parere Rubek è prigioniero. La statua di marmo creata dallo scultore diventa, nella fantasia sconvolta di Irene, una sorta di figlio, una creatura frutto di entrambi, di lei e di Rubek. Quell’amore fisico che non c’è stato, quella generazione mancata, hanno trovato un Ersatz nella creazione artistica. Ancora una volta, Irene è inconsapevolmente nietzschiana: «Gli artisti, se servono a qualcosa, hanno forti inclinazioni (anche fisicamente), esuberanza, energia animale, sensualità; senza una certa sovreccitazione del sistema sessuale un Raffaello non è pensabile. Il far musica è un altro modo di fare figli; e in ogni caso anche negli artisti la fecon39 40

Ivi, p. 630. Ibidem.

106

Lo sguardo reciproco

dità cessa con la forza generativa»41. Irene si informa subito presso Rubek della sorte, anzi dello stato di salute del gruppo marmoreo, come si farebbe per una persona cara. «Irene: E la creatura di marmo? Sta bene, vero? la nostra creatura sopravvive a me»42. Verso quella creatura Irene in un primo tempo ha provato odio, ha desiderato ucciderla. «Irene: Arnold, se quella volta io avessi fatto uso del mio diritto … Rubek: Ebbene … che cosa avresti fatto? Irene: Io avrei ucciso la nostra creatura! Rubek: Ucciso? Irene: Sì, l’avrei uccisa, prima di lasciarti. Io l’avrei frantumata, ridotta in polvere»43. Come negli altri testi di cui ci occuperemo, anche in Quando noi morti ci destiamo il confine tra la statua e il vivente è mobile e quasi evanescente. Che Irene entri in scena come una statua, l’abbiamo visto. All’occhio ingenuo ma proprio perciò non velato di teorie di Maja, Irene appare proprio quale essa si crede, una scultura di pietra inanimata. «Maja: Osserva laggiù. Cammina come una statua di marmo»44. Perfino in Rubek, il sostenitore della separazione tra vita e arte, i confini cominciano a vacillare; «Rubek: E dire che io ebbi il coraggio di trascurarla … di metterla nell’ombra … di mutilarla»45, egli dice di Irene. Si mutila una statua, appunto. Nel sistema di Rubek, nella sua estetica, alla caduta delle pulsioni sensuali nei confronti dell’oggetto artistico corrisponde una nuova vita ideale, intangibile e proprio perciò eterna; ma questa vita è per Irene, e anche per Maja, mero simulacro, mera parvenza: privata dei legami con la realtà, essa diventa paurosamente simile alla morte. Questo è visibilissimo nelle battute che chiudono il primo atto. «Rubek: Sì, tu eri allora molto prodiga, Irene! Mi offristi tutta la bellezza del tuo corpo nudo … Irene: … Per guardarla … Rubek: e per eternarla … Irene: Sì, per dare l’eternità a te e alla nostra creatura! Rubek: E per eternare anche te, Irene! Irene: Tu però hai dimenticato il dono più prezioso che ti ho fatto! Rubek: Il più prezioso dono? Quale? Irene: Io ti donai la mia anima … la 41 La citazione nietzschiana proviene da un frammento della Primavera 1888 per il Wille zur Macht (nella edizione Colli-Montinari, Frühjahr 1888, 14 [117]). 42 H. Ibsen, Quando noi morti ci destiamo, cit., p. 612. 43 Ivi, p. 613. 44 Ivi, p. 627. 45 Ivi, p. 628.

Amare una statua

107

mia anima piena di vita e di giovinezza … e rimasi con un vuoto nel petto … senz’anima! Dopo averti fatto quel dono sono morta, Arnold!»46. Per Irene le opere d’arte sono, alla lettera, dei morti. I musei in cui sono conservate sono dei cimiteri («Rubek: I musei furono sempre il tuo terrore: li chiamavi sepolcri»47). Irene è morta perché nascesse quel simulacro di vita che è la scultura di Rubek; ella, viva, si è immolata per un corpo morto: «Irene: Quando ebbi finito di servirti col mio corpo e con la mia anima … perché la tua statua … il nostro bambino, come tu la chiamavi a quel tempo … era compiuta … io deposi davanti ai tuoi piedi il mio caro sacrificio … e mi sono distrutta per tutta l’eternità»48. Tuttavia dell’illusione che il capolavoro di Rubek fosse qualcosa di diverso da una morta statua Irene stessa ha partecipato; è stata la prima a credere che essa fosse una creatura vivente, “il bambino”, come entrambi la chiamavano: «Irene: Ma quella statua di tenera argilla, quella statua vivente, oh, quella sì, l’amavo! Via via che da quella rozza e informe massa andava nascendo una creatura umana dotata di un’anima … io l’amavo quel nuovo essere che era la nostra creatura, il nostro bambino, il mio e il tuo»49. Solo più tardi ella doveva essersi resa conto che la trasposizione della sua immagine nell’opera d’arte aveva significato per lei il passaggio dalla vita nella morte, e che quella creatura inanimata non avrebbe mai potuto sostituire le creature viventi che lei e Rubek non avevano messo al mondo: «Irene: Io però allora ero una creatura umana! Ed avevo ancora da vivere una vita … e da compiere un destino. E, vedi, mi sono spogliata di tutto ciò … anzi l’ho gettato via per votarmi a te. Oh, questo è stato un suicidio, un peccato contro me stessa! Avrei dovuto mettere al mondo dei figli, molti figli, di carne viva; non di quelli che si conservano nei sepolcri»50. La situazione che Ibsen ha delineato nel primo atto di Quando noi morti ci destiamo, e che qui abbiamo ripercorso di scorcio, appare sostanzialmente statica, sembra rifiutare uno sviluppo e uno svolgimento; il conflitto drammatico c’è, ma giace tutto nel passa46 47 48 49 50

Ivi, p. 619. Ivi, p. 631. Ivi, p. 630. Ivi, p. 631. Ivi, p. 633.

108

Lo sguardo reciproco

to: è il dramma vissuto da Irene, ma che è rimasto del tutto estraneo a Rubek. Perché si dia sviluppo all’azione, dunque, occorre innanzi tutto che anche Rubek sia attratto nel mondo di Irene, quel mondo in cui, però, pare che egli non possa entrare, perché il suo concetto dell’arte è l’antitesi di quello di Irene. Nel secondo atto assistiamo allora ad una sorta di conversione dello scultore. Rubek, si è visto, non ha più avuto la forza di creare nulla di grande dopo il capolavoro. L’abbandono di Irene ha significato per lui anche l’abbandono dell’arte. Egli comincia ora a convincersi che l’incontro con Irene possa significare la possibilità di ritrovare se stesso, ossia in primo luogo la sua arte. La sua illusione è quella di potere ora amare Irene e di tornare ad essere creativo grazie a quell’amore. Così spiega alla moglie: «Rubek: Qui dentro, vedi … c’è un piccolo scrigno chiuso, dove sono conservati tutti i miei sogni d’artista. Dal giorno in cui quella donna scomparve senza lasciare traccia dietro di sé, il coperchio si chiuse. Ella ne teneva le chiavi, e le portò via con sé. Tu, mia piccola Maja, non avevi nessuna chiave, ed è perciò che tutto quello che vi era dentro è rimasto intatto. E gli anni passano! Ed io non posso toccare il mio tesoro!»51. Rubek crede fino all’ultimo che gli sia ancora possibile ritrovare l’amore di Irene e con esso l’ispirazione perduta: le due cose gli sembrano anzi, alla fine, coincidere. Per questo egli accetta di seguire Irene sulla montagna, e per questo conserverà la sua illusione fino all’ultimo. «Il nostro amore non è certo morto!»52 esclama Rubek nell’ultimo colloquio. Ma Irene sa che non è vero, non può essere vero perché, come lei stessa, così anche Rubek è morto dopo aver compiuto il suo capolavoro. «Irene: l’amore, quello di questo mondo … di questo magnifico, meraviglioso mondo, è morto in noi due […]! dov’è ora quella passione che nutrivi per me, quella passione di fuoco, con cui lottavi e combattevi quando posavo dinanzi a te libera, come la donna risorta?»53. A Rubek non basterà ammettere il suo torto dinanzi a Irene: «Rubek: Accecato, com’ero allora, anteposi un simulacro d’argilla alla felicità della vita … alla felicità dell’amore»54. È troppo tardi: Rubek cre51 52 53 54

Ivi, p. 627. Ivi, p. 646. Ibidem. Ibidem.

Amare una statua

109

de di avviarsi verso la festa delle nuove nozze, verso la luce, e Irene lo conduce invece là dove la valanga li travolgerà entrambi. La statua, la morte, il calco, la maschera funebre. Nel calco, il modello è prelevato in tutta la sua presenza reale e trasposto nell’opera. Il calco è un doppio, ma un doppio senza vita. Si può fare un calco da un corpo vivo, ma nulla toglierà l’apparenza mortuaria, né solo per il ricordo del calco delle fattezze dei defunti. In una delle lettere che scambiò con Freud dopo che questi gli aveva inviato il proprio studio su Gradiva, Jensen dichiara di non conoscere i motivi che lo hanno spinto fin dall’inizio a collegare il bassorilievo della Gradiva, che si trova in realtà ai Musei Vaticani di Roma, con Napoli o meglio con Pompei. Ma tutto lascia pensare che a spingere lo scrittore tedesco a fare di Gradiva una pompeiana sia stato il ricordo dei calchi delle vittime dell’eruzione del Vesuvio che egli aveva visto al Museo Nazionale di Napoli. Questi calchi, che materializzano il passaggio dalla vita alla morte, dal corpo alla statua e viceversa (un tema che percorre tutto il racconto di Jensen) ritornano in due sviluppi decisivi della vicenda. Quando Hanold per errore si ritrova invece che nel proprio albergo in quello in cui alloggiano Zoe e il padre di lei, il padrone dell’albergo gli racconta di essere stato presente «quando nei pressi del Foro era stata trovata quella giovane coppia di amanti, che accortisi della catastrofe inevitabile si erano strettamente abbracciati e avevano atteso così la morte»55. E il colloquio che porterà al chiarimento finale tra Zoe-Gradiva e Hanold si svolge nella casa di Arrio Diomede, là dove erano stati ritrovati decine di corpi di cittadini di Pompei, dai quali erano stati tratti i calchi del Museo nazionale, e tra questi «il calco perfetto del collo, delle spalle e del busto di una giovane ragazza, vestito di un leggero abito di velo»56. Jensen, sollecitato da Freud in questo senso, non seppe indicare fonti letterarie per la propria “fantasia pompeiana”. C’è però – anche se naturalmente non si può provare che Jensen lo conoscesse – un altro racconto di Théophile Gautier che racconta una storia molto simile a quella di Gradiva, sia pure accentuando il tema dell’amore con lo spettro: Arria Marcella. Ricordo di Pompei. Il protagonista in questo racconto, pubblicato nel 1852, non si 55 56

W. Jensen, Gradiva, cit., p. 80. Ivi, p. 99.

110

Lo sguardo reciproco

innamora di una statua, ma del calco della fanciulla trovata nella Villa di Arrio Diomede («Gli parve che quelle rotondità si adattassero perfettamente all’impronta del Museo di Napoli che l’aveva gettato in un’appassionata fantasticheria, e una voce gli gridò dal fondo del cuore che era quella la donna soffocata dalla cenere del Vesuvio nella villa di Arrio Diomede»57). Ma non sarà un caso che alla sua fantasia eccitata la donna/spettro si presenti innanzi tutto come una statua («Il collo presentava quelle belle linee pure che oggi si ritrovano soltanto nelle statue» «il suo piede nudo, più puro e più bianco del marmo» «il suo braccio era freddo come il marmo di una tomba»58), né che di lui ci venga detto già nella presentazione che “talvolta si innamorava delle statue”, e non vengano taciuti i tratti più esplicitamente necrofiliaci («la vista di una folta capigliatura a treccia riesumata da un’antica tomba lo aveva gettato in un bizzarro delirio»59). Il calco, la morte. In una breve prosa di Ramón Gómez de la Serna, La donna assassinata dallo scultore60, si racconta questa storia: uno scultore decide di fare un calco dei seni della propria amante, sapendo che non sarebbe mai riuscito a scolpire qualcosa di altrettanto perfetto. Ne ricava «due seni che possedevano una certa vita, che quelli dei musei non avevano»61, ma che alla donna paiono «i seni della sua morte, i seni dopo l’imbalsamazione»62. Per colpa del calco con il gesso freddo e umido, la donna si ammala di polmonite e ne muore «e da allora i seni di gesso brillarono solitari nello studio, come i seni del mausoleo ideale della morte»63.

57 Il racconto di Gautier Arria Marcella. Ricordo di Pompei è compreso anch’esso nella raccolta Il vello d’oro e altri racconti, cit., p. 164. 58 Ivi, p. 163. 59 Ivi, pp. 146-147. 60 R. Gómez de la Serna, La donna assassinata dallo scultore, in Id., Seni, trad. it. di E. Carpi Schirone, Milano, ES, 1991. 61 Ivi, p. 113. 62 Ibidem. 63 Ivi, p. 114.

Amare una statua

111

Afrodite Anche Demetrio, il protagonista di Afrodite di Pierre Louÿs (pubblicato nel 1896, tre anni prima del dramma di Ibsen) è uno scultore. Il romanzo è ambientato ad Alessandria d’Egitto nel primo secolo avanti Cristo. Demetrio ha scolpito una statua di Afrodite per il tempio della città, e per lui ha posato come modella la stessa regina della città, della quale poi egli è diventato l’amante. Ma Demetrio, “bello come Apollo”, prova ormai disgusto per la vita: «Aveva orrore della vita, non usciva di casa che nell’ora in cui la vita cessava e rientrava quando l’alba attirava verso la città i pescatori e gli ortolani. Il piacere di non vedere al mondo che l’ombra della città e la sua propria, diventava per lui una tale voluttà che egli non ricordava di avere visto il sole di mezzogiorno che a distanza di mesi»64. La passione per la regina è dileguata dopo che la bellezza di lei è stata fissata nei tratti immortali della statua divina: comparata a quel modello perfetto, la modella di un tempo non può reggere il confronto: «Tutte le bellezze della regina, tutto ciò che d’ideale si poteva inventare intorno alle linee morbide del suo corpo, lo fece emergere dal marmo, e da quel giorno s’immaginò che nessun’altra donna sulla terra raggiungerebbe più il livello del suo sogno. La sua statua divenne l’oggetto del suo desiderio»65. Demetrio non ama ormai che la sua creatura di marmo. La regina sembra complice dell’incanto. «Prendi un marmo e il tuo scalpello, e fammi vedere agli uomini dell’Egitto. Voglio che si adori la mia immagine»66, aveva detto allo scultore, e Demetrio, con una sincerità che certo doveva sfuggire all’amante, aveva riposto: «Sono io il primo ad adorarla»67. Ma, appunto, egli adora l’immagine, non più la donna. La bellezza vivente ormai non ha più attrattive per Demetrio, che inevitabilmente confronta i corpi e i visi reali a quelli ideali dell’arte. Preferisce anzi i corpi che presentano qualche difetto, perché più le forme reali sono perfette più richiamano il confronto con quelle prodotte 64 65 66 67

P. Louÿs, Afrodite, cit., p. 12. Ivi, p. 45. Ivi, p. 43. Ivi, p. 46.

112

Lo sguardo reciproco

dall’artista, un confronto che per loro non può non essere schiacciante «il turbamento che gli cagionava l’impressione della bellezza vivente era una sensualità puramente cerebrale, che riduceva a nulla l’impulso di generazione»68. La regina non solo avverte la trasformazione che si è compiuta in Demetrio, ma sa anche coglierne la causa: «Dov’eri? Eri al tempio? Non eri per caso nei giardini, con quelle donne straniere? No, vedo dai tuoi occhi che non hai amato. Ma allora cosa facevi, sempre lontano da me? Eri davanti alla statua? Sì, ne sono sicura, eri là. Adesso tu l’ami più di me. È in tutto simile a me: ha i miei occhi, la mia bocca, i miei seni; ma è lei che tu cerchi. Io, sono una povera abbandonata. Ti annoi con me, lo vedo bene. Pensi ai tuoi marmi e alle tue cattive statue come se io non fossi bella più di tutte loro, e viva, per lo meno»69. Quando Demetrio incontra per la prima volta Criside, la bellissima cortigiana che viene dalla Galilea e che ha tutta Alessandria ai suoi piedi, può credere per un istante che il suo trasporto sia solo un sentimento d’artista, una passione che non infiamma la carne ma resta chiusa nel cerchio della contemplazione estetica: «Credette di ammirare il suo passo aggraziato per un sentimento unicamente estetico, si disse che ella poteva essere un agognato modello per la Carite con il ventaglio che si proponeva di sbozzare domani»70 (una Carite col ventaglio: lo sfondo ellenistico del romanzo di Louÿs ha la consistenza della quinta di un teatro, qua e là aperta da piccoli squarci, come questo in cui ci vediamo trasportati da un tempio greco in un dipinto di Alma Tadema). Ma la passione di Demetrio, questa volta, è un vero innamoramento, che coinvolge i sensi non meno dello spirito. Egli tenta di abbracciare Criside, di possederla, ma Criside rifiuta. Lei, la cortigiana, non si piegherà al desiderio di Demetrio, l’uomo più amato e più potente di Alessandria. L’incantamento dello scultore è descritto come improvviso, totale; pur di avere Criside promette di procurarle qualsiasi cosa lei voglia. Criside chiede tre cose: uno specchio d’argento; un pettine d’avorio; una collana di perle. Demetrio capisce che deve trattarsi di qualcosa di difficilissimo ad ottenersi, ma non può sottrarsi alla seduzione, e giura che procu68 69 70

Ivi, p. 88. Ivi, p. 124. Ivi, p. 51.

Amare una statua

113

rerà i tre doni. Lo giura – e non è un caso – per la statua di Afrodite che ha scolpito. Lo specchio è quello di Bacchide, la cortigiana amica di Criside, preziosissimo: Demetrio non potrà averlo che rubandolo. Il pettine è il pettine cesellato che porta tra i capelli la moglie del grande sacerdote. Per averlo, dovrà uccidere. La collana è la collana di perle a sette fili che pende dal collo della statua di Afrodite: e Demetrio dovrà strappargliela commettendo sacrilegio. Il confine tra la pietra e la carne è quanto mai esile nel romanzo di Louÿs, e non solo nell’immaginazione estenuata di Demetrio. Fin dalle prime pagine del romanzo, mentre assistiamo alla toeletta di Criside, leggiamo: «Quando tutto fu finito, Djala si inginocchiò davanti alla padrona e rase il suo pube rigonfio, perché la fanciulla avesse, agli occhi dei suoi amanti, tutta la nudità di una statua»71; mentre la statua di Afrodite per la quale ha posato la regina appare a sua volta animata come un corpo: «Tra le svelte colonne, la dea appariva tutta viva su di un piedistallo di pietra rosa, carica dei tesori sospesi. Era nuda e sessuata, vagamente tinta secondo i colori della donna»72. Questa descrizione tornerà, parola per parola, nella seconda parte del libro, quando Demetrio sta per strappare la collana di perle alla dea, ed esita e la rimette al suo posto. Passerà la notte nel santuario, nascosto nel piedistallo bronzeo della statua, e quando al mattino sembra ormai deciso a rinunziare al sacrilegio, Criside entrerà nel tempio, avanzandosi verso la statua. La vista dell’amata farà superare a Demetrio ogni remora, ed egli commetterà il delitto supremo. Ma come gli appare Criside? Esattamente come una statua, anzi «bianca come la statua stessa». Quando Criside appare in sogno a Demetrio, la sua descrizione non trova che metafore dell’inanimato, e i suoi capelli, ad esempio, sono come «un vaso d’oro su di una colonna di ebano»73. Demetrio, dunque, ormai schiavo dei voleri di Criside, commette i tre delitti per procurarsi i doni per l’amata: ruba lo specchio di Bacchide, uccide la moglie del grande sacerdote (che pure era stata sua amante), sottraendole poi il pettine d’avorio, e, con le esitazioni che abbiamo visto, depreda il simulacro della dea. La 71 72 73

Ivi, p. 25. Ivi, p. 103. Ivi, p. 179.

114

Lo sguardo reciproco

parte centrale del romanzo è tutta occupata dalla descrizione del baccanale a casa di Bacchide, al quale partecipa anche Criside. Il furto dello specchio c’è già stato, ma Criside non può ancora saperlo; perciò cerca per tutta la cena di capire se Demetrio ha compiuto il suo primo misfatto. Ella sa infatti che una volta piegatosi al primo delitto Demetrio non si arresterà neppure di fronte agli altri. Quando Bacchide scopre il furto, del quale viene incolpata la schiava Afrodisia, che proprio quella notte avrebbe dovuto guadagnare la libertà, e che viene subito punita dalla padrona con la crocifissione, per lei è il trionfo, anche se deve stare ben attenta a nascondere il suo tripudio. La situazione, però, si rovescia di colpo. Demetrio, dopo avere strappato i doni per Criside, ha un sogno in cui gli appare la donna che ama. E, ancora una volta, l’immagine ha partita vinta sulla donna reale. Demetrio ha sognato l’amore di Criside; non avrà più bisogno della Criside vivente. I due si incontrano, la cortigiana è felice, si direbbe quasi che abbia dimenticato i pegni richiesti e che non voglia altro che abbracciare Demetrio. Ma le parti si sono rovesciate. È Demetrio, adesso, ad essere freddo e scostante. Dicendo addio per sempre a Criside, spiega quel che gli è accaduto: «Mi concederai, che dopo aver sognato l’Afrodite del tempio, la mia immaginazione non ebbe troppa pena a figurarmi la donna che tu sei? Ancora una volta, io non ti dirò se si tratta di un sogno notturno o dell’errore di un uomo desto. Ti basti sapere che, sognata o concepita, la tua immagine mi è apparsa in una cornice straordinaria. Illusione; ma a qualunque costo t’impedirò di disilludermi»74. Dinanzi alla disperazione di Criside che viene abbandonata, Demetrio ritorce su di lei le richieste che lo avevano spinto a diventare ladro ed assassino. Criside si dichiara pronta a tutto pur di riconquistare l’amore di Demetrio, e questi le fa giurare che ella indosserà il pettine e la collana, e appenderà lo specchio, e con i gioielli indosso entrerà nella città. Una volta di più, tutto ciò si compirà sotto lo sguardo cieco di una statua, perché i terribili doni Demetrio li ha nascosti all’interno del simulacro di Ermete Stigio. Nel frattempo la popolazione di Alessandria ha scoperto i tre crimini, e soprattutto il sacrilegio perpetrato contro la dea. Quando Criside appare, «attraverso la porta d’occidente, sulla prima 74

Ivi, pp. 199-200.

Amare una statua

115

terrazza» del faro di marmo rosso, la sua sorte è segnata. Ma ella è come totalmente identificata, ora, nella statua della dea Afrodite («era nuda come la dea») e per la divinità la scambiano i primi abitanti che la vedono. La scena si riapre, all’inizio della quinta parte, con Criside già in carcere in attesa della morte, essendo stata condannata a bere la cicuta. Entra Demetrio, e Criside sarebbe ancora pronta a lanciarglisi tra le braccia, se lo scultore non la frenasse con la sua attitudine impassibile. Le riflessioni fra sé e sé di Demetrio ci sono comunicate da Louÿs in una sorta di a parte che è un artificio molto impacciato – non l’accetteremmo, oggi, in una mediocre sceneggiatura – ma a noi non interessano gli aspetti dell’Afrodite che possono legittimamente far sorridere, per esempio la stessa Criside-Socrate di queste ultime pagine: non ci interessano le forme, ma le idee. Demetrio dunque filosofeggia sulle nefaste conseguenze della passione. Ritiene che vi siano solo due possibilità: la voluttà senza passione (precisamente quella che egli aveva sempre cercato con tutte le donne, e che solo con Criside non era stato in grado di ottenere) o “l’idée sans jouissance”, il legame che lo avvince alle sue statue. Non c’è una terza possibilità, e Criside, che ha tentato di donargli un piacere congiunto all’idea, ha dovuto soccombere perché Demetrio non può più unire l’idea ad altro che non sia una statua immobile e morta. La conferma decisiva arriva nel capitolo culminante dell’ultima parte (“Criside immortale”). Rientrato nella sua abitazione, Demetrio ha un’illuminazione improvvisa. Quel corpo che egli non ha potuto amare perché voleva offrirglisi nella passione, potrà bene eternarlo nell’arte. Fa allora portare un blocco di argilla fresca nella cella dove giace Criside morta, e si avvia egli stesso verso il carcere. È come se si rompesse un incantamento. Avviandosi a ridare vita, una vita eterna (“Criside immortale”) alla donna che è morta per lui, Demetrio sente riaffluire quell’amore per la vita che a lui sembrava ormai precluso. Questa nuova vita di Demetrio sembra frutto diretto di una conversione estetica di Louÿs, di un ritorno dell’autore ad una posizione molto tradizionale e tranquillizzante. Se prima l’opera e il sentimento dovevano restare separate, adesso il difetto dell’arte di Demetrio viene fatto consistere nella mancanza di passione. Prima la bellezza del marmo non poteva che nascere dalla freddezza della carne (e dunque la passione sensuale era

116

Lo sguardo reciproco

inibita dal confronto schiacciante con l’opera), ora invece tutte le sculture precedenti di Demetrio sembrano fredde e inanimate per mancanza di passione. «Troppo a lungo aveva preso per luce il chiaro di luna e per ideale la linea incerta di un movimento troppo delicato […]. Sulla pelle delle sue statue correva un fremito glaciale. Durante la tragica avventura che aveva sconvolto la sua intelligenza, per la prima volta aveva sentito il grande soffio della vita gonfiare il suo petto»75. Lo scopo supremo non è il marmo, la forma, ma l’espressione, dunque l’umanità: «Per lo meno, stava comprendendo che vale la pena di essere immaginato solamente quel che attraverso il marmo, il colore o la frase raggiunge una delle profondità dell’emozione umana, – e che la bellezza formale non è che una materia indecisa, suscettibile di essere sempre trasfigurata dalla espressione del dolore o della gioia»76. Strana passione per la vita, che si nutre della morte, e strana esaltazione della espressione, che vive in un corpo morto. Demetrio non sembra coerente con la poetica sentimentale che Louÿs gli mette in bocca. Come accadeva prima, la creazione artistica non può darsi per lui che una volta interrotto il circolo con la vita. Solo dopo morta Criside è disponibile a diventare statua. Anzi, è già diventata una statua: «Nella bianchezza azzurrina delle guance, alcune venature cilestrine davano alla testa immobile un’apparenza di marmo freddo. La fragilità delle orecchie aveva qualcosa di immateriale. Giammai, sotto nessuna luce, neppure in quella del suo sogno, Demetrio aveva visto una bellezza così sovrumana e una tale luminosità della pelle»77. Quando le due amiche di Criside, Rodide e Mirtocleia, verranno a reclamarne il corpo per donargli sepoltura, il corpo di Criside apparirà loro come “una effimera statua addormentata”. Demetrio può finalmente «conservare dei suoi tre giorni di passione un ricordo che durerà più a lungo di lui stesso […], e creare a partire dal cadavere la statua della Vita Immortale»78. Il corpo di Criside viene messo in posa da Demetrio: «Con le due mani sotto le ascel75 76 77 78

Ivi, p. 225. Ivi, p. 226. Ivi, pp. 226-227. Ivi, p. 227.

Amare una statua

117

le fresche. Demetrio fa scivolare la morta fin sull’alto del letto, volge la testa sulla guancia, […] piega l’avambraccio al di sopra della fronte, fa increspare le dita ancora molli sulla stoffa di un cuscino. […] Il modello ha preso la sua posa. Demetrio getta sulla tavola il blocco d’argilla umida che ha fatto portare là, lo preme, lo impasta, l’allunga secondo forma umana: una specie di barbaro mostro nasce dalle sue dita ardenti […]. Demetrio continua. L’abbozzo si anima, si precisa, prende vita. Un prodigioso braccio sinistro si inarca al di sopra del corpo come se stringesse qualcuno»79. A sera, il modello in creta è terminato. Demetrio lo fa trasportare nel suo studio, fa sgrossare un blocco di marmo pario e comincia a lavorare per trasferire nel marmo la forma del modellato.

La Gioconda Le statue, nella Gioconda di Gabriele D’Annunzio (rappresentata per la prima volta a Palermo nel 1899, cioè nello stesso anno in cui veniva messo in scena il dramma di Ibsen) non vengono dalla morte, ma dalla vita; non uccidono ma vivificano; e corre il rischio di morire chi viene lasciato da parte dall’arte, non chi la serve e la crea. L’estetica di Lucio Settala, lo scultore protagonista dell’opera dannunziana, è per molti versi l’esatto opposto di quella di Rubek; noi però non la apprendiamo da lui, che sembra collocarsi, in quanto artista, in un territorio che è al di là di ogni riflessione e di ogni consapevolezza, ma dagli altri personaggi della tragedia. Questa si apre su di un dramma già consumato: lo scultore, diviso tra l’amore per Gioconda Dianti, la bellissima modella che ha posato per lui nella creazione del suo ultimo capolavoro, una Sfinge, e la moglie Silvia, ha tentato di uccidersi sparandosi un colpo di pistola nel suo atelier, proprio ai piedi della grande statua. Ora, grazie alle cure di Silvia, sta lentamente tornando alla vita. Ma il gesto disperato non è bastato a recidere il legame con l’amante, che lo attende sempre, giorno dopo giorno, nello studio di lui. Quando Lucio riceve una lettera della Gioconda, la moglie Silvia decide di affrontare direttamente la rivale, incontrandosi con lei e

79

Ibidem.

118

Lo sguardo reciproco

intimandole di restituire le chiavi dell’atelier, rinunziando ad ogni tentativo di rivedere l’antico amante. Nel terzo atto, quello in cui culmina l’azione, le due donne si affrontano. Silvia fa valere i suoi diritti di moglie e rimprovera a Gioconda di aver strappato Lucio non solo “alla pace della casa” ma anche “alla nobiltà dell’arte”, e rinfaccia alla modella di non essersi mai occupata dello stato di salute di Lucio dopo il tentato suicidio, mentre ella lo accudiva, restituendogli col suo affetto la vita. Silvia vuole contrapporre la sua capacità vivificatrice a quella mortifera dell’amante. Ma le ragioni dell’arte, da lei incautamente invocate, possono facilmente esserle ritorte contro dalla Gioconda, che «obbedisce a una potenza che può essere implacabile»80. Come ispiratrice dell’artista, anche lei ha creato la vita; l’amore che per lei Lucio ha nutrito ha favorito ed anzi reso possibile l’arte di lui, lungi dal deprimerla: «Gioconda: La donna cui faceste tante accuse fu ardentemente amata d’un glorioso amore. Ella non abbassò ma sollevò una vita forte»81. Perché la creazione artistica, per Gioconda e ovviamente per D’Annunzio (non a caso proprio in questi anni lettore di Nietzsche82) non si nutre affatto di un indebolimento dei desideri reali, di una sospensione degli affetti, come credeva Rubek in Ibsen. Essa, anzi, è frutto dell’ebbrezza sensuale, della passione, della esaltazione di tutte le forze vitali: «Gioconda: Quando egli entrava dove io l’attendeva come si attende il dio che crea, era trasfigurato. Egli ritrovava dinanzi alla sua opera la forza, la gioia, la fede. Sì, una febbre continua gli ardeva nel sangue, tenuta accesa da me […] ma al fuoco di quella febbre egli ha foggiato un capolavoro»83. Diversamente dalla Irene di Quando noi morti di destiamo, Gioconda Dianti sa che la sua presenza e il suo amore sono indispensa80

G. D’Annunzio, La Gioconda, cit., p.112. Ivi, p. 113. 82 Per il rapporto Nietzsche-D’Annunzio si veda, tra l’altro, G. Tosi, D’Annunzio découvre Nietzsche, in «Italianistica», Sett.-Dic. 1973; M.T. Marabini Moevs, D’Annunzio e le estetiche di fine secolo, L’Aquila, Japadre, 1976; M. Montinari, Nietzsche e la décadence, in D’Annunzio e la cultura germanica, Atti del VI convegno internazionale di studi D’Annunziani, Pescara 3-5 maggio 1984, Centro Nazionale di Studi D’Annunziani, Pescara, 1985; P. Sorge, D’Annunzio tra Wagner e Nietzsche, in G. D’Annunzio, Il caso Wagner, Roma-Bari, Laterza, 1996. 83 Ivi, p. 115. 81

Amare una statua

119

bili all’artista, ed è consapevole del fatto che accettando di essere uno strumento dell’arte ella in realtà acquisisce un potere particolarissimo nei confronti dell’uomo: un potere che ella è in grado di opporre trionfalmente ai vincoli riconosciuti dalla società ed invocati da Silvia. Quest’ultima crede di potere estendere la sua giurisdizione dalla casa maritale alla officina del genio, ma Gioconda sa invece che lo studio dell’artista è il suo regno, e che da lì lei non potrà essere scacciata. «Gioconda: Questa non è una casa. Gli affetti familiari non hanno qui la loro sede; le virtù domestiche non hanno qui il loro sacrario. Questo è un luogo fuori dalle leggi e dai diritti comuni. Qui uno scultore fa le sue statue. Vi sta egli solo con gli strumenti della sua arte. Ora io non sono se non uno strumento dell’arte sua»84. Comprendendo di essere impotente di fronte alle ragioni della Gioconda, Silvia ricorrerà alla menzogna, attirando su di sé la sventura che precipita sul finire dell’atto. Finge di essere a conoscenza della lettera che la Gioconda ha inviato al marito, e afferma che la missiva gli è stata mostrata da Lucio stesso, che l’ha incaricata di incontrare la rivale per intimarle di abbandonare lo studio e di allontanarsi definitivamente da lui. Sentendosi tradita e scacciata Gioconda reagisce rabbiosamente, e tanto più violentemente quanto più è consapevole che Lucio tradisce così non soltanto il loro legame, ma la stessa sua arte. Gioconda sa che il capolavoro dello scultore non appartiene soltanto a lui, che esso appartiene altrettanto ed anzi di più a lei, perché è grazie alla energia che ha saputo infondere nell’artista che il capolavoro è stato creato. La sua vendetta sarà allora la distruzione, l’annientamento della statua. «Gioconda: E quella statua che è mia, che m’appartiene, ch’egli ha fatta con la vita che ha spremuta da me stilla a stilla, quella statua che è mia […] ebbene io la spezzerò, l’abbatterò»85. Di fronte a Gioconda che si avventa sulla statua per distruggerla, Silvia acquista di colpo la coscienza della bassezza commessa mentendole, e sente che il suo dovere è salvare l’opera del marito. Grida di aver mentito; troppo tardi. La statua rovina, e, in un disperato tentativo di salvarla, tentativo che riuscirà solo in parte perché la statua perderà le braccia nella caduta, ha le mani sfracellate sotto la massa marmorea. Tra le statue di pietra e i corpi di carne corrono, nel dramma di 84 85

Ivi, p. 117. Ivi, p. 121.

120

Lo sguardo reciproco

D’Annunzio, misteriose analogie. Le belle mani di Silvia, quelle mani che poi saranno troncate, il vecchio scultore Lorenzo Gaddi, nella prima scena della tragedia, le assomiglia a quelle della famosa Donna del Mazzolino del Verrocchio. «Gaddi: Voi avete dunque già riconosciuto la parentela. Quelle mani sembrano consanguinee alle vostre, sono della medesima essenza. Vivono, è vero? d’una vita così luminosa che il resto della figura ne è oscurato»86. La didascalia dell’atto quarto ed ultimo, nel descrivere la casa a Bocca d’Arno dove Silvia si è trasferita dopo la disgrazia, e dove attende di rivedere la figlia Beata, recita: «da un lato della porta, su una mensola, è la Donna del Mazzolino […] ospite nuova, venuta dall’altra casa come compagna fedele, le cui belle mani sono pur sempre intatte, atteggiate di grazia verso il cuore»87. Il busto del Verrocchio, dirà poi Silvia in una scena successiva, «ha qualcosa di funebre per me: tuttavia non ho saputo distaccarmene»88. Le proiezioni biografiche tanto care ad un certo tipo di critica, e così facili nel caso di un dramma come questo di D’Annunzio (come già lo erano, senza dubbio, per il vecchio Ibsen di Quando noi morti ci destiamo), non ci interessano. Non ci vuole molta applicazione per leggere La Gioconda come un dramma a chiave, nel quale sarebbe adombrato il conflitto di D’Annunzio tra il vecchio legame con Maria Gravina (che dunque sarebbe Silvia) e la nuova passione per la Duse (che vivrebbe quindi nel personaggio di Gioconda), salvo poi notare che tutto potrebbe essere rimescolato dalla dedica iniziale («Per Eleonora Duse dalle belle mani»). Importa molto di più capire come anche nella pièce di D’Annunzio la dialettica tra i personaggi è innanzi tutto una dialettica di concezioni estetiche: altrimenti sarebbe difficile non sottoscrivere il rimprovero che venne mosso alla Gioconda fin dalle sue prime rappresentazioni, e cioè che i suoi personaggi sembrano figure indipendenti, incapaci di entrare veramente in relazione tra di loro. All’inizio del dramma, quando potrebbe sembrare che Lucio Settala abbia dimenticato l’amante e sia tornato al vecchio affetto, tanto la moglie Silvia quanto l’amico Cosimo Dalbo possono illudersi che il compimento del capolavoro abbia agito come catartico 86 87 88

Ivi, p. 45. Ivi, p. 125. Ivi, p. 140.

Amare una statua

121

sull’anima dell’artista, liberandolo dalla passione per la modella, che sarebbe stata sublimata nella creazione artistica. Il tentato suicidio viene allora interpretato come un gesto supremo, quasi rivolto a dimostrare agli altri che il vecchio legame è finito, trasfigurato. «Dalbo: Egli aveva finito in quei giorni la statua, e io pensavo che quel marmo stupendo fosse la sua liberazione»89. Più avanti, Dalbo esporrà la stessa convinzione allo scultore, tentando di convincerlo che ormai il legame che lo univa alla Gioconda è risolto e come neutralizzato nella creazione artistica: «Dalbo: Tu hai già ubbidito al comando della natura, generando il capolavoro. Quando vidi la tua statua, pensai che ella ti fosse liberatrice. Tu hai perpetuato in tipo ideale e incorruttibile un esemplare caduco della specie. Non sei dunque pago?»90. Ma questa idea dell’arte come catarsi delle passioni e degli affetti reali può illudere Settala solo per un momento, nelle prime scene del dramma: «Io penso qualche volta alla sorte di colui che naufragò in una tempesta con tutto il suo carico. In una giornata serena come oggi, egli prese una barca e una rete; e tornò sul luogo del naufragio con la speranza di trarre dal fondo qualche cosa. E, dopo molta fatica, trasse a riva una statua. E la statua era così bella che, al rivederla, egli pianse di gioia; e si sedette sulla riva del mare a contemplarla, e fu pago di quel bene, e non volle altro cercare; e obliò tutto il resto»91. Presto però si fa chiaro a lui come a noi spettatori che quest’idea dell’arte come quietivo delle passioni non può essere di Settala così come non è di D’Annunzio. L’artista non crea sospendendo il rapporto che lo lega agli oggetti, troncando il desiderio, ma anzi sull’onda di questo, in un’ebbrezza che coinvolge i sensi e nella quale non è dato separare un lato ideale da un lato carnale. Lucio ha pensato, nei primi giorni di convalescenza, di essere ormai salvo, al riparo dal dissidio che lo divideva tra Silvia e Gioconda, ma si è presto reso conto che la rinunzia all’amore per Gioconda sarebbe stata possibile solo se egli avesse, contemporaneamente, rinunziato anche all’arte: «Lucio Settala: Poi riconobbi che v’era qualche altra cosa da abolire in me: questa forza che affluisce alle mie dita incessantemente per riprodurre 89 90 91

Ivi, p. 52. Ivi, p. 81. Ivi, p. 59.

122

Lo sguardo reciproco

[…]. Intendo che forse sarei salvo, se avessi dimenticato anche l’arte»92. Per lo scultore, i corpi sono importanti quanto le anime, anzi più delle anime. «Lucio Settala: [Silvia] è un’anima di pregio inestimabile. Ma io non scolpisco le anime […]. Quando mi apparve l’altra, io pensai a tutti i blocchi di marmo contenuti nelle cave delle montagne lontane, per la volontà di fermare in ciascuno un suo gesto […]. Una specie di affinità elettiva era tra la sua carne e il marmo che chinandosi ella sfiorava con l’alito. Un’aspirazione confusa pareva salire verso di lei da quella bianchezza inerte»93. Nella didascalia che introduce l’atto terzo, e descrive l’interno dello studio di Settala, D’Annunzio scrive: «La scelta e le analogie di tutte le forme rivelano qui l’ispirazione verso una vita carnale, vittoriosa e creatrice»94, e di questa vita l’animatrice è Gioconda. L’Irene di Quando noi morti ci destiamo si sentiva morta per aver fatto nascere un’opera d’arte; Gioconda si sente tanto più viva quanto più è sicura che le opere d’arte prodotte da Lucio sono state create grazie a lei. «Gioconda Dianti: Io sono viva e sono presente; ed egli ha trovato in me più di un aspetto, e mi inebriano ancora le parole ch’egli diceva per significare la sua visione diversa ogni mattina quando gli apparivo»95. Di questa vita che trascorre dal corpo vivente alla statua, senza che la seconda la sottragga al primo, la tragedia dannunziana ha un simbolo assolutamente esplicito, quasi tangibile. Quando Lucio ha tentato di togliersi la vita, aveva appena cominciato a modellare un’altra scultura, modellandone un abbozzo nella creta. Egli la credeva perduta, perché pensava ormai indurito e non più plasmabile il blocco di argilla; ma ha scoperto che Gioconda, esperta delle tecniche degli scultori, ha provveduto a tenere molle la creta, mentre egli guariva. «Cosimo Dalbo: Dunque ella penava a tenere umida la creta, mentre tu morivi? Lucio Settala: Non era forse anche quello un modo di contrastare la morte? Non era anche quello un atto di fede ammirabile? Ella conservava la mia opera»96. Ancora una volta, lo scultore e Gioconda dimostreranno di essere 92 93 94 95 96

Ivi, p. 79. Ivi, p. 81. Ivi, p. 103. Ivi, p. 118. Ivi, p. 84.

Amare una statua

123

partecipi di un unico segreto, che rimane ignoto, almeno inizialmente, all’amico Dalbo e alla moglie Silvia. Quando quest’ultima affronta Gioconda, crede di potere opporre alla rivale la certezza che Lucio saprà creare altre opere, anche senza il suo aiuto («Silvia Settala: Non è il primo [capolavoro], non sarà l’ultimo»), non immagina che proprio Gioconda ha conservato intatto l’abbozzo dello scultore, il blocco da cui sorgerà la nuova creazione: «Gioconda Dianti: certo, non sarà l’ultimo, perché un altro è pronto a balzare dal suo viluppo di creta, un altro ha palpitato già sotto il pollice animatore, un altro è là semivivo, e attende d’attimo in attimo che il miracolo dell’arte lo tragga alla luce. Ah, voi non potete comprendere questa impazienza della materia a cui fu promesso il dono della vita perfetta»97. Silvia credeva di essere l’unica depositaria di un’opera vivificante, giacché ella ha ridonato la vita al marito; scopre ora che un’altra salvazione ha avuto luogo, e che accanto alla vita che ha salvato un’altra vita avanza la richiesta di vivere, una vita sulla quale ella non ha più alcun potere. «Gioconda Dianti: La mia fede era pari alla vostra; certo, si collegò con la vostra contro la morte […]. Nulla è più sacro dell’opera che comincia a vivere»98. Tuttavia non è vero che Silvia non abbia avuto alcun presagio di questa vita diversa. Forse fin dall’inizio ha sentito avvicinarsi la sua sconfitta e ha avvertito l’impossibilità di contrastare la rivale sul terreno dell’arte. Deve essere questa consapevolezza la spiegazione più vera del fatto che ella si abbassi a mentire. Quando entra per la prima volta nello studio dello scultore, sorda alle preghiere della sorella che vorrebbe trattenerla o accompagnarla, Silvia è come abbagliata dalla visione improvvisa del capolavoro. La bellezza impreveduta sembra toglierle per un attimo le forze, e, come recita la didascalia dannunziana, «i suoi occhi restano intenti, come abbagliati non da una visione di morte, ma da una immagine di vita perfetta»99.

97 98 99

Ivi, p. 115. Ivi, p. 116. Ivi, p. 108.

124

Lo sguardo reciproco

L’opera È un pittore, e non uno scultore, il protagonista de L’opera, il romanzo che Zola scrisse nel 1885 trasferendovi molte delle esperienze accumulate frequentando gli ambienti artistici parigini (ancora una volta, quindi, un testo che si potrebbe leggere, ed è stato fatto, come un romanzo a chiave, come proiezione di esperienze personali: noi ci terremo lontani da tutto questo). Ma il pittore Claude Lantier, nella sua vita di bohème, conosce ovviamente anche alcuni scultori, e tra di essi il poverissimo Mahoudeau, che vorrebbe esprimersi in opere colossali ma non ha i mezzi per pagare il materiale che gli occorrerebbe, il marmo o la pietra, e neppure quelli per comprarsi il ferro necessario a costruire l’armatura per una argilla di grandi dimensioni. È nello studio di Mahoudeau, anzi nello squallido sotterraneo gelato ove egli si è ridotto a lavorare, che assistiamo ad una scena la quale, anche solo per la sua collocazione nel romanzo (quasi esattamente alla metà di esso, e nel giorno del matrimonio del protagonista) non può non assumere un valore simbolico, premonitore. Claude, impaziente, si è recato a prendere l’amico che deve fargli da testimone di nozze. Lo trova già pronto, ma preoccupato che il freddo intenso non guasti la creta umida della grande Bagnante che sta sbozzando. Visto che i panni bagnati con i quali ha ricoperto il blocco di creta sono già ghiacciati, accenderà un po’ di fuoco: «La tela scricchiolava sotto le sue dita, si rompeva in pezzi di ghiaccio. Dovette aspettare che il calore la disgelasse un poco: e, con mille precauzioni, la scoprì, prima la testa, poi il petto, poi i fianchi, felice di ritrovarla intatta, sorridendo come un amante di fronte alle nudità della sua adorata donna»100. Anche Claude è colpito dai progressi dell’amico: «La sua Bagnante possedeva già una notevole bellezza, con quelle spalle rabbrividenti, le braccia strette che mettevano in evidenza i seni, seni amorosi, scolpiti col desiderio della donna che la miseria esasperava; e, forzatamente casto, aveva plasmato una carne così sensuale, da turbare»101. I due artisti siedono un poco a chiacchierare, aspettando che i panni si scongelino completamente. La stufa ora è in100 101

E. Zola, L’opera, cit., p. 222. Ibidem.

Amare una statua

125

fuocata, il calore aumenta. «In quel momento la Bagnante, collocata lì vicino, sembrava rivivere, sotto il soffio tiepido che le saliva lungo la schiena»102. Ad un tratto, Claude crede di essere vittima di una allucinazione: «La Bagnante si muoveva, il ventre aveva un fremito d’onda leggera, il fianco sinistro si era inarcato come se la gamba stesse per camminare […]. Poco a poco la statua si animava tutta. Le reni si muovevano, il petto si gonfiava in un grande sospiro fra le braccia socchiuse. E improvvisamente la testa si inclinò, le cosce si piegarono, cadeva come una persona viva, con l’angoscia smarrita, lo scatto doloroso di una donna che si butta»103. È successo che lo scultore ha impiegato, in luogo dell’armatura di metallo, un traliccio di manici di scopa, troppo fragili per reggere al movimento dell’argilla che si disgelava. Mahoudeu si slancia per salvare la sua statua, «con lo stesso gesto d’amore con cui si era inebriato accarezzandola da lontano»104. La statua gli rovina addosso, lo travolge: «E lei parve cadergli al collo, lui accoglierla nella sua stretta: serrò le braccia su quella grande nudità verginale che s’animava come al primo risvegliarsi della sua carne»105. Per fortuna, lo scultore non rimane ferito, ne ha solo «la pelle contusa come dopo essere uscito dall’abbraccio di un’amante di pietra»106. Può raccogliere i frantumi con l’aiuto di Claude, e li ricompone: «Presto la figura fu di nuovo intera, simile a una di quelle suicide per amore che si schiantano dall’alto di un monumento e che si ricompongono, figure comiche e pietose, per essere trasportate alla Morgue»107. La rovina della statua incombe su tutti i testi che stiamo leggendo. Irene vorrebbe distruggere il capolavoro di Rubek, la Gioconda si avventa contro quello di Settala, che è salvato soltanto dal sacrificio cruento di Silvia, e, come vedremo, anche alla fine di Diana e la Tuda c’è qualcuno che si avventa contro una statua per distruggerla, e la salvezza della statua sarà in questo caso acquistata a prezzo di un omicidio. Ne L’Opera, tuttavia, questo è solo uno dei tanti simboli (per 102 103 104 105 106 107

Ivi, p. 223. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 224. Ibidem. Ivi, pp. 224-225.

126

Lo sguardo reciproco

quanto forse il più trasparente e suggestivo) che affollano le pagine del romanzo. Il racconto di Zola avrà certo, come è parso alla critica, le sue parti più riuscite nelle descrizioni degli ambienti artisticoletterari della Parigi del tempo, ma non vi è dubbio che esso sia percorso, dalla prima all’ultima pagina, dalla fascinazione ancora molto romantica per il misterioso legame che unisce la figura rappresentata sulla tela, o scolpita nella pietra, con il modello che la ispira. Se il crollo della Bagnante di Mahoudeau sembra evocare una ripresa della leggenda dell’innamoramento per la statua di Venere, con il finale capovolto (solitamente è la statua che trionfa e l’innamorato che soccombe), l’inizio del romanzo può ben essere l’ennesima variante del mito di Butade e della invenzione della pittura. L’Opera si apre con l’incontro casuale di Claude e di Christine. Per ripararsi dal diluvio torrenziale, quest’ultima, sola a Parigi in piena notte per un seguito di contrattempi, accetta, pur timorosa, il rifugio che le offre Claude. Esausta, si addormenta. Al mattino, il pittore ruberà alla ragazza ancora addormentata l’immagine che gli serve per il quadro che sta dipingendo: «Era quella, esattamente quella, la figura che aveva inutilmente cercato per il suo quadro, e già quasi in posa»108. Il tempo di prendere un cartone e un pastello, e Claude è al lavoro: «Tutto il suo turbamento e il desiderio contrastato sfumavano nello stupore dell’artista […] già aveva dimenticato la ragazza»109. Claude dapprima darà alla figura centrale del quadro che sta dipingendo (en plein air) i tratti del volto di Christine, poi cancellerà tutto, ma solo per ritrovarsi incapace di finire quell’immagine femminile: «Era soprattutto alla figura centrale, la donna sdraiata, che il pittore lavorava: non aveva più toccato la testa, si accaniva sul corpo, cambiando modella ogni settimana»110. Non meno turbata di lui è Christine, che sulle prime non è affatto contenta di vedere la sua immagine utilizzata nel quadro, ma poi, quando la vede cancellata, comincia a provare un disagio che è una gelosia: «lei che si era pudicamente ribellata il primo giorno, ora provava un dispiacere sempre più forte nel vedere che nulla dei suoi tratti rimaneva. […] Forse non l’amava, se la lascia108 109 110

Ivi, p. 9. Ibidem. Ivi, p. 86.

Amare una statua

127

va uscire così dalla sua opera?»111. Christine acconsente a posare, ma solo per il viso; Claude, però, non può completare il dipinto con il corpo di un’altra. Quando manca solo un giorno alla apertura del Salon al quale Claude dovrebbe rinunziare, Christine decide che poserà nuda per lui: in poche ore la tela è pronta per il vernissage dell’indomani. Ma è un’opera troppo ardita perché il pubblico la possa capire, e Claude non raccoglie che l’irrisione dei conformisti. L’insuccesso però non lo avvilisce, anche perché nel frattempo Christine gli ha confessato il suo amore per lui. I due vivranno insieme, fuggiranno dalla città, trascorreranno un periodo idilliaco in un piccolo paese nei dintorni di Parigi. Dopo qualche anno, tuttavia, le cose cominciano a guastarsi. Claude lavora di malavoglia, il suo genio promettente non trova modo di sbocciare. Convinta che solo la vita della città e il ritrovato contatto con i compagni di bohème possa ridargli la forza di creare, Christine convince Claude a rientrare a Parigi. Anche qui, però le cose non fanno che peggiorare. Il gruppo di amici di un tempo si disperde, ognuno insegue il proprio successo e la propria strada, mentre le gelosie e le rivalità li separano; Claude non ritrova la sua vena, e si affatica in progetti senza esito; consumata una piccola rendita, i due amanti vedono affacciarsi l’incubo della miseria, e Claude è costretto ad accettare piccoli lavori su commissione per sbarcare il lunario; infine il piccolo Jacques, frutto della loro unione, muore non ancora decenne. Il piccolo quadro nel quale Claude ritrae il figlioletto morto (ancora una pittura che non può affermarsi se non togliendo la vita a ciò che rappresenta) riuscirà ad entrare nel Salon solo grazie ai buoni uffici pietosi di un vecchio amico divenuto nel frattempo pittore influente, ma passerà del tutto inosservato. Tutto precipita, con Claude che alterna abulia ed esaltazione, ormai interamente concentrato su di un’unica opera, una grande tela con un paesaggio parigino e un nudo di donna in primo piano. Per quel nudo, Christine è tornata a fargli da modella, tutti i giorni, e non più saltuariamente come accadeva prima. Ma se in precedenza l’aveva fatto di buon grado, «lusingata, felice di farlo contento, ignara della tremenda rivale a cui stava cedendo»112, ora non tarderà ad accorgersi che l’immagine dipinta si è totalmente 111 112

Ivi, p. 115. Ivi, p. 156.

128

Lo sguardo reciproco

sostituita a lei nel cuore di Claude. «Il quadro immenso si drizzava tra loro, li separava come infrangibile barriera; ed era al di là che lui viveva, con un’altra. Lei ci diventava pazza, gelosa di questo sdoppiamento della sua persona […] e tuttavia non si sbagliava, capiva bene che preferiva la sua copia a lei stessa, che quella copia era la donna adorata, l’unica preoccupazione, l’amore di ogni minuto. La uccideva con la posa per fare l’altra più bella113. Come fra Rubek ed Irene, la passione fisica è scacciata dalla fredda contemplazione dell’artista, e Claude in Christine non vede più la donna amata, ma solo la modella per il suo quadro. Christine è in posa. «Immobile, sotto la brutalità della posa, sentiva il disagio della propria nudità. In ogni parte dove era stata toccata dalle dita di Claude, le permaneva una impressione di gelo, come se il freddo che la faceva tremare entrasse proprio da quei punti. L’esperimento era stato fatto, a che scopo protrarre la speranza? Quel corpo, ovunque ricoperto dai suoi baci innamorati, or non lo guardava più, non lo adorava più se non come artista. Una sfumatura del seno lo entusiasmava, una linea del ventre lo metteva devotamente in ginocchio laddove, un tempo, accecato dal desiderio, la schiacciava tutta contro il suo petto, senza vederla, in abbracci in cui l’uno e l’altra avrebbero voluto fondersi. Ah, era davvero la fine, non esisteva più, amava in lei soltanto la propria arte, la natura, la vita. E, gli occhi remoti, conservava la rigidità di un marmo, tratteneva le lacrime che le gonfiavano il cuore […]. La sua passione dalla carne si era trasferita nell’opera»114. Il passaggio dalla vita all’immagine, dal corpo alla statua, dalla carne alla pittura è anche, come Christine percepisce oscuramente, un transito verso la morte. Il legame tra l’arte e la morte è un tema ricorrente nell’Opera. Quando Claude entra nel miserabile atelier di Mahoudeau, dove assisterà alla rovina della Bagnante, è come se si addentrasse in un obitorio o in un lazzeretto: «Negli angoli, altre statue di gesso, meno ingombranti, fatte con passione, esposte, poi tornate lì, in mancanza d’acquirenti, battevano i denti, il naso contro il muro, allineate in lugubre fila d’ammalati, la maggior parte già rotte, ad ostentare mutilazioni, tutte incrostate di polvere, inzaccherate di argilla; e tali miserabili nudità trascinava113 114

Ivi, p. 244. Ivi, p. 242.

Amare una statua

129

no così da anni la loro agonia sotto gli occhi dell’artista che aveva trasmesso loro la sua energia; inizialmente conservate con passione gelosa, malgrado il poco spazio, cadute in seguito nell’orrore grottesco delle cose morte, fino al giorno in cui, preso un martello, le aveva finite da sé, riconducendole in gesso, per buttarle fuori dalla sua vita»115. E già proprio all’inizio del romanzo, quando in un impeto di furore Claude raschia via dalla tela la testa della donna del plein air, quel volto che come sappiamo aveva già i tratti del viso di Christine, è una uccisione, un omicidio quello cui assistiamo. «Fu un autentico assassinio, un annientamento: tutto scomparve in una poltiglia melmosa. Allora, accanto a quel signore nella sua giacca aitante fra gli arbusti luminosi […] non rimase altro, di quella donna nuda ormai priva della testa, che un troncone mutilo, vaga macchia cadaverica, carne di sogno dissolta e morta»116. Ma è soprattutto nell’episodio agghiacciante del ritratto del figlio morto che l’equivalenza tra l’immobilità del modello e la rigidità del cadavere si fa completa. «Da principio resistette, il pensiero confuso si precisava, finiva per diventare ossessivo. Alla fine capitolò, andò a prendere una piccola tela, cominciò uno schizzo del figlio morto. Poi, il lavoro gli seccò le palpebre, rese sicura la mano; e presto non ebbe più davanti il figlio stecchito, ma un modello, un soggetto che l’appassionò per l’insolito interesse. […] Quando Christine si alzò, lo trovò immerso nel lavoro. Allora, ripresa da un accesso di lacrime, disse solamente: ah!, puoi dipingerlo, non si muoverà più»117. Nella scena conclusiva del romanzo, Christine tenta uno sforzo supremo per riaffermare i diritti della vita sulla pittura. È notte. Christine sente che Claude non è più accanto a lei («Il loro letto, da molti mesi, era gelido; ci si allungavano fianco a fianco come due estranei, dopo una lenta rottura dei vincoli che univano i loro corpi: volontaria astinenza, castità teorizzata a cui era giunto per offrire tutta la sua forza alla pittura»118). Si alza, lo trova davanti al grande quadro incompiuto. Da mesi, ormai, Claude non osava rimettere le mani sulla grande figura di donna che campeggia al 115 116 117 118

Ivi, p. 221. Ivi, p. 48. Ivi, p. 268. Ivi, p. 345.

130

Lo sguardo reciproco

centro della composizione, «ed era questo a tranquillizzare Christine, a renderla tollerante e misericordiosa nella sua acida gelosia: finché non tornava da quell’amante agognata e temuta, si sentiva meno tradita»119). Ma è proprio quella donna che ora Claude sta dipingendo. «Allora Christine aprì la porta e si fece avanti. Una invincibile ribellione, il furore di una sposa oltraggiata in casa sua, tradita durante il sonno, nella stanza vicina, la incalzava. Sì, lui stava proprio con l’altra, dipingeva il ventre e le cosce come un visionario delirante che il tormento del vero gettava nell’esaltazione dell’irreale […]. Una così strana nudità da ostensorio, dove sembrava che le pietre preziose risplendessero per qualche religiosa adorazione, finì d’infuriarla»120. La gelosia di Christine esplode: «Ah! Questa pittura, sì! la tua pittura, è lei l’assassina, che ha avvelenato la mia vita»121. La donna dipinta ha preso il suo posto. «Perché dillo, se hai il coraggio, dillo che non si è impossessata di te pezzo a pezzo, il cervello, il cuore, la carne, tutto!»122. Ma Christine è viva, e questa è la sua indubitabile superiorità sulla rivale. «Lo vedi bene che sei sconfitto, perché ostinarti ancora? È una cosa insensata, è questo che mi fa ribellare… Se non puoi essere un grande pittore, ci resta la vita, ah!, la vita […]. Ascolta, c’è la vita […]! Mi hai preso come modella, hai voluto le copie del mio corpo. A che scopo, dì? forse queste copie valgono me? Sono spaventose, sono rigide e fredde, come cadaveri! E io ti amo, e io voglio averti […]. Quando ti offro di posare, quando sono lì, a sfiorarti, con il mio alito, è perché ti amo, lo capisci?, è perché sono viva, io!»123. La vittoria di Christine, il ravvedimento di Claude («Che ho fatto? … Allora è proprio impossibile creare? le nostre mani non hanno il potere di creare degli esseri?»124) durano solo poche ore. Il mattino successivo, Claude non è già più accanto a lei. Come Frenhofer, il pittore del racconto di Balzac Il capolavoro sconosciuto, il cui riverbero tante volte si proietta sul romanzo di Zola, si è impiccato davanti al quadro che era diventato tutta la sua vita.

119 120 121 122 123 124

Ivi, p. 347. Ibidem. Ivi, p. 348. Ibidem. Ivi, p. 352. Ibidem.

Amare una statua

131

Diana e la Tuda La Diana che Sirio Dossi scolpisce in Diana e la Tuda di Pirandello è parente stretta della Belle Noiseuse di Frenhofer e della tela gigantesca di Claude Lantier. Anch’essa aspira ad essere un’opera d’arte assoluta, unica. Come Frenhofer, anche Sirio Dossi non è un artista che debba vivere del proprio lavoro. Ricchissimo, ha deciso di consacrarsi interamente a quella scultura, e più volte ha ripetuto che, quando l’avrà compiuta, si ucciderà. Ma la Diana non sarà mai finita, e trascinerà alla morte il suo autore come era accaduto al Giorno della Resurrezione di Rubek. Sirio Dossi però non commetterà il premeditato suicidio: sarà il vecchio scultore Nono Giuncano ad ucciderlo, per impedire che egli, a sua volta, non uccida la Tuda che si lancia contro la statua per distruggerla, novella Gioconda. Rappresentata in prima assoluta a Zurigo nel Novembre del 1926, messa in scena a Palermo all’inizio dell’anno successivo, Diana e la Tuda è tra le opere meno frequentate dell’intero repertorio pirandelliano. È stata riproposta sulle scene, a quanto ci consta, solamente due volte, nel 1971 e nel 1984, sempre con la regia di Arnoldo Foà. La critica ha mostrato di non amarla in modo particolare. Forse le nuoce proprio la facilità con la quale si presta ad essere inquadrata nel fin troppo noto schema tilgheriano del dualismo di vita e forma, della impossibilità della vita di esaurirsi in quella forma in cui pure necessariamente deve calarsi. Non ci vorrebbe molto, in effetti, per riportare Diana e la Tuda nel contesto della poetica pirandelliana, e notare per esempio le analogie con le dichiarazioni di Hinkfuss, il regista di Questa sera si recita a soggetto («Ogni scultore […] dopo aver creato una statua, se veramente crede d’averle dato vita per sempre, deve desiderare che essa, come una cosa viva, debba potersi sciogliere dal suo atteggiamento e muoversi, e parlare. Finirebbe d’esser statua …»125); ma quello che interessa qui è invece seguire il filo del nostro tema, cogliere, piuttosto che le risonanze interne al corpus pirandelliano, gli echi dei testi appena letti. L’eco del grido di Christine, ad esempio. L’urlo disperato che risuona nella chiusa dell’Opera, «perché sono viva, io!», è il grido 125 Le dichiarazioni di Hinkfuss si leggono in Questa sera si recita a soggetto; richiama l’attenzione su di esse C. Vicentini, L’estetica di Pirandello, Milano, Mursia, 1970.

132

Lo sguardo reciproco

di Tuda nelle primissime battute del testo di Pirandello: «Sono di carne, oh!»126. Non è ancora tragedia, a questo punto. È solo la protesta della modella stanca per la posa troppo lunga cui la costringe Sirio Dossi, e che trova appoggio nel vecchio scultore Giuncano. Quest’ultimo ha smesso di fare statue per la rabbia e l’impotenza di vederle immobili, eterne ma senza tempo, mentre la vita è un fluire, e dunque anche un invecchiare. Se potesse farle vive, le statue, tornerebbe a scolpire. «Poter dar loro, con la forma, il movimento, e avviarle, dopo averle scolpite, per un viale infinito, sotto il sole, dov’esse potessero andare, andare sempre, sognando di vivere lontano, fuori dalla vista di tutti, in un luogo di delizia che sulla terra non si trova, la loro vita divina»127. Ma lo sviluppo tragico incombe già in questo avvio, se si affaccia nella battuta premonitrice di Giuncano a Sirio: «Uccidila, uccidila, sarà fermissima!»128. Il dramma non è ancora iniziato, e già l’immobile freddezza della statua sembra far segno verso l’immobilità della morte. «Ah, papà Giuncano – scherza Tuda ancora in posa – vorrei darle un bacio! ma glielo do qua, senta, sul mio braccio. Ah, Dio, freddo come se fosse morto!»129. Poco più avanti, ancora uno scambio di battute tra la modella e il vecchio scultore. «Tuda: Dorme, maestro? Giuncano: Fumo. Ti vedo nell’ombra. Tuda: Son bella? Giuncano: Sì, cara. Morta. Tuda: Come, morta? Sirio (con un urlo): Ferma! Tuda: Eh, dice morta … Giuncano: Appunto perché ti vuole ferma così»130. Per Giuncano Tuda, con tutta la sua vitalità e la sua bellezza rappresenta una sfida che l’arte ha già perso in partenza. «Fanne ora una statua! Tutta un fremito continuo di vita: ogni attimo un’altra!»131. Silvio Settala, nella pièce di D’Annunzio, era pronto a raccogliere la sfida analoga che gli veniva dal corpo sempre diverso di Gioconda («Immagina questo mistero su tutto il suo corpo! Imagina per tutte le sue membra, dalla fronte al tallone, questo apparire di vite fulminee […]! Mille statue, e non una!»132); Sirio Dossi pensa che solo l’arte possa dare consistenza 126 127 128 129 130 131 132

L. Pirandello, Diana e la Tuda, cit., p. 4. Ivi, p. 17. Ivi, p. 4. Ivi, p. 6. Ivi, p. 16. Ivi, p. 18. G. D’Annunzio, La Gioconda, cit., p. 82.

Amare una statua

133

alla vita, facendola durare nella forma: «E se non la fermi in un gesto in cui consista, che è? Nulla. Giuncano: Vita! Vita! Sirio: Che passa! Giuncano: Appunto! Sirio: Oggi non è più quella di ieri, domani non più questa d’oggi! Ogni attimo un’altra! tante! io la faccio una: quella! (indica la statua) per sempre! Giuncano: Una – e per sempre – che non si muova più? Sirio: È l’ufficio dell’arte. Giuncano: E della morte: che farà anche di te, di me una statua: su un letto o per terra, quando vi giacerai, stecchito»133. A questo inizio corrisponderà, simmetricamente, la chiusa dell’ultimo atto. «Giuncano: Io ho voluto rispettar in te [ossia in Tuda] la vita! Al contrario di quanto sta facendo ora lui! Sirio: Ah, io non la rispetto? Hai il coraggio di dire che io non la rispetto, perché voglio che serva a qualche cosa che stia sopra e oltre quello che possiamo soffrire tu-lei-io stesso? Giuncano (con derisione): Tu? Sirio: Se ci metto dentro tutta la mia vita, e quella degli altri. Giuncano: Uccidendola? Sirio: No, anzi, perché non muoia più! Giuncano: E intanto muoia sempre?»134. Ma se l’arte è la nemica della vita, allora, ancora una volta, la creazione dell’opera dovrà presupporre l’uccisione del desiderio, la cancellazione della passione. Come Rubek, come Demetrio, come Lantier, anche Sirio Dossi non può amare la sua modella, che pure è l’ispiratrice della sua opera, la sola che possa aiutarlo a compierla. È proprio intorno a questo tema che si sviluppa l’azione del dramma. Solo con Tuda Sirio riesce a lavorare alla sua Diana. Ma la giovane modella è molto richiesta, e posa anche per altri, perfino per un pittore che Sirio giudica un mediocre, un tale Caravani. Quando viene a sapere che anche quest’ultimo vuole lavorare con Tuda ad una Diana, Sirio ha uno scoppio d’ira, una scena di gelosia: che è, però, gelosia d’artista verso la modella e non gelosia di innamorato vero l’amante. Ma Tuda, nella sua ingenuità fin troppo perspicace, centra subito il punto. «Ne sei geloso? Ma quando un artista vuole una modella tutta per sé, sai che fa? la sposa, caro!»135. E Sirio accetterà di sposare Tuda, ma con un patto assai chiaro: egli ha bisogno di una modella, non di una moglie. Tuda, dunque, si impegnerà a posare per lui soltanto, al133 134 135

Ivi, p. 19. Ivi, p. 96. Ivi, p. 14.

134

Lo sguardo reciproco

loggerà nella casa di lui, avrà tutti i diritti di una moglie. Ma entrambi conserveranno la loro libertà. Tuda potrà uscire con chi vuole, Sirio continuerà a frequentare la sua amante Sara Mendel. Un semplice affare, dunque, agli occhi di Sirio, non altrettanto a quelli di Tuda. «Sirio: Tu avrai fatto comunque un ottimo affare, stai sicura. Tuda: Affare! Non è affare soltanto! Sirio: Ah no, soltanto. Il tuo corpo, per quel che mi deve servire. […] Tuda: Io dovrò allora servire soltanto per la tua statua? Sirio: A me, soltanto per la mia statua. Tuda (sta a guardarlo un pezzo; poi, ambigua, con aria di sfida): bada, oh, che io sono viva!»136. Tuda non starà ai patti. Si innamorerà (o forse, meglio, è sempre stata innamorata) di Sirio, e, offesa e umiliata dal comportamento di lui, deciderà di vendicarsi nel solo modo che ha a disposizione, decidendo di tornare a posare per l’odiato Caravani. «Tuda: Perché questo sarebbe l’unico tradimento che io potrei fargli. Sara: Sicuro: da modella. Non potendo tradirlo come moglie»137. Nella scena che oppone Sara Mendel a Tuda nel secondo atto, sembra che quel che ha indignato la modella e la spinge a rifiutare tutti i vantaggi materiali della sua nuova situazione sia la gelosia per l’amante di Sirio, che continua a frequentare la casa di lui ed anzi si è perfino fatta dare la chiave dello studio in cui Tuda posa. Nel corso del terzo atto, tuttavia, comprendiamo che le cose sono più complesse e che la vera rivale di Tuda non è una donna in carne ed ossa, ma una statua. La sua statua, la Diana. Nel racconto che Sara Mendel fa a Giuncano abbiamo ancora l’interpretazione più semplice, in chiave di gelosia tradizionale. Sara racconta di come ha spinto Tuda al ‘tradimento’, di come si è procurata la chiave dello studio di Caravani in modo da poter far sorprendere Tuda mentre posava nuda per il rivale, racconta il duello che ne è seguito fra Dossi e Caravani. Da allora, Tuda è sparita, e Sirio non è più riuscito a lavorare alla sua statua («Giuncano: Ormai non può più finirla, quella statua, se non con lei […] se ne accorge adesso che sente mancarsi tra il pollice e la creta il dono con cui lavorava»138). La nuova modella che ha convocato, Jonella, non gli servirà, e lui per primo ne è consapevole, se è andato di persona a ri136 137 138

Ivi, p. 35. Ivi, p. 60. Ivi, p. 74.

Amare una statua

135

cercare Tuda, e ha tentato in tutti i modi di ricondurla da lui. Nella scena culminante e conclusiva tutti i protagonisti si ritrovano nello studio di Sirio. È a questo punto che Tuda rivela il suo vero dramma. Tuda si è accorta che Sirio ha usato le sue sofferenze di innamorata non corrisposta, il suo tormento per la passione ignorata, perché gli serviva trasferirli nella sua opera. E allora mette in guardia la nuova modella dal destino che l’attende se accetta di posare. Le mostra la statua, e grida «Guardala! Guardala bene! Guardale gli occhi! gli occhi! – e or guarda qui i miei! – vedi? vedi? sono i miei, là – questi – come me li stai vedendo ora – da pazza – e così, perché me li hanno fatti diventare così – da pazza – tutti e due […]! Non li aveva lei (indica la statua) prima, questi occhi – erano altri, i suoi occhi! – Lui me li ha presi e glieli ha dati: guardala: – e quella mano là che tocca il fianco – la vedi? – era aperta, prima, quella mano! vedi, ora? chiusa, serrata a pugno. Me l’hanno fatta chiudere, serrare loro così, per resistere al supplizio, e la statua, vedi, anche lei – l’aveva aperta: ha dovuto chiuderla! gliel’ho veduta chiudere – non ha potuto farne a meno! Non è più quella che lui voleva fare! Sono io ora là, capisci?»139. Quello che Sara Mendel non ha compreso è che Sirio si è servito di lei tanto quanto si è servito di Tuda, sacrificandole entrambe alla statua: «Tuda: S’è approfittato di voi, come di me, per la sua statua – di quanto voi m’avete fatto soffrire – […] perché giovava alla sua statua!». Sirio, insomma, si è servito della gelosia suscitata in Tuda dall’amante, ha fatto anche di lei uno strumento, perché voleva impiegare la sofferenza di Tuda per la sua scultura («Sirio: io non stavo qui come un gonzo a fare la ridicola figura dell’uomo conteso da due donne»140). Ecco come Tuda è arrivata a capire quel che stava accadendo: «Tuda: Lo compresi subito, sa perché? perché quand’ero lassù [in posa sul piedistallo] avrebbe dovuto gridarmi “Non fare questi occhi!” “Apri quella mano!”. Non me lo gridò mai. Giuncano: lasciò la statua serrare la mano, e avere quegli occhi! Tuda: Oh, ecco! e di questo, vede, sono andata a vendicarmi con quello stupido là (a Sirio) perché tu che in me t’eri comprata la modella, della modella ti dovevi servire per la tua statua com’era; e non di me che soffrivo, 139 140

Ivi, p. 89. Ivi, p. 91.

136

Lo sguardo reciproco

per farla diventare un’altra!»141. È a questo punto, mentre Sara Mendel, infuriata, vorrebbe troncare tutto, che Tuda intravvede la possibilità di un’estrema rivincita. Ogni cosa deve rimanere uguale, perché la statua possa essere compiuta: «Tuda: Vorreste, dopo quello che m’avete fatto soffrire, che egli non finisca ora la sua statua? Eh no, la deve finire, la deve finire! E dunque voi dovete seguitare a venire qua»142. Se Tuda è stata sacrificata alla statua, pure conserva su di essa un potere, giacché è solo grazie a lei che la statua potrà essere finita. Tuda potrebbe ancora essere Gioconda. Sarà Giuncano a toglierle questa estrema illusione. Quella sofferenza che Sirio le ha causato a bella posta per riprodurla nell’opera, ha anche macerato il corpo e i lineamenti di Tuda, sì che ella non solo non potrà più essere amata, ma nemmeno potrà più essere la modella della Diana. Solo a questo punto Tuda si accorge che per lei è veramente tutto perduto. «Ah già, è vero … è vero … Oh Dio, come faccio? È vero, … così non posso più … è vero! Non posso più! Ma lei lo capisce? Là, con la mia carne, col mio sangue, con gli occhi che vedevano ciò che faceva di me, che mi prendeva, mi prendeva tutta per la sua statua; essere io, là – viva – e non essere nulla […]! Lo so, lo so, non dovevo essere nulla per lui; ma ero di carne, io! di carne che mi si è macerata così»143. Nell’ultimo scontro tra Sirio e Giuncano tornano a contrapporsi le convinzioni estetiche che già avevamo visto in conflitto nel primo atto. «Giuncano: un fantoccio di cartapesta tu dovevi sposare per la tua statua! Ti sarebbe rimasto lì fermo, come doveva essere – per la tua statua, là ferma anch’essa, come doveva essere: tempo senza età: la cosa più spaventosa […]! L’età che è il tempo quando diventa umano – il tempo quando duole – noi, di carne: questa poverina che non è più come dovrebbe essere per la tua statua, ma come può essere dopo aver sofferto quello che voi – tu e quell’altra – le avete fatto soffrire […]. Sirio: Hai tu coscienza che la mia statua sia bella? bella, veramente bella? E che vuoi che m’importi d’altro, dunque, se poi pagherò io più di tutti la mia opera compiuta? Giuncano: Se per te la vita non ha più prezzo. Sirio: Ma questo prezzo: la 141 142 143

Ivi, p. 92. Ivi, p. 94. Ibidem.

Amare una statua

137

mia statua!»144. Mentre udiamo le ultime grida di Tuda disperata («Prendimi, prendimi, prendi la vita che mi resta, e chiudimi là nella tua statua! […] Sì, che io vi muoia dentro! Se non mi vuoi far vivere! […] cercava una pasta ardente da colare dentro alle statue? Eccola! Eccola […]! Ci voglio essere io, là dentro»145), mentre assistiamo al precipitare dell’azione (Tuda si avventa contro la statua, o almeno Sirio crede che ella lo stia per fare, e si slancia contro di lei minacciando di ucciderla; Giuncano, per impedirglielo, lo aggredisce e lo uccide) ci accorgiamo che il rapporto che lega Diana e la Tuda agli altri testi che abbiamo esaminato è diverso da quello che potevamo a tutta prima supporre, e si sviluppa su più piani. Molti indizi lasciavano ritenere che il dramma pirandelliano fosse quello in cui il legame tra artista, modello e statua era maggiormente risolto in una dialettica astratta, intellettuale (vita e forma, informe vita che anela alla sua forma, etc.). si poteva legittimamente supporre che il tema decisivo fosse quello ibseniano della inibizione del desiderio (il che, almeno al livello elementare del puro dipanarsi dell’intreccio resta immediatamente vero). Ci accorgiamo ora, però, anche senza bisogno della suggestione delle didascalie («nello studio si è fatto buio. Solo la statua, con la luce che cola dal lucernario, appare distinta. I quattro che vi stanno sono come ombre nell’ombra»146) che il dramma di Pirandello non potrebbe funzionare se non vi agisse in profondo il tema romantico dell’immagine che sottrae vita alla vita, che svuota il personaggio che dovrebbe rappresentare. Nella Diana, al di là di ogni diversità, c’è qualcosa che ricorda il Ritratto ovale di Poe. Forse è fatta dello stesso marmo nel quale è scolpita l’immagine della Zambinella nel misterioso Sarrasine di Balzac. Forse, come il titolo autorizza del resto a pensare, la vera protagonista della pièce è lei, l’immobile statua di pietra.

144 145 146

Ivi, pp. 95-96. Ivi, p. 97. Ivi, p. 95.

II Descrizioni

UN DIPINTO E I SUOI SONETTI PROSERPINA DI DANTE GABRIEL ROSSETTI Federica Mazzara

Ecco! È finito. Sopra il collo troneggiante/ la curva della bocca esprime la voce e il bacio,/ gli occhi ombrati ricordano – e guardano più in là. Dante Gabriel Rossetti

Rossetti: un doppio talento Dante Gabriel Rossetti si affermò nel panorama artistico dell’Ottocento inglese in piena epoca vittoriana. Per quanto sia ancora oggi ricordato in quanto fondatore del movimento artistico del Preraffaellitismo, a Rossetti vanno riconosciuti meriti ben più nobili che fecero della sua arte un esempio unico di ispirazione e abilità artistica. Come il suo più grande maestro, William Blake, Rossetti fu un caso perfetto di Doppelbegabung, se si considera la sua prolifica produzione pittorica e poetica. Questo scritto si propone l’analisi di alcune specifiche pratiche artistiche che tradiscono, non a caso, la sua doppia versatilità all’arte e un approccio intermediale che rappresenta una sorta di compromesso fra le due espressioni artistiche. Double work: questa è l’etichetta che in questa sede si è scelto di adottare per definire quelle particolari opere, all’interno della sua produzione, che sperimentano varie forme di relazione tra due sistemi di espressione, quello della parola e quello dell’immagine. In modo particolare questo studio si soffermerà sull’analisi di un particolare double work, Proserpina, un quadro-sonetto, in cui confluiscono tutte le questioni che l’arte doppia di Rossetti solleva, e che qui cercheremo di porre in luce. Personaggio complesso e ambiguo, Rossetti, come accennato, fu riconosciuto come il fondatore del Preraffaellitismo, movimento pittorico-letterario fondato a Londra nel 1848 da un gruppo di

142

Lo sguardo reciproco

giovani artisti (i pittori J.E. Millais, H. Hunt e J. Collinson, lo scultore T. Woolner, lo scrittore F.G. Stephens e lo stesso Rossetti), accomunati da uno spirito anticonformista rispetto ai rigidi e accademici schemi dell’epoca vittoriana, ancora fedeli ai criteri reynoldsiani. I Confratelli, di contro, si fecero portatori di nuovi ideali artistici votati al recupero di una semplicità “primitiva” tanto nell’arte pittorica quanto in quella poetica. In questa prima forma, il movimento godette del riconoscimento del critico più influente dell’epoca, John Ruskin1, il quale prese le loro difese in due lettere inviate al Times, che tradiscono la comune predilezione per temi medievali e per una rappresentazione che combina fedeltà alla natura (attraverso uno studio maniacale del dettaglio) e simbolismo tipologico, volto a scoprire nuove fonti di bellezza e verità nell’arte. Questa prima forma del movimento ebbe in realtà vita breve. Già a partire dagli anni ’50 si cominciò a delineare una seconda fase, che venne definita “Preraffaellitismo estetico”, dal carattere fortemente simbolico2. Un credo fondamentale comune ad entrambe le fasi del movimento era quello che le arti fossero “sorelle”. Non a caso, attraverso la loro esperienza pittorica dalla forte matrice letteraria, la dottrina dell’ut pictura poësis ricevette un forte impulso. I Confratelli cercarono, in realtà, di praticare più di un’arte, e crearono una rivista, The Germ3, in cui far confluire la parallela produzione lette1 L’opera che consacrò la fama di Ruskin, Modern Painters (1843-60), rappresentò per i Preraffaelliti, almeno nella prima fase, un importante punto di riferimento teorico. In modo particolare, Holman Hunt, fondatore anch’egli del movimento del Preraffaellitismo, fece tesoro degli insegnamenti di Ruskin cercando di applicarli concretamente nella sua arte pittorica. Il rapporto tra Ruskin e Rossetti, invece, conobbe presto un declino; Ruskin, infatti, non apprezzò mai la “conversione” del preraffaellita alla sfera sensuale e voluttuosa che marcò fortemente tutta la seconda parte della sua produzione artistica. 2 Hunt e Millais si tennero fuori da questa seconda fase, soprattutto per le tematiche più dichiaratamente “voluttuose” verso cui andava l’arte di questo nuovo gruppo di artisti, costituito da Dante Gabriel Rossetti, vero iniziatore, Edward Burne-Jones, William Morris, e il poeta Algemon Charles Swinburne. Non dominava più una tecnica pittorica di tipo realista, quasi fotografica, ma una volta a rappresentare setting e atmosfere ombrose che facevano da sfondo a soggetti di “medievalismo eroticizzato”, tanto nell’arte pittorica quanto in quella poetica. Non deve stupire che il Preraffaellitismo in questa nuova veste, in cui dominava una forte complicità tra le due dimensioni del materiale e dello spirituale, divenne modello per il successivo movimento estetico e decadente che trovò, soprattutto nell’opera di Rossetti, una sorta di modello artistico di riferimento. 3 In realtà furono pubblicati solo i primi quattro numeri, il primo dei quali uscì

Un dipinto e i suoi sonetti

143

raria. Solo Rossetti, in realtà, riuscì bene in questa impresa, praticando alternativamente e, spesso, simultaneamente le due arti. L’intera produzione artistica di Rossetti rispecchiò pienamente l’inquietudine che lo accompagnò lungo tutto il suo operato artistico. La sua doppia identità culturale, inglese e italiana, rappresentò un primo motivo di ambiguità. Il padre Gabriele Rossetti, originario di Napoli, emigrato in Inghilterra nel 1824 come esule politico, era professore d’italiano al King’s College di Londra, e s’impose all’attenzione come poeta e studioso di Dante Alighieri. Egli esercitò l’influenza più forte sul figlio, soprattutto in relazione ai suoi gusti letterari, istruendolo sin da giovanissimo sulla letteratura dei poeti italiani tardo medievali e primo rinascimentali. A Dante e ai medievali italiani si deve, inoltre, la prima “esercitazione” artisto-letteraria di Rossetti, in altre parole la traduzione inglese della Vita Nuova e di altre poesie italiane di quella stessa epoca, che egli raccolse e pubblicò nel 1861 con il titolo di I poeti italiani primitivi4. L’attività di traduzione rappresentò la sua vera e propria consacrazione all’arte tout court. Tutta la sua attività artistica e culturale, a ben guardare, non fu che una continua “traduzione”: fra lingue, fra culture e soprattutto fra media artistici diversi. La duplice vocazione artistica fu, però, anche motivo di turbamento e frustrazione per Rossetti. In una lettera inviata all’amico Thomas Gordon Hake, datata 21 Aprile 1870, si legge: Sono convinto di essere principalmente un poeta (entro i limiti delle mie facoltà) e che sono le mie tendenze poetiche a dare valore ai miei dipinti; solo perché la pittura, diversamente dalla poesia, è un mezzo di sonel gennaio del 1850 (i successivi tre nel febbraio, marzo e maggio dello stesso anno). The Germ, oltre ad essere l’organo di diffusione delle idee del gruppo prerafaellita, fu anche il luogo in cui confluirono le prime pubblicazioni letterarie di Rossetti, come i Sonnets for Pictures e il racconto Hand and Soul. 4 D.G. Rossetti, The Early Italian Poets from Ciullo D’Alcamo to Dante Alighieri (1100-1200-1300) in the Original Metres, Together with Dante’s Vita Nuova, London, Smith, Elder, 1861. Rossetti rivisitò questa raccolta curandone una seconda versione che pubblicò nel 1874 col titolo di Dante and His Circle: With the Italian Poets Preceding Him (1100-1200-1300), London, Ellis and White, 1874. Questo rappresentò il primo e più autorevole tentativo di iniziare il pubblico inglese ad un’antologia di poeti medievali italiani.

144

Lo sguardo reciproco

stentamento, ho espresso la mia arte poetica principalmente in quella forma; […] molti dei miei dipinti sono solo un mezzo per guadagnarmi da vivere, mentre i miei versi, non avendo scopi lucrosi, sono rimasti incorrotti5.

Rossetti dedicò gran parte delle sue energie artistiche alla pittura. La poesia rappresentò però l’arte attraverso la quale cercò di esprimere gli aspetti più intimi delle sue emozioni. Il genio di Rossetti non si esaurì, in ogni modo, nell’abilità di servirsi con eguale maestria tanto del mezzo pittorico quanto di quello poetico. La grandezza di questo artista va piuttosto rintracciata in quel gioco di abili “illuminazioni” reciproche fra le due arti, che egli amava rendere spesso complici nel perseguimento dei suoi fini artistici ed estetici. Quando si considera la produzione artistica di Rossetti, infatti, ci si scontra non solo con le difficoltà che generalmente pone l’analisi della produzione di un doppio artista, poeta e pittore, ma soprattutto – come accade in buona parte della sua produzione – con le difficoltà poste da una “doppia opera” in cui le due espressioni, poetica e pittorica, convivono, a volte, in un unico spazio creativo. Va precisato però, che l’aspetto intermediale della sua produzione artistica rappresentava l’espressione più alta di un “dialogismo” presente, in forme diverse in quasi tutte le manifestazioni della sua produzione artistica. Questa si contraddistinse proprio per il fatto di essere un laboratorio di attraversamenti fra le due arti delle quali sembra Rossetti non riuscisse a fare a meno. La sua scrittura letteraria, infatti, tradisce spesso una predilezione per soggetti legati alla dimensione pittorica: si pensi a Il ritratto, che, sebbene pensata come opera poetica indipendente, s’inserisce in una logica di richiamo “intratestuale” a soggetti pittorici dello stesso Rossetti; o ancora ai suoi racconti Mano e anima e Santa Agnese dell’Intercessione, in cui i protagonisti sono, in entrambi i casi, dei pittori. Rossetti, inoltre, si servì del mezzo poetico per descrivere alcuni dipinti che lo affascinarono particolarmente. È questo il caso dei Sonetti per dipinti6, che egli scrisse durante un viaggio intrapreso 5 W. Fredeman, The Correspondence of Dante Gabriel Rossetti, Cambridge, D.S. Brewer, vol. IV, The Chelsea Years, 1863-1872, II. 1868-1870, p. 371 (trad. it. mia). 6 I Sonnets for Pictures vennero dapprima pubblicati sul quarto numero della

Un dipinto e i suoi sonetti

145

negli anni ’40 con l’amico artista Holman Hunt, viaggio in cui ebbe la possibilità di visitare alcuni prestigiosi musei, tra i quali il Louvre. Qui, ad esempio, alcuni dipinti lo colpirono al punto da volerne scrivere una traduzione in versi, un’ékphrasis volta a ricreare l’immagine in termini poetici. In una lettera inviata in quei giorni al fratello William Michael, in cui Rossetti cerca di condensare l’emozione di aver visto un dipinto come La pastorale di Giorgione, (in realtà attribuito poi a Tiziano) si legge: Era così straordinariamente bella che ho voluto assecondare il mio desiderio di sedermi di fronte ad essa per scriverne un sonetto. In realtà devi avermi già sentito entusiasta dell’incisione di questo dipinto, che immagino abbia visto anche tu. Da un lato c’è una donna nuda che immerge una brocca di vetro in un pozzo; al centro due uomini e un’altra donna nuda che sembra abbiano temporaneamente cessato di suonare i loro strumenti7.

In realtà, quasi tutta la sua arte pittorica fu d’ispirazione letteraria. Rossetti, utilizzò spesso le sue tele per tradurre visivamente alcune scene letterarie per lui particolarmente significative, tratte, ad esempio, da Dante (Il saluto di Beatrice, 1849-63; Il sogno di Dante nel momento della morte di Beatrice, 1856-81), da Poe (Il corvo, 1846-48), da Goethe (Faust, 1856) e dalla Bibbia (Ecce Antilla Domini, 1850; L’annunciazione, 1861). Il forte richiamo fra le arti sorelle, dunque, caratterizzava ogni ambito artistico praticato da Rossetti, in particolare laddove i due aspetti del verbale e dell’iconico erano inscindibili. Jerome McGann, a questo proposito, osserva come sia l’immagine sia il testo si confrontino, nell’arte di Rossetti, in una sorta di “urgenza espressiva” che può essere considerata al contempo icorivista The Germ, nel 1850, secondo questo ordine: A Virgin and Child, by Hans Memmeling; in the Accademy of Bruges; A Marriage of St. Katherine, by the Same; In the Hospital of St. John at Bruges; For an Allegorical Dance of Women, by Andrea Mantegna; For A Venetian Pastoral, by Giorgione (in the Louvre); For Ruggiero and Angelica I e, For Ruggiero e Angelica II. Quando Rossetti pubblicò la sua raccolta di Poems nel 1870, inserì anche questi sonetti, escludendo i primi due e aggiungendone di nuovi, molti di commento ad alcuni dei suoi stessi dipinti. Intitolò questa sezione Sonnets for Pictures, and other Sonnets. Questo rappresentò l’ultimo tentativo di tenere insieme questo gruppo di poesie espressamente collegate all’arte sorella, la pittura. 7 W. Fredeman, The Correspondence of Dante Gabriel Rossetti, cit., p. 114 (trad. it. mia).

146

Lo sguardo reciproco

nica e linguistica. E questo può dirsi sia per le opere espressamente doppie, sia per quelle poetiche e pittoriche autonome, volte, comunque, a sviluppare da un lato gli aspetti concettuali dell’immagine, dall’altro il potere iconografico della parola8. L’aspetto ancora più sorprendente e interessante di questa forte interazione rossettiana fra i due linguaggi espressivi, è dato dal fatto che essa finisce per determinare lo stesso aspetto formale della sua arte, soprattutto di quella verbale. Il senso di “corporeità” dell’arte portò Rossetti a fabbricare di sua mano anche gli elementi più materiali delle sue opere, come le cornici, ad esempio, che egli non considerò mai come dei limiti fisici da imporre all’immagine dipinta, piuttosto come un’estensione della stessa e dei suoi elementi concettuali. Questo approccio programmatico e pragmatico si esprimeva anche attraverso la sua arte verbale. La coreografia delle sue lettere, la sua arte calligrafica, è ciò dietro cui si cela anche il significato della sua verbalità. Attraverso un gioco di decorativismo formale e concettuale, il testo diventa iconico, un’opera da “osservare” prima ancora che da leggere. McGann parla a questo proposito di objecthood delle sue opere, riferendosi alla materialità degli elementi verbali in relazione allo spazio. Si pensi ai libri, che sebbene appartengano alla sfera del verbale, integrano un’esperienza iconografica grazie all’attenzione che l’artista preraffaellita dedica, ad esempio, alle copertine o ai frontespizi degli stessi. In ogni caso, e qualsiasi sia il suo punto di partenza, Rossetti persegue un metodo che comporta interazioni iconiche e verbali9. Questa attenzione alla forma si realizza al meglio in quelle opere che abbiamo definito doppie, double work, in virtù dell’esplicito e reciproco richiamo tra il testo poetico e il corrispettivo pittorico. Double work10 è l’etichetta che, come già accennato, identifica 8 J. McGann, Dante Gabriel Rossetti And The Game That Must Be Lost, New Haven, Yale UP, 2000, p. 72. Lo studio dell’arte medievale, in modo particolare dei testi illustrati e miniati, e dell’arte giapponese funzionò per Rossetti certamente da stimolo a perseguire sperimentalismi artistici caratterizzati da forme di aggregazione tra immagine e parola. 9 Ivi, pp. 67-68, 75. 10 Fu Maryan Wynn Ainsworth a definire per la prima volta questa modalità combinatoria di Rossetti col termine di Double Works (M.W. Ainsworth, Dante Gabriel Rossetti and the Double Works of Art, New Haven, Yale University Art Gallery, 1976).

Un dipinto e i suoi sonetti

147

in questa sede tutte quelle opere, all’interno della produzione artistica di Rossetti, che non tradiscono semplicemente un richiamo all’altra arte, ma si servono di questo per amplificare l’effetto e il significato dell’opera stessa. Dipinti, di mano di Rossetti, per i quali egli realizza uno o più sonetti d’accompagnamento (sonnets for pictures, come lui stesso li definisce), ma più precisamente forme miste, in cui i due linguaggi artistici dialogano e si mescolano, trasformando la scrittura in arte calligrafica e creando una rete di integrazione reciproca fra i due linguaggi. La fruizione di un’opera siffatta produce un terzo livello di significato, indipendente tanto da quello verbale quanto da quello visuale, ma pur sempre derivante da essi, poiché frutto della loro sinergia. In questo caso, come osserva Paola Spinozzi nel suo recente studio, «le metamorfosi dei quadri in opere verbali destabilizzano le reciproche illuminazioni, perché suggeriscono obliquamente che la risignificazione da un codice all’altro rivela disseminazioni semantiche […]. Le ékphraseis di Rossetti […] sono indagini sui nessi referenziali fra parola e oggetto, dove la preoccupazione interartistica per le corrispondenze formali e tematiche fra i dipinti e le ‘poesie per dipinti’ è gradualmente posposta all’interrogazione meta-artistica»11. Se questo è vero per le opere doppie in cui l’interartisticità è “allusiva”, lo è ancora di più per quelle forme di opere doppie in cui il contatto fra i due linguaggi è “fisico”, in cui, cioè, il testo verbale si infiltra nello spazio della rappresentazione pittorica, la tela, e in quello attorno ad essa, la cornice. In questo caso, ancora più specifico, l’opera doppia di Rossetti determina un rituale di descrittivismo reciproco che potremmo definire “ékphrasis sinergica”, caratterizzata da dialogicità e sincronia fra i due mezzi. Questi ultimi aspetti si aggiungono, in un meccanismo di mise en abyme, alla caratteristica “auto-referenziale” e “meta-artistica” propria dell’ékphrasis verbale, che utilizza l’opera d’arte come pretesto visuale per riflettere sulla propria capacità creativa, o meglio ri-creativa, dell’immagine12. 11 P. Spinozzi, Sopra il reale. Osmosi interartistiche nel Preraffaellitismo e nel Simbolismo inglese, Firenze, Alinea, 2005, p. 230. 12 Per un approfondimento sulla questione dell’ékphrasis, come caso specifico di

148

Lo sguardo reciproco

Nel caso dell’ékphrasis sinergica, non è solo il testo a ricreare l’immagine, ma la stessa immagine a ricreare il testo verbale, attraverso un meccanismo di integrazione ermeneutica e sinestetica dal quale il lettore-osservatore non può prescindere. Come osserva Richard Stein, anche lui molto attento al formalismo dell’arte poetica e pittorica di Rossetti, al lettore/osservatore è richiesto di “leggere” queste opere, secondo una modalità diversa rispetto a quella lineare cui è abituato: l’occhio deve muoversi seguendo un movimento oscillante al fine di ricavarne una forma nuova13. Inoltre l’interpretazione del ricettore diventa necessaria per la decodificazione di un’opera siffatta, che non è più solo verbale, né più solo iconica, ma una forma altra, derivata dalla combinazione concettuale e formale dei due linguaggi. Questa forma doppia finisce per diventare l’unica in grado di risolvere l’urgenza artistica di Rossetti votata al raggiungimento di una wagneriana opera totale, in cui egli sembra trovare la soluzione al dilemma artistico che lo accompagnò tutta la vita. Attraverso questa convergenza intermediale “fisica” Rossetti espresse senz’altro il suo linguaggio artistico più potente, la cui dimensione ontologica si definisce nella terra di confine fra i due sistemi espressivi. I Double Work di Rossetti, in cui l’ékphrasis sinergica diventa il terreno comune tra il “dicibile” e il “visibile”, sembrano quasi suggerire una risposta ante-litteram al problema che Foucault, e interartisticità, si rimanda, tra gli altri, agli studi di J. Hagstrum, The Sister Arts. The Tradition of Literary Pictorialism and English Poetry from Dryden to Gray, Chicago, University of Chicago Press, 1958; Ph. Hamon, La description littéraire: de l’antique à Roland Barthes, Paris, Macula, 1991; M. Krieger, Ekphrasis: The Illusion of the Natural Sign, Baltimore, London, The John Hopkins UP, 1991; W.J.T. Mitchell, Picture Theory: Essays on Verbal and Visual Representation, Chicago, University of Chicago Press, 1994; J. Hollander, The Gazer’s Spirit: Poems Speaking to Silent Works of Art, Chicago, Chicago UP, 1995; G.F. Scott, Sculpted Word: Keats, Ekphrasis, and the Visual Arts, Hanover NH, University Press of New England, 1994; P. Wagner (a cura di), Icons-Texts-Iconotexts. Essays on Ekphrasis and Intermediality, Berlin, Walter de Gruyter, 1996. Per il panorama italiano si rimanda agli studi di U. Eco, “Les sémaphores sous la pluie”, (Relazione al seminario presso la Scuola Superiore di Studi umanistici dell’Università di Bologna, 26 marzo 2002), in «Golem-L’indispensabile» 7 (luglio 2002): http://www.golemindispensabile.it; M. Cometa, Parole che dipingono. Letteratura e cultura visuale tra Settecento e Novecento, Roma, Meltemi, 2004; Id., Descrizione e desiderio. I quadri viventi di E.T.A. Hoffmann, Roma, Meltemi, 2005; P.V. Mengaldo, Tra due linguaggi. Arte figurativa e critica, Torino, Bollati Boringhieri, 2005. 13 R. Stein, The Ritual of Interpretation, Cambridge Mass., Harward UP, 1975, p. 188.

Un dipinto e i suoi sonetti

149

con lui molti altri, solleverà un secolo dopo, quando nelle pagine dedicate alla descrizione di Las Meninas, osserverà: Il rapporto da linguaggio a pittura è un rapporto infinito. Non che la parola sia imperfetta e, di fronte al visibile, in una carenza che si sforzerebbe invano di colmare. Essi sono irriducibili l’uno all’altra: vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede non sta mai in ciò che si dice; altrettanto vanamente si cercherà di far vedere, a mezzo di immagini, metafore, paragoni, ciò che si sta dicendo: il luogo in cui queste figure splendono non è quello dispiegato dagli occhi, ma è quello definito dalle successioni della sintassi14.

Rossetti prova a dare una risposta e una forma artistica, visibile e udibile, a questa irriducibilità teorica, e soprattutto alla sua più grande preoccupazione, quella di rendere quanto più intelligibile il messaggio della sua opera. A questa tipologia artistica appartiene il quadro-sonetto che in questa sede si vuole analizzare, Proserpina, un’opera in cui confluisce in realtà tutta l’esperienza pittorica, poetica e interartistica di Rossetti, e che può senz’altro assurgere a simbolo del tentativo estetico di proporre, attraverso la complicità delle due arti, un’alternativa di rappresentazione la cui anima risiede nello sguardo e nella parola di Rossetti, l’unico profondo conoscitore del valore “sinergico” delle sue opere.

Proserpina tra mito e realtà L’opera doppia Proserpina, che arriva nella fase più matura della carriera artistica di Dante Gabriel Rossetti, offre, nella sua dialettica testo-immagine, spunti critici che non si limitano alla problematica dell’incontro fra due diversi codici artistici – il sonetto e il dipinto – ma spingono a riflessioni ben più complesse. Proserpina, collettore di tutti gli elementi caratterizzanti la carriera artistica di Rossetti, apre, infatti, nuove prospettive d’indagine riguardanti l’incontro tra i due media. È sì un’opera doppia, ma ancor prima è la “riscrittura” verbale e visuale di un mito pagano che 14 M. Foucault, Les mots et les choses, Paris, Gallimard, 1966 (trad. it. di E. Panaitescu, Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1998, p. 23).

150

Lo sguardo reciproco

proprio in epoca vittoriana imperversa nell’immaginario poetico. Rossetti, inoltre, non si limitò a scrivere il sonetto d’accompagnamento solo in versione inglese – come aveva già fatto per molte altre opere doppie – ma ne scrisse anche una versione italiana, dando a questa una particolare rilevanza, se si considera che nelle versioni del 1874 e del 1877 sarà proprio il sonetto italiano ad essere “dipinto” all’interno della stessa tela. Il virtuosismo verbale di Rossetti, inoltre, inteso ad accompagnare il corrispettivo pittorico, non confluì soltanto nei due sonetti. Rossetti cedette anche alla tentazione di “descrivere” il suo dipinto, nei dettagli, in più occasioni, arricchendo la già copiosa letteratura ecfrastica che costella in modo particolare le sue corrispondenze epistolari. Rossetti si serviva spesso di questo espediente per esprimere, con un approccio quasi da storico dell’arte, impressioni estetiche sulle opere pittoriche, ma soprattutto per cimentarsi in vere e proprie ékphrasis, capaci di far “visualizzare” all’occhio della mente l’immagine da lui evocata. Di solito questo tipo di descrizioni erano caratterizzate da un approccio oggettivo volto a ri-disegnare il profilo dell’immagine attraverso l’evocazione verbale. In realtà, questi “suggerimenti narrativi” offrivano delle vere e proprie chiavi interpretative di cui Rossetti si serviva per guidare e dunque restringere la libera immaginazione dell’osservatore, nella fattispecie il destinatario della sua missiva. La decodificazione, a volte ossessiva, delle sue tele nascondeva forse la volontà di celare un messaggio più profondo. Proserpina raccoglie, dunque, anche questa forma di incontro interartistico, in cui la parola descrive l’immagine da lui prodotta. Il fatto che la figura rappresentata in questo dipinto sia un soggetto mitologico rende l’opera ancor più evocativa e densa di significato. Proserpina, com’è noto, è la dea che generalmente viene associata alla nascita delle stagioni e al Dio degli inferi, Plutone, il quale volendola in sposa la rapisce e la costringe, dopo averle fatto assaggiare un chicco di melograno, ad una vita a metà tra la terra e gli inferi. Il mito è ben documentato dalle fonti classiche, dagli Inni omerici, alle Metamorfosi e ai Fasti di Ovidio, e ha continuato ad ispirare artisti di ogni epoca; pittori, poeti, scultori, drammaturghi l’hanno resa protagonista della loro arte, alcune volte in veste di malinconica imperatrice degli Inferi, altre in quelle di fanciulla simbolo della primavera.

Un dipinto e i suoi sonetti

151

In epoca moderna gli artisti hanno continuato a ripercorrere la storia del mito di Proserpina, e in modo particolare – aspetto ancora più interessante ai fini della nostra analisi – l’epoca vittoriana è stata protagonista di una trattazione ossessiva di questo mito, soprattutto in poesia. Si pensi ad opere quali Canto di Proserpina (1839) di Percy Bysshe Shelley, Inno a Prosperpina (1866) e Il giardino di Proserpina (1866) di Charles Algernon Swinburne, Il giorno delle figlie di Ade e La riconciliazione di Demetra (1883) di George Meredith, Demetra e Persefone a Enna (1887) di Tennyson, Carmide, Il giardino di Eros, Teocrito e Una villanella (18781881) di Oscar Wilde, e infine Gente di Baviera (1932) e Anemoni viola (1931) di D.H. Lawrence. Frank M. Turner ha provato a dare una giustificazione a quest’esasperato ricorso alla dimensione mitologica greca in epoca vittoriana. Secondo lo studioso, infatti, l’antichità greca cominciò ad assorbire l’interesse degli europei nella seconda metà del diciottesimo secolo quando i valori, le idee e le istituzioni ereditate dal passato romano e cristiano non parvero più applicabili alla loro epoca. Gli autori vittoriani si impegnarono così a ritrovare, per quanto possibile, se stessi nei greci15. Proprio in epoca vittoriana, inoltre, cominciò a farsi strada una tendenza volta ad individuare nel mito qualcosa di più complesso di un semplice archetipo culturale da rivestire con abiti moderni. I miti, infatti, prestarono chiaramente voce ad un più profondo linguaggio, quello della paura, dell’aspirazione, del desiderio che esprime gli istinti e le nevrosi della psiche umana. Il mito di Proserpina ben si prestava a questo tipo di interpretazione, considerato il forte legame con gli inferi e dunque con la dimensione del sottosuolo, corrispettivo simbolico di tutta quella misteriosa dimensione del non conscio che gli artisti cominciavano, proprio in quegli anni, ad esplorare, (non bisognerà aspettare che un ventennio perché Freud pubblichi l’Interpretazione dei sogni). Per Rossetti, e per la sua concezione estetica, il mito di Proserpina riveste inoltre un’importante funzione simbolica. Esso, infatti, incarna il senso più profondo della sua concezione artistica, sospesa a metà tra le due dimensioni del materiale e dello spirituale, 15 F.M. Turner, The Greek Heritage in Victorian Britain, New Heaven, Yale UP, 1981, p. 2 ss.

152

Lo sguardo reciproco

della sensualità e del misticismo. Compito dell’arte, per Rossetti, è quello di mettere in contatto questi due mondi; e la sua pratica artistica, in modo particolare, è volta a rappresentare iconicamente e verbalmente questa continua tensione. Walter Pater, influente voce critica del periodo vittoriano, fu autore di un’acuta opera sui miti greci16, dove un intero capitolo viene dedicato al mito di Demetra e Proserpina. In questo testo Pater traccia tre differenti fasi evolutive del mito greco tout court: la prima fase è quella che definisce “semi-cosciente o mistica”, in cui il mito si presenta sotto forma di leggenda non scritta che passa di bocca in bocca e di luogo in luogo raccogliendo impressioni primitive del fenomeno naturale. La seconda è da lui battezzata “fase conscia, poetica o letteraria”, in cui i poeti diventano i depositari dell’immaginazione popolare che manipolano con mero interesse letterario, semplificandone o sviluppandone le situazioni. Infine, Pater individua una terza fase che definisce “etica”, in cui le persone e gli incidenti della narrazione poetica s’innalzano a simboli astratti in quanto esemplificazioni di condizioni morali o spirituali. Il quadro-sonetto Proserpina di Rossetti gravita, senza dubbio, in quest’ultima fase, considerata la forte relazione implicita tra il personaggio mitologico e quello reale della modella che posò per questo dipinto, Jane Burden, moglie di William Morris e amante dello stesso Rossetti. Rossetti credeva che la Burden vivesse, come Proserpina, l’angoscia di una doppia identità, di una vita vissuta a metà tra una dimensione infernale, che Rossetti identificava col matrimonio che l’aveva unita a William Morris, e una terrestre, corrispondente all’idillio amoroso extraconiugale che la univa a sé17. La pratica di riservare a parenti ed amici il compito di posare per i propri dipinti era piuttosto comune tra i Preraffaelliti. A questo proposito, Richard Stein osserva come la funzione più caratteristica della pittura preraffaellita consistesse, appunto, in una sorta di “ridefinizione” della vita, dell’esperienza personale, che avveni16 W. Pater, The Myth of Demeter and Persephone, in Id., Greek Studies, London, Macmillan and Co., 1910 (trad. it. di P. Colaiacono, Studi greci, Roma, Editori Riuniti, 1994). 17 La relazione tra Rossetti e Jane Burden Morris fu molto travagliata. Nell’estate del 1868 Rossetti si trasferì nella villa dei Morris a Kelmscott, dove l’artista e Jane Burden trascorsero diverso tempo insieme soprattutto durante le frequenti assenze di Morris.

Un dipinto e i suoi sonetti

153

va tramite l’immissione di uomini e donne contemporanei in evocative dimensioni letterarie e storiche. In questo senso l’identificazione con i modi dell’arte e i pensieri del passato era uno degli aspetti di quella che Stein definisce una aesthetic masquerade, in cui i Preraffaelliti sembrano darsi “reciproca assistenza” in una sorta di trasfigurazione dell’essere. Questa transizione della vita nell’arte, o dell’arte nella vita è, secondo Stein, il modo tipico dei Preraffaelliti di partecipare a quello che lui chiama, un ritual of interpretation. Anche i confratelli William Holman Hunt e John Everett Millais creavano dipinti di questo tipo, e simili tendenze si ritrovano anche negli scritti dei contemporanei Pater e Ruskin, in cui si assiste ad una sorta di manipolazione romanzesca di materiali autobiografici. La questione è però centrale in Rossetti e si rispecchia in quella sua ossessiva ricerca di equivalenze tra eventi personali ed eventi storici o immaginari, tanto nella sua pittura quanto nella sua poesia18. L’esempio più riconoscibile di questa “proiezione autobiografica”, è rappresentato da quei dipinti che ritraggono, in modo ossessivo e perturbante, il volto delle sue modelle-amanti. Così nella prima parte della sua produzione, ritorna spesso il volto di Elisabeth Siddal, sua prima sfortunata consorte. Dopo la sua precoce morte, entra in scena il volto di Fanny Cornforth, ex prostituta che visse con lui nella Tutor House di Londra, in una situazione di concubinato. Nella fase finale della sua carriera Rossetti si converte, infine, ad un’altra immagine femminile, che appartiene alla donna che rappresentò la sua passione, amorosa e sensuale, più tormentata, Jane (fig. 1). Il suo volto segnerà “indelebilmente” quasi tutti gli ultimi lavori pittorici di Rossetti che rappresentano una sorta di variazione sul tema “Janey”. Di lei dirà il romanziere Henry James, in una lettera inviata alla sorella dopo una visita all’amico Morris: Oh ma chère, vedessi che moglie! È una meraviglia in tutti i sensi. Immagina una donna alta e snella in un lungo abito di un tessuto color violaceo, privo di cerchi (e di qualsiasi altra cosa, direi), con una massa di scuri capelli ricciuti e raccolti, con grandi e delicati getti su entrambi i lati delle tempie, un fine viso pallido, un paio di occhi swinburniani, tristi e profondi, con grandi, scure e spesse sopracciglia oblique, unite nel mezzo 18

R. Stein, The Ritual of Interpretation, cit., p. 182.

154

Lo sguardo reciproco

Fig. 1. J.R. Parsons, Jane Burden Morris, 1865.

e nascoste dai capelli, una bocca come quella dell’“Oriana” del nostro Tennyson, un lungo collo, ornato non da collane ma da una dozzina di fili di strane perline, raffinata nell’insieme. Sul muro vi era appeso un suo ritratto di dimensione umana, eseguito da Rossetti, così strano e irreale, che se non l’avessi vista, avrei detto si trattasse di una visione perturbante, e in realtà non era che un’eccezionale somiglianza19.

Rossetti sembra aver definito se stesso in rapporto ai grandi personaggi letterari, storici o mitologici che rappresentò, impersonando egli stesso, attraverso la sua pratica artistica, il ruolo dell’eroe che recita di fronte alle sue eroine. Si pensi a personaggi come Beatrice, Lilith, Maria Maddalena o la stessa Proserpina, ognuna delle quali è il soggetto di opere che divennero per Rossetti occasione di esplorazione della natura e del significato della sua stessa esperienza personale. 19 H. James, A Pre-raphaelite Lady in her Home Setting, in D. Stanford (a cura di), Pre-Raphaelites Writing, an Anthology, London, Dent & Sons, 1973, p. 97 (trad. mia).

Un dipinto e i suoi sonetti

155

Il mito tra testo ed immagine Rossetti eseguì otto versioni di Proserpina, quasi ambisse alla perfezione di questo quadro. In realtà, sembra che la reiterazione di questo dipinto fosse più legata alla cattiva sorte cui sembrò destinato. Lo stesso Rossetti, come ci informa il fratello William Michael, cominciò a credere che vi fosse una maledizione attorno a questo dipinto, dal quale comunque l’artista continuò a sentirsi fortemente attratto, lo dimostra il fatto che non smise mai di eseguirne nuove copie. In una lettera a Ford Madox Brown, lo stesso Rossetti racconterà le disavventure di questa opera: Tre furono rifiutate dopo essere state quasi completate. La quarta mi è costata una lite con Parson e mi è stata riportata indietro. La quinta ha avuto per due volte il vetro rotto e sostituito ed è stata rifoderata due volte per rimediare agli incidenti. La sesta ha avuto la cornice rotta due volte e il vetro una volta, ed è stata resa quasi inutilizzabile da un incidente accadutole mentre veniva trasferita in un nuovo telaio e ora è scampata per poco ad una distruzione totale20.

Le versioni ad olio a noi giunte sono quella del 1874 (fig. 2), ceduta alla Tate Gallery di Londra nel 1940, che corrisponde alla settima versione (quella qui presa in esame), e l’ultima copia del 1882, conservata al Museum and Art Gallery di Birmingham (fig. 3). 20 O. Doughty, J.R. Wahl (a cura di), Letters of Dante Gabriel Rossetti, 1828-1882, cit., vol. III, p. 1253 (trad. mia). Maria Teresa Benedetti ne chiarisce meglio i passaggi nel commento al quadro (M.T. Benedetti, Dante Gabriel Rossetti, Milano, Charta, 1998, p. 306): «Delle prime due versioni di questo dipinto sembra non fosse rimasto per nulla soddisfatto, così decise di distruggerle e ritagliarle. La terza copia ebbe un simile destino, e alcune parti vennero ritagliate per confluire più tardi in Blanzifiore. Howell e Parson acquistarono la quarta versione di Proserpina nel maggio del 1873. L’opera però rimase invenduta e per questo ritornò all’artista. La quinta versione, completata nell’autunno del 1873, venne promessa a Leyland, ma durante il trasporto fu misteriosamente smarrita. La sesta copia venne inviata a Leyland in sostituzione della quinta, ma poiché danneggiata durante il trasporto venne rispedita a Rossetti per essere ripristinata. Da questo dipinto l’artista prelevò le parti rimaste intatte, le mani e la testa, le trasferì su di una nuova tela, ridipinse lo sfondo e il drappeggio della veste e datò questo nuovo dipinto 1877, per poi venderlo a W.A. Turner. Per Leyland Rossetti eseguì una settima versione di Proserpina. Esiste anche un’ottava replica dello stesso quadro, in dimensioni ridotte e ad acquerello, venduta nel 1878 a F. S. Ellis e poi passata a James Hutton. A quest’ultima copia Rossetti lavorò fino a pochi giorni prima di morire».

156

Lo sguardo reciproco

Fig. 2. D.G. Rossetti, Proserpine, 1874.

Fig. 3. D.G. Rossetti, Proserpine, 188182.

Altre copie superstiti appartengono a collezioni private, come quella (la sesta) appartenente alla L.S. Lowry Collection (fig. 4). Proserpina rappresentò per l’artista una sorta di “compiaciuto tormento”. Nelle sue lettere ne fece spesso riferimento con esplicito orgoglio, come in quella inviata alla madre il 6 aprile 1873, in cui si legge: «Ho quasi terminato il mio dipinto di Proserpina, […] e credo sia una delle cose più belle che abbia mai fatto»21. Come ci informa il fratello William Michael, sembra che dapprima Rossetti intendesse rappresentare Eva con in mano il frutto proibito, solo in un secondo momento decise di raffigurare la regi21 W.M. Rossetti, Dante Gabriel Rossetti. His Family-Letters with a Memoir, New York, AMS Press, 1970, vol. II, p. 65 (trad. mia).

Un dipinto e i suoi sonetti

157

Fig. 4. D.G. Rossetti, Proserpine, 1873-77.

na degli inferi, probabilmente perché attratto dalla storia del mito che sentiva, come già accennato, particolarmente affine alla sua esperienza personale22. Soffermiamoci sulla versione del 1874. Da un punto di vista figurativo, il quadro rappresenta la dea con in mano il frutto fatale, il melograno. La figura posta di profilo occupa quasi l’intero spazio rappresentato, il viso, posto di tre quarti, è rivolto verso l’esterno con lo sguardo perso nel vuoto. Sullo sfondo, alle spalle della dea, si apre una finestra di luce riflessa che probabilmente proviene da qualche fessura. Questa è l’unica fonte di luce del dipinto che consente di “visualizzare” la 22 W.M. Rossetti, Dante Gabriel Rossetti as Designer and Writer, London, Cassell & Company Limited, 1889, p. 80. È molto probabile che Rossetti abbia subito il fascino e tratto ispirazione dalle poesie dell’amico Swinburne dedicate a Proserpina e di poco precedenti: Hymn to Proserpine e The Garden of Proserpine, entrambe del 1866.

158

Lo sguardo reciproco

figura rappresentata, la quale sembra trovarsi in un ambiente stretto e angusto. Tra gli altri elementi presenti nella scena ritroviamo un ramo d’edera pendente che attraversa il quadro da destra verso sinistra, in basso un incensiere acceso, e nell’angolo in alto sul lato destro un cartiglio, con un sonetto italiano inscritto, attraversato dal ramo d’edera. Tra gli elementi verbali “dipinti” sulla tela, oltre al sonetto, vi è anche un’iscrizione all’interno di una piccola targa in basso che recita in italiano «Dante Gabriele Rossetti ritrasse nel capodanno del 1874», e ancora sul margine basso della cornice, un sonetto inglese inscritto sul legno. Il volto di Proserpina rappresenta le tipiche fattezze della donna rossettiana, ha un’espressione malinconica e triste di donna costretta ad un destino che la tiene legata al mondo del sottosuolo cui non sente di appartenere. C’è un momento di tensione suggerito dall’incrocio delle mani della donna, la mano destra sembra tesa ad impedire alla sinistra di addentare il frutto fatale, ma in realtà è troppo tardi, come si deduce dall’evidente morso sul melograno. Su tutta la tela domina il colore grigio nelle sue diverse gradazioni, quasi a sottolineare che si tratta di un’oscurità appena illuminata; si passa dal grigio blu della veste alla tinta più scura del marmo. Il volto seducente della dea è segnato in modo particolare dalle labbra carnose e rosse che sembrano specchiarsi in quel morso dato al melograno, il quale lascia intravedere l’interno del frutto fatale, altrettanto scarlatto23. Altri elementi presenti nel dipinto contribuiscono ad accrescere la sensualità della figura: i folti capelli sciolti, l’enorme collo e la schiena scoperti, le dita lunghe e affusolate, l’incenso che brucia, tutto concorre a creare un’immagine di donna sensuale e tentatrice24. La particolarità di quest’opera d’arte non è data certo dalla complessità narrativa della scena rappresentata. L’immagine non sembra suggerire, infatti, alcuna azione narrativa, almeno da un 23 Come ci informa Watts-Danton, Rossetti sembrava dare particolare attenzione, non a caso, alle labbra che considerava la parte più sensuale del volto di una donna, non meno di quanto gli occhi rappresentavano quella più spirituale. F. Watts-Danton, The Truth about Rossetti, in «The Nineteenth Century», marzo, 1883, p. 412. 24 La forma stretta e allungata del quadro e la posizione della figura all’interno di esso, come osserva la Parris, furono probabilmente suggeriti a Rossetti dal ritratto di Smeralda Bandinelli di Botticelli, che egli aveva acquistato nel 1967 per la sua collezione privata (L. Parris, The Pre-Raphaelites, London, Tate Gallery, 1984, p. 232).

Un dipinto e i suoi sonetti

159

punto di vista figurativo: ci troviamo di fronte alla rappresentazione di un unico soggetto, una delle figure femminili tipiche della tarda produzione rossettiana, che in questo caso indossa i panni della regina degli inferi. In cosa consiste, dunque, l’originalità di quest’opera? Senza dubbio nell’uso sinergico dei due mezzi artistici. Non che questa pratica, come abbiamo visto, rappresenti una novità nel modo di operare di Rossetti, ma la sinergia mediale in questo caso comporta un aumento della potenza semantica che arriva a coinvolgere il piano sinestetico, come vedremo dall’analisi della corrispettiva opera verbale. Il rapporto tra il testo (sonetto) e l’immagine (dipinto) è “fisico”, e non solo perché – come nel caso di molte altre opere doppie – il sonetto d’accompagnamento è inscritto sulla cornice del dipinto. In questo caso, infatti, il testo verbale invade lo spazio di rappresentazione della tela e così facendo diventa elemento pittorico esso stesso, rendendo il rapporto fra le due forme di rappresentazione ancora più complesso. In questo caso, forse, sarebbe più esatto parlare di opera “triplice” ancor più che doppia25. Rossetti, come già accennato, fece di questo quadro l’oggetto di attente descrizioni, fatto che aumenta il fascino di un’opera che vale la pena continuare ad esplorare, leggere ed ascoltare. Si tratta di ékphrasis nel senso tradizionale del termine, descrizioni che si “limitano” ad esporre gli aspetti più figurativi del dipinto. Il primo esempio di questo tipo di ékphrasis è contenuto in una lettera che Rossetti inviò a W.A. Turner, acquirente di una delle copie di Proserpina, in cui l’artista descrive così il suo dipinto: La figura rappresenta Proserpina nelle vesti di Imperatrice dell’Ade. Una volta condotta da Plutone nel suo regno e resa sua sposa, Cerere, sua madre, si rivolse a Giove, implorandolo di far tornare la figlia sulla terra. Giove avrebbe accontentato la richiesta a condizione che la figlia non avesse assaggiato neanche la più piccola parte dei frutti dell’Ade. Si scoprì però che Proserpina aveva mangiato un chicco di melograno e ciò la incatenò al suo nuovo regno e al suo destino. È rappresentata in un cupo corridoio della sua reggia, con il frutto fatale in mano. Al suo passaggio 25 Anche al dipinto La Bella Mano del 1875, Rossetti dedica un sonetto in due versioni, inglese e italiana. Nessuno dei due sonetti però è apposto sulla cornice, né è dipinto all’interno del quadro.

160

Lo sguardo reciproco

un bagliore, proveniente da uno spiraglio aperto improvvisamente, illumina il muro alle sue spalle, accogliendo per un attimo la luce del mondo terreno; lei vi lancia uno sguardo furtivo, assorta nei suoi pensieri. L’incensiere le è accanto, in quanto attributo di divinità. Il ramo d’edera sullo sfondo (ornamento decorativo al sonetto inscritto sulla targa) può essere considerato simbolo di una memoria intramontabile26.

Se la prima parte di questo testo rappresenta un’integrazione interpretativa al dipinto – per riprendere i termini utilizzati da Michele Cometa in un recente studio27 – poiché aggiunge informazioni sugli episodi salienti della storia mitica di Proserpina, la seconda parte è, più precisamente, la traduzione verbale della intenzione rappresentativa dell’artista sul piano pittorico. Alla luce di quanto descritto, sembra che nulla sia lasciato alla libera interpretazione dell’osservatore. Oltre al contesto “spaziale” («cupo corridoio della sua reggia»), sono gli oggetti simbolici del dipinto ad essere sottoposti a precise decodificazioni da parte di Rossetti, come ad esempio l’incensiere, «attributo di divinità», e il ramo d’edera, che funge anche da «ornamento decorativo al sonetto inscritto sulla targa», unico accenno, in questa descrizione, al sonetto. Prima ancora di sciogliere la simbologia di questi pochi elementi rappresentati, Rossetti fa alcune interessanti considerazioni sul bagliore di luce proveniente «da uno spiraglio aperto improvvisamente», in direzione del quale, «lei vi lancia uno sguardo furtivo». Quest’ultima notazione aggiunge un dato nuovo all’interpretazione del dipinto, e cioè il fatto che, nelle intenzioni figurative di Rossetti, Proserpina non ha, come potrebbe sembrare, lo sguardo perso nel vuoto, piuttosto il suo sguardo, se anche assorto, ha una precisa destinazione, la fonte di luce proveniente dalla terra. Lo sguardo di Proserpina gioca, dunque, un ruolo fondamentale per l’esegesi di questo dipinto, come dimostra anche l’analisi che ne ha fatto Michael Kenneth Baquette, il quale afferma che l’intera figura della dea è disegnata in modo da enfatizzarne il suo 26 W.M. Rossetti (a cura di), The Works of Dante Gabriel Rossetti, London, Hazell, 1911, p. 635 (trad. mia). 27 Cometa individua in quattro possibilità retoriche (denotazione, dinamizzazione, risemantizzazione, interpretazione) una tassonomia che forse non esaurisce tutte le possibili variazioni ecfrastiche ma che certamente disciplina il suo raggio di azione. Cfr. M. Cometa, Letteratura e arti figurative. Un catalogo, in «Contemporanea», 3 (2005), pp. 15-29.

Un dipinto e i suoi sonetti

161

sguardo penetrante; e aggiunge che è come se Rossetti avesse appositamente creato un movimento di linee che dirigono l’attenzione dell’osservatore verso gli occhi di Proserpina. Il movimento del drappeggio, della curvatura che segue il braccio e dell’inclinazione della testa sembrano, infatti, confluire in essi, a prescindere dal punto in cui si inizia a leggere il dipinto28. La descrizione presente nella lettera di Turner non fu l’unica di cui Rossetti si servì per esplicitare la sua lettura ecfrastica di Proserpina. In un’altra lettera, datata 10 agosto 1875, e inviata all’amico e confratello Frederick G. Stephens, Rossetti non solo inserisce entrambe le versioni, italiana e inglese, del sonetto d’accompagnamento al quadro Proserpina e a La Bella Mano, ma vi aggiunge un’interessante descrizione del dipinto: Il quadro è uno studio di tinte grigie che culminano nel colore del drappeggio, un blu caldo ma appena evidente. Proserpina tiene in mano il melograno che, assaggiato all’inferno, le ha precluso il ritorno sulla terra. Sta attraversando un angusto corridoio del suo palazzo, e una luce accecante (come se una porta posta in alto si fosse aperta d’improvviso facendo penetrare per un momento la luce del mondo esterno) colpisce il muro dietro di lei, mettendo molto in risalto la testa e la massa di capelli, mentre volge lo sguardo triste verso il distante bagliore. Sul muro un ramo d’edera s’incurva verso il basso, formando assieme alle tortuose linee del drappeggio il motivo pittorico del disegno29.

Quest’ultima si sofferma ancora una volta sugli aspetti formali dell’immagine, condensandoli rispetto alla prima descrizione, e fa alcune nuove considerazioni, ad esempio sui colori: «studio di tinte grigie che culminano nel colore del drappeggio, un caldo blu chiaro». Il bagliore di luce è qui definito “accecante” (sharp), e ne viene specificato il punto da cui proviene, «una porta posta in alto […] aperta d’improvviso». L’aspetto più innovativo di questo testo, potremmo dire, riguarda l’effetto di dinamizzazione dello sguardo del dipinto, enfatizzato da tutta una serie di elementi quali la “massa dei capelli”, il 28 M.K. Baquette, Dante Gabriel Rossetti. The Synthetis of Picture and Poem, in «Hartford Studies in Literature», n. IV, 1972. 29 D.G. Rossetti, Letter to Frederick Stephens (10 Agosto 1875), manoscritto conservato alla Bodleian Library (trad. mia).

162

Lo sguardo reciproco

“ramo d’edera” e il “drappeggio della veste”, che, assieme al fumo dell’incensiere, creano, un movimento ondulatorio che fa da cornice alla staticità marmorea del volto della dea: «un ramo d’edera s’incurva verso il basso, formando assieme alle tortuose linee del drappeggio il motivo pittorico del disegno». In questo caso la parola rende tangibile l’immagine, rispettando la funzione tradizionale dell’ékphrasis che consiste proprio nel concedere alla dimensione spaziale della pittura una sua enargeia, tanto da farla apparire “vivida”, appunto, all’occhio della mente. Un’altra fondamentale descrizione è quella che di questo quadro fa lo stesso Stephens nella biografia dell’amico pubblicata nel 1894, dieci anni dopo la morte di Rossetti, dal titolo Dante Gabriel Rossetti30. In quest’opera, in cui Stephens analizza molte delle opere di Rossetti, si legge a proposito di Proserpina: Rappresenta a grandezza naturale la figura di Proserpina nell’Ade, con in mano il melograno, assaggiando il quale la donna si precluse il ritorno sulla terra. Sta attraversando un cupo corridoio del suo palazzo, e sul muro che le sta dietro si riflette uno spazio di luce ben definito. È la fredda e bluastra luce argentea della luna che, grazie ad una lontana porta sopra aperta, è penetrata nell’oscurità sotterranea, proiettandosi per un momento sul muro, rivelando le forme del viticcio dell’edera che languisce nell’ombra e mostrando la regina, i suoi lineamenti, la massa abbondante dei suoi capelli – che sembrano diventati più scuri rispetto a quando la donna viveva sulla terra – e l’infelicità del suo volto. La luce rivela anche la forma a spirale del fumo dell’incensiere (attributo di divinità) che, nell’aria rafferma del corridoio, sale verso l’alto e diffondendosi svanisce. Proserpina è ricoperta da una veste color blu acciaio, che si adatta timidamente alla sua debole e un po’ sciupata struttura dall’aria antica. Sembra si muova lentamente con occhi volubili pieni di una rabbia che si consuma piano piano. Tuttavia, essa è apparentemente immobile, se non serena, e nella sua maestosità molto addolorata; troppo nobile per cedere al lamento. In questi occhi dimora la profonda luce di un grande spirito, e, senza troppa attenzione, essi guardano oltre l’oscurità davanti a lei. Le sue labbra dalla forma perfetta, qui violacee ma un tempo rosse e plasmate dalla passione, sono compresse, simbolo di un animo energico desideroso di libertà, che con tutto il suo orgoglio soffre, invece di godersi il suo essere divino. Le guance sono piuttosto smorte; il volto, per la fronte così ampia, è quasi triangolare, e il naso come quello di una solenne figura. 30

F.G. Stephens, Dante Gabriel Rossetti, London, Seely, 1894.

Un dipinto e i suoi sonetti

163

Questi lineamenti sono incorniciati da una massa di cappelli ondulati color bronzato, brillanti nell’oscurità, che cingono la testa e cadono come un ricco mantello sulle sue spalle e sul suo petto. La meraviglia del dipinto sta nel volto. La luce proiettata sul muro mette in forte rilievo la testa. Lei si volta lentamente verso il distante raggio di luce; il ramo d’edera, piegato verso il basso, partecipa, assieme alle oscillanti pieghe del drappeggio, alla composizione dell’insieme31.

Attraverso il filtro verbale di Stephens la scena appare in tutta la sua solennità. La dea è descritta come una statua greca, una bellezza marmorea, capace di trattenere la rabbia e dissimularla attraverso un contenimento austero anche se doloroso: «tuttavia, essa è apparentemente immobile, se non serena, e nella sua maestosità molto addolorata». Tutto si muove lentamente, la dea scivola piano lungo il corridoio dove è ritratta, il suo volto si muove lentamente verso quel bagliore di luce, mentre il fumo dell’incensiere si alza piano, tagliando l’aria stantia che domina nel sottosuolo. Le parole di Stephens animano poco la scena, ma ne aumentano la sublimità eternandola attraverso una sublime e nobile ékphrasis. In questa descrizione, in cui non si fa alcun accenno al sonetto, né a quello italiano né a quello inglese, è particolarmente interessante il riferimento alla luce che penetra in questo ambiente angusto e che permette di visualizzare la scena. Si tratta della luce argentea della luna32, secondo l’interpretazione di Stephens, che dà alla figura un aspetto ancora più livido e malinconico. L’omologia/differenza tra immagine e testo nell’opera Proserpina, però, emerge al meglio nella relazione tra il dipinto e il suo più diretto corrispettivo verbale, il sonetto “dipinto” sul cartiglio.

Il sonetto tra cornice e cartiglio Il sonetto italiano intitolato Proserpina [per un quadro], contribuisce senz’altro ad accrescere l’originalità di quest’opera rispetto 31

Ivi, pp. 79-80 (trad. mia). Ipotesi assolutamente scartata dal fratello William Michael, il quale in una nota a quest’opera dichiara: «Si è detto talvolta che la luce rappresentata nel dipinto Proserpine sia la luce della luna. Quest’idea, sono certo, è assolutamente incompatibile con la tonalità e il colore dell’opera». W.M. Rossetti, The Works of Dante Gabriel Rossetti, cit., p. 253 (trad. mia). 32

164

Lo sguardo reciproco

alle altre opere doppie rossettiane. La poesia, scritta con caratteri calligrafici, è, come accennato, assorbita dalla pittura che diviene, in questo caso, un mezzo funzionale ad entrambi i livelli di testo, visuale (dipinto) e verbale (sonetto), trasformando il sonetto in oggetto iconico ed estetico. Testo e immagine sono in questo caso pensati per condividere la stessa dimensione spaziale: è impossibile apprezzare il dipinto senza soffermarsi sulla lettura dei versi ad esso ispirati, così come parrebbe incompleta una mera lettura del sonetto senza abbandonarsi alla contemplazione dell’immagine raffigurata. Il sonetto dipinto sul cartiglio è in versione italiana e recita: Lungi è la luce che in sù questo muro/ Rifrange appena, un breve istante scorta/ Del rio palazzo alla soprana porta./ Lungi quei fiori d’Enna, O lido oscuro,/ Dal frutto tuo fatal che omai m’è duro./ Lungi quel cielo dal tartareo manto/ Che quì mi cuopre: e lungi ahi lungi ahi quanto/ Le notti che saran dai dì che furo.// Lungi da me mi sento; e ognor sognando/ Cerco e ricerco, e resto ascoltatrice;/ E qualche cuore a qualche anima dice,/ (Di cui mi giunge il suon da quando in quando./ Continuamente insieme sospirando,) –/ “Oimè per te, Proserpina infelice!”

Il titolo del sonetto inglese è Proserpine [for a picture]: Afar away the light that brings cold cheer/ Unto this wall, – one instant and no more/ Admitted at my distant palace-door./ Afar the flowers of Enna from this drear/ Dire fruit, which, tasted once, must thrall me here./ Afar those skies from this Tartarean grey/ That chills me: and afar, how far away,/ The nights that shall be from the days that were./ Afar from mine own self I seem, and wing/ Strange ways in thought, and listen for a sign:/ And still some heart unto some soul doth pine,/ (Whose sounds mine inner sense is fain to bring,/ Continually together murmuring,) – / “Woe’s me for thee, unhappy Proserpine!”

Rossetti scrisse dapprima la versione italiana del sonetto e ne inviò una copia al fratello William Michael in una lettera datata 7 novembre 187233. Quella inglese fu scritta poco dopo e fu destinata ad essere apposta sulla cornice34. 33 Una copia corretta del testo italiano è conservata a Princeton, e un’altra (in versione originale) si trova alla Boston Public Library, mentre una copia del sonetto inglese è conservata alla British Library. Rossetti inviò inoltre una copia di entrambi i sonetti all’amico Stephens, in una lettera datata 10 agosto 1875. 34 I due sonetti furono poi pubblicati – assieme all’altra coppia di sonetti

Un dipinto e i suoi sonetti

165

L’uso della cornice come luogo depositario di messaggi verbali riferiti al dipinto – che torna spesso nella pratica dell’arte doppia di Rossetti – è al centro di un interessante studio condotto da Giovanni Pozzi, dal titolo Sull’orlo del visibile parlare35. In questo testo Pozzi porta avanti un’analisi delle forme di intermediazione fra immagine e testo nell’arte del XV secolo che, per certi versi, può essere applicata anche al caso di Proserpina, se consideriamo soprattutto l’enorme ruolo che l’arte medievale ha giocato sull’esperienza estetica di Rossetti. Pozzi afferma che qualora la scritta si estenda sulla cornice, questa «non tanto delimita quanto prolunga la raffigurazione e ciò in due sensi: l’uno iconografico, perché la scritta appartiene alla raffigurazione, fa parte di ciò che sta dentro, pur essendo fuori; l’altro iconico, perché la cornice non è più zona neutra, ma è supporto a quel fatto visivo che è necessariamente la scrittura, con la stessa differenza che c’è tra un foglio stampato coi margini vuoti e uno in cui i margini siano coperti di postille»36. Ed è certamente questa la funzione che svolge la cornice in tutte quelle opere di Rossetti, in cui fa, appunto, da piano di scrittura per il sonetto o per altre citazioni verbali. In questo modo la cornice non si limita a circoscrivere l’immagine rappresentata e dunque a definire, direbbe Victor Stoichita, “l’identità della finzione”37, ma prendendo parte al gioco della rappresentazione, ne estende e ne eleva la potenza semantica. Da parergon, e dunque da semplice “ornamento” – secondo l’originale significato della retorica antica – diventa ergon, opera essa stessa. O, se si preferisce, rimane parergon secondo la definizione di Derrida, per il quale: Un parergon va contro, accanto, in aggiunta all’ergon, al lavoro compiuto, all’opera ma non rimane in disparte, bensì entra in contatto e coopera, da un certo al-di-fuori, con il di-dentro dell’operazione. Non seminglese/italiana di La Bella Mano – nella rivista The Atheneum il 28 agosto 1975, col titolo di Sonnets for Pictures. Rossetti li ripubblicò, con qualche variazione, nella raccolta Ballads and Sonnets nel 1881. 35 G. Pozzi, Sull’orlo del visibile parlare, Milano, Adelphi, 1993. 36 Ivi, pp. 441-442. 37 V.I. Stoichita, L’instauration du tableau, Paris, Méridiens Klincksieck, 1993 (trad. it. di B. Sforza, L’invenzione del quadro, Milano, Il Saggiatore, 1998, p. 65).

166

Lo sguardo reciproco

plicemente da fuori, né semplicemente da dentro. È come un accessorio che si è costretti ad accogliere sul bordo, a prendere a bordo38.

Le cornici dei quadri di Rossetti – che lui cura personalmente – sono senz’altro un esempio di para-ergon, che ornano e completano l’opera, “frontiere permeabili”, direbbe Joseph Hillis Miller, “tra il dentro e il fuori”39. Il motivo per cui Rossetti scelse di “dipingere” il sonetto italiano all’interno del quadro, nella versione del 1874 (e del 1878), e quello inglese nella versione del 1882, non è affatto chiara, ma la scelta non fu certo casuale. In una lettera inviatagli dalla sorella Maria, questa si dichiara d’accordo nel preferire la lingua italiana, dovendo esprimere, dice, «pensieri che meglio si adattano ad uno spirito italiano». La scelta è certo legata alla passione di Rossetti per lo stile poetico dei trecentisti italiani e al fatto che nella fattispecie la lingua italiana si presta meglio alla descrizione di un setting siciliano del mito, evocato dalle parole della stessa Proserpina: «Lungi quei fiori d’Enna, o lido oscuro»40. La “traduzione” inglese meritò, nelle versioni del 1874 (e del 1877) – quella qui presa in esame – di essere apposta “solo” sulla cornice, quasi a volere offrire un supporto interpretativo a coloro che non avrebbero compreso la versione italiana41. Il fatto che Rossetti sia l’autore di entrambe le versioni, autorizza a non considerare l’una la “traduzione” dell’altra. Si tratta, infatti, di due “solidi” componimenti poetici, identici concettualmente e per nulla indeboliti dalle inevitabili perdite che un atto di traduzione linguistica comporterebbe; in altre parole, in questo caso, non si pone il 38 J. Derrida, La vérité en peinture, Paris, Flammarion, 1978 (trad. it. di D. Pozzi, G. Pozzi, La verità in pittura, Roma, Newton Compton, 1981, p. 63). 39 J. Hillis Miller, The Critic as Host, in «Critical Inquiry», vol. III, n. 3, 1977, p. 441. 40 Proprio a questo proposito è importante sottolineare che l’ambientazione ad Enna richiama la versione ovidiana del mito. È Ovido, infatti, il primo ad ambientare il mito di Proserpina e Demetra ad Enna, nel lago di Pergusa. Precedente ad Ovidio è la versione greca del mito, presente ad esempio negli Inni omerici, in cui si narra la storia di Persefone e Cerere, ambientata nella valle di Nysa, in Grecia. Quasi tutti i poeti di età vittoriana sembrano rifarsi, comunque, alla riscrittura romana del mito. 41 Nella versione del 1882, sul cartiglio è dipinta la versione inglese del sonetto, e quella italiana scompare del tutto.

Un dipinto e i suoi sonetti

167

problema dell’opposizione originale-copia, condizione di qualsiasi atto di traduzione. Concentriamoci sul sonetto italiano dipinto sul cartiglio. La presenza “perenne” del sonetto sulla tela, guida, attraverso la sua integrazione interpretativa, lo sguardo dell’osservatore/lettore che, in assenza di questo supporto, darebbe plausibilmente una lettura diversa al quadro. Il sonetto, infatti, se da un lato arricchisce, dall’altro “orienta” la comprensione e l’esegesi di quanto è rappresentato a livello figurativo, limitandone dunque il messaggio figurativo. Catherine Golden, in un illuminante saggio dedicato alla two-sided art di Rossetti42 – in cui prova a dimostrare come la ricezione del dipinto Proserpina sarebbe sicuramente diversa senza l’ausilio del testo – propone un’analisi del melograno all’interno del dipinto, che, proprio in rapporto al testo verbale, da semplice elemento pittorico diventa un oggetto simbolico carico di senso. La Golden afferma, infatti, che in assenza del testo scritto, che identifica il melograno come il “dire fruit”/”frutto fatale” che ha costretto Proserpina al suo tragico destino, questo “oggetto pittorico” avrebbe semplicemente la funzione di guidare lo sguardo dell’osservatore. L’angolazione del frutto, infatti, dirigerebbe la nostra attenzione verso gli occhi e le labbra della donna, elementi anch’essi fortemente marcati a livello iconografico. È poi il sonetto a spostare tutta l’attenzione dell’osservatore/lettore sul melograno. Il verso che il sonetto dedica al frutto mortale, «dal frutto tuo fatal che ormai m’è duro», e che in inglese, sulla cornice, recita «Dire fruit, which, tasted once, must thrall me here», aggiunge, tra l’altro, le informazioni che aiutano a riportare gli elementi al proprio contesto mitologico, che in questo modo viene più facilmente rievocato nell’immaginario di chi contempla l’opera43. La scena rappresenta la drammatizzazione di un evento già accaduto, di cui a noi è dato visualizzarne, a livello pittorico, l’“atto finale”: il frutto è ormai addentato, la dea vergine, figlia di Demetra, è già imperatrice dell’Ade. È interessante però notare un effetto particolare. Nonostante non ci sia la rappresentazione del ratto (che altri pittori, come 42 C. Golden, Dante Gabriel Rossetti’s Two-Sided Art, in «Victorian-Poetry», n. 26, 4, 1988, pp. 395-402. 43 Ibidem.

168

Lo sguardo reciproco

Rubens, hanno scelto come momento pregnante per la trasposizione della storia mitica di Proserpina), il dipinto sembra, comunque, in grado di narrare le fasi della storia mitica, in altre parole di raccontarne la temporalità. E se vi riesce anche solo a livello figurativo attraverso, ad esempio, la rappresentazione del melograno, che condensa i passaggi della storia – poiché è presente sulla scena come oggetto simbolico che rievoca una tragedia ormai consumata (morso) che l’ha relegata ad una vita a metà fra la terra (finestra di luce) e l’inferno (cupo corridoio) – attraverso il cartiglio e la cornice, o meglio ciò che in essi è inscritto, i passaggi temporali della narrazione mitologica si esplicitano al meglio. Il sonetto evoca il passato attraverso il riferimento ai «dì che furo», (rappresentato anche “pittoricamente” attraverso il ramo d’edera, che come dice Rossetti nella sua descrizione ecfrastica è “simbolo di una memoria intramontabile”) e si proietta verso una dimensione di speranza futura: «e ognor sognando cerco e ricerco, e resto ascoltatrice». La combinazione di immagine e testo, entrambi “dipinti” sulla tela, è in grado di rappresentare, dunque, non solo la dimensione spaziale della storia mitica ma anche di narrarne gli eventi salienti, sfidando abilmente i limiti imposti da Lessing alle due arti. E se è vero che è la parola, l’arte del tempo, a svolgere la funzione narrativa più importante, si tratta comunque di una “parola dipinta” che vive appunto attraverso la pittura, e dunque è parte del suo livello di rappresentazione. Il testo verbale esibisce così, anche in questo caso, il suo potenziale iconico e coreografico, dimensione cui, come si è visto, Rossetti dedica grande attenzione. L’artistapoeta non scrive il sonetto sulla tela, piuttosto lo dipinge attraverso uno stile calligrafico che richiama il motivo ondulatorio del drappeggio o della capigliatura della Dea. C’è dunque un equilibrio “visivo”, una omologia strutturale fra la parola e l’immagine. Il testo svolge una funzione decorativa e visuale anche se allo stesso tempo continua a veicolare significato rispetto all’immagine. L’iconicità dell’arte verbale cioè non inibisce né congela completamente la sua dimensione temporale e narrativa. Al sonetto, in modo particolare, spetta il compito di “rianimare” la scena, alla maniera di un tableau vivant; ci catapulta nella mente di Proserpina, e traducendo in versi l’espressione silente della dea è come se le concedesse la parola. In questo senso il testo

Un dipinto e i suoi sonetti

169

mette in atto una perfetta prosopopea. E se l’ottava ci fornisce i dati più oggettivi, la sestina ci porta dentro i pensieri nostalgici e malinconici della Dea, per registrare questa speciale momentanea emozione regalata dall’improvviso ingresso di un bagliore di luce, proveniente dal “mondo esterno”, da lei immaginato e desiderato. I versi dodici e tredici, in particolare, che recitano «di cui mi giunge il suon da quando in quando. Continuamente insieme sospirando», marcano lo spostamento verso il discorso interiore. Mentre l’ultimo verso, «Oimè per te Proserpina infelice», ci riporta a quella voce che a Proserpina pare di sentire e che lei spera lamenti la sua assenza. Questi ultimi versi accrescono altresì l’importanza della dimensione uditiva che rafforza, come vedremo, la relazione fra i due media, e l’estensione sinestetica di tutta l’opera. Sulla tela va, infatti, sottolineato un particolare che senza il supporto testuale potrebbe passare inosservato, l’orecchio scoperto della dea – liberato dalla massa di capelli posti dietro – teso a prestare ascolto a quei suoni lontani. La tela visualizza, in questo senso, ciò che il sonetto suggerisce: Proserpina silenziosamente in ascolto di un suono proveniente da Enna. L’ultimo verso, oltre a consentire l’accesso del suono nella scena, indica l’intrusione di un osservatore esterno44, nella fattispecie lo stesso Rossetti, che partecipa all’infelice destino di Proserpina-Jane. Come osserva Giovanni Pozzi: Una scritta dentro un dipinto si rivolge sempre a qualcuno che la osserva. Ci sono tuttavia raffigurazioni che coinvolgono lo spettatore in modo che diventi interlocutore e altre no. Questo comporta che un personaggio parli dentro il quadro a uno fuori del quadro o viceversa, […] inaugurando una situazione di dialogo. L’atto di parlare può avvenire anche tra un personaggio in scena e uno fuori che allora diventa osservatore45. 44 L’uso del discorso diretto nell’ultimo verso fa entrare in scena la dimensione “fuori campo” anche a livello sonoro. È direttamente qualcuno dalla terra a parlare. Questo verso è il momento di maggior “contatto” tra i due mondi. 45 G. Pozzi, Sull’orlo del visibile parlare, cit., pp. 447-448. In quest’ultimo caso, però, aggiunge Pozzi, la scritta generalmente non è posta su un cartiglio o in oggetti dentro il dipinto, ma ai margini, il che rende il caso di Proserpina ancor più particolare. 46 Si potrebbe, inoltre, identificare la dimensione terrestre con quella di Kelmscott dove l’artista si era trasferito proprio in quegli anni presso i Morris; qui Rossetti, come

170

Lo sguardo reciproco

Qui Rossetti entra in scena e “recita” di fronte alla sua eroina. L’accessibilità sensoriale al mondo esterno non è limitata alla sola dimensione uditiva. In realtà il sonetto, attraverso tecniche evocative, integra la scena dipinta con tutte le altre dimensioni sensoriali. Basta il solo riferimento ai “fiori d’Enna”, ad esempio, per attivare tutta una serie di associazioni mentali che riportano ai profumi e ai colori di un luogo connotato al punto da “visualizzarlo” attraverso l’immaginazione46. E a questo proposito, sembra interessante riportare l’osservazione di Baquette secondo il quale il quadro e il sonetto si pongono in contrasto rispetto alla distanza/vicinanza del luogo esterno, oggetto di desiderio: Il mondo di Enna è quello fisico, il mondo del lettore-osservatore, ed è lo sguardo penetrante di Proserpina a fare da collegamento tra la forma artistica e il lettore-osservatore. La ripetizione di “lungi” enfatizza questa separazione. Ma nonostante l’esclamazione poetica di distanza, il dipinto in realtà appare molto vicino al mondo della realtà. […]. La forte luce proiettata sul muro nello sfondo proviene probabilmente dal mondo reale di Enna, e illumina nitidamente una area ben definita; in termini di logica visiva, dovrebbe essere emanata da una fonte non più lontana di qualche piede dalla superficie dipinta. Esiste, dunque, una tensione fra la distanza asserita verbalmente fra i due mondi e la loro effettiva vicinanza visiva47.

La distanza fra i due mondi è creata, dunque, più a livello verbale che figurativo, in cui la fonte di luce, il mondo terreno, non sembra poi così lontana come invece la reiterazione verbale di quel “lungi” lascerebbe pensare. Un altro elemento che gioca un ruolo fondamentale sia nell’auspicata ricongiunzione fra i due mondi – quello terrestre e quello del sottosuolo – che nella relazione tra il sonetto e il dipinto, è la finestra di luce sullo sfondo. La luce che penetra dalla fessura e che permette di visualizzare la scena, è, come ci viene detto nella si evince dalle sue lettere, trascorre il tempo più rilassante in compagnia di Jane e delle sue figlie. È qui che, tra l’altro, deve essersi consumata la relazione clandestina fra i due amanti, data la frequente assenza in quegli anni del marito William Morris. L’inferno, al contrario, potrebbe identificarsi con il periodo che Rossetti trascorse nella casa di Cheyne Walk a Londra, una vita dai ritmi lenti e annebbiata dall’uso del cloralio. 47 M.K. Baquette, Dante Gabriel Rossetti. The Synthetis of Picture and Poem, cit., p. 223 (trad. mia).

Un dipinto e i suoi sonetti

171

descrizione dello stesso Rossetti, “momentanea”, dunque destinata a spegnersi presto e con essa tutta la scena. Questo quadrato di luce offre un nuovo anello di congiunzione tra immagine e testo verbale. Si tratta di una vera e propria linea d’orizzonte. Da un lato è l’unico elemento che consente di dare profondità allo spazio rappresentato, dall’altro è anche l’unica fonte di luce che consente di visualizzare, anche se “per un breve istante”, la scena che Rossetti fotografa sulla tela e che si svolge in uno spazio angusto. Questo riflesso di luce svolge anche la funzione simbolica di mettere in contatto Proserpina col mondo terreno rievocato nella sua memoria. Lo stesso Rossetti ne è convinto e in una lettera a Leyland tiene a precisarlo definendo questa finestra di luce, insieme al gioco di chiaroscuri sullo sfondo, come il simbolo della divisione del tempo di Proserpina tra la terra e l’inferno48. Anche sul piano “verbale” questa divisione/unione è messa in risalto, ed esattamente nel settimo e ottavo verso del sonetto, («e lungi ahi lungi ahi quanto/le notti che saran dai dì che furo»), perfettamente speculari all’opposizione luce-buio che emerge al livello figurativo. Se la finestra di luce consente di dare forma alla dimensione spaziale, il contrasto con l’oscurità attribuisce significato alla dimensione temporale della scena. Sappiamo di essere all’interno “del rio palazzo”, dimora di Plutone, e conoscendo la storia mitica sappiamo anche che nel periodo in cui Proserpina rimane sposa prigioniera del Dio degli inferi, la madre Demetra costringe la terra ad un lungo inverno, sospendendo la produttività, condizione che avrebbe interrotto solo al ritorno della figlia. La luce che penetra nel sottosuolo, attraverso una fessura, non può che essere dunque una luce fioca, perché invernale, eppure sufficiente ad illuminare quel luogo fin troppo oscuro e a risaltare soprattutto le delicate fattezze della dea, la cui espressione raccoglie tutta la sua frustrazione. Proserpina è già rassegnata ad un destino ormai deciso, ad una vita a metà tra la terra e gli inferi, tra la luce e il buio, tra l’inverno e la primavera. Le parole del sonetto, rievocando nostalgicamente il mondo 48

L. Parris, The Pre-Raphaelites, cit., p. 232.

172

Lo sguardo reciproco

terrestre, completano verbalmente la scena rappresentata, aggiungendo l’irrapresentabile che vive solo nella memoria di Proserpina e a cui il dipinto allude attraverso il bagliore sullo sfondo. Concentriamoci infine sul luogo in cui il sonetto italiano è inscritto, il cartiglio. Anche la presenza di questo elemento tradisce l’interesse di Rossetti per la dimensione iconica della scrittura, che disegna, come su una piccola tela (il cartiglio appunto) la sua immagine verbale. Il saggio di Giovanni Pozzi può aiutarci, ancora una volta, a comprendere anche l’aspetto iconografico del testo verbale inserito nel quadro Proserpina. La scelta di “dipingere” il sonetto dentro un cartiglio risponde senza dubbio alla tradizione della “rappresentazione assoluta”, tipica dell’iconografia cristiana: La pittura occidentale a partire dagli inizi del secolo XV si caratterizza perché rende la rappresentazione assoluta; tende ad affermare in modo radicale l’unità dell’immagine nel suo aspetto di specchio del visibile. Questo atteggiamento dovrebbe comportare una separazione altrettanto radicale di testo e immagine. Invece si verifica il contrario. Certo vengono elaborate nuove forme di integrazione del testo nell’immagine, si tenta di assorbire la parola nella struttura totalizzante della rappresentazione; donde la voga del cartellino su un monumento49.

Il fatto che il sonetto sia dipinto all’interno del quadro ne fa un elemento pittorico, ma, come tiene a precisare Pozzi, l’uso del cartiglio, che in questo caso è un elemento estraneo alla rappresentazione del dipinto, rischia anche di spezzare la verosimiglianza naturalistica. E invero, a livello formale, sembra non esservi alcun immediato ed esplicito collegamento fra il cartiglio e il resto della scena rappresentata; non un gesto del personaggio che lo indichi. Il cartiglio sembra evidentemente estraneo e non funzionale allo svolgersi della scena rappresentata. L’unico e non indifferente “contatto” è costituito dal ramo d’edera su cui il cartiglio è come appeso, e che, come abbiamo visto, lo stesso Rossetti nella sua descrizione definisce «ornamento decorativo al sonetto inscritto sulla targa»50. 49

G. Pozzi, Sull’orlo del visibile parlare, cit., pp. 451-452. Ivi, p. 443. Esiste un ulteriore elemento verbale inserito in questo dipinto la cui analisi però ci porterebbe un po’ oltre il nostro discorso. Si tratta della firma e della data inscritti su un cartellino in basso a sinistra. Il cartellino, osserva Pozzi, era quel supporto completamente estraneo alla rappresentazione, e sovrapposto ad essa, che dava 50

Un dipinto e i suoi sonetti

173

L’uso del cartiglio, inoltre, secondo Pozzi, aumenta generalmente l’oralità del messaggio, anche se non è sempre facile stabilirlo: L’osservatore è costretto a leggere il testo applicato al dipinto, perché questo non può essere che scritto. Però egli deve interrogarsi se quel testo gli è offerto come dettogli da un personaggio dentro il dipinto, o recitato da questo ad un altro lì presente, oppure se gli è esibito come un testo da leggere, e in questo caso se egli è chiamato a rivolgerlo a qualcuno. […]. Quando l’iconografia non lo rivela, non è sempre agevole determinare se il messaggio vada interpretato come scritto o come orale. […] In linea di principio il messaggio riportato su un libro è da recepire come scritto, quello su cartiglio come orale51.

Se, infatti, consideriamo che il cartiglio riporta la trascrizione dei pensieri di Proserpina, alla maniera di un fumetto, non v’è dubbio che si tratti di un messaggio “orale”. Il sonetto, grazie anche al luogo in cui è posto – un cartiglio attraversato da un ramo d’edera simbolo di una “memoria intramontabile” – diventa il mezzo attraverso cui suggellare la memoria di un luogo desiderato e lontano, di cui è dato godere a Proserpina, solo un momentaneo raggio di luce. L’analisi della poesia all’interno del dipinto e sulla cornice ci ha permesso di evidenziare le dinamiche ecfrastiche messe in atto da Rossetti in questa opera doppia. Il sonetto vivifica l’immagine del quadro, attraverso, tra l’altro, una delle più antiche tecniche ecfrastiche, l’integrazione sinestetica. I versi evocano “suoni” (i richiami dalla terra), “visioni” (i paesaggi di Enna), “odori” (i fiori) e “sapori” (il melograno) e integrano perfettamente l’immagine, descrivendo i pensieri del personaggio e “vivificando” attraverso essi tutta la scena. Il sonetto, inoltre, espone un’integrazione interpretativa attraverso il riferimento a tutto ciò che nella tela non si vede, e raccoglie la proiezione autobiografica consentendo a Rossetti di l’impressione di essere incollato o inchiodato sopra la tela e che creava l’illusione di non fare parte dell’opera, anche se era parte della scena dipinta. Questo accorgimento era stato concepito, in epoca medievale, come supporto alla firma del pittore. Poi l’uso fu esteso ad altro tipo di scritte. Rossetti, nella fattispecie, ne fa un uso tradizionale, apponendo sul cartellino la sua firma e la data di esecuzione: «Dante Gabriel Rossetti ritrasse nel capodanno del 1874». Continuiamo a ritrovare questo cartellino anche nelle successive versioni con qualche variazione relativa alla data di composizione. Nell’ultima versione si legge, ad esempio: «Dante Gabriele Rossetti 1882». 51 G. Pozzi, Sull’orlo del visibile parlare, cit., p. 445.

174

Lo sguardo reciproco

entrare personalmente in scena anche a livello verbale. Inoltre proprio per il fatto di non essere una mera descrizione ma di “penetrare” la scena rappresentata andando oltre essa, il sonetto rappresenta un modo ecfrastico più dinamico e narrativo di quello messo in atto nelle descrizioni epistolari. L’immagine, da parte sua, partecipa al rituale ecfrastico attraverso la presentificazione “reale” dell’immagine verbale, e così facendo ne integra il messaggio guidando al contempo l’immaginazione dell’osservatore. Da queste osservazioni si evince quanto profonda sia la relazione tra “testo” e “immagine” nell’opera Proserpina. Il sonetto contribuisce alla costituzione dell’opera nel suo insieme, aiutando ad esplicitare la struttura verbale “celata” nella dimensione iconografica della pittura52, mentre l’immagine – che dipinge anche la parola concedendole una dimensione iconica – integra il testo guidando l’immaginazione del lettore/osservatore. È come se Rossetti avesse voluto avvalersi di tutti i mezzi artistici a sua disposizione per rappresentare una storia che assurge a simbolo della sua stessa esistenza. Lea Ritter Santini afferma: «Le immagini del sapere incontrano nel testo gli altri ideogrammi visivi con cui gli autori scelgono di esprimere la metaforizzazione della realtà»53. Ed è probabilmente una metafora della realtà ciò a cui Rossetti desidera dare una forma quanto più aggraziata e perfetta attraverso le pulsioni della sua poesia e i colori della sua pittura.

52 53

Ivi, p. 463. L. Ritter Santini, Ritratti con le parole, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 8.

NOTE DI IMMORTALITÀ HOFMANNSTHAL SUL CONCERTO CAMPESTRE DI GIORGIONE Roberta Ascarelli

Giorgione l’educatore Tra le molte biografie scritte da Richard Schaukal per celebrare uomini famosi, quella dedicata nel 1907 a Giorgione è particolarmente ricca di lodi e di entusiasmo: «Chi ama e conosce intimamente la pittura potrebbe mai non amare Giorgione? […] Io lo amo molto più di Tiziano. E ritengo che proprio lui sia l’artista più grande»1. Echeggiano nella esaltazione del pittore i capisaldi di una poetica per esteti, per nuovi sognatori o neo-idealisti che vogliono spaziare – come sostiene Hans Bauer in un saggio del 1895 dedicato alla “rinascita del Rinascimento” – «nella metafisica dell’irreale» cogliendo «sensazioni date da evocazioni simboliche»2: «Giorgione – scrive Schaukal – tocca la mia sensibilità artistica molto più potentemente di Tiziano3, colma la mia anima con la ricchezza di premonizioni di eternità, di gioia […]. Quando ho di fronte Giorgione non ‘noto’ nulla. Il terreno sotto i piedi inizia a mancarmi e io ondeggio»4. Questo amore non nasce sui libri di scuola e neppure nelle pinacoteche europee, avare di tele e attribuzioni, ma nell’incontro con la poesia di Dante Gabriel Rossetti e con il saggio che Walter Pater dedica a Giorgio di Castelfranco e ai suoi allievi, La scuola di 1

R. Schaukal, Giorgione, München-Leipzig, Müller Verlag, 1907, p. 136. H. Bauer, Renaissance der Renaissance, in «Kunstwart», VIII (1894-1895), pp. 97-100, qui pp. 97-98. 3 Schaukal non ricorda che già Burckhardt, parlando di Tiziano, aveva colto nelle sue tele soprattutto l’elemento spirituale anche a scapito di una coerente rappresentazione del soggetto (Cfr. J. Burckhardt, Der Cicerone (1855), in Gesamtausgabe, a cura di H. Wölfflin, vol. IV, Stuttgart-Berlin-Leipzig, D. Verlags-Anstalt, 1933, p. 339; trad. it. di P. Mingazzini e F. Pfister, Il cicerone, Firenze, Sansoni, 1952) e che, in particolare, a proposito della Assunzione di Maria aveva scritto: «Gli ultimi legami con la terra saltano; lei respira assoluta spiritualità» (ivi, p. 341). 4 R. Schaukal, Giorgione, cit., pp. 140-142. 2

Lo sguardo reciproco

176

Giorgione, scritto nel 1873 e quindi pubblicato nella terza edizione di quel «breviario della fin de siècle»5 che fu Il Rinascimento6. Colpiti da questa critica d’arte «colorata dall’emozione», i contemporanei trovano una profonda sintonia con gli artisti di cui si tratta nel testo, Leonardo, Michelangelo, Botticelli, Luca della Robbia e Giorgione7. Come i geni di quell’epoca lontana, anche i moderni si sentono «dèi in esilio» che, nascosti in un mondo prosaico e dozzinale, sognano la bellezza e la nobiltà di ciò che non ha scopo. Tra loro, colui che più di ogni altro tende ad abbandonarsi alla vaghezza «del tempo che fugge» e al distacco sereno di una «inattesa beatitudine»8 è proprio Zorzo. La contemplazione della sua pittura – scrive Pater – permette di ritrarre i pensieri dagli ingranaggi della modernità e di approdare ad una sfera lontanissima da ogni forma di utilitarismo9. È come – aggiunge – ascoltare un brano musicale poiché «egli permea la sua opera di una vibrante sorta di poesia direttamente desunta da una vita» tanto «ricca e vibrante» – prosegue – da trasformarsi in armonia10. L’intreccio tra pittura e musica affascina in modo tutto particolare una generazione di intellettuali che si erano formati alla scuola di Schopenhauer e nell’amore per Wagner: musicale è la struttura, a volte i temi, ma soprattutto «quell’aspirazione di tutte le arti alla musica […] alla 5

M. Praz, Prefazione, in W. Pater, Il Rinascimento, Napoli, ESI, 19652, p. 8. Nella terza edizione Pater aggiunge al testo originale il saggio sulla scuola di Giorgione. 7 Cfr. G. Uekermann, Renaissancismus und Fin de siècle, Berlin, de Gruyter, 1985, in part. pp. 19-30. 8 W. Pater, The School of Giorgione, London, Macmillan, 1877; trad. it. La scuola di Giorgione, in Id., Il Rinascimento, cit., p. 142. 9 La malia trasognata e visionaria che, nella lettura ottocentesca di Giorgione, aveva sedotto Gautier in Mademoiselle de Maupin e irritato Heine, si intreccia in Schaukal con la suggestione di Venezia, città antimoderna, nemica di Londra «industriale e infernale» (J. Clegg, Ruskin and Venice, London, Junction Books, 1981, p. 134) che «ormai sembra aver consumato completamente la vita» (Cfr. la lettera di Wagner a M. e O. Wesendonk del 7.9.1859, in J. Kapp (a cura di), Richard Wagner an Mathilde und Otto Wesendonk. Tagebuchblätter und Briefe, Leipzig, Hesse u. Becker, 1915, p. 111). 10 Scrive Cesare Brandi a proposito della musicalità di Giorgione: «Il tono è parola e concetto che deriva dalla teoria della musica e che implica un seguito di note legate da una convenienza reciproca, per cui certi rapporti di frequenza, nell’ambito di un tono, sono esclusi e, se si vogliono usare in una sequenza musicale concepita in una determinata tonalità, occorre modulare per passare alla tonalità a cui quei rapporti appartengono. Trasferire questo concetto dalla teoria musicale alla critica d’arte implica di conservarne il nerbo» (C. Brandi, Disegno della pittura italiana, Torino, Einaudi, 1980, pp. 288-289). 6

Note di immortalità

177

perfetta identificazione di materia e forma»11. Numerosi sono i seguaci dello scrittore inglese nell’Europa dei decadenti e dei simbolisti e molte le sue tracce nei miti ispirati, tra i due secoli, ai protagonisti della grande arte italiana: è il «culto» di Leonardo12, misterioso, duplice e geniale o di Tiziano, autore di immagini «di una lor propria luce ricca in cui tutte le cose si trasfigurano»13 o di Giorgione che, con le sue «figure oscure, ondeggianti», abbandonate alla loro inconsapevolezza14, appare in grado di rappresentare il distacco dalla realtà, la passività e l’abbandono che assillano gli «epigoni»15 della decadenza, tanto che, se Rembrandt diventa il modello per un nuovo tipo di uomo tedesco, assetato di purezza, di rivolta e di arte16, Giorgione sarà l’educatore di sognatori, esteti e spiritualisti. Tra i primi a definire sulla scia di Pater questa immagine moderna del pittore di Castelfranco troviamo Angelo Conti che, nel 1894, gli dedica una monografia spregiudicata, quanto a competenza scientifica, ed estremamente accattivante per sperimentatori di Kunstbeschreibung. Nell’introduzione, l’autore si sofferma su un tema caro alla decadenza analizzando quale debba essere il ruolo del critico. La missione dell’interprete non è diversa – scrive – dalla missione del pittore, perché se si vuole che «la parola del primo sia viva e fecondatrice, è necessario […] che il pensiero del critico sia la continuazione dell’idea dell’artista». Questa identificazione e questa complicità sono particolarmente necessarie nel caso di Giorgione che tiene celato il senso profondo della sua «ispirazione», obbligando lo studioso a ri11

W. Pater, La scuola di Giorgione, cit., p. 129. Cfr. E. Hüttinger, Leonardo und Giorgione-Kult. Materialien zu einem Thema, in R. Bauer (a cura di), Fin de Siècle: zu Literatur und Kunst der Jahrhundertwende, Frankfurt a.M., Klostermann, 1977, pp. 143-169. 13 G. D’Annunzio, Il fuoco, cit., p. 46. Cfr. R. Kultzen, Tizian in der deutschen Literatur des 18. Jahrhunderts, in B. Fabian (a cura di), Festschrift für Rainer Grünter, Heidelberg, Carl Winter, 1978, pp. 155-169. 14 B. Berenson, Italienische Kunst, a cura di J. Zeitler, Leipzig, H. Seemann Nachf., 1902, p. 24 (Hofmannsthal aveva consultato questa edizione tedesca dei saggi di Berenson per la stesura di Sommerreise). 15 P.P. Wertheimer, Hermann Bahrs Reinaissance, in «Die Gesellschaft», XIII, ottobre 1897, pp. 91-103, ora in G. Wunberg (a cura di), Das Junge Wien, Tübingen 1975, vol. II, pp. 780-790, qui p. 790. 16 Cfr. A.J. Langbehn, Rembrandt als Erzieher von einem Deutschen, Leipzig, Hirschfeld, 1888, qui ed. Stuttgart, Kohlhammer, 1936, pp. 45-58. 12

178

Lo sguardo reciproco

creare per lui e per le sue opere «una nuova forma di vita»17. Per individuarla, Conti seguirà e tradirà l’impostazione di La scuola di Giorgione riducendo il neoplatonismo di Pater a travaglio dei sensi, a immoralismo erotico. Rimane la riflessione sulla musicalità del pittore veneto, ma l’interesse si sposta dalla musica come forza che emancipa dal dominio dell’intelletto all’esigenza di pace e di spiritualità di un’anima tentata dalla carne: «Giorgione – scrive Conti – è il poeta delle visioni dileguate e lontane […]. Turbato dal presente ricorda le cose perdute e chiede la pace lontana»18 cercando di sottrarsi alla forza disgregatrice della voluttà, all’«entusiasmo umano al cospetto della forma femminile»19. Con questo insistito richiamo Conti scalza dalla ricezione alcuni luoghi interpretativi diffusi in quegli anni e in cui prevalgono l’artificio del locus amoenus e una stanchezza, appena contagiata dal demone della noia. È il languore estivo di amanti distesi sui colli fiorentini nel meriggio descritto da Oscar Wilde in un brano dei suoi saggi critici del 188920 dedicato a Concerto campestre, o, in Dante Gabriel Rossetti, è l’abbandono esausto, la riluttanza all’azione, un silenzio stagnante21. Più moderno e «wagneriano» – così sostiene Conti – del religiosissimo Bellini, Giorgione cerca il dominio sulla fragilità della carne in una trascendenza che rifiuta le ingannevoli consolazioni della fede e si innalza «in forma di luce e armonia » verso una speranza di felicità22: «dal dolore e dalla colpa» Giorgione ci guida «fino all’apoteosi di una vita salvata e rinovellata, e le sue più evidenti e ten17

A. Conti, Giorgione. Uno studio, Bergamo, Istituto d’arti grafiche, 1894. Ivi, p. 41. 19 Ivi, p. 64. 20 Cfr. O. Wilde, Intentions, London, Osgood, 1891 (trad. it. e cura di M. D’Amico, in Id., Saggi, Milano, Mondadori, 1981, pp. 167-186). 21 Cfr. D.G. Rossetti, For a Venetian Pastorale by Giorgione, in Id., The Works of Dante Gabriel Rossetti, 2 voll., a cura di W.M. Rossetti, London, Ellis, 1911, p. 188. Citiamo qui di seguito la poesia perché può essere considerata esemplare per la ricezione del dipinto tra Ottocento e Novecento: «Water, for anguish of the solstice: – nay. / But dip the vessel slowly, – nay but lean / And hark how at its verge the wave sighs in / Reluctant. Hush! beyond all depth away / the heat lies silent at the brink of day: / now the hand trails upon the viol-string / That sobs, and the brown faces cease to sing, / Sad with the whole of pleasure. Whither stray / Her eyes now, from whose mouth the slim pipes creep / And leave it pouting, while the shadowed grass / Is cool against her naked side? Let be: –/Say nothing now unto her lest she weep, / Nor name is ever. Be it as it was, / Life touching lips with Immortality». 22 A. Conti, Giorgione. Uno studio, cit., p. 42. 18

Note di immortalità

179

tatrici rappresentazioni dell’esistenza si chiudono con il grido vittorioso dell’artista liberato per un istante dal giogo della voluttà»23. Nonostante contenga riflessioni appassionate sull’estetica moderna e sul ruolo del critico, il libro di Conti non offre una immagine originale di Zorzo di Castelfranco: il tema della carnalità trasfigurata e della celebrazione mistica dei sensi è patrimonio diffuso di fine secolo. Poco prima di Conti, Burckhardt aveva confessato di provare invidia di fronte ai soggetti «deliziosi» della pittura giorgionesca che inneggia alle «delicatezze di una vita tutta da godere, a ben costruiti piaceri sensuali»24; così, nel 1894, Berenson introduce le pagine de I pittori veneziani del Rinascimento dedicate a Giorgione con alcune riflessioni che ne enfatizzano l’erotismo25, per concludere affermando che nella produzione tarda del pittore, «l’eccesso delle passioni si era sopito in un illuminato e sincero godimento della bellezza e delle relazioni umane»26. Anche D’Annunzio, lettore d’eccezione di Conti, vede in Giorgione l’artista che coglie e trasfigura una divorante sensualità; sovrastante è in lui «una voluttà nuova», quasi una degradazione che irretisce le figure, il pittore e la patria veneta27. Eppure, a fronte di tanto gaudio faunesco, anche secondo D’Annunzio, alla fine della vita, la trascendenza prevarrà sulle passioni e «la tendenza metafisica» troverà «il suo natural campo» d’azione28. Pochi anni dopo, nel romanzo Il fuoco del 1900, un D’Annunzio immoralista, che celebra il matrimonio tra la sua prosa «d’orgoglio e d’ebbrezza»29, la musica e la pittura, esalta in Giorgione colui che infiamma di rivelazione tutta l’arte veneta. Stelio Effrena, il protagonista del romanzo, si interroga a lungo sul mistero che avvolge vita e opere del grande maestro – un mistero che, come aveva insegnato Conti, sollecita ad una interpreta23

Ibidem. J. Burckhardt, Il cicerone, cit., p. 1050. 25 B. Berenson, The Venetians Painters of the Renaissance, New York, Putnam, 1894, (trad. it. di E. Cecchi, I pittori italiani del Rinascimento, Milano, Hoepli, 1936, p. 24). 26 Ivi, pp. 25-26. 27 Ivi, p. 72. 28 G. D’Annunzio, Giorgione e la critica, in «Rivista di Roma», 16 (1912), n.s., vol. I, n. 5, pp. 167-179, qui in Id., Pagine sull’arte, Milano, Mondadori, 1980, pp. 57-72, qui p. 57. 29 G. D’Annunzio, Il fuoco, qui dalla ed. Milano, Mondadori, 1967, p. 65. 24

180

Lo sguardo reciproco

zione libera e «fecondatrice», non condizionata dalla «dubbia e funesta critica dei cataloghi»30. L’assenza di certezze biografiche, l’infinita vicenda delle attribuzioni permette al critico di essere più che mai – come voleva D’Annunzio – «artifex additus artifici», colui che «inginocchiatosi davanti alla bellezza» saprà «generare bei pensieri»31. «Io veggo Giorgione – sono le considerazioni di Stelio Effrena – imminente su la plaga meravigliosa, pur senza ravvisare la sua persona mortale; lo cerco nel mistero della nube ignea che lo circonfonde. Egli appare piuttosto come un mito che come un uomo […]. Tutto, o quasi di lui si ignora; e taluno giunge a negare la sua esistenza»32. Il mistero non è l’unico tema che affascina l’eroe de Il fuoco33. D’Annunzio riprende da Conti il paragone tra la religiosità di Giorgione e quella di Bellini, di Pater cita la musicalità che cerca meditabonda l’Universale. Ma è soprattutto la forza della carne che lo attira, quando l’eros si accende «d’un desiderio implacabile», pieno «di una gioia e una tristezza in cui celasi il peccato»34. Eroico e spirituale, sensuale e assetato di pace, egli è – conclude D’Annunzio – un nuovo Prometeo che, come il semidio, «merita d’esser chiamato ‘portatore di fuoco’»35. La lettura di D’Annunzio influenzerà la critica di fine secolo e, pochi anni dopo la pubblicazione del romanzo, Ugo Monneret de Villard36 interpreta la vita e la produzione di Giorgione come il trionfo della sensualità e ricerca incessante del godimento: «Si direbbe che in lui la visione del quadro non sorge né si cristallizza attorno ad oggetti chiari e definiti, ma è solo l’esternarsi di emozioni sensuali e di un diffuso stato d’animo musicale che precede e genera l’idea poetica […]. Egli non sa pregare ma godere e non agli altari, ma ai bei grembi femminili chiede la pace»37. 30

A. Conti, Giorgione. Uno studio, cit., p. 10. G. D’Annunzio, Giorgione e la critica, cit., p. 68. 32 G. D’Annunzio, Il fuoco, cit., p. 92. 33 Anni dopo, ritroviamo il mistero fare ancora da protagonista nella poesia dedicata da Hermann Hesse al pittore; cfr. H. Hesse, Giorgione (1899-1902), in Id., Die Gedichte, a cura di V. Michels, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1953, p. 139. 34 G. D’Annunzio, Il fuoco, cit., p. 88. 35 Ivi,, p. 92. 36 U. Monneret de Villard, Giorgione da Castelfranco. Studio critico, Bergamo, Istituto d’arti grafiche, 1904. 37 Ivi, pp. 9-10. 31

Note di immortalità

181

Fig. 1. Giorgione, Concerto campestre, 1508-09.

Dall’altra parte delle Alpi, si diffonde intanto una interpretazione più spiritualista del maestro. Anche Adolf Bayersdorfer usa la metafora dannunziana del fuoco per celebrare la forza trasfigurante del pittore, ma nulla vi è qui di infernale e peccaminoso, nulla della amoralità di “oltre uomini”. Giorgione è per Bayersdorfer «un uomo il cui animo arde di continuo»38 e i suoi quadri sono come sogni di un esserci diverso che, colmi di alte premonizioni, destano «nel petto del singolo» suggestioni condivise oscuramente da tutti. Appaiono simili a profezie, che non si capiscono appieno ma fanno pensare alla «musica di una stella lontana», «come se le memorie sbiadite dell’umanità si ridestassero in loro e chiamassero per ottenere spiegazioni»39. Con le pagine di Viaggio d’estate dedicate a Concerto campestre (fig. 1) Hofmannsthal prende implicitamente posizione in questo 38 A. Bayersdorfer, Notizien aus Galerien und Kirchen Italiens, in H. Nackowsky, A. Pauly, W. Weigand (a cura di), Leben und Schriften, München, Bruckmann, 1902, pp. 89-112, qui p.100. 39 Ibidem.

182

Lo sguardo reciproco

dibattito a distanza tra una lettura estetizzante e una spiritualista. La sua analisi del dipinto, ricca di rimandi alle teorizzazioni del suo tempo, critica nei confronti degli “italiani” e programmaticamente distante dall’individualismo di Burckhardt si colloca nell’alveo dei riferimenti ficiniani e neoplatonici che Pater e, dopo di lui, Bayerdorfer avevano prospettato. Non si tratta di un approdo immediato. Nella sua produzione ottocentesca il Rinascimento italiano, Giorgione e il giorgionismo vengono visti nella prospettiva vasariana appresa sui libri di scuola, in quella degli esteti, ammirati e irrisi dal giovanissimo poeta e, infine, nell’ottica di Pater e di D’Annunzio. Ed è proprio partendo da un confronto sempre più serrato con il poeta italiano e con il critico inglese che lo scrittore elabora, nella crisi di fine secolo, sia lo stile che le concezioni estetiche che daranno vita alla originalissima Kunstbeschreibung di Viaggio d’estate.

I colori della poesia Negli anni che precedono la stesura di Viaggio d’estate, Hofmannsthal ritorna a più riprese sul nome e sull’opera del pittore di Castelfranco. Troviamo, per la prima volta, Giorgione citato nel catalogo degli artisti che Andrea, il protagonista del dramma lirico Ieri, capricciosamente ricorda40. In questo elenco, Giorgione si distingue nettamente dagli altri pittori di cui Andrea ama circondarsi; mentre il Maestro del Cadore e Correggio, «che maturo arde di fulgidi colori»41, sono presenze solari, particolarmente vicine al modello che del Rinascimento aveva proposto Burckhardt, a Zorzo di Castelfranco si associa piuttosto una «opprimente, demoniaca angoscia»42 e una dimensione inquietante, al limite del tragico. Hofmannsthal trova uno spunto per questo giudizio in un libro che aveva amato già da ragazzo. Sono Le vite de’ più eccellenti ar40 H.v. Hofmannsthal, Gestern, in «Moderne Rundschau», IV, 2-3, 1891 (trad. it. e cura di R. Ascarelli, Ieri, Pordenone, Studio tesi, 1992, pp. 17-18). 41 Ivi, p. 12. 42 Ivi, p. 18.

Note di immortalità

183

chitetti, pittori, et scultori italiani del Vasari che, nel tentativo campanilistico di dimostrare l’ascendente di Leonardo sull’artista veneto, insiste sulla predilezione di Giorgione per le tele leonardesche «molto fumeggiate» e «cacciate terribilmente di scuro», anzi, insiste, «quella maniera gli piacque tanto, che mentre visse sempre andò dietro a quella e nel colorito a olio la imitò grandemente»43. A confermare questa influenza, Vasari caratterizza i suoi quadri per «una terribil movenzia» e per «un tempo torbido che tuona e trema il dipinto», inquietanti gli appaiono poi le figure che «si muovono e si spiccano da la tavola per una certa oscurità di ombre ben intese»44. Per avvalorare questa tesi, pubblica a introduzione della biografia di Giorgione una drammatica incisione del Davide conservato a Braunschweig, opera che probabilmente Hofmannsthal aveva avuto modo di vedere nella cupa versione seicentesca di Wenter Hollar. Contribuiscono a formare nel giovane scrittore il cupo giudizio di Andrea45 anche le opere conservate a Vienna che Hofmannsthal ha avuto modo di vedere – nella Kunstgalerie erano esposti Il ragazzo con la freccia e Laura, mentre, nella collezione dei Lanckoronsky, una famiglia viennese che Hofmannsthal frequentava, si trovava un Cristo con la croce – opere allora di attribuzione assai incerta di cui però non si escludeva la paternità giorgionesca. La figura di Laura, in particolare, con il bianchissimo petto sul fondo oscuro, rotto dal rosso vivo dell’abito, suggestiona Hofmannsthal che la ricorda nella stesura della tragedia rinascimentale Ascanio e Gioconda. «Come un quadretto di Giorgione» 46 di profonda ombrosità, scrive all’amico Beer-Hofmann il 22 luglio del 1892, la protagonista del testo teatrale sarà una presenza oscura, appena illuminata dalla carnagione chiarissima e dai capelli neri e sciolti, simile alla «triste e bella musica che fiammeggia di oscurità»47. 43 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, a cura di L. Bellosi e A. Rossi, Torino, Einaudi, 1986, p. 558. 44 Ivi, p. 542. 45 Per questa caratterizzazione “demoniaca” di Giorgione vedi anche J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, cit., p. 642. 46 Lettera di H. v. Hofmannsthal a R. Beer-Hofmann del 22 luglio 1892, in H. v. Hofmannsthal, R. Beer-Hofmann, Briefwechsel, Frankfurt a.M., Fischer, 1972, p. 11. 47 Ivi, p. 12.

184

Lo sguardo reciproco

Nel dramma, Gioconda non è solo una figura tenebrosa, illuminata a tratti da una fiamma interiore. A lei spetta anche il compito di tematizzare un distacco dalla realtà, una sognata e sognante contemplazione «del cuore stesso delle cose»48 che rimanda ad una idea di Giorgione più attuale di quella proposta da Vasari: «Come è odiosa la vita e come è triste», afferma Gioconda dopo aver ascoltato le critiche di Galasso alla sua aristocratica indifferenza per una società opulenta e innamorata del bello: «Costui ha ragione: mai saprò capirla./ E me ne sto timorosa e ferita,/ Come fanciulli in una stanza buia./ Come povero di gioie è mai il presente,/ Come solo la mancanza trasfigura ogni cosa»49. Nel saggio su Swinburne, scritto anch’esso nel 1892, il senso del riferimento al pittore si fa più preciso. «Fiammeggiante di oscurità» sarà il pittore soprattutto per gli artisti della decadenza che hanno esercitato lo sguardo e immaginazione su tele dipinte, su ornamenti preziosi e interni suggestivi. Costoro, scrive Hofmannsthal, «hanno visto più sovente candele di cera che si specchiano in un vetro veneziano che non stelle in un placido lago» e prosegue, ancora una volta con un implicito riferimento alla Laura della Kunstgalerie: «Un fiore purpureo su un bruno terreno li farà pensare a un quadro dai colori luminosi, a un Giorgione che pende da un bruno intavolato di quercia»50. Perché Giorgione cessi di essere suggestione coloristica o occasione di un confronto polemico con l’estetismo per diventare oggetto di riflessione, bisogna attendere il 1894, l’anno in cui Hofmannsthal legge gli studi di Pater sul Rinascimento. Pater è per Hofmannsthal un «conoscitore nato», un innamorato dell’arte che non si cura di sterili aneddoti o di vuote descrizioni; egli riesce piuttosto a intuire di un artista «l’intera sua personalità» fino a 48 A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, Leipzig, Brockhaus, 1819 (trad. it. di N. Palanga, Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano, Mursia, 1969, p. 306). 49 H. v. Hofmannsthal, Ascanio und Gioconda (1892), prima ed. postuma in Gesammelte Werke in Einzelbänden, vol. II, Frankfurt a. M., Fischer, 1979, p. 16. 50 H. v. Hofmannsthal, Algernon Charles Swinburne, in «Deutsche Zeitung», 5.1.1893, trad. it. e cura di G. Bemporad, Algernon Charles Swinburne, in Id., L’ignoto che appare. Scritti 1891-1914, Milano, Adelphi, 1991, p. 63 (per tutti i saggi contenuti in L’ignoto che appare e qui citati, la traduzione italiana è – se non indicato diversamente – di G. Bemporad).

Note di immortalità

185

strappargli il segreto che lo anima e che solo a sprazzi si lascia intravedere nelle sue opere51. Hofmannsthal rielabora questa lezione gareggiando con Pater nella ricerca del nucleo oscuro dell’arte giorgionesca e lo coglie in quel «concetto di totalità» che, così vicino alla poetica hofmannsthaliana e al monismo della letteratura di fine secolo, troppo spesso era sfuggito agli scrittori della decadenza52. Nel secondo saggio su Gabriele D’Annunzio, scritto nel 1894, troviamo una contrapposizione tra i due artisti italiani giocata proprio sul tema della spiritualità. Mentre il «poeta più celebre d’Italia»53 indulge all’artificioso e al monumentale rivelando una visione del mondo irrigidita di retorica, la pittura di Zorzo riesce a catturare la «misteriosa armonia dell’universo». I suoi quadri esprimono «qualcosa del respiro e dell’essenza degli esseri» – scrive Hofmannsthal –, «l’intima bellezza e la malinconia delle cose mutevoli» rapprese in composizioni dalla «perfezione trascendentale che toglie il respiro»54. Tre anni dopo Hofmannsthal è a Castelfranco per conoscere meglio la città natale e i paesaggi che avevano ispirato il maestro. Oppresso dal caldo, il 19 di agosto interrompe un viaggio in bicicletta per osservare nel duomo la Madonna in trono e i santi Liberale e Francesco, attribuito senza incertezze a Giorgione. Al padre scrive di essere rimasto a contemplare lungamente il dipinto55. Ammira il quadro, ma non dimentica che, come aveva notato Pater, il segreto della potenza espressiva di Giorgione è il legame tra le immagini e «le cose naturali […] tramate e ordite di fili d’oro»56. Si sofferma così in questo lembo di Veneto a godere il cielo «di un blu senza incertezze»57 e a visitare la città natale del51 Cfr. H. v. Hofmannsthal, Walter Pater, in « Die Zeit», 17.11. 1894 (trad. it. Walter Pater, in Id., L’ignoto che appare, cit., pp. 114-118). 52 H. v. Hofmannsthal, Philosophie des Metaphorischen, in «Frankfurter Zeitung», 24.3.1894 (trad. it. di F. Rosso Chioso, Filosofia del metaforico, in Id., Filosofia del metaforico, Siena, Edizioni di Barbablù, 1988, p. 22.) 53 H. v. Hofmannsthal, Gabriele D’Annunzio, in «Die Zeit», 17.11.1894 (trad. it. Gabriele D’Annunzio II, in Id., L’ignoto che appare, cit., p. 90). 54 Ivi, p. 91. 55 Cfr. H. v. Hofmannsthal, lettera al padre del 19.8.1897, in Id., Briefe, vol. I, Berlin, Fischer, 1935, p. 219. 56 Ibidem. 57 H. v. Hofmannsthal, lettera alla madre del 18.8.1897, ivi, p. 218.

186

Lo sguardo reciproco

l’artista. Nella lettera al padre la descrive con le stesse parole usate da Conti58. Questo riferimento, per quanto implicito, al critico italiano non è casuale: Hofmannsthal se ne serve per creare la distanza tra sé e l’oggetto osservato, ma anche per trovare conferme a una predilezione che non è priva di implicazioni interpretative. Per Conti la Madonna in trono è l’opera in cui meglio si rivela l’arte matura del suo autore: «Giorgione è tutto qui – scrive –: in questa forza che lo incatena alla terra e in questa musica larga e profonda che egli ascolta nell’intimo e che lo attira lungi dal mondo»59. Quel quadro è inoltre secondo lo scrittore italiano la testimonianza di una svolta dal sensualismo giovanile alla spiritualità della produzione tarda, quando, vinta la passione, egli si rivolge a «quel cielo diffuso di aurei vapori, in quel luminoso fondo di colline e di mare», quasi cercasse, da pellegrino, una Terra promessa. «E l’aspirazione del pittore si innalza – scrive ancora Conti –, in forma di luce e d’armonia verso quella lontana speranza di gioia»59. Nulla qui fa più pensare ai tormenti della carne, placati in una religiosità moderna che non sa di peccato e di espiazione, ma che pure sogna la libertà dai condizionamenti della materia, corpo o natura che sia, in un abbandono totale allo spirito del mondo. Anche Hofmannsthal cerca nella tavola del duomo conferme della spiritualità di Giorgione e baratta in questo viaggio estivo la «demoniaca angoscia»61 vasariana e l’immoralismo di D’Annunzio con l’ipotesi che a guidare il pittore siano i sogni e quei ricordi originari e sbiaditi nascosti nelle pieghe più segrete dell’anima62. Nella lunga crisi di fine secolo che culmina nella stesura della Lettera di Lord Chandos, Hofmannsthal perde interesse per «lo sconfinato mondo dei quadri». La difficoltà di trovare le parole che colgano la «intera forza della vita» coinvolge anche l’interesse per la trascrizione poetica delle immagini dipinte. Nel Discorso in casa di un collezionista d’arte, tenuto a casa Lanckoronsky nel 58 Hofmannsthal è così interessato ai rapporti tra ambiente naturale e arte figurativa che, pochi giorni dopo, scrive al padre: il paesaggio «ha qualcosa che afferra in un modo assolutamente privo di sentimentalismi; così come i quadri di Tiziano o le statue antiche» (lettera di H. v. Hofmannsthal al padre del 24. 8. 1897, ivi, p. 224). 59 A. Conti, Giorgione, cit., p. 27. 60 Ivi, p. 42. 61 H. v. Hofmannsthal, Ieri, cit., p. 17. 62 Cfr. A. Bayersdorfer, Leben und Schriften, cit., p. 100.

Note di immortalità

187

1902, Hofmannsthal si sottrae alla descrizione delle tele conservate nella splendida pinacoteca del palazzo e, anche se afferma di subirne il fascino, sottolinea la debolezza della poesia di fronte al potere evocativo e descrittivo della pittura: «Come potrei osare – afferma – di voler descrivere ciò che sono capaci di darci i quadri?»63. Si limita così a parlare di suggestioni, di sinestesie, di un passato che, conservato dalle tele, si fa presente appena toccato dallo sguardo del visitatore, della totalità che si rivela attraverso i colori; ma non vi è traccia nella sua conferenza di una riflessione su contenuti, forme, sul valore della eredità e di quella antica in particolare. I riferimenti all’arte classica che compaiono nella Lettera di Lord Chandos sono spettrali e, simili a «statue senza occhi»64, lasciano in chi le guarda un profondo senso di solitudine. Persino la bellezza delle opere del passato si rivela ingannevole per i moderni dalle «braccia più deboli», incapaci di creare qualcosa di appena paragonabile a ciò che li ha preceduti. In funzione anticlassica, Hofmannsthal inizia piuttosto in questi mesi un fitto dialogo con un universo creaturale che impone turbamento e pietà e promette la rivelazione: sono i topi morenti su cui Chandos sofferma lo sguardo o, nel successivo Sui caratteri nel romanzo e nel dramma, sarà ciò che di «patologico» e «maniacale» guida il cuore umano: «Tutte sono così folli, le mie creature – afferma Balzac in questo dialogo immaginario con Hammer Purgstall – così accanite nelle loro idee fisse, così incapaci di vedere nel mondo ciò che esse non vi gettino con la scintilla del loro sguardo, così fuor di senno […]. Ma così sono perché sono creature umane»65. Nel passato, che si tratti dei testi latini amati da Chandos, della tragedia sofoclea o della Venezia rinascimentale, non si cercheranno modelli, né canoni, perché non si tratta di individuare regole ma, semmai, di farle sgretolare sotto il peso delle passioni e dell’impotenza. Solo nei suoi frammenti la bellezza di ciò che è stato 63 H. v. Hofmannsthal, Ansprache gehalten von Hugo von Hofmannsthal am Abend des 10. Mai 1902 im Hause des Grafen Karl Lanckoronski, Wien, Privatdruck, 1902 (trad. it. Discorso in casa di un collezionista d’arte, in Id., L’ignoto che appare, cit., p. 131). 64 H. v. Hofmannsthal, Ein Brief, in «Der Tag», 18-19.10.1902 (trad. it. di L. Traverso, La lettera di Lord Chandos, in Id., L’ignoto che appare, p. 141). 65 H. v. Hofmannsthal, Über Charaktere im Roman und im Drama, in «Neue freie Presse», 25.12.1902 (trad. it. di L. Traverso, Sui caratteri nel romanzo e nel dramma, in Id., L’ignoto che appare, p. 158).

188

Lo sguardo reciproco

potrà infatti ancora «afferrare demonicamente»66 i moderni, donare loro la compassione che si deve ai diseredati. Del classico resiste solo quello che Hofmannsthal definisce «riflesso», un fluire attraversi i tempi e attraverso i territori di una bellezza che, proprio perché incompleta e insoddisfatta, testimonia platonicamente l’esserci di uno spirito universale e il potere trasfigurante dell’arte. Nelle note al testo dedicato all’orgogliosa decadenza di una grande famiglia veneta, La lettera dell’ultimo Contarin del 1903, troviamo una riflessione che vuol essere un segnavia per contemporanei amanti dell’antico: «Riassumendo – scrive Hofmannsthal – noi siamo diversi da quegli altri (gli antichi) e in questa diversità e coscienza della diversità consiste tutta la nostra natura e tutta la nostra missione»67. Al numinoso demonico dei classici, Hofmannsthal contrappone così il demoniaco di figure deliranti e disperate e si lascia sedurre da epoche maniacali e illuse in cui campeggiano figure di sconfitti, di reietti, «simili a dei» proprio perché spietati negatori della bella forma. Una distanza «ricca di pietà» lo induce a scrivere anche una «tragedia moderna» Elettra, libera trascrizione dell’opera sofoclea, completata a Cortina nel giugno del 1903. La protagonista non ha nulla di armonioso né di aristocratico. È figura furente, dionisiaca a tratti, che ricorda da vicino, fin nel contrasto cromatico di rosso e nero suggerite dalle didascalie, le note giovanili di Hofmannsthal su Giorgione. Tragica e degna di pietà anche Venezia, privata dei caratteri gloriosi o frivoli delle opere del fine secolo – nel 1892 La morte di Tiziano e, nel 1898, L’avventuriero e la cantante – e ridotta nei primi testi novecenteschi di Hofmannsthal a patria di epigoni68, appena illuminati dai «riflessi degli antichi […] nelle ore tarde della vita»69. Non stupisce quindi che, proprio ai margini della stesura dell’Elettra, un’opera che liquida il classico tra arcaiche scompostezze 66

H. v. Hofmannsthal, Discorso in casa di un collezionista d’arte, cit., p. 130. H. v. Hofmannsthal, Der Brief der letzten Contarin, pubblicato postumo nel 1929 (trad. it. di G. Bemporad, La lettera dell’ultimo Contarin, in Narrazioni e poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1972, pp. 601-602). 68 Mi riferisco qui in particolare al citato Brief der letzten Contarin e a Das gerettete Venedig (1905) una rielaborazione di Venice preserved (1750) di Thomas Otway. 69 Ivi, p. 602. 67

Note di immortalità

189

e moderne isterie, il poeta si accosti irriguardoso anche ad un capolavoro dell’arte rinascimentale e, senza curarsi della sua storia e del suo canone, tenti l’esperimento di descrizione e di trasfigurazione che troviamo in Viaggio d’estate70. Completata la tragedia, Hofmannsthal inizia, infatti, un pellegrinaggio tra i monumenti cinquecenteschi del vicentino: ai genitori scrive da Vicenza il 29 di giugno del 1903: «Ieri ed oggi abbiamo visto molte cose di incredibile bellezza: ieri la famosa Villa Maser (ma solo da fuori e il giardino), quindi Asolo, la sera ancora Castelfranco. Stamane – sempre in automobile – la bella Villa Valmarana affrescata dal Tiepolo e la famosa Villa Rotonda»71. Di Giorgione in questo breve resoconto del viaggio non c’è traccia, eppure il pittore sarà – insieme a Palladio – il protagonista del Feuilleton sul breve viaggio in Italia scritto di getto nell’estate di quello stesso anno.

Un viaggio d’estate Nel resoconto del viaggio che dal Brennero lo porta fino a Vicenza, Hofmannsthal si sofferma a descrivere solo due opere, ma entrambe esemplari. Sono il Concerto campestre di Giorgione e La Rotonda di Palladio, un quadro e una architettura di quel Rinascimento magico e alchemico che, attraverso Pater e Bayerdorfer, si era imposto all’attenzione della decadenza72. Scriverne – come aveva affermato Conti – è un «arduo cimento»73 e il progetto di Viaggio d’estate è sicuramente ambizioso: si tratta infatti di un doppio esercizio di Kunstbeschreibung legato a diverse forme d’arte e reso più articolato dal desiderio di avviare un dialogo fitto e intenso con il passato, quello degli artisti del Rinascimento, ma anche quello dei poeti e dei critici che negli anni ne avevano trattato e quello dei viaggiatori che in quelle opere si erano imbattuti. 70 H. v. Hofmannsthal, Sommerreise, in «Neue freie Presse», 18.7.1903 (trad. it. Viaggio d’estate, in Id., L’ignoto che appare, cit., pp. 161-170). 71 H. v. Hofmannsthal, lettera ai genitori del 29.6.1903, in Id., Briefe, vol. II, Wien, Bermann-Fischer, 1937, p. 116. 72 Cfr. A. Bayersdorfer, Leben und Schriften, cit., in particolare, pp. 100-101. 73 A. Conti, Giorgione, cit., p. 11.

190

Lo sguardo reciproco

Ma il poeta preferisce nasconderne le implicazioni nella forma «minore» di una cronaca giornalistica per la «Neue freie Presse» di Vienna. La descrizione del suo breve viaggio estivo sarà fedele – promette al lettore – anche se, aggiunge, di quella fedeltà che è lecito chiedere al poeta, attirato irresistibilmente – così scrive quello stesso anno in Dialogo sulle poesie – dai paesaggi dell’anima. Le esperienze sensibili saranno allora filtrate da uno sguardo che «non vede nulla che sia senza significato»74, nulla che non trovi un’eco nella sua interiorità. Indifferente alle consuetudini del «viaggio italiano», lontano dalla tentazione di redigere un nuovo Cicerone, la Sommerreise dalle Alpi al Veneto sarà poco più di un pretesto per «trasformare il paesaggio in un regno dell’anima»75 e rendere possibile l’«incontro» tra epoche e «creatori», sullo sfondo di un paesaggio che sembra voler evocare delizie da Paradiso terrestre: «Questo viaggio di tre giorni appare già come un sogno. Eppure fu reale: reale come andare alla fontana, chinarsi, spegnere una grande sete nell’acqua ghiaccia, spicciata dalla roccia […] reale – prosegue Hofmannsthal – come un desiderio di frutta, di frutta morbida e soda, fresca di dentro, profumata, rivestita di lanugine, un appoggiare la scala, salire, spiccare, assaporare, appisolarsi nella chioma dell’albero»76. A fare da guida sul cammino non sono mappe, ma le «onde delle montagne» che, dopo le asprezze delle Alpi, si distendono in un paesaggio ameno nel quale natura e cultura si integrano senza tensioni: «In ciascuna delle sue pieghe sono nascosti gioielli» immagina Hofmannsthal descrivendo il Cadore, un paese, aggiunge, «che come un mantello scende dai fianchi delle Alpi e si stende fino al mare»77. Le città venete, «ben costrutte», lì dove si toccano «pila di ponte e scalinata di chiesa, bastione e villa»78, sono fermagli preziosi di questo mantello che unisce natura e arte, aprendosi un varco fino alla raffinata bellezza di Venezia. 74 H. v. Hofmannsthal, Das Gespräch über Gedichte, in « Die neue Rundschau», 1. 2. 1904 (trad. it. di G. Bemporad, Il dialogo su poesie, in Id., L’ignoto che appare, cit., p. 190). 75 H. v. Hofmannsthal, Botschaft, «Blätter für die Kunst», IV, 1-2 (1897), in Gesammelte Werke in Eizelbänden, vol. I, Frankfurt a.M., Fischer, 1979, p. 32. 76 H. v. Hofmannsthal, Sommerreise, cit. (trad. it. p. 162). 77 Ivi, p. 164. 78 Ivi, p. 165.

Note di immortalità

191

Seguendo il filo delle associazioni, Hofmannsthal rievoca gli artisti che hanno reso celebre questo angolo di mondo: «Come grandi signori che gridano i loro nomi per radunare intorno a sé la propria gente, come grandi signori che dopo una battaglia vittoriosa battono il piede sulla collina e lanciano nell’aria i loro nomi cavallereschi, così queste città gridano ininterrottamente i loro nomi attraverso l’aria della sera d’estate […] e ciascuno di questi nomi è anche il nome di un grande pittore»79. Ricorda maestri famosi, Paolo Veronese e il Pordenone, Cima da Conegliano, Giovanni da Udine, insieme a pittori meno conosciuti come Pellegrino da San Daniele o Morto da Feltre. Ultimo giunge il nome di Giorgione, il più noto e anche il più discusso tra i pittori veneti della Rinascenza. «Non dovè nascere qui Giorgione?»80 – si chiede, segnalando con questa incertezza una qualche competenza nella intricata questione. Ma è solo un accenno. Indifferente ai dati biografici e ai problemi di attribuzione, Hofmannsthal celebra nel pittore l’insuperabile interprete del paesaggio che si stende – geograficamente, ma anche metaforicamente – tra monte e pianura, tra la ruvida materialità delle Alpi e gli arabeschi della città lagunare: egli, prosegue Hofmannsthal, «assorbì in sé questa lontananza e questa vicinanza, questo specchiare beato, questo riguardare verso i monti, questa sosta sull’ultimo colle» creando «un incantesimo che non ha nome»81. Per semplice risonanza, suggerite dalla «quiete beata» del paesaggio, affiorano alla mente del poeta le immagini di Concerto campestre, un quadro, tra l’altro, di attribuzione incerta che, pure, dopo Morelli e Berenson82, anche Conti aveva assegnato avventurosamente a Giorgione – una attribuzione che, più autorevolmente, era stata confermata nel 1900 dallo studioso inglese Herbert Cook il quale aveva rubricato Concerto campestre tra le opere in cui maggiormente il pittore dà mostra «della sua potenza espressiva»83. 79

Ibidem. Ivi, p. 166. 81 Ibidem. 82 Cfr. G. Morelli, Kunstkritische Studien über italienische Malerei. Die Galerien zu Berlin, Leipzig, Brockhaus, 1893 e B. Berenson, Italienische Kunst, cit., p. 113; cfr. inoltre di Berenson, The Venetian Painters of the Renaissance, cit. 83 H. Cook, Giorgione, London, Bell and Sons, 1900, p. 66. 80

192

Lo sguardo reciproco

Giorgione è colui che – inizia così in Viaggio d’estate la descrizione di Concerto campestre – «ha posto quattro o cinque figure sul morbido dorso di una di queste colline e quelle altro non fanno che suggere come un frutto questa dolce mistura di vicinanza e lontananza, di oscurità e luce, di realtà e sogno»84. Come il viandante goethiano che, scendendo dalla montagna, si imbatte in «tracce del lavoro umano»85 e, quindi, in una meravigliosa forma di marmo, anche Hofmannsthal, attraversate le Alpi, incontra un capolavoro dell’antichità. In entrambi i casi si tratterà di un frammento. Manipolata dal tempo e dalla natura nella poesia goethiana, dalla immaginazione in Sommerreise, l’opera d’arte del passato non giunge alla pagina scritta come oggetto che appaga la percezione. Eppure è proprio questa incompletezza a far sì che un sentimento di universalità si impossessi del viaggiatore e che, nell’incontro con un «classico» che la storia e la soggettività hanno violato, egli cominci ad intuire i nessi profondi tra l’arte, la natura e la vita umana: la nostalgia inappagata per quello che è passato – aveva scritto Burckhardt in Sullo studio della Storia ricordando il maestro von Ranke e anticipando la «cultura del frammento» di fine secolo – ha un grande valore, poiché la combinazione instancabile dei resti della tradizione costituisce «una parte della religione attuale, la venerazione per gli avanzi artistici, la forza della venerazione che è in noi è difatti così essenziale quanto l’oggetto da venerare»86. Tra le molte somiglianze tra il Wanderer di Goethe e l’Io narrante di Sommerreise vi è però una sostanziale differenza: il Concerto campestre di Giorgione non fa parte delle esperienze del viaggio italiano, né è oggetto di contemplazione. Conservato al Louvre (e Rossetti aveva creduto di doverlo aggiungere al titolo della sua poesia), lontano quindi dai luoghi toccati dall’itinerario e distante dall’esperienza visiva ed emotiva del percorso estivo, Concerto campestre si incunea nella descrizione paesaggistica con una forte accentuazione dell’elemento immaginifico. Così immaginata e così frammentaria, la pittura cessa di essere arte di totalizzante immediatezza, come la voleva Leonardo, e 84

H. v. Hofmannsthal, Sommerreise, cit. (trad. it. p. 166). Ivi, p. 165. 86 J. Burckhardt, Sullo studio della storia, trad. it. a cura di M. Ghelardi, Torino, Einaudi, 1998, p. 29. 85

Note di immortalità

193

diventa poco più di un pretesto per il confronto tra la durata di un’opera che ha resistito al tempo e l’irrequieta polifonia delle proiezioni, tra eternità ed emozione, sensualismo e metafisica. Importante, almeno quanto il quadro e il suo artefice, sarà allora lo «sguardo interiore» di colui che ne ricompone dopo secoli l’immagine disponendone gli elementi con assoluta libertà: in questo modo – come aveva scritto Pater, proprio riferendosi alla Scuola di Giorgione – l’arte figurativa cesserà di rivolgersi al puro senso, e tanto meno al puro intelletto, ma «attraverso i sensi» svilupperà ed educherà quella che lui definisce la «ragione fantastica»87.

Il quadro che non c’è Il passaggio dalla contemplazione della natura alla descrizione del Concerto campestre è un piccolo capolavoro: Hofmannsthal non nomina la tela, ma inizia a descriverla affidandosi a pochi elementi della composizione, ordinati alla rinfusa, come se l’immagine venisse progressivamente “messa a fuoco” nel ricordo88. Simile al pittore di Baudelaire, Hofmannsthal cerca «nel suo dizionario» fantastico ciò che meglio si adatta alle suggestioni che giungono dall’esterno e, «sistemandolo con una certa arte, gli dona una fisionomia affatto nuova»89. Si interrompe così la modularità percezione-narrazione che informa le prime pagine di Viaggio d’estate e si introduce, nel resoconto di un viaggio «reale» – come aveva sottolineato all’inizio del testo il suo autore –, la descrizione di un dipinto che ha con le bellezze osservate un legame fatto di corrispondenze. È il rispecchiamento tra le colline viste e quelle dipinte, tra lo stato d’animo assorto dei personaggi affascinati dalla musica e quello di Hofmann87

W. Pater, Il Rinascimento, cit., p. 129. H. v. Hofmannsthal, Viaggio d’estate, cit., p. 166. 89 C. Baudelaire, Le gouvernement de l’imagination, in Id., Œuvres Complètes, 2 voll., Parigi, Gallimard, 1975, pp. 283-288, citaz. p. 284. In Sui caratteri nel romanzo e nel dramma, Hofmannsthal fa affermare a Balzac: «Non ci sono esperienze, solo l’esperienza del proprio essere. È questa la chiave che apre ad ognuno la solitaria cella del suo carcere, le cui pareti spesse e impenetrabili sono – è vero – rivestite come tappeti sgargianti dalla fantasmagoria dell’universo» (H. v. Hofmannsthal, Über Charaktere im Roman und im Drama, cit., trad. it. p. 153). 88

194

Lo sguardo reciproco

sthal che procede come in sogno lasciando affiorare immagini che se ne stavano stipate – scriverà anni dopo in un altro resoconto di un viaggio italiano, I cammini e gli incontri – «in qualche luogo dentro di me»90. Come Gabriele D’Annunzio che «dai quadri non ha tratto particolari esteriori, – così scriveva Hofmannsthal nel saggio del 1894 – ma lo stato d’animo che hanno in sé gli atteggiamenti delle persone dipinte»91, anche il nostro autore si preoccuperà di restituire di Concerto campestre soprattutto delle Stimmungen92 che, in questo caso, verranno condivise da tutti coloro che in questa operazione sono coinvolti: il pittore con le sue figure, il poeta che le fa rivivere e anche il lettore che la descrizione trasforma in spettatore di un doppio processo, quello percettivo del viaggio e quello fantastico della Kunstbeschreibung. Si elimina così ogni problema «filologico»93 e ogni riferimento alla vituperata critica accademica: nella ricerca del sublime che marca il sottotesto di Viaggio d’estate l’aspetto tecnico viene svalutato come espressione di un’abilità che opera attraverso la pochezza dell’intelletto, si tace sui significati iconologici e sugli orizzonti culturali. Nulla sapremo della composizione, dello stile, né, tanto meno dell’autore; egli si soffermerà semmai «sull’espressione di un esserci senza specificazioni»94 ad uso di un lettore in cerca di suggestioni più che di sapere. Appare chiaro dall’incertezza sul numero dei personaggi rappresentati in Concerto campestre – «quattro o cinque figure» scrive Hofmannsthal all’inizio della descrizione – che egli intende dare una immagine tendenziosa e personale del quadro di Giorgione. Molti gli “errori” disseminati nella ricostruzione del dipinto: non vi sono nell’originale vestiti gettati a terra, né frutti che rotolano da un cestino; il berretto del giovane suonatore è rosso e non verde, 90 H. v. Hofmannsthal, Die Wege und die Begegnungen, in «Die Zeit», 19. 15.1907 (trad. it. di L. Traverso, I cammini e gli incontri, in Id., L’ignoto che appare, cit., p. 273). 91 H. v. Hofmannsthal, Gabriele D’Annunzio II, cit., p. 88. 92 Cfr. C. Bregger, Das Visuelle und das Plastische. Hugo von Hofmannsthal und die bildende Kunst, Bern-München, Francke, 1979, p. 65. 93 H. v. Hofmannsthal, Die Briefe des Zurückgekehrten, in «Morgen», 25.6-5.730.8.1907 (trad. it. di G. Bemporad, Le lettere del rimpatriato, in Id., L’ignoto che appare, cit., p. 305). 94 S. Kummer, Kunstbeschreibungen Jacob Burckhardts, in G. Boehm, H. Pfotenhauer, Beschreibungskunst-Kunstbeschreibung, München, Fink, 1995, pp. 357-372, qui p. 366.

Note di immortalità

195

come invece scrive Hofmannsthal, e, che vi sia una figura in contemplazione delle vette con la bocca semiaperta, è pura invenzione. A rendere ancora più imprecisa la Beschreibung hofmannsthaliana, altri quadri, tutti assai noti, si mescolano nel ricordo del dipinto: la fontana con la donna nuda richiama Amor sacro e amor profano di Tiziano, mentre lo sguardo rapito nel vuoto del personaggio «aggiunto» fa pensare a quel capolavoro moderno, Le déjeuner sur l’erbe, che egli aveva ammirato pochi anni prima a Parigi95. Ma il catalogo delle commistioni e degli errori è tutt’altro che bizzarro; costruito con intima coerenza, rimanda a un elemento centrale della poetica hofmannsthaliana: l’esigenza di dare vita alla materia collegando la realtà empirica a immagini conservate nel ricordo e, in questo modo, liberarla dal carcere del presente per consegnarla al fluire dello spirito del mondo che, sempre uguale, attraversa le opere e i tempi. Già nella recensione a Il Rinascimento Hofmannsthal aveva affermato di ritenere irrinunciabili nella Kunstbeschreibung l’azione rivitalizzante del poeta che dona all’opera d’arte una nuova vita, sottraendola alla canonizzazione da museo come alla banale ricostruzione storico-tecnica degli studiosi. D’altra parte, lo scrittore si era impegnato, fin dalle sue prime prove letterarie, a coniugare l’esperienza empirica con qualche scheggia di alterità ricca di valore simbolico e di senso dell’universale. Nella smemoratezza di una società massificata che aspetta ottusamente la salvezza dal futuro, «la leggibilità delle tracce» lasciate dal passato e la restituzione del loro «valore eterno»96 diventa per Hofmannsthal il compito insostituibile di una poesia che voglia essere «viva e fecondatrice»97. Obiettivo di questa originale e infedele rievocazione di Concerto campestre sarà quindi in primo luogo quello di lasciar affiorare dalla tela «un rivivere, uno scomporre e un ricreare ditirambico e chiaroveggente»98. Non si tratta qui dell’azione della volontà e 95 Cfr. W. Kessler, Hugo von Hofmannsthals Beziehungen zur bildenden Kunst, Diss., Freiburg, 1948, p. 48. 96 Cfr. G. Neumann, “L’inspiration qui se retire”: Musenanruf, Erinnern und Vergessen in der Poetologie der Moderne, in A. Haverkamp, R. Lachmann (a cura di), Memoria: Vergessen und Erinnern, con la collaborazione di R. Herzog, München, Fink, 1993, pp. 435-455. 97 A. Conti, Giorgione, cit., p. 10. 98 H. v. Hofmannsthal, Algernon Charles Swinburne, cit. (trad. it. p. 63).

Lo sguardo reciproco

196

neppure del lavorio del collezionista che accumula frammenti di epoche lontane: l’Io narrante di Viaggio d’estate preferisce lasciarsi andare alle suggestioni che giungono dal profondo perché sa che solo «attraverso una grande tensione della fantasia», si coglie per un attimo «la visione di quell’altro mondo»99 in cui lo spirito regna sovrano: «È certo che sul nostro tortuoso cammino – scrive Hofmannsthal in I cammini e gli incontri – noi non solo veniamo sospinti avanti dalle nostre azioni, ma sempre attirati da qualche cosa, che sembra aspettarci in qualche luogo ed è sempre velata»100. Svelarla vuol dire scalfire la malvagia coscienza intellettuale di chi dimentica – non i fatti della storia e le sue testimonianze, ma ciò che ricco, spirituale, unitario si è scorto in quella dimensione paradisiaca che Hofmannsthal chiama preesistenza e della quale cerca le schegge nella «balenante» forza dei sogni101. Si introduce così, in questo esperimento di Kunstbeschreibung, una variabile collegata a quel trionfo dello spirito sulla natura che, teorizzato da Hegel, trova il suo approdo novecentesco nella ossessione creativa di un soggetto in grado di dare valore, come nota Adorno, solo a ciò che riesce a creare, mentre degrada a puro stato di materiale d’uso quello che trova già preformato102. La questione, certo non nuova, era al momento della stesura di Viaggio d’estate, particolarmente attuale a Vienna, dove, in un ciclo di lezioni dell’inverno 1903, Alois Riegl aveva celebrato il ruolo delle arti figurative nel processo di trasfigurazione e rivitalizzazione della natura: è l’arte che tende a distruggere la statica simmetria del creato ed è grazie alla sua azione, se il principio spirituale contrasta la cristallizzazione degli organismi in una lotta serrata che ha come esito la vittoria dell’organico e del vitale sull’inanimato e l’inorganico103. 99

H. v. Hofmannsthal, Walter Pater, cit. (trad. it. p. 115). Ivi, p. 274. 101 H. v. Hofmannsthal, Weltgeheimnis, in «Blätter für die Kunst», II, 2, marzo, 1894 (trad. it. a cura di G. Zampa, Sogno di grande magia, in Id., Narrazioni e poesie, cit., p. 27). 102 Cfr. Th. Adorno, Ästhetische Theorie, in Id., Gesammelte Schriften, a cura di G. Adorno, R. Tiedemann, vol. VII, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1970, p. 98. 103 A. Riegl, Historische Grammatik der bildenden Künste, a cura di K.M. Swoboda, O. Pächt, Graz-Köln, H. Böhlaus Nachf., 1966. Riegl individua due fasi di questa azione vitalizzatrice dell’arte per quanto riguarda il mondo antico: nella prima fase, quella classica, l’arte tende a migliorare la natura attraverso la bellezza dei corpi, nella 100

Note di immortalità

197

L’alleanza tra le arti faciliterà, in questa guerra tra spirito e materia, il trionfo dello «spirito nostro alto signore»104 e, in particolare, poesia e arte figurativa sembrano per Riegl destinate ad unirsi per realizzare la «trasfigurazione della natura attraverso la bellezza spirituale»105. In sintonia con lo studioso agli inizi della sua fortuna, Hofmannsthal si propone di donare al Concerto campestre una nuova vita. La contagia con un dinamismo di tipo teatrale isolando i personaggi, individuandoli, donando loro azioni e desideri che Hofmannsthal condivide e che si sovrappongono tendenziosi all’opera e alle intenzioni del pittore. Rispetto alla afasia del cadetto dei conti di Bath, incapace di dare voce al suo pensiero «immediato», «fluido» e «ardente»106, Viaggio d’estate rappresenta un evidente superamento e il linguaggio, addirittura quello contaminabile della prosa, è chiamato a narrare di «cammini» e «incontri», a evocare un’opera d’arte scelta proprio per la sua complessità, a misurare la distanza dal classico, a delineare, sia pure oscuramente, una poetica.

Concerto campestre La struttura della visione scelta da Hofmannsthal non è diversa da quella che aveva reso celebre il pittore tra i contemporanei e che Vasari elogia nella Vita di Giorgione da Castelfranco. I suoi dipinti – scrive con ammirazione l’architetto aretino – avevano una struttura che si offriva immediatamente all’osservatore che poteva coglierla da ogni lato nella sua interezza «senza avere a camminare intorno»107. E questo per sapienza costruttiva, non certo per la semplicità delle immagini dipinte; anzi, a detta di Vasari, Giorgione offriva un numero di dettagli maggiore di qualsiasi altro artista seconda fase, quella cristiana, fino al 1520, si tratta di migliorarla attraverso la bellezza spirituale. 104 H.v. Hofmannsthal, Traum von grosser Magie, in «Blätter für die Kunst», III, 1, gennaio, 1896 (trad. it. a cura di G. Zampa, Sogno di grande magia, in Id., Narrazioni e poesie, cit., p. 39). 105 A. Riegl, Historische Grammatik der bildenden Künste, cit., p. 92. 106 H. v. Hofmannsthal, La lettera di Lord Chandos, cit., p. 146. 107 G. Vasari, Vita di Giorgione da Castelfranco, cit., p. 560.

198

Lo sguardo reciproco

e si misurava in «tutte le sorti delle vedute che può fare in più gesti un uomo» sforzandosi di rappresentare «figure a sua fantasia per mostrar l’arte»108. Anche Hofmannsthal coglie il Concerto campestre nel suo insieme “vedendo” come alcune figure si perdano nella contemplazione delle colline venete e sentendo, insieme a loro, il fascino di quella regione: «Il miracolo di questo luogo è armonia: terra e nuvole, lontananza e vicinanza, realtà e sogno qui sono una cosa sola: l’aria è come un bacino in cui corrono silenziose fiumane di gioia»109. L’immersione totale delle figure nella natura introduce un aspetto fortemente innovativo nella riflessione di Hofmannsthal sul Rinascimento. Mentre in Ieri trionfa un estetismo che cerca la soddisfazione dell’attimo, riversando nella bellezza tutte le attese di redenzione, qui invece i personaggi si danno panicamente alla terra pronti ad essere irretiti, come figli dello Jugendstil, da una attrazione che finisce per smembrarle. L’umano si lega all’inumano e si anticipa quel dissolvimento dell’immagine che caratterizza, fino alla sua stessa negazione, l’arte del Novecento: «Le donne hanno abbandonato le vesti sull’erba e offrono il corpo nudo al duplice fiato dell’aria che fresco e presago d’ombre le vuole attirare sui monti, e tiepido e voluttuoso le sfiora salendo dalla pianura»110. La sensualità della scena che faceva immaginare a Tieck un meridionale trionfo dei sensi111 e ispirava a Adolf Friedrich Schack un estetismo di maniera112 diventa qui trasognata inconsapevolezza, perdita di volontà, superamento della individuazione. Dei personaggi di Giorgione, Hofmannsthal fa dei percettori, ricchi – come scriverà Schaukal – di «morbidezza vegetativa», immersi in «un sognare dolcemente assorto»113. Echeggia il «dolore del solstizio» di Rossetti, quando «l’onda

108

Ibidem. H. v. Hofmannsthal, Viaggio d’estate, cit., p. 167. 110 Ivi, p. 166. 111 L. Tieck, Franz Sternbalds Wanderungen. Eine altdeutsche Geschichte, a cura di A. Angers, Stuttgart, Reclam, 1966, in particolare si rimanda alle pp. 368, 369, 371. 112 Cfr. A.F. v. Schack, Ein Bild Giorgiones, in Id., Gesammelte Werke, vol. X, Stuttgart, Cotta, 1899, pp. 220-221: «Fragt nicht, ob irdische, ob Himmelsliebe/Uns Castelfranco grosser Sohn hier malte!//Lasst euch’s genug sein an der Schönheit Fülle,/Die alle hier, dies wüste Weltgetriebe/Verklärend, seit Jahrhunderten schon strahlte». 113 R. Schaukal, Giorgione, cit., p. 136. 109

Note di immortalità

199

sospira», «riluttante» e il poeta riconosce l’impossibilità di «dare un nome a questo sempre»114. In Viaggio d’estate sono soprattutto le figure femminili ad essere sottoposte ad un processo trasformativo che le avvicina ad «arborescenze da paradiso terrestre»115 o a personaggi mitici della terra e dell’acqua: «Ma i loro piedi nudi – immagina Hofmannsthal avvicinando le donne di Giorgione a tanta iconografia di fine secolo – sentono, attraverso l’erba e i fiori, il suolo umido e fresco, sentono la felicità di radicare nella terra»116. Malgrado tendano ad annullarsi nella natura, la fissità dell’inanimato non avrà la meglio su di loro. Il potere mitopoietico della poesia, quel «dialogo dell’ineffabile con la nostra anima»117 che spiritualizza “per magia” i suoi oggetti, impedisce che qualcosa di amorfo prenda il sopravvento. Si supera così non solo la lettura schopenhaueriana che di Concerto campestre aveva suggerito Pater, dominato dalla volontà e attirato segretamente dalla morte, ma soprattutto quella superomistica e «immoralista» di D’Annunzio e di Conti, che trovava un approdo non meno statico nell’esaltazione dei sensi e, quindi, nell’inerzia dell’appagamento. Hofmannsthal vede le donne abbandonate al piacere dell’acqua e dell’aria, ma non le consegna alla contemplazione della bellezza né alle seduzioni della carne. Con gesto arcaico, ricco delle metafore della generazione, fa prender loro acqua dal pozzo (e l’acqua è in Hofmannsthal, fin dalle primissime opere, viatico di una gioia panica, metafora del risveglio o suscitatrice di memorie pure e profonde). Il contatto con l’acqua – un’acqua che giunge fredda dai monti e che richiama le metafore dell’altura e dell’elevazione118 –, è un antidoto al torpore e un richiamo potente al «mistero 114

D.G. Rossetti, For a Venetian Pastorale by Giorgione, cit. H. Sedlmayr, Verlust der Mitte: die bildende Kunst des 19. und 20. Jahrhunderts als Symbol der Zeit, Salzburg, O. Mueller, 1948 (trad. it. di M. Guarducci, La perdita del centro, Milano, Rusconi, 1974, p. 202 sgg). 116 Ibidem. 117 H. v. Hofmannsthal, E. Karg v. Bebenburg, Briefwechsel, a cura di M.E. Gilbert, Frankfurt a.M., Fischer, 1966, lettera del 18 giugno 1895, p. 82. 118 Dell’acqua e dell’aria come elementi significativi nell’arte di Giorgione parla anche Pater nel suo scritto sulla Scuola di Giorgione. In particolare in La Sacra famiglia del Louvre Pater vede «un singolare incanto d’aria tersa», inoltre il pittore veneto donerebbe ai «suoi sacri personaggi una lucentezza e un’energia penetrate di vento» (W. Pater, Il Rinascimento, cit., pp. 138-139). 115

200

Lo sguardo reciproco

del mondo»: «le donne si chinano sul pozzo di pietra – scrive il poeta collocando arbitrariamente insieme le due figure femminili che nella tela appaiono separate, una alla fontana l’altra all’ascolto della musica e, per di più, con un flauto nella mano per partecipare attivamente al concerto –, sollevano il secchio dall’umida gola, come volessero così strappare al suolo il suo oscuro beato segreto; ma ciò che portano alla luce è solo acqua limpida; la berranno tuttavia, la sentiranno scorrere fresca attraverso le membra»119. Neppure gli uomini accanto al pozzo si lasceranno afferrare completamente dall’oblio. Quello dal berretto «verde con la piuma bianca» – secondo la fantasiosa ricostruzione di Hofmannsthal – immagina un movimento verso l’alto che, doppiando le metafore dell’acqua collocate all’inizio della descrizione, lo libera dal ristagno pomeridiano e lo avvicina alle vette, lì dove le aquile prendono il volo. Immagina di trovarsi avventurosamente «sospeso là tra l’orlo di roccia e l’abisso», di «essere colui che con piedi sanguinanti ha scovato il nido dell’aquila»120. Da quella lontananza azzurra potrà vedersi e, grazie allo sdoppiamento dello sguardo e del suo stesso essere, si sentirà infinitamente migliore di quell’ “altro” se stesso, «quell’uomo rozzo, di quell’uomo povero […] che giace voluttuosamente accanto al pozzo di marmo, accanto al canestro da cui rotolano frutti, accanto alle donne che hanno abbandonato le loro vesti, indolente, con la piuma dell’aquila sul berretto color di smeraldo»121.

Brame che non si appagano A fine secolo, il ruolo della pittura e della poesia nell’apostolato di un nuovo immoralismo trovano nella licenziosità del Concerto campestre e nella caratterizzazione così diversa degli uomini e delle donne che vi compaiono un tracciato esemplare. Scrive D’Annunzio, solo in apparenza più fedele all’immagine di quanto lo sia Hofmannsthal: 119

H. v. Hofmannsthal, Sommerreise, cit. (trad. it. p. 166). Cfr. sulla forza inglobante della natura in Viaggio d’estate, le pagine sull’attraversamento delle Alpi, in particolare p. 164. 121 Ivi, p. 167. 120

Note di immortalità

201

Nella festa campestre il sonatore di liuto e il suo giovine compagno chiomato attendono ad approfondire il loro gaudio, a dilatare il loro sogno di piacere su quel magnifico teatro che i colli gli alberi e le acque ornano solo pel loro bene. La carne delle due donne ignude li aspetta da presso, bagnata come nella trasparenza di un’ambra liquida, irrigata come da un oro caldo e fluido che pare il lume d’un sangue olimpico. Delle due una, opulenta come Callipige, siede sul suolo rivolta verso il musico; e dalla nuca al tallone la forma della sua schiena e dei suoi lombi si svolge con la pienezza d’un flutto. L’altra in piedi, si sviluppa da un drappo come un fiore da un involucro, inclinandosi con molle grazia verso un bacino […]. Così fra poco, quando l’ebbrezza dei suoni sarà giunta al sommo, i due giovani verseranno senza misura la calda vita ne’ loro bei grembi ignudi, anelando morire122.

Anche Hofmannsthal coglie l’erotismo dell’immagine, la gioia panica e la seduzione della natura terrigna, gareggiando con il poeta italiano in musicalità e sapienza retorica. Ma come in Ruskin, anche in lui «il senso della nudità si perde»123, ogni erotismo è bandito da questa scena dominata, nella lettura dell’autore viennese, da una segreta aspirazione verso l’Intellegibile: non grembo di donne, ma una infinita lontananza attira tutti i personaggi, chini sul mistero del mondo, sul ciclo della morte e della resurrezione. Costoro sembrano intuire la profondità dell’enigma del cosmo con una brama che non può appagarsi, come voleva invece D’Annunzio, nella carne o nella morte. Così, mentre l’uomo dal berretto 122 L’anno successivo alla stesura di Viaggio d’estate, ritroviamo l’interpretazione di Conti e D’Annunzio nella monografia di Ugo Monneret de Villard, dedicata a Giorgione (Giorgione da Castelfranco, cit.). Secondo Monneret, Giorgione vive completamente di sensazioni e non di idee e, aggiunge: «si direbbe che in lui la visione del quadro non sorge né si cristallizza attorno ad oggetti chiari e definiti, ma è solo l’esternarsi di emozioni sensuali e di un diffuso stato d’animo musicale che precede e genera l’idea poetica […]. Egli prova un intenso godimento alla comprensione della forma […] al verismo degli antichi maestri sostituisce il suo idealismo passionale […] crede solo nell’intensità del godimento nella vita ricca di sogni e di promesse. Egli non sa pregare ma godere e non agli altari, ma ai bei grembi femminili chiede la pace» (ivi, pp. 9-10). Così, «l’ebbrezza che ha provato nel godere, che, nell’interno processo intensificata, genera il Concerto campestre. L’affermazione suprema nasce in lui dalla pienezza e dalla abbondanza di vita nell’accettazione dell’esistenza, di cui conosce la bellezza e il dolore. Linfa esuberante corre nel suo corpo, che provoca il raffinarsi di ogni suggestione e di ogni allucinazione dei sensi, con una sicura influenza idealizzatrice» (ivi, p. 57). 123 J. Ruskin, Modern Painters (1873), in Id., The Works of John Ruskin, a cura di E.T. Cook, A. Wedderburn, vol. II, New York, Library Edition, 1903, p. 196.

202

Lo sguardo reciproco

rosso immagina di innalzarsi fino a sfiorare il più nobile degli uccelli, «quello dal bel berretto – scrive – fissa lo sguardo rivolto su quelle turrite lontananze azzurre. Per lui questa vista è più bella del bel corpo nudo delle donne che siedono leggere e formose sull’umido e fresco orlo di pietra della fontana»124. Insensibile ad ogni seduzione anche il terzo personaggio che Hofmannsthal «vede» nel quadro intento ad ascoltare musica (e non a caso Hofmannsthal sottolinea che si tratti di uno strumento “colto” come il liuto, a marcare la distanza dell’immagine dall’idillio campestre, mentre “dimentica” di citare il flauto): «Colui che, riverso il capo, socchiusa la morbida bocca, lo sguardo nel vuoto, ascolta il terzo che suona il liuto nell’ombra del boschetto. Una canzone semplice, un piccolo tocco delle corde così tese dalla felicità»125. Il contatto con la musica, la più astratta delle arti, non produrrà eccitazione, né appagamento, ma una inattesa luce interiore: «Come deve sciogliersi nell’anima, discendere veloce nell’abisso dell’anima, così, come una piccola nuvola, si scioglie lungo il fianco dei monti che la vampa interna accende di violetto»126. Più dolce delle forme femminili è un ascolto che ha la consistenza simbolica del sogno: ciò che si desidera è – si legge in Viaggio d’estate – «assaporare il sentimento di quella lontananza […] guardare verso quella lontananza azzurra, verso quei monti giganti, verso le nuvole nutrite dall’alito dei monti»127. L’approdo della descrizione di Hofmannsthal è la beatitudine, una beatitudine che, più che dalla bellezza del paesaggio o dei corpi femminili, è suscitata dalla armonia di «dolci suoni»128 ai quali, schopenhauerianamente e paterianamente, tendono tutte le opere dello spirito umano. Inconciliabile con ogni azione utilitaristica, rivelazione subitanea del genio, legame misterioso tra le varie forme d’arte, la musica, è – scrive Conti – «l’elemento purificatore delle arti, è il mistero che è racchiuso nello stile, è l’elemento rivelatore che l’uomo estrae dall’enigma delle forme e fissa nell’opera geniale»129. Hofmannsthal celebra così la tela di Giorgione che, grazie 124 125 126 127 128 129

H. v. Hofmannsthal, Sommereise, cit. (trad. it. p. 167). Ibidem. Ivi, pp. 167-168. Ivi, p. 167. W. Pater, Il Rinascimento, cit., p. 143. A. Conti, Giorgione, cit., p. 36.

Note di immortalità

203

alla pace degli orizzonti dipinti, alla bellezza delle pure forme, mette l’anima dell’osservatore in uno stato simile a quello prodotto dalla creazione musicale130. «Luogo di beatitudine! La coperta pende dimenticata, le vesti sono scivolate sull’erba: la coperta diventa una vela, lievemente la gonfia il respiro voluttuoso della pianura, l’alito fresco dei monti fruga tra le sue pieghe. E così nelle chiome dei tre alberi; essi giocano beati col peso delle loro vette: ciò cui le donne anelano, che avidamente cercano calando il secchio, essi l’hanno da sé, lo suggono in sé con le radici, l’oscura, misteriosa felicità della terra»131. Grazie all’azione della musica nel quadro, e della poesia nella Kunstbeschreibung hofmannsthaliana, le donne non si radicheranno nella terra, gli uomini non si identificheranno con il respiro voluttuoso dell’aria e la Sehnsucht di qualcosa che è appena presagito diventa annuncio di una nuova rivelazione che giungerà al termine del viaggio: a Vicenza di fronte a quell’opera sublime che è, secondo Hofmannsthal, la Rotonda di Palladio.

130 Secondo Pater i personaggi dei suoi quadri sembrano intenti e inteneriti dalla musica che li circonda “come se fossero in ascolto”: la musica rappresenta il momento culminante della beatitudine e, insieme, il viatico verso le profondità dell’anima di colui che sa ascoltare il mistero dell’arte. 131 W. Pater, Il Rinascimento, cit., p. 143.

MALINCONIA E IMMAGINAZIONE UNA GENEALOGIA FANTASTICA PER MELENCOLIA I Roberta Coglitore

La malinconia di un’agata Nelle prime pagine di Nel solco di Saturno1, una delle tre “lezioni morali” che Roger Caillois scrive a partire dalle tenebre della materia inorganica, vengono descritti un sole nero, che irradia una luce scura e un poliedro irregolare, e un pesante cubo, elemento isolato sulla superficie di un’agata, entrambi generatori dei sintomi di una «tristezza tenace». La bellezza dello spettacolo si mescola a un’atmosfera di sogno – la fantasia che nasce dalla ricerca di un mistero custodito nel disegno –, e a una tristezza senza oggetto – una vera e propria angoscia: La sua solitudine, il suo esilio in questo pantano, mi riempie d’un tratto di una tristezza tenace. Lo spettacolo non ne era l’unica causa. Vi si mischiava lentamente, come s’insinua una nebbia, un’atmosfera di sogno: qualcosa di cerebrale e vissuto al contempo, un ricordo che non riuscivo a identificare, di cui m’erano proposti solo alcuni elementi, del resto in disordine, e di cui mi mancava la chiave che m’avrebbe permesso di riunirli e di trovarne il significato. D’altra parte, questa cupezza improvvisa, irrimediabile, senza oggetto2.

All’incantamento per la bellezza della visione – lo spettacolo che prende forma sulla pietra – si aggiungono quindi la fantasia dell’immaginazione e la tristezza tipica della depressione, due elementi che per tradizione oltre che tratti distintivi della personificazione del tipo malinconico sono anche le manifestazioni di Saturno, dio 1 R. Caillois, D’après Saturne, in Id., Trois leçons des Ténèbres, Montpellier, Fata Morgana, 1978, pp. 11-28 (trad. it. di T. Cavallo, Nel solco di Saturno, in Id., Tre lezioni delle tenebre, Genova, Zona, 1999, pp. 49-59). Si preferisce qui seguire la seconda traduzione italiana del testo. La prima dal titolo Seguendo Saturno è di G. Zuccarino, nel volume R. Caillois, Pietre, Genova, Graphos, 1998, pp. 79-86. 2 R. Caillois, Trois leçons des Ténèbres, cit., p. 14 (trad. it. p. 52).

206

Lo sguardo reciproco

della latinità e pianeta dell’astrologia caldea. Già Aristotele aveva ricondotto la malinconia a uno dei quattro temperamenti, quello dominato dalla bile nera, fornendone una spiegazione limitata ai soli elementi naturali. Invece il legame tra la malinconia e il pianeta Saturno si trova già in alcuni autori arabi del IX secolo che legavano i caratteri degli uomini alle caratteristiche delle stelle. Che il tipo saturnino indichi una personificazione, una fisiognomica e un carattere malinconico – e cioè triste, cupo, o in termini psicologici, affetto da depressione – è una tradizione che inizia appunto con la fisiologia greca e si conserva fino alla vulgata psicoanalitica novecentesca. Ma una tradizione parallela, altrettanto antica e originaria, lega Saturno e la malinconia alla forza creativa del genio, al furore eroico, all’immaginazione creatrice. Il “furore” platonico, la “contemplazione” divina ficiniana e il “genio” romantico ne sono soltanto alcuni esempi. L’ambivalenza di Saturno trova le sue prove più evidenti nella doppiezza della rappresentazione figurativa di dio della terra e, al contempo, sovrano degli inferi3. Questa duplice possibilità saturnina permette di rintracciare, anche per la melanconia, una linea interpretativa della vita accanto a quella della morte. Con estrema evidenza la tradizione figurativa «ha dato espressione ai due aspetti della natura di Saturno, da un lato sotto la forma dell’imponente e benefico dio della terra, dall’altro sotto quella del distruttivo, ma insieme pacificatore, sovrano degli inferi»4. L’iconografia antica ha rappresentato l’ambivalenza del dio in due classi di raffigurazioni: la prima mostra il dio della terra in atteggiamento ieratico con gli occhi minacciosi, in piedi e con una falce in mano, simbolo della potenza; la seconda presenta il dio in posizione seduta con la testa 3 Cfr. R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturn and Melancholy. Studies in the History of Natural Philosophy Religion and Art, London, Thomas Nelson & Sons, 1964 (trad. it. di R. Federici, Saturno e la melanconia, Torino, Einaudi, 1983). La sovrapposizione tra Saturno e Crono ha intensificato gli elementi contraddittori della divinità: Crono «Da un lato era il dio benevolo dell’agricoltura, la cui festa del raccolto era celebrata insieme dai liberi e dagli schiavi, era il sovrano dell’età dell’oro […] dall’altro era il dio cupo, detronizzato e solitario […] da un lato era il padre degli dei e degli uomini, dall’altro il divoratore dei figli colui che mangiava carne viva» (Ivi, trad. it. p. 283). 4 Ivi (trad. it. p. 186).

Malinconia e immaginazione

207

reclinata, appoggiata sulla mano, simbolo della triste quiete della morte. Allo stesso modo due caratteristiche del pianeta si ritrovano impiegate a sostegno delle due tradizioni. Da una parte, la gravità, la pesantezza, l’asciuttezza e la freddezza di Saturno genera individui adatti al lavoro duro dei campi; dall’altro la sua posizione, il più lontano dei pianeti, genera gli individui più spirituali, più lontani dalla vita terrena, i religiosi contemplativi. Le tradizioni delle scienze naturali, dell’astrologia e della psicologia si intrecciano quindi nella composizione del tipo melanconico o di un temperamento, della melanconia patologica (fisica o psichica) o dello stato momentaneo dell’umore, dell’influenza astrale o del tipo di peccato, di un insieme di tratti fisiognomici o dell’espressione del genio, e considerano la malinconia, di volta in volta, come una potenzialità rigenerante o l’anticamera del suicidio. Nelle pagine di Caillois i due aspetti complementari della malinconia, o come l’aveva chiamata Walter Benjamin la dialettica tra cupo sprofondamento e luminosa salvezza5, sono raccontati e tenuti insieme dalla descrizione della bellezza di un minerale. In particolare, la descrizione del disegno di una lastra di agata fuori dal comune viene messa in relazione alla descrizione del capolavoro artistico che ha emblematicamente raffigurato la malinconia, quello düreriano. Un’agata tenuta fra le mani di Caillois viene descritta quasi copia conforme di un’altra pietra, tagliata dallo stesso geode (o forse la stessa?), che ha contemplato Albrecht Dürer prima della produzione dell’incisione Melencolia I (1514) (fig. 1). In una sorta di mise en abyme, fatta di descrizioni di agate reali e ipotetiche, vengono duplicati e riverberati gli effetti della bellezza del minerale. Lo stato malinconico, intimamente legato alle due rappresentazioni, naturale e artisitica, può essere rintracciato sia a un livello intradiegetico, nelle storie che vengono immaginate, che extradiegetico, cioè nella cornice della narrazione. Inoltre la malinconia nel testo può avere sia manifestazioni depressive, tipiche di chi sedotto dalle pietre si “mineralizza” (Caillois e Dürer nella si5 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1974 (trad. it. di F. Cuniberto, Il dramma barocco tedesco, con un’introduzione di G. Schiavoni, Torino, Einaudi, 1999). Cfr. in particolare il capitolo Dramma e tragedia, pp. 114-133.

208

Lo sguardo reciproco

Fig. 1. A. Dürer, Melencolia I, 1514.

tuazione che viene ipotizzata), che espressioni della forza creatrice dell’immaginazione (genealogia della Melencolia I per Dürer e ricreazione della lastra minerale, attraverso l’ékphrasis, per Caillois). Questa è la complessa finzione narrativa che Caillois racconta e

Malinconia e immaginazione

209

dalla quale fa scaturire riflessioni di natura estetica e teologica. La lezione morale sulla vanità dell’uomo e delle sue creazioni, conclusione che nasce da una contemplazione malinconica vista come presa di distanza dal mondo, viene inserita in una cornice narrativa fantastica dove sono contemporaneamente presenti e attivi tre elementi: 1) la bellezza incantatrice della pietra, come valore estetico in sé e determinato per differenza tra il valore del capolavoro dureriano e la descrizione cailloisiana; 2) la pesantezza della malinconia, erede diretta dell’acedia medievale, che viene qui intesa sia come effetto di “tristezza tenace” per l’osservatore dei disegni litici (Caillois o il lettore), che come tipologia saturnina dei personaggi rievocati a partire dalla contemplazione del minerale (Dürer del racconto cailloisiano e la donna ritratta nell’incisione Melencolia I); 3) e, infine, la forza dell’immaginazione creatrice della melanconia, ovviamente di Dürer-artista oltre che di Caillois-descrittore, il quale riesce a elaborare in questo caso addirittura una cornice narrativa per far convergere le descrizioni delle due opere d’arte, quelle della natura e dell’artista. Tutto si muove però, non va dimenticato, proprio a partire dalla devotio verso la natura minerale, che è il simbolo per eccellenza della pesantezza, stabilità, immobilità e insieme del “ritorno all’inorganico” attribuito alla forza distruttrice della malinconia, ma è altrettanto il simbolo dell’eternità e la base di partenza per gli interminabili giochi dell’immaginazione6. L’assimilazione alla natura del minerale (secondo un processo di mineralizzazione o pietrificazione immaginaria) è allora la tappa che precede il viaggio all’interno della pietra, come professava l’antichissima tradizione cinese7, o 6 Già Benjamin aveva scritto che: «Il recupero degli antichi simboli della melanconia, documentato da questa incisione e dalla speculazione contemporanea, ne ha probabilmente sorvolato uno, che sembra essere sfuggito all’attenzione di Giehlow e di altri studiosi. Si tratta della pietra. Il suo posto nell’inventario dei simboli è sicuro» (Ivi, trad. it. p. 129). Alle caratteristiche della massa inerte della pietra corrisponde per Benjamin il peccato mortale dell’acedia, della pigrizia del cuore. 7 R. Caillois esplora la dimensione del viaggio all’interno delle pietre soprattutto in Pierres, nella sezione Metafisica. Come nella tradizione cinese il viaggio mistico dentro le cavità delle pietre diventa un modo di fare un viaggio dell’anima e di sentire l’eterno: «Si pensa che lo spirito, liberatosi dal corpo, percorra senza sforzo e quasi istantaneamente i diversi mondi naturali e soprannaturali, prima di ritornare nel suo involucro carnale. Esso si muove con facilità tra i nove piani dei Cieli e i nove piani degli Inferi che compongono i coni, orientati in senso opposto, di cui è fatto l’universo: l’infima e immensa natu-

210

Lo sguardo reciproco

che segue le “passeggiate dello sguardo”8 sulle superfici litiche alla ricerca di insoliti dettagli.

Incroci fantastici Il testo Nel solco di Saturno potrebbe tranquillamente essere classificato all’interno della finzione narrativa. In particolare potrebbe trattarsi sia di un conte philosophique, che di un racconto fantastico o semplicemente di una ékphrasis tra le molte presenti nei lapidari moderni di Caillois 9. Del fantastico possiede infatti tutti i principali requisiti. È una narrazione che si articola tra diversi livelli di realtà – realistica e immaginaria, presente e passata –; fa provare inquietudine ai personaggi e al lettore per una situazione irreale e misteriosa; mette in atto una tale quantità di meccanismi testuali che richiedono una particolare abilità per districarsi tra i diversi livelli di lettura; infine la conclusione lascia aperta la strada alle interpretazioni possibili del racconto. Del conte philosophique presenta invece la profonda riflessione su questioni critiche della società contemporanea, a partire da una situazione di racconto immaginario. Infine a differenza delle numerose descrizioni cailloisiane di minerali, il testo è facilmente identificabile all’interno di una unità narrativa in sé compiuta. Infatti è la prima delle tre lezioni “morali”10 che Caillois ricava dall’osservazione delle tenebre del mondo minerale e ha un titolo assai significativo che conferisce ulteriore unitarietà al testo: D’après Saturne11. È proprio sotto l’influenza di Saturno, astro mara nella quale vivono gli uomini ordinari costituisce il luogo, minuscolo, in cui si congiungono le punte dei due coni […]. Solo gli Immortali sono capaci di compiere scorribande del genere. Ma forse conviene rovesciare la formula: solo chi sperimenta simili stati di pienezza, chi sogna di effettuare simili viaggi, può avere un presentimento dell’Immortalità» (R. Caillois, Pierres, Paris, Gallimard, 1960, trad. it. cit., p. 52). 8 D. Diderot, Salons de 1767, 39. Vernet, Paris, pp. 98-148, citaz. p. 105: «Arrêtés là, je promenai mes regards autour de moi, et j’éprouvai un plaisir accompagné de frémissement». 9 Mi permetto di rinviare al mio Lapidari moderni, in R. Caillois, Malversazioni, Roma, Meltemi, 2003, pp. 37-57. 10 Le altre due parti del volume sono: Arc-en-ciel pour la Melencolia (Arcobaleno per Melencolia) e La Sécheresse (L’aridità). 11 Va ricordata la similarità con un altro testo della letteratura francese dedicato al-

Malinconia e immaginazione

211

linconico e ambivalente, idolo dei contemplativi e simbolo della staticità, che si svolgono le due storie intrecciate della narrazione. La prima realistica, del presente, contemporanea al momento dell’enunciazione del racconto, viene espressa in prima persona. Caillois descrive una lastra di minerale della sua collezione, un’agata insolita dove si distinguono, contrariamente a quanto avviene nella regolarità dei cerchi concentrici della varietà minerale, un centro diviso in due parti e con due elementi isolati: nella parte superiore un cerchio e in quella inferiore un poliedro: A un primo sguardo non distinguo che una piastra circolare, tagliata nel diametro del nodulo, divisa in metà approssimative, di toni opposti. La parte in alto, d’un chiaro dominante: un cielo. Nella zona inferiore, innanzitutto, una spessa striscia nero-carbone, come la china di uno sterro, che si sprofonda in una distesa d’acqua dormiente, crepuscolare. Vi si possono percepire oggetti confusi, seminterrati: una di quelle pozzanghere, come se ne trovano spesso nelle discariche delle periferie urbane12.

La prima storia, realistica, serve da cornice alla seconda, immaginata semplicemente a partire da alcuni dati reali, dove si racconta la genesi della composizione di Melencolia I, il capolavoro dureriano. L’effetto di reale che deriva dalla prima descrizione moltiplicherà l’effetto di fantastico della seconda, per sola differenza. L’intero procedimento narrativo, inoltre, risulterà assai più verosimile proprio perché racconta di un episodio immaginario ma già avvenuto. La seconda storia infatti, inserita nella prima con un cambiamento di spazio, tempo e enunciatore, racconta, in terza persona, la genealogia dell’incisione di Dürer, ipotizzata da Caillois. È il racconto di un viaggio in Renania nell’autunno del 1514, «il viagla malinconia: si tratta di D’après Dürer, novella di Marguerite Yourcenar pubblicata da Grasset nel 1934, prima di confluire nella sua L’Œuvre au noir (Paris, Gallimard, 1968; trad. it. di M. Mongardo, L’opera al nero, Milano, Feltrinelli, 1969). Come si legge nella nota dell’autore in relazione alla scelta del titolo: «D’après Dürer era stato scelto in considerazione dell’illustre Melancholia nella quale un personaggio tenebroso che è senza dubbio il genio umano, medita amaramente circondato dai suoi strumenti, ma un lettore di spirito letterale mi fece notare che la storia di Zenone era più fiamminga che tedesca […] Il presente titolo si ispira a una formula che gli alchimisti francesi traducono così dal latino o dal greco». Sulla relazione tra alchimia e arte e per un’interpretazione sostanzialmente alchemica della incisione dureriana si veda anche M. Calvesi, La Melanconia di Albrecht Dürer, Torino, Einaudi, 1993. 12 R. Caillois, D’après Saturne, cit. (trad. it. p. 51).

212

Lo sguardo reciproco

gio che tenne nascosto e di cui non parlano i suoi biografi», durante il quale il pittore tedesco avrebbe acquistato una pietra dei famosi giacimenti di Idar Oberstein. Anche la pietra, oltre al luogo, conferisce al racconto un tono di incertezza, un’inquietudine spaesante. Infatti, si legge nel testo, la pietra acquistata da Dürer è forse la stessa di quella posseduta e contemplata da Caillois nella prima descrizione: Albrecht Dürer acquistò questa pietra, o meglio una pietra quasi identica (perché i disegni dell’agata si trasformano nello spessore della trasparenza con una rapidità sorprendente)13.

Si tratta dei primi cortocircuiti della narrazione, dei punti di contatto tra livelli diversi, tipici del racconto fantastico, che confondono il lettore intento a seguire il lineare svolgimento dell’asse narrativo. Le immagini della pietra a lungo contemplata quella sera nella locanda dove Dürer si ferma per la notte si sommano alle immagini della locandiera, del suo cane e di altri oggetti, per prepararsi a diventare le figure che sovraccaricheranno la nota incisione. Ma a determinare il particolare momento creativo sono la morte di Martin Schongauer, maestro mai incontrato, la lettura del Libro del sapiente di Charles de Bouëlle sul sentimento proprio dei religiosi e le riflessioni sul valore della pittura rispetto alla bellezza della natura: tutte esperienze che avevano preceduto di ore o anni l’acquisto della pietra. Eventi che già prima della partenza lo avevano indotto a «dubitare del proprio talento e addirittura a riflettere sulla legittimità della pittura»14 ma che sarebbero ritornati alla memoria proprio quella sera. Un sentimento malinconico, una cupezza (morosité) infinita, data dalla singolare coincidenza di questi fattori, pervase Dürer al momento della contemplazione della pietra, quella sera nella locanda. Le riflessioni sulla vanità della scienza e dell’arte gli provocarono una «tristezza colpevole». L’acedia, sentimento che accompagna i contemplativi e che, a lungo andare, «rende simili alle pietre», aveva avuto origine in questa occasione proprio dalla contemplazione di una pietra. Dürer osservò la lastra alla fiamma di 13 14

Ivi, (trad. it. p. 52). Ivi (trad. it. p. 53).

Malinconia e immaginazione

213

una candela e notò subito i due elementi: Notò subito l’astro nero che stava sorgendo (o tramontava) nella sua magnificenza d’asfalto o di fuliggine […]. Nella parte inferiore Dürer notò pure l’inopportuno poliedro. Ne aveva disegnati molti per i suoi studi di prospettiva o per decomporre le figure in elementi semplici e rettilinei15.

Stanco di dover rappresentare gli stessi soggetti religiosi o naturalistici Dürer si fermò a riflettere sul fatto che forse la pittura è, secondo quanto avrebbe sostenuto Pascal, solo una copia imperfetta della natura e che forse a quest’ultima bisognerebbe invece rivolgere direttamente lo sguardo16. I due elementi della pietra lo indussero in uno stato di profonda tristezza e di colpevolezza: Il sole di pece e il solido rigorosamente poligonale l’avevano rapito. Ora lo costernavano. Una malinconia infinita, senza oggetto, metafisica, coinvolse anche lui. Divenne preda dell’universale cui prodest? Il sentimento della vanità della scienza, dell’arte, del piacere gli diede la nausea. Di colpo si sentì vittima dell’ottavo peccato capitale, la “tristezza colpevole”, che fa sì che si perda ogni interesse per la Creazione o per ciò che può accadere all’universo e a se stessi, quell’acedia di cui la frase di Bouëlle gli aveva insegnato che al suo grado estremo, essa rende l’uomo identico alle pietre. Ed ecco: era la contemplazione di una pietra a instillarla in lui17.

Osservando la locandiera seduta, con la testa appoggiata sulla mano, Dürer ritrovò l’immagine esatta (image juste)18 della massima prostrazione e indifferenza, del tedio e dello scoramento. La creatività dell’artista le tracciò attorno grandi ali d’angelo e la circondò di un’aura nera, le tenebre che aveva letto nella pietra a lungo osservata. Nella sua fantasia vi aggiunse anche il cane, lì presente, e una serie di oggetti-simboli – la clessidra, la campana, la scala, il quadrato magico, un bambino – che avrebbero costituito il mistero della sua incisione. 15

Ivi (trad. it. p. 55). Anche in questo caso il riferimento a Pascal, filosofo francese che vivrà almeno un secolo dopo il pittore tedesco, dichiara un’intromissione di Caillois nel racconto dei pensieri di Dürer. Altro cortocircuito tipico del racconto fantastico. 17 Ivi (trad. it. pp. 55-56). 18 Cfr. in Approches de la poésie (Paris, Gallimard, 1978) la ricerca, cara a Caillois, della imagination e della image juste che risponde contemporaneamente ai criteri dell’esattezza e della sopresa e che attraverso l’enigma cela il mistero. 16

214

Lo sguardo reciproco

Incise l’immagine molto tempo dopo, nonostante la consapevolezza della vanità dell’arte, raggiunta ormai nella maturità del suo percorso artistico. Vi aggiunse anche uno stendardo con il titolo dell’opera: Melencolia I, a indicarne un seguito. Ma le tre lastre sugli altri temperamenti non furono mai incise, quasi che questa potesse, da sola, essere anticipatrice di ogni possibile vano sforzo: «fu come se il volto accasciato di una serva malconcia esprimesse da solo la totalità di una lucida e lugubre Annunciazione»19. Il titolo che aggiunse a completamento dell’opera avrebbe dovuto chiarirne le intenzioni. L’iscrizione sullo striscione portato in volo da un pipistrello, Melencolia I, si presenta come la più lugubre annunciazione: tutto ritornerà a essere pietra, tenebra, oscurità. L’immagine risultante fu talmente forte che Dürer non incise neanche le altre tavole sugli altri tre temperamenti, quasi che la complessità di questo riuscisse a saturare il senso ultimo delle cose20. Dürer smarrì o ruppe la lastra. L’astro e il poliedro, che aveva inizialmente notato sulla lastra, erano stati alla fine completamente stravolti nell’incisione: Dürer aveva modificato entrambi al punto da renderli irriconoscibili. L’astro gelatinoso, ridotto a un punto incandescente, al di là della luce e dell’oscurità, esplodeva ora su di un mare tranquillo. Questo mare riempiva il cielo di una moltitudine di oscuri fasci che diluivano il chiarore. Quanto al poliedro, la cui complessità era aumentata con il volume, esponeva ormai due vasti pentagoni irregolari e ne lasciava indovinare un terzo21.

Ovviamente il confronto tra le varie fasi del progetto dell’incisione nella mente di Dürer e l’opera realizzata dall’artista può essere fatto da Caillois solo a partire dall’immagine di Melencolia I conservata nella propria memoria e quindi in base a una personale 19

R. Caillois, D’après Saturne, cit. (trad. it. p. 57). Secondo H. Focillon ciò che manca alla complessità dell’incisione di Dürer è proprio il senso dell’infinito, dell’incompletezza. Tutto è troppo presente tanto da essere pietrificato: «Questo magnifico intellettuale compone il mondo delle forme e il mondo delle idee, la tecnica dello strumento e la tecnica della ragione: ma gli manca quella vaga magia che nel finito evoca l’infinito. “Suggerire” dice un filosofo orientale “è il segreto dell’infinità”. Tutto è giusto, tutto è nobile e bello in questa immagine del mondo e dell’uomo, e tutto è pietrificato» H. Focillon, Albrecht Dürer, «Revue d’Allemagne», 1928 (trad. it. di G. Guglielmi, Albrecht Dürer, Milano, Abscondita, 2004, p. 56). 21 Ivi (trad. it. p. 58). 20

Malinconia e immaginazione

215

descrizione dell’opera. Ma anche qualsiasi dettaglio delle due storie (e come dimostrerò successivamente anche delle due descrizioni) è frutto di un confronto ipotetico tra le due immagini riconosciute da Caillois sull’agata, le due figure osservate nella pietra da un ipotetico Dürer in un viaggio altrettanto immaginario nella finzione della scena nella locanda, e la conoscenza del capolavoro dureriano. Le due storie vengono inverate e collegate grazie alla descrizione – solo a frammenti e per confronto – di Melencolia I che viene utilizzata come precomprensione tra autore e lettore, indispensabile alla struttura dell’intera narrazione. Dopo il racconto del viaggio in Renania e la dinamizzazione del processo creativo di Melencolia I la narrazione ritorna al tempo dell’enunciazione iniziale ma mantiene la terza persona (come già nella seconda storia), questa volta però per sostenere il tono elevato delle riflessioni conclusive. Nella terza parte le due storie vengono esplicitamente intrecciate attraverso un confronto che non utilizza più lo strumento dell’ékphrasis – dell’incisione di Dürer e della pietra di Caillois, capolavoro dell’uomo e capolavoro della natura. Caillois rintraccia a un livello più profondo le omologie fra le due storie22. Viene dimostrata quindi un’omologia strutturale, che assimila i procedimenti utilizzati, perché entrambe le pietre vengono osservate e contemplate a lungo, azione che permette alla fine, in entrambi i casi, di rintracciarvi un disegno che unisca il sole e il poliedro. Ma si ritrova anche un’omologia poetologica perché le due storie realizzano con strumenti differenti – la scrittura letteraria e l’arte pittorica – la rappresentazione di un campione eccezionale di minerale. E ancora vi si riscontra un’omologia tematica perché le due minaccesperanze – il maggiore valore della bellezza della natura rispetto all’arte e la pietrificazione come effetto della contemplazione – si ritrovano nella storia di Caillois e di Dürer, anche se con valorizzazioni opposte. Nelle conclusioni cailloisiane la Melencolia I di Dürer ha soltanto prolungato un incontro di due elementi, il sole e il poliedro, che si erano già incontrati in natura ma che «nulla aveva destinato a 22 Sulla relazione tra letteratura e arti figurative e in particolare sulle omologie tra visuale e testuale e sulle modalità di ékphrasis si veda: M. Cometa, Letteratura e arti figurative: un catalogo, in «Contemporanea», 3 (2005), pp. 15-29.

216

Lo sguardo reciproco

esprimere qualcosa»23. Dürer aveva trovato una chiave di lettura, un senso ai due elementi isolati che avevano comunque provocato (a Dürer) e hanno continuato a provocare (a Caillois) una cupezza e una tristezza infinita. Siamo di fronte all’ennesima testimonianza, ricorrente nella riflessione cailloisiana, dello stretto legame che lega la materia inerte, la libertà e l’immaginazione, e cioè del prolungamento dell’immaginazione dell’uomo in quella della natura: Esiste una segreta parentela tra i ciechi percorsi della materia inerte e i percorsi della libertà e dell’immaginazione. Gli uni e gli altri utilizzano dei sentieri analoghi, benché indefinitamente più delicati, tosto infinitamente sofisticati24.

Soltanto che la durata delle opere dell’uomo comparata a quella delle età geologiche è poca cosa. Esse hanno durata infinitesimale e potenzialità ristrette. Lo sforzo artistico dell’uomo è niente al confronto con la forza eterna della natura, dotata anch’essa dei suoi disegni, della sua arte, del suo progetto estetico. Anche la massima espressione artistica della melanconia di tutti i tempi, il capolavoro di Dürer, non è sufficiente a rappresentare per l’eternità la tristezza colpevole e contemplativa, che la pietra aveva invece anticipato nel suo disegno millenario e che durerà molto più a lungo di qualsiasi opera d’arte. Impegnandosi nella sua opera l’artista tedesco inoltre aveva sottovalutato la lugubre annunciazione evocata dal disegno dell’agata. Le tenebre ritorneranno a governare indisturbate quando sulla terra rimmarranno soltanto le «pietre immortali», quando l’assenza della parola e dell’immagine – prodotte dall’uomo – lasceranno il posto alla sola presenza del «silenzioso monopolio» del minerale. In effetti la specie umana disparve dal pianeta anche più rapidamente di come vi si era installata. Nessun miracolo (del resto, a chi destinato?) salvò i gabinetti delle stampe, la storia dell’arte, il nome di Albrecht Dürer. Lepri e rinoceronti, reali o raffigurati, subirono analoga sorte. La vegetazione (le graminacee) fu, a sua volta, eliminata da un asteroide privo di clorofilla. Come all’inizio, non esisteva più che un deserto di pietre immortali: tra esse, suppongo, un nodulo d’agata, che nella sua densa tra23 24

R. Caillois, D’après Saturne, cit. (trad. it. p. 58). Ibidem.

Malinconia e immaginazione

217

sparenza, come figure d’un vano blasone, recava un sole alla rovescia e un poliedro sperduto25.

Diversamente dal presente dell’enunciazione – tempo della scrittura e del confronto tra le due descrizioni – e dal passato – tempo dell’arte e della produzione della genealogia dell’opera d’arte –, nella prospettiva futura – che è anche una sorta di tempo ciclico, tempo dell’eternità della natura – Caillois profetizza l’assenza della parola e dell’immagine prodotte dall’uomo e la sola presenza del «silenzioso monopolio» del minerale.

La costrizione naturale delle arti sorelle Nel solco di Saturno potrebbe essere letto anche come un testo composto sostanzialmente dalla giustapposizione di due descrizioni e da un confronto finale circa il loro valore artistico. Difatti oltre al complesso gioco dei livelli narrativi che determina l’intreccio della narrazione, il testo può essere analizzato attraverso la comparazione delle modalità utilizzate nelle due descrizioni. Innanzitutto va sottolineato che l’intera narrazione potrebbe essere considerata una finzione al servizio dell’ékphrasis e non viceversa. Le due descrizioni non costituiscono delle pause all’interno del racconto ma formano la parte più consistente del testo. La loro successione e il relativo confronto sostengono la struttura dell’intera narrazione, oltre a dare la possibilità di esporre una varietà di modalità descrittive. Sembrerebbe infatti di ritrovarsi di fronte alla descrizione della stessa lastra minerale in due momenti, intervallati da quattro secoli. Ma in realtà ci troviamo davanti alla risemantizzazione di un ipotetico stesso oggetto, compiuta con modalità assai diverse. Si tratta di due descrizioni molto particolari. Mentre nel primo caso a essere descritta è una lastra d’agata, un oggetto naturale che, ammirato per la sua bellezza, assume un eccezionale valore in quanto fonte di un capolavoro dell’arte di tutti i tempi; nel secondo caso ci troviamo di fronte alla ricostruzione fantastica dei fattori che nella mente dell’artista avrebbero permesso la produzione dell’incisione più famosa di Dürer. 25

Ivi (trad. it. p. 59).

218

Lo sguardo reciproco

Si potrebbe parlare quindi di una prima ékphrasis “naturale”, mimetica ma non artistica, nel caso della descrizione della lastra del minerale nelle mani di Caillois e di una seconda ékphrasis nozionale, quando Caillois descrive un ipotetico processo generativo dell’opera d’arte nella mente dell’artista, che proviene dalla somma di immagini di diversa natura (una variante della descrizione classica dello scudo d’Achille). A queste due ne va aggiunta senz’altro una terza, l’ékphrasis mimetica di un’opera d’arte (Caillois che descrive a sua memoria Melencolia I), la quale permette la lettura degli incroci tra i due livelli narrativi. Non si può comprendere la descrizione dell’agata di Caillois senza avere negli occhi l’esito ultimo del confronto, l’incisione düreriana. Altrettanto si deve fare con la descrizione della genealogia iconografica di Melencolia I: sarebbe stato impossibile inventarla e scriverla senza conoscere il capolavoro di Dürer e sarebbe altrettanto incomprensibile per il lettore percepire il valore dei singoli dettagli senza la conoscenza delle numerose interpretazioni dell’incisione. L’ékphrasis dell’opera di Dürer non è mai esplicitata per intero in un unico tempo e livello della narrazione, ma viene prevista sia dalla prima descrizione (come passato di un tempo presente dell’enunciazione) che dalla seconda (come futuro di un tempo passato, proprio del racconto intradiegetico). A fare da tramite tra le due descrizioni vi è però un altro elemento fondamentale. Il vincolo narrativo delle due pietre è costituito dal fatto che esse sono forse addirittura una, o semplicemente due lamine un tempo adiacenti e quindi con disegni assai simili perché estratte dallo stesso geode. I due vincoli, artistico (Melencolia I) e naturale (stessa pietra), sono ugualmente assenti nella realtà raccontata: non esiste (se non nella memoria dello scrittore) una riproduzione del capolavoro dureriano al momento dell’enunciazione della prima o della seconda ékphrasis, tanto che il confronto può farsi solo in absentia; così come non può essere confermata la similarità delle due pietre data la perdita della seconda. I due vincoli però sono allo stesso tempo tramiti, perché permettono di intrecciare i livelli narrativi e legittimare la similarità delle due descrizioni. Essi esistono soltanto nell’immaginazione, nella mente dello scrittore. Il tertium comparationis, la descrizione

Malinconia e immaginazione

219

di Melencolia I, si dà per differenza tra le due descrizioni del testo, mentre la comune origine delle due pietre può essere soltanto postulata visto che la mancata conservazione dell’oggetto non permette di ricongiungere i due momenti temporali. Le figure che, al contrario, in præsentia permettono di comparare le due descrizioni sono invece quelle che si scorgono sulla lastra nelle mani di Caillois, su quella fantastica di Dürer, e che vengono rintracciati anche in Melencolia I. Si tratta del sole nero e del poliedro, i due elementi anomali dell’agata, divenuti emblemi della cupezza e della tristezza malinconica. Ma se si osservano attentamente le due descrizioni si potranno analizzare le diverse modalità utilizzate. Nel primo caso a partire dalla contemplazione del disegno del minerale i dettagli insoliti giungono a un chiarimento. Dalla descrizione iniziale di elementi isolati la reiterata osservazione produce le prime analogie con elementi figurativi del mondo. Dapprima soltanto “un” cielo e “una” striscia nero-carbone nella parte superiore e inferiore della pietra. Immediatamente dopo i segni tracciati sulla pietra vengono associati a elementi della natura: il cielo, il sole, la nube, le gocce nere e poi la pozzanghera. A queste si aggiunge il cubo isolato, figura geometrica e non naturale ma, come si dirà successivamente, alla base di ogni elemento sia della filosofia che dell’arte. Alle prime figure vengono subito ancorate le esperienze sensibili che vi si possono collegare, visive e tattili. All’integrazione sinestetica della prima descrizione seguono le analogie con altre figure o con altre esperienze assimilabili per comunicare più facilmente la sensazione provata in quel preciso momento dell’osservazione: Il cielo (perché ho detto: un cielo) è occupato da scuri brandelli, tracce d’un temporale ormai sul punto di dileguare. Questi brandelli inquadrano una immensa nube leggera, spugnosa, quasi alveolata, alla deriva al di sopra di una scarpata fuligginosa. Un sole nero come l’inchiostro, ha finito per separarsi dalla tetraggine. Più inzaccherato che radioso, disseminato di acheni a paracadute, come il pappo piumoso del piscialletto che una giovane donna continua a disperdere ai quattro venti da più di cent’anni sulla prima pagina dei dizionari francesi più in uso. In questo caso: un getto reticente di goccioline nere. Inabissato nell’acqua grigia, tra sparsi frantumi e cordicelle penzolanti, appare un cubo, blu-acciaio sulla sua faccia in ombra, sfavillante sulle

220

Lo sguardo reciproco

altre facce: aggressivo, rettilineo, completo, imprevedibile nell’agata, in cui ogni cristallo perfetto contraddice la massa omogenea26.

Ma la contemplazione getta in uno stato d’animo molto preciso, una tristezza tenace (morosité): un misto di spaesamento, sogno e angoscia, sensazione vissuta e mistero che chiedono di proseguire nella ricerca. La richiesta è sia della mente che del corpo, «qualcosa di cerebrale e vissuto al contempo»27. La chiave che risolve l’enigma va rintracciata nella immaginazione dell’osservatore. La sua descrizione è la sua interpretazione. Nonostante da questi segni e colori lapidei nasca un’originale narrazione fantastica che tenti di spiegare la genealogia di Melencolia I e che cerchi più o meno velatamente di realizzare una certa identificazione tra Dürer e Caillois – artisti del disegno e della parola –, e quindi una delimitazione degli ambiti della pittura e della scrittura a partire dalla costrizione della bellezza naturale, la duplice descrizione della pietra, extradiegetica e intradiegetica, intrecciata da Caillois, rivela anche paure, angosce, minacce, sogni, fantasticherie, misteri e tenebre di se stesso. Come Caillois dirà altre volte, l’interpretazione ci racconta sempre più qualcosa dell’interpretante che non dell’interpretato. Non va dimenticato infatti che la cornice narrativa nasce dalla situazione personale: osservazione diretta di una pietra della propria collezione. Da questa esperienza improntata allo stupore, al mistero, al sogno e all’angoscia inizia quell’indagine alla ricerca di un senso perduto che Caillois aveva già intrapreso rifugiandosi nel silenzio dei minerali negli ultimi anni della sua vita. Il viaggio a ritroso arriva fino al 1514, anno di un viaggio misterioso di Dürer, anno in cui l’artista acquista un’agata pare identica alla pietra che ha in mano lo scrittore francese. Anche Dürer, come Caillois, è impegnato, dopo le opere della maturità, in una riflessione sul suo operato, sul valore della pittura e sul confronto con la bellezza naturale28. Le situazioni personali sembrano identi26

Ivi (trad. it. pp. 51-52). Ivi (trad. it. p. 52). 28 H. Focillon spiega così il percorso travagliato dell’artista tedesco che viene esemplificato nell’incisione più famosa: «Alla fine della sua vita Dürer crede di avere risolto l’antinomia fra oggetto e segno, tra la vita che scorre e la stabilità della ragione. Ma quattordici anni prima, ne dubitava ancora e l’espressione che ha dato alla sua in27

Malinconia e immaginazione

221

che seppur nelle differenti epoche e arti professate. Quando Caillois racconta le ipotetiche ansietà di Dürer parla di se stesso. Stesse preoccupazioni di fronte alla vanità dell’arte e della scienza, stesso dubbio sul proprio talento e sulla propria arte, stessa ammirazione per le pietre, stesso stato d’animo (se non addirittura temperamento) melanconico. L’analogia fra le due situazioni autorizza a pensare che un elemento dell’uno possa essere proiettato anche sull’altro. Quando Caillois descrive, per esempio, la pietra acquistata da Dürer e dichiara che è identica alla sua è chiaro che tutte le qualità della seconda descrizione vengono trasferite alla prima, sia quelle dell’oggetto che del soggetto: Alla fine un operaio gli mostrò la pietra che io ho descritto testé (una piastra parallela ch’egli aveva ricavato dallo stesso ovolo): l’aveva polita con amore e la conservava da molto tempo. Non aveva mai consentito a disfarsene. Dürer era testardo. Era la prima agata, di questa dimensione e con uno scenario così complesso, che avesse mai avuto tra le mani. Il suo interlocutore lo assicurava trattarsi di una pietra da collezione, non ne avrebbe vista in tutta la sua vita un’altra simile29.

Dürer viene attratto dalla pietra perché ha un disegno complesso che va indagato e osservato con calma per questo si ferma la notte nella locanda. Il primo elemento che emerge agli occhi dell’artista è un astro nero, un sole alla rovescia dal quale emanano le tenebre. Le figure che l’artista vi ritrova come ispirazione per le opere future assumono un colore cupo. Osservando la pietra sognava di raffigurare ancora «volti, personaggi, oggetti dipinti»30. Ma l’elenco si colora subito d’una tinta tenebrosa: tutte le figure immaginate possono essere rappresentate solo se nell’ombra. L’oscurità le avrebbe protette, non cancellate alla vista, anzi le avrebbe rese più visibili, più chiare, perché la luce degli oggetti è interna: In effetti non ne sarebbero stati raggiunti che sul lato che fronteggia la fonte della notte. Neppure l’altro lato indubbiamente sarebbe stato illuminato, poiché non sarebbero esistite fonti di luce. Tuttavia esseri e cose sarebbero rimasti più visibili, più chiari. Avrebbero conservato almeno quietudine ci tocca più profondamente della sua serenità di teorico» H. Focillon, Albrecht Dürer, cit. (trad. it. p. 44). 29 R. Caillois, D’après Saturne, cit. (trad. it. pp. 53-54). 30 Ivi (trad. it. p. 54).

222

Lo sguardo reciproco

qualche interiore sfavillio, non ancora spento dal riverberarsi dell’oscurità delle tenebre31.

Nella parte inferiore della pietra Dürer nota un poliedro. La sua immediata attrazione verso la figura geometrica, nonostante le innumerevoli figure disegnate nei suoi studi di prospettiva, lo convince che aveva ormai raggiunto una tappa importante del suo percorso artistico: Era stanco di incidere vite di Madonne, di dipingere apostoli, evangelisti, imperatori, di disegnare graminacee e lepri. S’era dedicato invano alle Apocalissi e aveva (o avrebbe) tentato di raffigurare, secondo le descrizioni udite, un rinoceronte più corazzato d’un condottiero in assetto da combattimento. Le nature morte lo ripugnavano32.

L’elenco delle figure che non avrebbe più amato rappresentare e quello degli oggetti rappresentabili che aveva scorto nell’agata, con gli occhi acuti dell’incisore dove «tutti i dettagli persistono», gli indicano la nuova strada. L’oscurità del sole nero e la geometria del poliedro lo avevano catturato e al tempo stesso lo avevano inondato di uno stato malinconico. Le tenebre e lo spirito dei contemplativi, filosofi o artisti, diventarono le sue nuove mete professionali ma anche la qualità preponderante del suo nuovo stato d’animo. E tutto questo proveniva dalla contemplazione di una pietra. La stessa identica melanconia che ha attratto Caillois alle prese con il mistero tenebroso dell’agata. La genesi dell’incisione ipotizzata da Caillois sembra una forma particolare di ecfrasi occulta33, un’immagine nota (e artistica) nascosta nella descrizione di una seconda immagine (naturale). Ma a questa modalità ecfrastica si aggiunge uno svelamento per gradi. Le due descrizioni sembrano anticipare lentamente alcuni elementi che verranno drammatizzati soltanto nella descrizione di Melencolia I, quadro nascosto delle due descrizioni e rivelato soltanto alla fine della narrazione. Alle descrizioni delle due pietre, reale e immaginaria, di Caillois e di Dürer, entrambe dettate dallo spirito malinconico, si aggiun31

Ivi (trad. it. p. 55). Ibidem. 33 U. Eco, Les sèmaphores sous la pluie, ora in Sulla letteratura, Milano, Bompiani, 2002, pp. 191-214. 32

Malinconia e immaginazione

223

gono gli elementi della locanda, anche questi chiaramente sotto l’influenza di Saturno. Un altro elenco di oggetti e strumenti viene compilato questa volta nell’immaginazione dell’artista, mentre pensa a una nuova scena da incidere. Si tratta di un’altra ékphrasis nozionale, elaborata però secondo una «panoplia dello scoramento». Nel nuovo elenco, fatto «un po’ a caso», oltre alla locandiera, al cane34 e al pialletto «simbolo dell’inutile lavoro manuale» Dürer vi avrebbe aggiunto: La clessidra che misura il tempo irreparabile e annuncia la morte, la campana che chiama alle vane occupazioni e alle vane cerimonie, un compasso e delle bilance, a dare l’illusione della giustezza e della giustizia, una sfera e la sua sterile perfezione, una scala che non porta da nessuna parte, un quadrato magico costituito dai primi sedici numeri, ingegnosamente distribuiti perché fornissero in tutti i sensi la stessa somma assolutamente insignificante di 34; al centro, un bambinone sciocco, ilare, assorbito nel suo lavoro di disegnatore neofita, ignaro del vuoto saturo che lo circonda e che il suo zelo non potrebbe che sovraccaricare ulteriormente35.

Nella realizzazione della tavola Dürer inserirà due personaggi che si compensano e che simboleggiano i due temperamenti dell’artista, le due fasi della sua carriera. All’angelo «triste e visionario che ha perduto anche il gusto di compiere quanto ha cominciato, aggiunse un bambino alato, ingenuo avido»36, simbolo del rimpianto per l’antico ardore, prima della disillusione. Le due personificazioni teorica e pratica della melanconia che Klibansky, Panofsky e Saxl avevano riconosciuto nella rappresentazione düreriana37, diventano qui anche i simboli di due età dell’uomo, la giovinezza e la maturità. L’esibizione delle pratiche descrittive e la complessità dei procedimenti utilizzati, oltre all’intreccio narrativo già sdoppiato, sve34 Il cane è uno degli animali che per tradizione è associato alla milza, organo produttore della bile, e quindi alla melanconia. Come si legge in Benjamin (Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit.; trad. it. p. 127): «Se quest’organo, descritto come particolarmente delicato, si altera, il cane perderà la sua allegria e cadrà in preda alla rabbia. In questo senso il cane simboleggia l’aspetto oscuro del temperamento melanconico». 35 R. Caillois, D’après Saturne, cit. (trad. it. p. 56). 36 Ivi (trad. it. p. 57). 37 Cfr. in particolare R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturn and Melancholy, cit. (trad. it. pp. 297-349).

224

Lo sguardo reciproco

lano il punto di vista di Caillois su una questione teorica di grande importanza. Nel solco di Saturno mette in relazione due descrizioni ma anche due procedimenti artistici, uno legato alla parola, l’altro alla abilità artistica dell’incisione, facendoli nascere da oggetti ispiratori simili: due lastre di pietra adiacenti, tagliate dallo stesso geode. Le due lamine sono confinanti così come le due arti che le ispirano. Caillois inventa una finzione narrativa attorno ai procedimenti descrittivi per dimostrare, con la forza del racconto, che per rappresentare le immagini si possono utilizzare sia i tratti sulla carta che quelli sulla lastra di rame. La scrittura e la pittura possono ugualmente competere nella rappresentazione della bellezza della natura. Le due arti sorelle provengono addirittura da una genitrice millenaria di natura lapidea. La teoria dell’ut pictura poësis si trova così rinsaldata, qualora ce ne fosse bisogno, da un ulteriore esempio naturale.

Dalla pietra all’immaginazione L’interesse di Caillois è sempe stato principalmente il mistero. L’indagine sulla natura dei fatti sorprendenti, le eccezionalità dei regni animale, vegetale e minerale così come quelle dell’arte sono sempre state il centro e il motore della sua ricerca. In qualsiasi direzione questa si sia rivolta – antropologia, mitologia, sociologia, estetica – il tratto specifico rimane sempre la determinazione ad andare avanti nell’indagine, certi però che il segreto del mondo non potrà mai essere svelato: Sono attratto dal mistero. Non ch’io mi abbandoni con compiacimento alla seduzione della magia o alla poesia del meraviglioso. La verità è un’altra: non mi piace non capire, la qual cosa è molto diversa dall’aver caro ciò che si capisce, ma che tuttavia vi si avvicina in un punto molto preciso che è quello di trovarsi come calamitato dall’indecifrato. La somiglianza non va oltre. Infatti, invece di considerar subito l’indecifrato indecifrabile e rimanere dinanzi a lui affascinato e appagato, io lo considero, al contrario, come qualcosa da decifrare, con il fermo proposito di giungere in qualche modo, se possibile, a capo dell’enigma38. 38 R. Caillois, Au cœur du fantastique, Paris, Gallimard, 1965 (trad. it. di L. Guarino, Nel cuore del fantastico, Milano, Abscondita, 2004, p. 11).

Malinconia e immaginazione

225

La natura conserva il suo segreto indecifrabile e l’uomo non può fare a meno di ricercarlo. La consapevolezza dei limiti della specie umana di fronte all’onnipotenza della natura non impedisce a una mente rigorosa, come quella di Caillois, di individuare le strade giuste dell’indagine. I fatti singolari – come l’episodio dei fagioli saltatori all’epoca della sua adesione al surrealismo39 – sono le occasioni per scoprire la struttura del pensiero e l’armonia del cosmo; le immagini del poeta e dell’artista – nella sua teoria del fantastico40 – sono il percorso privilegiato in cui si può leggere un baluginio del mistero. Allo stesso modo gli esemplari della natura possono ostentare direttamente l’indecifrabile. Per esempio, l’inattesa eccezionalità di una pietra può diventare l’occasione per mostrare le convergenze che esistono tra mondo della natura e dell’arte, tra passato e futuro. Il tentativo di svelare la fantasmagoria di certe immagini induce Caillois a descrivere le pietre, come si rivela anche in altri suoi lapidari moderni. I due esemplari di calcare di Toscana descritti ne La scrittura delle pietre, uno raffigurante un viso, scomposto nei piani e nelle sezioni del movimento alla maniera delle avanguardie, e l’altro un castello con i suoi guardiani, che sembra scarabbocchiato da un bambino, erano stati già letti secondo un movimento composto di almeno tre fasi. A una prima descrizione dei segni tracciati sulla superficie della pietra segue un momento di dubbio, incertezza, incredulità che lascia spazio a una successiva e approfondita lettura dove i segni vengono riletti a una profondità simbolica ancora maggiore. Come è possibile che la natura crei delle immagini così simili alle sue creature, cioè si autorappresenti? Cosa induce la natura a produrre una simile fantasmagoria per abbagliare e confondere l’uomo? Sono questi gli interrogativi che hanno indotto Caillois a ipotizzare un progetto estetico della natura indipendente da quello umano, ovviamente inconoscibile per la specie più effimera dell’universo41. Anche nel caso di Nel solco di Saturno la descrizione parte dal39

R. Caillois, Cases d´un échiquier, Paris, Gallimard, 1970. R. Caillois, Au cœur du fantastique, cit. 41 Cfr. Méduse et Cie, Paris, Gallimard, 1960; Esthétique généralisée, Paris, Gallimard, 1962; Le Champ des signes, Paris, Hermann, 1978. 40

226

Lo sguardo reciproco

l’osservazione di anomalie che fanno l’eccezione di una pietra dalle forme ricorrenti. Le varianti nella regolarità dei disegni destano lo stupore del collezionista, ammaliato dalle ripetizioni ma ancora di più dalle sue singolarità. In un’agata dai cerchi concentrici e dai nastri di colore prevedibili ogni asimmetria risulta molto evidente: la mancanza della centralità del disegno non può passare inosservata. Gli elementi singolari saltano agli occhi ma trovano una loro ragion d’essere soltanto nella scrittura cailloisiana. La parola letteraria riempie gli spazi lasciati dai segni della pietra, tracciati nella profondità del minerale quando era ancora nel cuore della terra. I suoi disegni sarebbero continuati a esistere anche senza che nessuna interpretazione, nessuna lettura, nessuno sguardo umano si fosse posato su di essi. La casualità dell’estrazione e del taglio del minerale che produce un esemplare unico al mondo fanno della lastra un tesoro inestimabile. Il suo valore aumenta quando sulla superficie lo sguardo dell’uomo rintraccia immagini inusuali. Inizia allora, grazie a un procedimento di analogia, un percorso di identificazione dei segni, dei tratti e dei colori della pietra e un inevitabile collegamento dell’elemento variante all’invariante, dell’insolito al comune, secondo un percorso che si muove per ricondurre l’ignoto al noto. Il disegno sulla pietra sembra allora un paesaggio, un ritratto, assume forme del nostro mondo vissuto ma anche immaginato. Nelle figure litiche scorgiamo oggetti e persone che abitano la nostra vita quotidiana ma anche personaggi e miti che abitano la nostra fantasia. Fin qui niente che non avessero già fatto scienziati e filosofi come Athanasius Kircker o naturalisti e collezionisti come Ulisse Aldrovandi. O più recentemente scrittori come André Breton, Gaston Bachelard o Jurgis Baltrusaitis, al limite Caillois stesso42. Ma nel caso particolare di Nel solco di Saturno la contemplazione della bellezza del minerale diventa per Caillois non soltanto la scaturigine di affastellamenti di immagini ma l’origine di una narrazione assai complessa, l’occasione per una implicita teoria della descrizione e lo spunto per riflessioni morali. Caillois usa la forza del racconto, e del genere fantastico, per dire altro. A un livello molto elementare si potrebbe sostenere che l’esem42 Mi permetto di rinviare al mio Pietre figurate. Forme del fantastico e mondo minerale, Pisa, Edizioni Ets, 2004.

Malinconia e immaginazione

227

pio serve a rappresentare le metamorfosi della descrizione di uno stesso oggetto in base ai suoi cambiamenti d’uso, o ai suoi proprietari. La pietra viene descritta diversamente e quindi utilizzata in maniera differente a seconda del suo proprietario, del suo osservatore. Prima Dürer turista, poi Dürer artista, poi Caillois collezionista, poi Caillois conoscitore dell’arte e filosofo, mistico: ogni momento diverso ha la sua prospettiva diversa e compie proiezioni diverse sullo stesso oggetto. Pietra che diventa quindi anch’essa diversa: bellezza naturale, elemento ispiratore, capolavoro della natura, pietra di paragone senza confronto nelle conclusioni finali del racconto. Ma i due elementi della pietra, il sole e il poliedro, divengono i motivi centrali che attraversano diagonalmente il racconto. È un racconto che parla delle tenebre e della geometria, temi per eccellenza anche della melanconia. Le tenebre vi hanno un circuito preciso: dall’oscurità della pietra si trasmette un senso di tristezza all’uomo che diventa consapevolezza dell’enorme potere della natura e della materia inerte sulle specie effimere dell’universo, l’uomo su tutte. Ma il sole nero, l’ombra dell’agata indica anche una direzione alla riflessione, alla contemplazione che promette una trasformazione in minerale. La pietrificazione dell’uomo è una trasfigurazione che assimila i contemplativi alla specie più stabile e duratura dell’universo43. Le pietre vengono inoltre rappresentate nell’agata nella forma del poliedro, anche questo simbolo di stabilità e pesantezza ma anche espressione delle leggi geometriche che da sole reggono sia la filosofia che l’arte, massime espressioni dell’uomo. Riflettere sulla forma del poliedro significa quindi andare al fondamento ultimo del sapere dell’uomo. La malinconia che accomuna i due oggetti perché è tenebrosa e riflessiva a un tempo, viene anticipata da questi due elementi del minerale. La complessità che la scrittura e l’arte potranno creare attorno a questi due semplici figure verranno cancellate nel futuro dell’eternità. 43 La pietrificazione nelle metamorfosi di Ovidio, prima fra tutte quella di Orfeo, è soltanto una delle due possibilità che si danno nella rivelazione del fantasma lacaniano, di quell’incrocio tra il soggetto e il suo Altro o tra il soggetto e l’Altro. L’altra possibilità è la fuga. Si veda R. Galvagno, Le sacrifice du corps. Frayages du fantasme dans les Métamorphoses d’Ovide, Paris, Panormitis, 1995.

228

Lo sguardo reciproco

Caillois riesce a legare attraverso lo sdoppiamento del nodulo dell’agata una serie di figure doppie: sole e poliedro, descrizione della pietra di Caillois e di Dürer, arte della scrittura e della pittura, livelli narrativi, ambivalenza della melanconia. Infatti egli ritrova negli elementi isolati della pietra le fonti iconografiche di un capolavoro dell’arte di tutti i tempi, e allo stesso tempo della sua scrittura. I due livelli di narrazione, tanto più fantastica la seconda quanto più realistica la prima, si ritrovano accomunate da un identico stato d’animo malinconico. Le vicende personali sembrano accomunare lo scrittore francese e l’artista tedesco al punto da proiettare sul secondo le ansie e le minacce del primo. I protagonisti delle due storie, Caillois e Dürer, si ritrovano a dover affrontare una particolare situazione di vita ma soprattutto questioni teoriche analoghe. Il maggior grado della contemplazione è quello di diventare simili all’elemento del grado più basso dell’evoluzione naturale: il minerale? La più elevata espressione artistica coincide con l’annullamento di ogni attività? Lo scoramento che assale l’autore e il suo doppio, sconfina nell’eresia, nel peccato. La tristezza tenace che colloca Caillois e Dürer sotto l’influenza di Saturno sembra trasformarsi quasi in un disinteresse per la creazione, un distacco assoluto da tutto ciò che li circonda. L’ambivalenza tipica della malinconia permette di classificarla come il massimo peccato, l’acidia, e allo stesso tempo una sorta di «mistica materiale», di devotio per il mondo minerale, verso uno stato di assoluta originarietà, in una nostalgica tensione per un passato che diventerà presto anche il futuro, quando la specie umana non abiterà più il mondo ed esisteranno soltanto le pietre immortali, come all’origine di tutto. La malinconia in questa narrazione fantastica è rappresentata dunque con tutti i suoi attributi e sotto tutti i suoi aspetti. Diventa stato d’animo ma anche sintomo di un temperamento, periodo topico della vita, influenza delle stelle e peccato capitale, depressione e potenzialità generatrice, potenza distruttrice e genialità. Ma ciò che più conta è che ad aver instillato questo sentimento, questa inquietudine, questo irreversibile processo di mineralizzazione siano proprio le tenebre di una pietra. Un’agata accende il procedimento di mise en abyme della scrittura cailloisiana e insieme il processo di produzione dell’incisione düreriana. Oltre ad essere il

Malinconia e immaginazione

229

simbolo della involuzione e della depressione, se inteso come tenebra ineluttabile, il minerale diventa così emblema della costrizione e inizio del processo di creazione artistica, della scrittura e della pittura e, ovviamente, di quello autorappresentativo della natura.

Gradi di pietrificazione In Nel solco di Saturno (1978) Caillois porta a compimento un progetto che già ne I demoni meridiani (1936) aveva iniziato a comporre. L’analisi delle divinità che compaiono nell’ora più calda del giorno si completerà infatti alla fine della sua vita sotto l’egida di Saturno. Alla comparazione delle figure mitologiche e delle cause fisiche e psichiche della malattia, tentazione, stato d’animo, esigenza primitiva dell’uomo, in Nel solco di Saturno Caillois ritrova l’intimità della scrittura autobiografica. Così gli stessi temi che ritroviamo trattati rigorosamente nell’acedia greca e cristiana nel saggio giovanile ritornano in uno degli ultimi scritti con forti intonazioni morali e con intense riflessioni sul significato della vita. Il ritorno all’inorganico caratterizza sia l’apparizione dei demoni meridiani che lo stato depressivo del malinconico novecentesco. Già Freud aveva parlato della melanconia come espressione del ritorno all’inorganico, come esigenza della pulsione di morte a ritrovare uno stato originario e del non vivente44. Nell’Io scisso che si viene a formare in seguito alla perdita di un oggetto amato, assimilabile per questo alla condizione del lutto, la parte da amare viene conservata insieme alla parte da odiare. La malinconia, ci ha insegnato Freud, si mostra nella sua ambivalenza – tipica della relazione amorosa – per trasformarsi nella riprovazione morale di una parte del proprio Io sull’altra: (Il melanconico) ha perduto il rispetto di sé e certamente per un buon motivo. Ci troviamo comunque di fronte a una contraddizione che ci pone un enigma difficilmente risolvibile. L’analogia con il lutto ci induce a concludere che il melanconico ha subito una perdita che riguarda l’oggetto; da ciò che egli dichiara risulta invece una perdita che riguarda il suo Io. […]. Rendendoci conto che gli autorimproveri sono in realtà rimpro44 S. Freud, Jenseits des Lustprinzips, 1920 (trad. it. Al di là del principio del piacere, in Id., Opere, cit., vol. 9, pp. 187-258).

230

Lo sguardo reciproco

veri rivolti a un oggetto d’amore – e da questo poi distolti e riversati sull’Io del malato – abbiamo dunque in mano la chiave del quadro patologico della melanconia […]. In questo modo la perdita dell’oggetto si era trasformata in una perdita dell’Io, e il conflitto tra l’Io e la persona amata in un dissidio tra l’attività critica dell’Io e l’Io alterato dall’identificazione45.

Come “patologia del monismo” ed espressione dell’insita necessità del dualismo, la malinconia mostra tutta la forza depressiva, sintesi di gravità e inerzia, insieme alla creatività immaginativa nella scissione dell’Io46. Nel solco dell’interpretazione psicoanalitica di Freud della depressione melanconica, analizzata in comparazione con il lutto, si situa l’analisi del “sole nero” di Julia Kristeva. In opposizione alla presa di coscienza o all’elaborazione psicoanalitica dell’irrapresentabile, la studiosa francese considera la malinconia una sorta di rappresentazione impossibile della morte e del corpo femminile, affidata alla creazione artistica e letteraria47, catarsi dello spettacolo della morte: Questa rappresentazione letteraria (e religiosa) possiede un’efficacia reale ed immaginaria, giacché dipende più dalla catarsi che dall’elaborazione; essa è un mezzo terapeutico utilizzato da tutte le società nel corso dei secoli48.

La dimensione della creazione letteraria (e religiosa), sostiene Kristeva in perfetta armonia con l’ultimo scritto cailloisiano, costi45 S. Freud, Trauer und Melancolie (1915), «Internationale Zeitschrift für ärztliche Psychoanalyse», vol. IV (6) 1917, pp. 288-301 (trad. it. di R. Colorni, Lutto e melanconia, in Opere, cit., vol. VIII, pp. 102-118, citaz. pp. 106, 107, 108). 46 J. Pigeaud, Métaphore et mélancolie, in «Littérature, Médecine, Société», Università di Nantes, n. 10, 1989, ora in Y. Hersant, Mélancolies, cit., pp. 849-850: «La mélancolie implique la nécessaire urgence de sortir de soi; c’esta à dire de briser l’unité, le continuum. On pourrait dire qu’elle est la pathologie du monisme. Elle montre la nécessité du dualisme, c’est-à-dire de déchirer cette untié qui fait souffrir […] Pour lui (le mélancolique) il n’est plus de métaphore possible: on peut dire que pour lui la métapohore n’existe pas ou n’a pas de sens. C’est le monisme du malade, de l’être replié sur soi et souffrant de ce repli, ignorant la métaphore». 47 Secondo una rilettura lacaniana della melanconia l’unica possibilità di guarirne è la via della poesia, «un’etica della scrittura che è anche pratica amorosa» R. Galvagno, Le sacrifice du corps. Frayages du fantasme dans les Métamorphoses d’Ovide, Paris, Panormitis, 1995, p. 140 (trad. mia). 48 J. Kristeva, Soleil noir. Dépression et mélancolie, Paris, Gallimard, 1987 (trad. it. di A. Serra, Sole nero. Depressione e melanconia, Milano, Feltrinelli, 1989, p. 29).

Malinconia e immaginazione

231

tuisce allora l’unico livello in grado di salvarci dal non essere, dalla morte verso la quale ci conduce la depressione malinconica: Così se la pulsione di morte non si rappresenta nell’inconscio, occorrerà inventare un altro livello dell’apparato psichico nel quale – contemporaneamente al godimento – essa registri l’essere del suo non-essere? È appunto una produzione dell’Io scisso, costruzione di fantasma e di finzione – il registro dell’immaginario insomma, il registro della scrittura – che testimonia di quello iato, bianco o intervallo che è la morte per l’inconscio49.

La regione dell’immaginario è quella dove si situa il testo cailloisiano: ipotesi di una genealogia fantastica del capolavoro sulla melanconia. La dialettica tra le cose morte e la loro salvezza è sicuramente la cifra della lettura cailloisiana e prima ancora di quella benjaminiana che aveva ritrovato nella pietra il simbolo per eccellenza, ma spesso dimenticato, della melanconia. L’inerte massa minerale per Benjamin diventa allora il simbolo del freddo e dell’asciutto della terra, della gravità, dell’inerzia e della pigrizia del cuore. Tipico tratto dell’uomo saturnino è inoltre l’infedeltà verso gli uomini e la fedeltà verso gli oggetti: Alla sua infedeltà verso gli esseri umani fa riscontro una fedeltà verso questi oggetti a dir poco sommersa nella sua dedizione contemplativa50.

La malinconia, secondo Benjamin, lega il soggetto agli oggetti del suo mondo da dove il suo stato d’animo cerca di redimerli: La malinconia tradisce il mondo per amore della conoscenza. Ma il suo ostinato sprofondarsi solleva le cose morte nella sua contemplazione per salvarle51.

Anche i ciottoli, una delle manifestazioni del più vasto campo semantico del mondo minerale, che ritroviamo ne La nausea di Sartre – libro che a sua volta avrebbe dovuto intitolarsi Malinconia52 –, segnano il disgusto per la vita e la coscienza dell’esistenza fenomenologica delle cose. 49

Ivi, p. 30. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit. (trad. it. p. 131). 51 Ivi (trad. it. pp. 131-132). 52 Su consiglio di Gaston Gallimard Sartre cambiò il titolo originale del suo romanzo, pubblicato nel 1963. 50

232

Lo sguardo reciproco

Ma a differenza della nausea sartriana, per Caillois l’indifferenza non è verso il mondo intero è verso l’umano, come nel cortigiano barocco di Benjamin. Ci si allontana dagli uomini per avvicinarsi agli oggetti, alle cose, alle pietre. Anche Marguerite Yourcenar afferma che proprio la distanza dal mondo si trasforma nella vita di Caillois nell’amore per le pietre: Di fronte a questa umanità sentita più che mai precaria di fronte a questo mondo animale e vegetale di cui acceleriamo la distruzione, sembra che l’emozione e la devozione di Caillois oppongano un rifiuto; egli cerca una sostanza più durevole, un oggetto più puro. Lo trova nel popolo delle pietre53.

Allo stesso modo Caillois si racconta nella sua autobiografia utilizzando la metafora dell’inabissarsi del fiume Alfeo e del suo rinnovato zampillare della fonte Aretusa. La riscoperta della scrittura letteraria coincide con la passione per il mondo minerale. Come scrive Jean Starobinski negli ultimi decenni della sua vita, dopo la parentesi degli studi scientifici e rigorosi, Caillois riconquista il piacere della scrittura: La poesia non è più vietata. Un’acqua tardiva, una linfa lirica sale negli ultimi testi di Caillois. Questa fioritura, tuttavia non è senza contropartita: “Mi sono riconciliato con la scrittura solo quando ho cominciato a scrivere in pura perdita”. Saturno, sidus triste, impone ancora una volta la propria influenza. L’impossibilità del sapere assoluto autorizza la poesia, e allo stesso tempo la riempie di melanconia, poiché essa deve la propria nascita al ritrarsi della luce sperata. La poesia è il residuo notturno dell’avventura luciferina, la traccia della caduta dell’angelo portatore di chiarezza54.

L’ambivalenza della melanconia degli studi giovanili – tra resistenza e abbandono alla tentazione – diventa allora, nell’ultima fase della sua vita, sintomo di una insistenza accanita verso se stessi, quasi un’interminabile lotta di Sisifo contro le Sirene, come ha ben 53 M. Yourcenar, Discours de réception à l’Académie française et réponse de Jean d’Ormesson, Paris, Gallimard, 1981 (trad. it. di E. Giovannelli, L’uomo che amava le pietre, in Pellegrina e straniera, Torino, Einaudi, 1990, p. 190). 54 J. Starobinski, Saturne ou le ciel des pierres, Europe, n. 859-860, 2000 (trad. it. di C. Colangelo, Saturno nel cielo delle pietre, in Roger Caillois, Riga n. 23, Marcos y Marcos, 2004, p. 183).

Malinconia e immaginazione

233

interpretato Tomaso Cavallo, mescolando la tensione morale al piacere estetico: La Melencholia düreriana in ambito pittorico ha sostituito una volta per tutte una tragedia spirituale a quella che era stata la semplice raffigurazione dell’indolenza e dell’ottusità di un temperamento inferiore, per Caillois solo Sisifo ha veramente diritto ad ascoltare il canto omicida delle sirene: l’acedia che mineralizza il corpo lasciando che la mente si fissi sgomenta sull’enigma irresolubile, può essere solo il premio del lavoro della virtù. Era del resto già questa la descrizione cailloisiana del meriggio, che serba un fascino non inferiore al momento del giorno che la ispira55.

La “mistica materiale” suggerita dal mondo dei minerali permette a Caillois di assimilarsi alla natura delle pietre56. La malinconia, depressiva e creatrice, costituisce la forza di quest’operazione. All’uomo non resta altro che combattere tenacemente questa ultima battaglia e allenare i muscoli dell’immaginazione.

55 T. Cavallo, Acedia: il premio della lotta?, in R. Caillois, Tre lezioni delle tenebre, Genova, Zona, 1999, p. 15. 56 R. Caillois, Pierres, Paris, Gallimard, 1966 (trad. it. di G. Zuccarino, in Pietre, Genova, Graphos, 1998).

III Rappresentazioni

UN’IDEA DI ROMA PIRANESI, MORITZ E LA TEORIA DEL PUNTO DI VISTA Renata Gambino

Romam quaero! K. Ph. Moritz

Non è un idillio né un riferimento all’Arcadia ad aprire il resoconto del viaggio in Italia, compiuto da Karl Philipp Moritz durante gli anni tra il 1786 e il 1788, ma un’esclamazione1 in cui è racchiusa la grande sete di conoscenza di questo autore, tuttora poco conosciuto al pubblico italiano, ed il suo desiderio di “comprendere” Roma, considerata all’epoca il fulcro dell’arte e della storia della civiltà. Un’esperienza fondamentale nel percorso formativo di questo scrittore, i cui saggi di estetica e le opere letterarie, contribuirono a formare il gusto e lo stile ancora diverse generazioni dopo la sua morte. Molte delle sue opere d’estetica furono interpretate semplicemente come una sorta di manifesto del Neoclassicismo e del rigorismo propugnato dalle Accademie di fine Settecento, pur presentando nel complesso una quantità di testi, proposte, idee che invece si pongono in aperta polemica con tali principi di gusto. Un esempio particolarmente pregnante è dato da un testo che si apre con la citazione di un motto oraziano, «Picturibus atque poetis/ quid libet audendi sempre fuit aequa potestas», in esplicita opposizione alla normatività neoclassica, pubblicato nel terzo ed ultimo volume del suo resoconto del viaggio in Italia2, ed inserito nel 1793, anno della sua morte, all’interno del volume Prolegomeni a 1 Si tratta del motto «Romam quaero!» di K. Ph. Moritz, Reisen eines Deutschen in Italien in den Jahren 1786 bis 1788, 3 voll., Berlin, Friedrich Maurer, 1792-93, adesso in Id., Werke, 3 voll., a cura di H. Günther, Frankfurt a. M., Insel Verlag, 1993, qui vol. II, p. 129. 2 K. Ph. Moritz, Reisen eines Deutschen in Italien in den Jahren 1786 bis 1788, cit., vol. III, pp. 230.

238

Lo sguardo reciproco

una teoria degli ornamenti3 in cui si trovano raccolte le ultime opere teoriche. Questo breve testo in prosa, privo di titolo, è il frutto di una lunga riflessione riguardante la questione del valore estetico da attribuire all’ornamento e testimonia della posizione favorevole di Moritz nei confronti dell’uso delle decorazioni, ovvero della sua opposizione ai dettami winckelmanniani. La riflessione sull’arte, sull’estetica, sulla percezione e sulla lingua, quale principale strumento gnoseologico, attraversano come un filo rosso tutto il pensiero e le opere di questo autore. Il nucleo principale di tale complessa argomentazione prende il via dalla questione che coinvolse molti studiosi e letterati intorno alla metà del XVII secolo in Germania4, riguardante l’origine e il potere descrittivo della parola. La fama di Moritz è legata però principalmente ad un saggio d’estetica intitolato Sull’imitazione formatrice del bello5, recepito dai contemporanei in maniera assai discorde6, e considerato per lungo tempo uno dei manifesti del neoclassicismo tedesco. In realtà l’opera di Moritz si serve di diversi strumenti d’indagine e piani argomentativi in modo da giungere a formare un tessuto così fittamente intrecciato, da rendere difficile l’interpretazione di singole opere o brani. Solo osservando la produzione nel suo complesso è possibile rintracciare alcuni argomenti d’indagine costan3 K. Ph. Moritz, Vorbegriffe zu einer Teorie der Ornamente, Berlin, Karl Matzdorff, 1793, p. 16. 4 In particolare a Berlino intorno alla metà del XVIII secolo, si sviluppò tra alcuni membri della prestigiosa Accademia delle Scienze, un’accesa discussione intorno alla questione dell’origine del linguaggio umano (portata in primo piano dal saggio di E. Bonnot de Condillac, Essai sur l’origine des connaissances humaines, pubblicato nel 1746), che vedeva schierati su opposti fronti i sostenitori della sua origine divina o naturale. Solo nel 1772 con la pubblicazione dell’opera di Johann Gottfried Herder, Abhandlung über den Ursprung der Sprache, si giunse all’elaborazione di una posizione intermedia all’interno di quest’accesa querelle. 5 Composto probabilmente nei primi mesi del 1788 mentre si trovava a Roma, il saggio fu pubblicato per la prima volta dall’editore Campe nell’autunno dello stesso anno: K. Ph. Moritz, Über die bildende Nachahmung des Schönen, Braunschweig, Campe, 1788. 6 Il saggio fu molto apprezzato soprattutto da Goethe e da molti altri in ambito weimeriano, ma ricevette anche molte critiche, sia per i suoi contenuti che per la sua forma. Cfr. ad es. la lettera di Herder alla moglie datata Roma, 21 febbraio 1789 in J. G. Herder, Italienische Reise. Briefe und Tagebuchaufzeichnungen 1788-1789, a cura di A. Meier e H. Hollmer, München, DTV, 1988, p. 350.

Un’idea di Roma

239

ti. Uno di questi riguarda il “potere descrittivo” attribuito alla parola, ovvero in che modo e in che misura sia possibile tradurre in parole la realtà o la percezione visiva. L’indagine si allarga a comprendere il problema della descrizione tramite la parola, la Beschreibungskunst, che a sua volta conduce l’autore ad interrogarsi sulla questione della Kunstbeschreibung, la descrizione delle opere d’arte figurativa, e sul potere gnoseologico legato rispettivamente alla parola e all’immagine. La riflessione moritziana su questo tema, prende il via da alcune straordinarie osservazioni sull’origine del linguaggio sviluppate non soltanto sul piano teorico ma anche pratico. Egli condusse uno studio “empirico” dei processi di apprendimento e degli strumenti della comunicazione sviluppati da un soggetto sordo-muto dalla nascita, al fine di risalire alle cause di disturbi quali la balbuzie e l’afasia. I risultati furono pubblicati in una serie d’articoli sulla rivista “di psicologia”, da lui ideata e diretta, Gnothi Sauton ovvero magazzino di psicologia dell’esperienza7. Moritz, che concordava in linea di massima con le teorie sull’origine del linguaggio sostenute da Johann Gottfried Herder8, intendeva però provare con questi suoi studi che l’uomo privato del linguaggio non regredisce allo stato animale, e che la capacità gnoseologica e le potenzialità del pensiero umano sono indipendenti dall’elaborazione di un linguaggio verbale. Quale primo sorprendente risultato delle sue osservazioni egli constatò che il soggetto privato della parola organizzava il percepito in categorie figurative, procedendo spontaneamente alla produzione di “ideogrammi”. L’immagine non era una mera riproduzione del reale ma, assumendo qualità simboliche, diventava a sua volta linguaggio9, grafema che “delimita”, circoscrive, isola il singolo elemento dalla massa, procedimento fondamentale del processo conoscitivo umano10. In questi primi studi 7 Moritz pubblicò una serie di articoli intitolati Beobachtungen und Reflexionen zu Taub- und Stummgeborenen nei primi sei numeri della rivista Gnothi Sauton oder Magazin zur Erfahrungsseelenkunde als ein Lesebuch für Gelehrte und Ungelehrte, Berlin, Mylius, 1783-1793, adesso in parte in Id., Werke, cit., vol. III, pp. 792-800. 8 J.G. Herder, Abhandlung über den Ursprung der Sprache, Berlino, Ch. F. Voss, 1772. 9 Cfr. Emil Angehrn, Beschreibung zwischen Abbild und Schöpfung, in Beschreibungskunst-Kunstbeschreibung, a cura di G. Boehm e H. Pfotenhauer, München, W. Fink, 1995, pp. 59-74. 10 Cfr. anche il volume dedicato all’analisi dei processi di apprendimento: K. Ph.

240

Lo sguardo reciproco

l’interesse è focalizzato sulla componente “psicologica” della lingua (intesa come specchio dell’anima), ma le osservazioni relative alle funzioni gnoseologiche del linguaggio costituiscono un passo decisivo nell’evoluzione delle sue riflessioni riguardanti la capacità rappresentativa ed espressiva della parola. Il confronto diretto con la realtà italiana, le opere d’arte, la natura, la storia, costrinsero il nostro autore a riflettere ulteriormente sulla capacità rappresentativa attribuita alla parola, il suo rapporto con il reale e con l’arte11. Il problema dell’”atto del descrivere”, la Beschreibung, e la rappresentazione letteraria dell’arte figurativa, vengono affrontati su un piano puramente teorico nei suoi saggi d’estetica12 come anche in tutte le sue opere letterarie, nei romanzi, ma in particolare nel resoconto del viaggio in Italia. Le idee maturate durante il periodo trascorso a Roma costituiscono il nucleo su cui si fonda una serie di lezioni di stilistica, tenute in parte presso l’Accademia di Belle arti di Berlino13, in cui l’immagine diventa ancora di più elemento ordinatore, indispensabile alla conoscenza della realtà e alla successiva elaborazione del giudizio, quale tappa conclusiva del discorso riguardante la rappresentazione letteraria e il potere gnoseologico del linguaggio14. Il resoconto del viaggio in Italia è certamente un elemento chiave nella complessa questione del rapporto immagine-testo; fu scritto diverso tempo dopo il ritorno di Moritz a Berlino e consta di tre volumi che raccolgono alcuni brani scritti durante il periodo trascorso a Roma ed altri composti in seguito. Si tratta di un “perMoritz, Versuch einer kleinen praktischen Kinderlogik welche auch zum Theil für Lehrer und Denker geschrieben ist. Mit sieben Kupfertafeln von Daniel Chodowiecky, Berlin, A. Mylius, 1786. 11 A quest’argomento Moritz dedicò un saggio intitolato In wie fern Kunstwerke beschrieben werden können, pubblicato per la prima volta nella «Monatsschrift der Akademie der Künste und mechanischen Wissenschaften zu Berlin», I (1788), 2, IV, pp. 159-168; V, pp. 204-210; II (1789), 3, I, pp. 3-5. 12 Cfr. a questo proposito la traduzione italiana curata da P. D’Angelo: K. Ph. Moritz, Scritti di Estetica, Palermo, Aesthetica, 1990. 13 K. Ph. Moritz, Vorlesungen über den Styl oder praktische Anweisung zu einer guten Schreibart in Beispielen aus den vorzüglichsten Schriftstellern, Berlin, Friedrich Vieweg, 1793-94. 14 A questo proposito cfr. anche K. Ph. Moritz, Neues A.B.C. Buch, welches zugleich eine Anleitung zum Denken für Kinder enthält, con 6 tavole di P. Haas, Berlin, Christian Gottfried Schöne, 1790.

Un’idea di Roma

241

corso di formazione” (come gran parte dei diari di viaggio), nel quale però “la percezione visiva”, si colloca in primo piano. La genesi di quest’opera, riportata in alcune lettere di Moritz indirizzate all’editore Campe e ad alcuni amici, fornisce ulteriori sfaccettature al discorso riguardante la Kunstbeschreibung15. Le lettere16 ci raccontano delle difficoltà riscontrate dall’autore nel redigere il suo diario di viaggio e i diversi propositi elaborati durante il periodo trascorso in Italia. Il contatto diretto con la realtà romana, dimostra, a suo giudizio, la necessità di una nuova o diversa “strategia” della rappresentazione, un punto di vista che permetta di ordinare il tutto, pur mantenendo viva la complessità degli elementi e la loro interna stratificazione storica. Dopo più di un anno e mezzo dal suo arrivo a Roma egli propose all’editore Campe la pubblicazione di un resoconto di viaggio in una forma del tutto nuova, ovvero un viaggio pittorico, composto da una serie di disegni corredati da un breve testo descrittivo: il capovolgimento del diario di viaggio in cui le immagini corredano il testo. L’idea non fu mai realizzata in questi termini, anche se i tre volumi sull’esperienza italiana (pubblicati privi di immagini, se si escludono le incisioni delle tre copertine), testimoniano in maniera evidente gli sviluppi dei suoi studi intorno al problema della rappresentazione. Si tratta di una vera e propria “macchina” di impressioni, informazioni, descrizioni, curiosità. Persino la cornice stilistica è in continua trasformazione; dall’epistolario si passa alla forma del diario di viaggio, alla quale, nel corso del secondo volume, si aggiungono brani con caratteristiche differenti, quali il frammento e addirittura il saggio breve. In questa “raccolta di materiali” è tuttavia possibile riconoscere alcune linee guida: il moderno inteso come “trasformazione” dell’antico; la ricostruzione del proprio percorso di viaggio quale “strumento esemplare” in grado di guida15 Il progetto iniziale testimoniato dallo scambio epistolare con alcuni editori, prevedeva che Moritz scrivesse un diario di viaggio sulla scia della sua precedente pubblicazione riguardante l’Inghilterra (K. Ph. Moritz, Reisen eines Deutschen in England im Jahr 1782. In Briefen an Herrn Direktor Gedike, Berlin, Friedrich Maurer, 1783). Cfr. R. Gambino, Romam Quaero! La questione greco-romana nelle “Reisen eines Deutschen in Italien” di Karl Philipp Moritz, Messina, Sicania, 2000. 16 Si tratta soprattutto delle lettere inviate all’editore Campe da Roma datate 3 febbraio 1787, 1 settembre 1787 e 12 aprile 1788, in H. Eybisch, Anton Reiser, Unteruchungen zur Lebensgeschichte von K. Ph. Moritz und zur Kritik seiner Autobiographie, Leipzig, Voigtländer, 1909, pp. 207, 219 e 229.

242

Lo sguardo reciproco

re il lettore nell’elaborazione di un proprio “concetto di Roma”. La Denkkraft, ovvero quella facoltà umana in grado di ordinare il reale, ma anche di ricostruire all’interno della mente un altro mondo, definito da Moritz «Ideenwelt»17, fatto di concetti che l’essere umano ricombina grazie alla fantasia, permetterebbe la compresenza dei vari aspetti e delle diverse funzioni assunte dalla realtà nel corso della storia, in una sorta di “archeologia del sogno”18, o di “capriccio” architettonico simile alle Vedute di Roma antica di Giovanni Paolo Pannini. Perché il processo di astrazione possa avere luogo è necessario, secondo Moritz, che l’individuo disponga della massima quantità di dati possibile, ordinata secondo un principio che ne evidenzi le singole caratteristiche e i tratti unitari. I singoli passaggi di questo procedimento, dalla raccolta di dati all’elaborazione di un principio ordinante, sono presenti nella sua rappresentazione di Roma, come vedremo esaminando i brani dedicati alla descrizione della piazza antistante la Basilica di San Pietro19. La città viene descritta più volte, da prospettive diverse, il testo è corredato di informazioni e dati che ne danno di volta in volta un’immagine differente che si sovrappone alla precedente. Il resoconto, in tal senso, non testimonierebbe del percorso formativo dell’autore, o della sua crescita personale, ma delle tappe del processo conoscitivo e dello sviluppo della sua “idea di Roma”. Ciò viene perseguito, nella trasposizione letteraria, attraverso un processo di autoanalisi, che conduce ad una ricostruzione “psico-archeologica” del percepito e dei dati del reale. Egli tenta di descrivere l’indescrivibile: il formarsi di un’idea nella mente dell’osservatore. Tale procedimento si palesa analizzando i brani in cui l’autore descrive determinati luoghi della città che assumono la funzione di “cardini della rappresentazione” in tutto il testo. Ciò che, a prima vista, può sembrare una ripetizione o una svista, testimonia di una progressiva modificazione della percezione del circostante. Venia17 Cfr. K. Ph. Moritz, Versuch einer kleinen praktischen Kinderlogik, cit., vol. III, pp. 431-432. 18 Cfr. N. Miller, Archäologie des Traums. Versuch über Giovanni Battista Piranesi, München/Wien, DTV, 1994. 19 Moritz fornisce una descrizione della piazza di San Pietro in Roma nello stato in cui si trovava all’epoca della sua visita aggiungendovi però molte informazioni riguardanti la forma e la funzione ai tempi di Nerone, quando era il luogo in cui venivano sacrificati i cristiani. K. Ph. Moritz, Reisen eines Deutschen in Italien in den Jahren 1786 bis 1788, cit., vol. I, p. 210.

Un’idea di Roma

243

mo resi partecipi non soltanto del suo accostarsi alla realtà cittadina, alla sua storia e agli usi dell’epoca, ma anche del progressivo sviluppo delle sue teorie estetiche e della questione centrale riguardante il Gesichtspunkt (il punto di vista)20, considerato da Moritz l’elemento fondamentale della formazione di un concetto e del giudizio, caratteristiche determinanti del pensiero umano: Questa tendenza alla verità, alla correlazione e all’ordine nei nostri pensieri e nelle nostre rappresentazioni è il nostro istinto, è un impulso per il quale noi non abbiamo alcun motivo ulteriore, oltre alla natura del nostro essere21.

Il bisogno di un ordine, lo stabilire delle correlazioni e poi il paragonare e il distinguere sono attività della ragione umana che esisterebbero indipendentemente dalla parola anche se la percezione, secondo Moritz, di per sé ordina la materia22: Attraverso l’occhio si ottiene dunque la contemporaneità,/ attraverso l’orecchio la successione delle idee./ Occhio – orecchio –/ Pittura – Musica –/ Contemporaneità – successione –/ Le belle arti sono una copia della natura in forma rinnovata (in Verjüngtem Maaßstabe)23.

Secondo questa impostazione, la percezione visiva sarebbe deputata all’organizzazione dello spazio, alla delimitazione, quindi precipuamente alla comprensione del reale. Scoprire secondo quali principi avviene questa organizzazione del percepito diventa uno degli argomenti di studio durante il periodo italiano. Le lezioni di prospettiva seguite a Roma da Moritz presso l’architetto Maximilian von Verschaffelt24, già insegnante di Goethe, contribuirono 20 Cfr. il breve saggio di K. Ph. Moritz, Gesichtspunkt, in «Magazin zur Erfahrungsseelenkunde», IV, 2 (1786), pp. 16-19 (trad. it. e cura di P. D’angelo, Lo scopo ultimo del pensiero umano, in Id., Scritti di Estetica, cit., pp. 51-53). 21 Ivi, p. 52. 22 In questo si rivela la sua adesione alle teorie riguardanti i confini tra le arti esposte da Gotthold Ephraim Lessing nel suo Laokoon: oder über die Grenzen der Malerei und Poesie, Berlino, 1766 (trad. it. e cura di M. Cometa, Laocoonte, Palermo, Aesthetica edizioni, 1991). 23 K. Ph. Moritz, Die große Loge oder der Freimaurer mit Waage und Senkblei, Berlin, Ernst Felisch, 1793, in Id., Werke, cit., vol. III, p. 334. 24 L’architetto Maximilian von Verschaffelt (Mannheim 1754 - Wien 1818) visse a Roma dal 1782 al 1793. Studiò presso l’Accademia Reale di Parigi sotto la protezione di Amedee Van Loo. Durante gli anni trascorsi a Roma si dedicò principalmente alla scultura. Alla morte del padre nel 1793, egli assunse per un breve periodo la direzione dell’Accademia di Belle Arti a Mannheim, poi seguì il principe Karl Theodor a Mona-

244

Lo sguardo reciproco

sicuramente alla scoperta di molte rappresentazioni pittoriche della realtà romana, tra cui le straordinarie “interpretazioni” prospettiche di Roma create da Giovanni Battista Piranesi25. Esaminando il lungo percorso artistico piranesiano, e soprattutto la serie delle grandi Vedute di Roma26 risulta chiaro come anche questo artista si sia confrontato con la difficoltà della rappresentazione e abbia condotto una lunga ricerca nel tentativo di liberare la veduta e il panorama dalle regole tradizionali della prospettiva architettonica, al fine di renderle espressione individuale. La veduta non doveva più sottostare soltanto al principio della “riconoscibilità” dei particolari raffigurati, ma essere un’opera in sé conclusa, in cui tutte le parti rivelassero di appartenere ad una percezione individuale della realtà. In tal senso sono stati individuati tre momenti di sviluppo nella creazione tematica e stilistica delle Vedute di Roma: una prima fase in cui predominano i panorami, le ampie vedute cittadine nello stile del Canaletto, una seconda in cui è evidente la sperimentazione e l’estremizzazione di alcuni elementi stilistici, e l’ultima in cui domina il principio della “monumentalizzazione” del soggetto raffigurato, l’uso del paradosso e l’approccio archeologico. La trasformazione della rappresentazione piranesiana di Roma è particolarmente evidente osservando alcune tavole delle Vedute che raffigurano lo stesso monumento più volte. Si tratta in particolare di due luoghi della città, che sia Moritz che Piranesi sembrano eleggere a simbolo di Roma e della storia della civiltà, ovvero la Basilica di San Pietro con la piazza antistante (quale tempio della cristianità e della modernità) e l’Anfiteatro Flavio (quale tempio della civiltà e della cultura antica). co. Dal 1801 si trasferì a Vienna alle dipendenze del principe Estherhàzy dove rimase fino alla sua morte. Nel Goethe-Museum di Weimar si trovano ancora un suo disegno della veduta dal Campidoglio ed uno della chiesa di S. Maria in Aracoeli. 25 La serie delle Vedute comprende in tutto 135 tavole, vendute singolarmente o a gruppi a partire dal 1745 fino al 1778, anno della sua morte. L’opera di Piranesi era ben nota a Moritz, il quale non solo fa riferimento esplicito ad una sua incisione nel secondo volume del resoconto di viaggio (Reisen vol. II, p. 317), ma al suo ritorno a Berlino farà richiesta ufficiale all’Akademie der Künste per l’acquisto delle famose Vedute a scopi didattici. Cfr. le ricerche condotte dalla dott. Yvonne Pauly presso la Akademie der Wissenschaften di Berlino, consultabili in parte nel sito dell’Accademia alla pagina www.bbaw.de/bbaw/Forschung/Forschungsprojekte/moritz/de. 26 Queste famosissime incisioni di grande formato furono composte nell’arco di 30 anni a partire dal 1748 anno di pubblicazione della prima serie. Cfr. J. Wilton Ely, Piranesi, Milano, Electa, 1994.

Un’idea di Roma

245

Vi sono, infatti, ben tre incisioni appartenenti alle Vedute di Roma di Piranesi in cui è raffigurata la Basilica di San Pietro (figg. 1, 2, 6), con la piazza e il colonnato, e almeno altrettante tavole dedicate all’Anfiteatro Flavio (figg. 3, 4, 5)27. Nei tre volumi dedicati al viaggio in Italia l’autore descrive a sua volta questi due monumenti, rappresentandoli da prospettive diverse e sottolineandone di volta in volta caratteristiche differenti. La prospettiva adottata da Piranesi nella prima incisione della piazza di San Pietro segue un’impostazione ancora piuttosto tradizionale. La prospettiva è centrale, il punto d’osservazione è leggermente sopraelevato rispetto al primo piano in cui sono raffigurate scene di vita quotidiana. La presenza di una vistosa carrozza, in stile rococò, attrae irrimediabilmente l’attenzione dell’osservatore e amplifica l’effetto di contrasto con l’imperturbabile maestosa lontananza dell’edificio (fig. 1).

Fig. 1. G.B. Piranesi, Veduta della Basilica e Piazza di S. Pietro in Vaticano. 27 Cfr. G.B. Piranesi, Vedute di Roma, Milano, Mondadori, 2000, tavv. 3, 19, 58, 101, 120, 126.

246

Lo sguardo reciproco

Il percorso descritto da Moritz nel primo volume segue a sua volta la tradizione dei diari di viaggio; l’esposizione di tipo museale, in cui una descrizione segue l’altra secondo itinerari ormai tipici per le guide più spesso consultate all’epoca28, in cui il viaggiatore si “muove” all’interno dello spazio cercando di renderlo “leggibile”. Questo è il caso, ad esempio, del primo brano dedicato a piazza S. Pietro, in cui Moritz procede nella sua descrizione fornendo prima di tutto un breve quadro storico del luogo, poi si avvicina al centro della piazza, descrive l’obelisco, quale fulcro di tutto lo spazio monumentale, e procede oltre verso la basilica; vi entra, ne descrive l’interno, avvicinandosi lentamente all’altar maggiore. Tutto è elencato con precisione, adottando spesso figure retoriche già note, come nel caso delle dimensioni delle colonne della piazza, per le quali adotta lo stesso paragone usato da Winckelmann29 nel caso del tempio di Giove Olimpico di Agrigento: Trecentoventi colonne di travertino, ciascuna con una circonferenza tale che due uomini quasi non riescono ad abbracciarla e d’altezza proporzionata, formano questo maestoso colonnato30.

La seconda tavola che Piranesi dedica alla basilica, dimostra un profondo cambiamento nella concezione della spazialità e del rapporto tra l’osservatore, il monumento e la veduta. L’edificio prende il sopravvento, domina la tavola infrangendone le proporzioni. In questa incisione il colonnato rientra a mala pena entro i contorni della tavola. L’osservatore si trova anche questa volta in una posizione lievemente rialzata rispetto al piano della piazza, ma la prospettiva non è più perfettamente centrale. L’obelisco perde così la sua funzione di fulcro della visione e di elemento ordinante la spazialità monumentale. Le lunghe ombre proiettate dagli elementi in primo piano creano una vasta zona scura che si ricongiunge lateralmente con i due estremi del colonnato, anch’essi in ombra, e 28 Una tra le più famose è senz’altro quella di Johann Jakob Volkmann, Historischkritische Nachrichten von Italien, welche eine genaue Beschreibung dieses Landes, der Sitten und Gebräuche, der Regierungsform, Handlung und Oekonomie, des Zustandes der Wissenschaften, und insonderheit der Werke der Kunst enthalten. Aus den neuesten französischen und englischen Reisebeschreibungen und aus eignen Anmerkungen zusammengetragen, 3 voll., Leipzig, C. Fritsch, 1770-71. 29 Cfr. M. Cometa, Il romanzo dell’architettura. La Sicilia e il Grand Tour nell’età di Goethe, Roma-Bari, Laterza, 1999, in particolare pp. 155-184. 30 K. Ph. Moritz, Reisen eines Deutschen in Italien, cit., vol. I, p. 210.

Un’idea di Roma

247

con un gruppo di nuvole scure nel cielo, creando una cornice che divide la tavola nettamente in due differenti piani d’osservazione. Il risultato di un tale “restringimento” del campo visivo è la sensazione di guardare dentro uno strumento ottico, lo spettatore viene proiettato al di fuori dell’immagine, la piazza assume maggiore profondità, il corpo centrale della basilica viene allontanato dal resto della piazza, conferendo a questo edificio monumentale una consistenza quasi eterea. Tutto ciò produce la sensazione di guardare un’immagine irreale, di avere di fronte un tremolante prodotto di fantasia. La veduta si trasforma in visione. Il testo scritto da Moritz per descrivere una seconda volta la Basilica di San Pietro e la piazza circondata dal colonnato non sembra essere altro che un atto di ékphrasis rispetto a questa Veduta piranesiana. Non è il luogo ad essere rappresentato nel testo ma le caratteristiche salienti di questa particolare raffigurazione (fig. 2): Quando si osserva la facciata della chiesa di San Pietro sullo sfondo di questa piazza, sembra di guardare dentro una scatola prospettica; il tutto appare più simile ad un quadro che ad un oggetto del mondo reale, in cui non si è abituati a vedere qualcosa di così perfettamente proporzionato e, nonostante simili dimensioni, elaborato in maniera così completa31.

Fig. 2. G.B. Piranesi, Veduta della gran Piazza e Basilica di S. Pietro. 31

Ivi, p. 211.

248

Lo sguardo reciproco

Fig. 3. G.B. Piranesi, Veduta dell’Arco di Costantino e dell’Anfiteatro Flavio detto il Colosseo.

Un altro esempio di ékphrasis costruita su ispirazione di una veduta piranesiana si trova nella descrizione dell’Anfiteatro Flavio. Nella prima tavola dedicata a questo monumento, Piranesi ritrae l’edificio mettendone in risalto le caratteristiche di rovina. Il punto d’osservazione, posto su un piano leggermente sopraelevato, domina la parete crollata del Colosseo permettendo allo sguardo di indagare al suo interno e di esaminarne la struttura, mentre la cornice superiore dell’edificio si staglia leggera contro il cielo. La prospettiva è centrale, le proporzioni all’interno della tavola vengono mantenute seguendo i canoni tradizionali e il punto focale, centrale, è rappresentato dall’Arco di Costantino. L’anfiteatro si erge al centro di un piano, incorniciato dai colli sullo sfondo, costellati di costruzioni tra cui si riconoscono vagamente altre rovine d’epoca romana. In primo piano si scorgono delle figure in abiti settecenteschi con dei lunghi bastoni in mano, impegnate nell’osservazione di qualche reperto. L’elemento dominante in questa veduta è costituito dalla lussureggiante vegetazione che aggredisce i monumenti, ponendone in rilievo la trasformazione, il decadimento, e che sembra essere presente anche sugli abiti delle figure in primo piano, somiglianti più a dei mendicanti che alle tipiche figure di viaggiatori e studiosi presenti sulla maggior parte delle tavole dell’epoca (fig. 3):

Un’idea di Roma

249

Fig. 4. G.B. Piranesi, Veduta dell’Anfiteatro Flavio, detto il Colosseo.

L’anfiteatro si trova al centro tra i colli Palatino, Celio ed Esquilino. Sul piano si trova l’arco di Costantino; […] Il Colosseo stesso, nonostante le sue dimensioni gigantesche, forma nell’aria un delicato profilo. Vedere un edificio di tali dimensioni, consistente soltanto di un ovale senza tetto, crea un effetto davvero singolare. […] Mendicanti e ladri si rintanano adesso negli spazi in cui un tempo venivano rinchiuse le belve32.

Queste sono le parole usate per descrivere l’Anfiteatro Flavio nel primo libro del resoconto di viaggio. Ancora più sorprendente è invece il breve accenno che egli fa all’interno del terzo volume, in cui, quasi del tutto abbandonata la forma epistolare, scrive le sue impressioni in brevi paragrafi introdotti ogni volta da un titolo. Nel brevissimo brano intitolato Der Frevelsteig (vicus sceleratus), il Colosseo viene rappresentato nella sua interezza, come immagine riflessa nell’occhio dell’osservatore che risale la via verso il colle Esquilino ed è sorpreso dalla maestosa proporzione di questo edificio (fig. 4): Alle spalle del tempio della Pace vi è la risalita verso il monte Esquilino […]. Percorrendo questa salita il Colosseo si mostra in tutta la sua magnificenza, poiché se ne vede il lato ancora intatto e poiché da questa collina nell’occhio si riflette interamente il profilo di quest’edificio33. 32 33

Ivi, p. 206. K. Ph. Moritz, Reisen eines Deutschen in Italien, cit., vol. III, p. 404.

250

Lo sguardo reciproco

È difficile non restare colpiti dalla somiglianza tra il testo della descrizione e questa Veduta, una delle incisioni più interessanti del percorso piranesiano, in cui il dominio da parte del monumento sull’osservatore raggiunge il suo apice. L’anfiteatro viene ritratto dal piano della strada, in modo da amplificare la tensione drammatica e la teatralità dell’immagine. Il versante ancora intatto dell’edificio riempie tutta la tavola, toccandone i bordi. Il cielo ed il primo piano sono ridotti al massimo e si sviluppano soltanto nelle porzioni in angolo, aumentando la spinta tridimensionale dell’ovale, che sembra muoversi verso l’osservatore. Anche in questo caso, l’estremizzazione delle proporzioni produce l’impressione di guardare attraverso una lente ottica o di vedere l’immagine riflessa sulla superficie convessa dell’occhio. Lo sguardo prima concentrato a cogliere una visione panoramica, in un secondo momento si stringe sui singoli soggetti privandoli di sfondo e contesto, per amplificare l’effetto esercitato sull’osservatore. Piranesi sperimenta in tal modo l’uso delle innovazioni prospettiche della scena teatrale34, per rendere l’osservatore partecipe della potenza e magnificenza dei monumenti riprodotti nelle tavole. In una terza fase, Piranesi si dedica alla riproduzione dei monumenti ponendo l’accento sulle particolarità archeologiche (strutture murarie, basamenti, etc.) e sull’idea della rovina, della trasformazione operata dalla natura. Il punto d’osservazione è spesso posto al livello della base del monumento per favorire uno sguardo indagatore, e aumentare il senso del sublime prodotto da queste grandi opere architettoniche. In qualche altro raro caso, invece, egli adotta la prospettiva a volo d’uccello. Si tratta di due grandi tavole dedicate di nuovo ai luoghi considerati i più importanti di 34 La tecnica usata da Piranesi in alcune delle sue grandi tavole trae ispirazione dalle innovazioni prospettiche introdotte nella scenografia teatrale barocca dai fratelli Galli Bibiena e poi ulteriormente elaborate da Filippo Juvarra, con la sua “scena per angolo”. Con l’inizio del Settecento, la prolifica attività, della famiglia Bibiena, portò a perfezione una vera “scienza dell’illusione”, in cui la disciplina della prospettiva lineare consentiva il manifestarsi di un mondo in illimitata espansione. La maggior parte dei più fantasiosi architetti del barocco, da Bernini a Juvarra, si esercitò in questo campo, che offriva enormi possibilità di sperimentazione. La “scena per angolo”, esposta da Ferdinando Bibiena, nel suo trattato Architettura civile del 1725, era veramente un’idea rivoluzionaria, grazie alla quale il tradizionale punto di fuga centrale veniva abbandonato a favore dell’uso contemporaneo di più assi visivi diagonali, ognuno dei quali schiudeva allo spettatore nuove visuali.

Un’idea di Roma

251

Fig. 5. G.B. Piranesi, Veduta dell’Anfiteatro Flavio, detto il Colosseo.

Roma: San Pietro con il colonnato del Bernini e il Colosseo. Se in un primo momento avevamo avuto l’impressione che il monumento si collocasse su di uno sfondo, ovvero facesse parte del “paesaggio”, e in un secondo momento esso diventasse protagonista assoluto della rappresentazione al punto da riempire quasi del tutto l’immagine, in queste ultime tavole invece la distanza assunta dall’osservatore rispetto al luogo ritratto, ne rende più comprensibili grandezza e significato. Si giunge così al culmine di quello che Moritz individua quale tappa finale del processo conoscitivo: la veduta si trasforma in mappa topografica del luogo, e il monumento diventa “segno”, la vista diventa strumento di “comprensione” e organizzazione del reale, la visione “scrittura”. Le Vedute di Piazza San Pietro e del Colosseo composte per ultimo in ordine di tempo, sono probabilmente le uniche due in cui Piranesi adottò la prospettiva dall’alto, quasi a voler porre in risalto la circolarità del luogo, con il fulcro centrale dato dall’obelisco. L’anfiteatro Flavio riempie la tavola e non lascia spazio ad altro; il monumento perde la sua caratteristica di rovina, per assurgere a forma perfetta simboleggiante l’eterno (fig. 5):

252

Lo sguardo reciproco

Fig. 6. G.B. Piranesi, Veduta dell’insigne Basilica Vaticana coll’ampio Portico e Piazza adiacente.

Più oltre, nelle stese tonalità di colore le montagne di Tivoli, fin dove si erge nel rosso della sera, il Colosseo, vicinissimo, nel quale possiamo, come dall’alto, guardare all’interno35.

Lo stesso avviene nella rappresentazione del colonnato del Bernini che, visto dalla prospettiva aerea, assume proporzioni gigantesche rispetto alle costruzioni circostanti, persino rispetto alla basilica stessa e alla maestosa cupola. La forma circolare della piazza, con l’obelisco posto al centro, verso cui tutto tende e sembra essere collegato attraverso dei raggi disegnati sul pavimento della piazza, diviene simbolo della perfezione divina, ma anche inquietante riferimento alla forma di una tenaglia, simboleggiante il cattolicesimo, dominatore incontrastato della scena cittadina. Moritz si sofferma, nella terza parte del suo resoconto di viaggio, a descrivere nuovamente questi due luoghi, scegliendo per entrambi un punto d’osservazione elevato che permetta di porre una certa distanza tra il monumento e l’osservatore, in modo da riuscire ad astrarre dai dettagli minuti e di cogliere la forma nella sua interezza (fig. 6): 35

K. Ph. Moritz, Reisen eines Deutschen in Italien, cit., vol. III, p. 417.

Un’idea di Roma

253

Piazza San Pietro si curva ai miei piedi – le colonne appaiono come dei puntini –. Le ruote più veloci, che attraversano la piazza, sembrano muoversi lentamente ed in silenzio. Castel S. Angelo ed il ponte, appaiono come in un’incisione di Piranesi – e da quest’altezza tutto sembra così bello e pulito perché tutta la polvere e la sporcizia inferiori spariscono davanti a questa visione36.

La scelta della prospettiva a volo d’uccello che potrebbe sembrare, da un punto di vista teorico e stilistico, una piena affermazione dei principi razionalisti e del gusto neoclassico, segna invece in Moritz un momento di rottura. La distanza posta tra l’osservatore e l’oggetto permetterebbe, a suo giudizio, una maggiore capacità di “comprendere” l’oggetto osservato. Tutto ciò che appartiene alla cultura, al vissuto, alla percezione personale, al legame che l’oggetto instaura con gli elementi circostanti, verrebbe eliminato grazie alla distanza, favorendo quel processo di astrazione che permette di giungere alla elaborazione di un concetto e, in seguito, alla formulazione di un giudizio37. Individuiamo dunque nella rappresentazione letteraria moritziana una sorta di “movimento” in tappe successive, che corrisponderebbe ai vari stadi del procedimento gnoseologico legato alla percezione visiva. Posto di fronte ad una nuova realtà, l’individuo “inquadra” i singoli elementi, crea una cornice che rende compiuta, o meglio “intelligibile” l’immagine; individua le singole componenti, i frammenti del reale, e li ricompone entro quella che egli definisce una «täuschende Komposition», una “illusione” che, grazie ad una appropriata disposizione dei singoli elementi, permette all’intelletto di “intuire” l’unità di cui essi partecipano. Il principio ordinante è il Gesichtspunkt, la regola prospettica, che collega gli elementi tra loro, non più intesa come legge universale, ma sistema d’orientamento individuale nella “lettura” del reale. Mettere a fuoco il frammento diventa indispensabile perché esso racchiude in sé gli elementi del Tutto di cui l’uomo, essere finito e limitato, non può essere partecipe, ma può intuire la grandezza grazie ad un successivo processo di astrazione, quindi di allontanamento dal dettaglio e dal finito. 36 37

Ivi, vol. II, p. 317. Cfr. K. Ph. Moritz, Vorlesungen über den Stil, in Id., Werke, cit., vol. III, p. 725.

254

Lo sguardo reciproco

Nella sesta lezione di stilistica38, scritta durante gli anni in cui era insegnante presso l’Accademia di Belle Arti di Berlino, Moritz tenta di chiarire il concetto di potenza dell’espressione in una rappresentazione letteraria, tracciando proprio le tappe del procedimento conoscitivo appena individuato sull’esempio di quello che lui definisce «un dipinto di Goethe»39. Si tratta in realtà di un brano tratto dal Werther di Goethe, in cui il protagonista si sofferma a contemplare la natura che lo circonda. Nel movimento compiuto dallo sguardo del narratore, Moritz individua le tappe che definiscono una rappresentazione letteraria efficace, ma anche quel processo che, condurrebbe l’individuo alla comprensione, alla verità: Quel che conferisce a questa come ad altre descrizioni della natura di questo poeta una così grande attrattiva sembra consistere principalmente nell’arte o nella scelta per mezzo della quale i singoli tratti sono connessi e ordinati in modo tale da formare da soli un intero compiuto. Innanzi tutto viene tracciato con pochi tratti un contorno intorno all’immagine; poi la descrizione scende dall’alto sempre più verso il basso, fino al più ristretto campo visivo dell’occhio, fino ai fili d’erba sul terreno; quanto più la descrizione scende, quanto più l’immagine si dipinge nel dettaglio, tanto più intima e viva diventa la sensazione, che poi si innalza di nuovo per così dire dal suo punto centrale, e fa nuovamente risalire la descrizione, così come prima essa scendeva, finché da ultimo traccia ai bordi del tutto un più grande contorno, e una sensazione che abbraccia il tutto completa infine l’immagine40.

Se la percezione visiva per diventare strumento di conoscenza ha bisogno dell’ordine, delle regole dettate dalle leggi della prospettiva, e l’opera d’arte figurativa è tale solo se riesce a cogliere il giusto punto di vista che permette di evidenziare la relazione del tutto con le sue parti, anche la lingua, indissolubilmente legata al concetto di sequenza, o successione temporale, dovrà sottostare ad una legge ordinante. La musica stabilisce, secondo Moritz, queste 38 K. Ph. Moritz, Sechste Vorlesung. Über ein poetisches Gemälde von Goethe – warum und in wie fern die Aufstellung und Zergliederung eines solchen Gemäldes in ein Werk über den Stil gehört?, in Id., Vorlesungen über den Stil, Berlin, Friedrich Vieweg, 1793, adesso in Id., Werke, cit, vol. III, pp. 622-629. 39 Ivi, p. 153. 40 Ivi, p. 623 (trad. it. e cura di P. D’Angelo, in K. Ph. Moritz, Scritti di estetica, cit., p. 154).

Un’idea di Roma

255

relazioni attraverso i movimenti del ritmo e l’armonia. Ecco, quindi, che il testo letterario non potrà diventare opera d’arte se non in osservazione delle regole stabilite dalla metrica poetica, poste in evidenza attraverso la scomposizione analitica del testo goethiano. Ad ogni segmento di testo Moritz assegna un termine, un titolo che ne definisce la funzione all’interno della rappresentazione. Egli sceglie a questo scopo dei sostantivi derivati dai verbi usati per indicare il movimento di discesa e ascesa, compiuto nella descrizione. Non è però un caso che i termini Senkung e Hebung non solo indichino rispettivamente un movimento verso il basso e verso l’alto, ma siano anche termini appartenenti alla metrica tedesca indicanti i tempi debole e forte (tesi e arsi). La questione del rapporto tra immagine e testo torna ad essere centrale nel momento in cui Moritz, durante il periodo d’insegnamento presso l’Accademia di Belle Arti di Berlino, si sofferma nuovamente sulla questione riguardante la possibilità di descrivere le opere d’arte figurativa attraverso un testo.Verità e bellezza sono due elementi inscindibili in un’opera d’arte come abbiamo visto, e la verità è data solo dalla “comprensione”, ovvero da quel processo di astrazione che permette di riunire in sé tutti i dettagli e le differenze. Ecco che l’arte figurativa, in quanto descrive attraverso i contorni che uniscono e collegano gli elementi, sarebbe a suo giudizio più “significativa” di quella ottenuta tramite l’uso delle parole, che invece «definiscono e separano»41: Le autentiche opere poetiche sono perciò anche le uniche vere descrizioni verbali del bello nelle opere d’arte figurativa, perché il bello può essere descritto a parole solo indirettamente: le parole spesso debbono percorrere un giro molto lungo, e talvolta comprendere in sé un intero mondo di rapporti, prima di poter portare a compimento nel fondo del nostro essere quella stessa immagine che si presenta in un colpo davanti ai nostri occhi42.

Diventerebbe quindi inutile cercare di descrivere attraverso le parole ciò che un’altra opera d’arte è invece già riuscita a racchiudere, comprendere in sé. Nella critica rivolta all’ékphrasis tradizionale, egli giunge persino a criticare apertamente la famosissima de41 Cfr. K. Ph. Moritz, Die Signatur des Schönen. Inwiefern Kunstwerke beschrieben werden können?, in Id., Werke, cit., vol. II, pp. 579-588. 42 Ivi, p. 585 (trad it. e cura di P. D’Angelo, in K. Ph. Moritz, Scritti di estetica, cit., p. 100).

256

Lo sguardo reciproco

scrizione della statua dell’Apollo del Belvedere composta da Winckelmann, in quanto l’elenco delle singole parti dell’opera ne distruggerebbe l’unità, disperdendo la sua caratteristica divina, l’assoluto racchiuso nella sua forma. «Sarebbe inopportuno descrivere in serie le bellezze di una poesia, piuttosto che leggere la poesia stessa»43, così come a suo giudizio sarebbe inopportuno descrivere le singole parti che compongono un’opera d’arte che si mostra nella sua interezza in un sol colpo d’occhio, per cui non resta altro che indicarla con il semplice «cenno del dito»44. Il potere rappresentativo della descrizione testuale viene quindi definitivamente negato, mentre viene ribadita la capacità dell’arte di rappresentare l’assoluto entro una forma finita. L’immagine assurge a simbolo, o meglio diventa ideogramma, racchiude in sé un concetto e diventa a sua volta elemento rappresentativo. La più grande sfida, descrivere quella che allora era considerata la sublime opera d’arte umana, la città di Roma, viene risolta dall’autore attraverso la ricostruzione delle tappe del proprio processo conoscitivo. Quella che a tutta prima sembra una serie di scarne descrizioni delle più grandi opere d’arte dell’umanità, un’infinita serie di frammenti e di informazioni, si rivela essere un’opera letteraria unitaria, composta da “cenni del dito” che rimandano a quegli elementi e a quelle rappresentazioni artistiche che hanno contribuito all’elaborazione di una “idea di Roma”, e che sono in grado di chiarire le relazioni esistenti tra i singoli elementi, permettendogli di intuire il significato del Tutto. Una serie di rimandi ad opere in sé compiute, che solo nella mente umana possono convivere, sovrapponendosi, a formare un poligono dalle mille sfaccettature, vero concetto unitario di Roma. Il resoconto diventa così una sorta di “epos in ideogrammi del bello” che come in un caleidoscopio compongono magicamente la realtà romana nella Ideenwelt del lettore.

43 44

Ibidem. Ivi, p. 581 (trad. it. p. 96).

I COLORI DELLE FIABE E LA PASSIONE DELLA REALTÀ DIMENSIONI VISUALI IN ANNA SEGHERS Rita Calabrese

È terribile …vivere… senza immagini. A. Seghers

Vivere con le immagini Nel suo consuntivo della letteratura e della cultura della DDR, all’indomani della sua scomparsa sulla scena della storia, Hans Mayer non manca di rendere omaggio ad Anna Seghers, che definisce la più grande narratrice tedesca del Novecento. E questo, aggiunge con convinzione, «nonostante Ricarda Huch e Marie Luise Kaschnitz e Ingeborg Bachmann. E nonostante la sua allieva Christa Wolf»1. Una valutazione di grande portata se confrontata con i giudizi negativi espressi dal celebre critico riguardo all’attività letteraria della scrittrice dal 1947 in poi, dopo il ritorno dall’esilio messicano, vera e propria distruzione di un autentico talento, come, a suo avviso, per tutti gli scrittori antinazisti approdati nella Germania Orientale, finita con il diventare una vera e propria torre d’avorio «pericolosamente alta tra le nuvole»2, chiusa nell’ideologia e lontana dalla realtà. Se la condanna politica ed etica rimane senza appello, il giudizio letterario è lucido nell’esaltare il valore di una grandissima scrittrice, pur se la drasticità dell’affermazione «chi voglia formulare un giudizio su Anna Seghers, la deve accettare o rifiutare in blocco»3 sembra escludere la possibilità di una lettura doverosamente priva di pregiudizi e necessariamente articolata, ormai non più procrastinabile. 1 H. Mayer, Der Turm von Babel. Erinnerung an eine Deutsche Demokratische Republik, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1991, p. 204. 2 Ivi, p. 206. 3 Ivi, p. 202.

258

Lo sguardo reciproco

Per troppo tempo la scrittrice è stata liquidata sbrigativamente ad Ovest come «poetessa di stato» di un paese totalitario, e poi esponente rappresentativa di idee condannate dalla storia, ad Est esaltata come esemplare madre fondatrice, icona dell’antifascismo, ma in realtà sospetta per la sua scrittura non sempre omologata. Anche in Italia Anna Seghers non ha avuto l’attenzione dovutale. Basti pensare, tra l’altro, che La settima croce, uno dei romanzi più grandi del Novecento e certamente tra i più rappresentativi della letteratura dell’esilio, non è attualmente disponibile4. Con Hans Mayer possiamo in parte convenire, se non in una sorta di immutabilità degli atteggiamenti della scrittrice dagli inizi della sua attività letteraria negli anni Venti sino alla fine5, in una serie di linee tematiche che ne attraversano – modificandosi – la copiosa produzione. Rimane valida l’affermazione di Hans Henny Jahnn che nella motivazione del premio Kleist, attribuito alla giovane scrittrice nel 1928 per i racconti, già autentici capolavori, Grubetsch e La rivolta dei pescatori di Santa Barbara, accanto al realismo e alla nitida precisione della prosa, individua altri elementi che della scrittura di Anna Seghers rappresentano la peculiarità. Nella maestria formale insieme alla «grande chiarezza e semplicità di periodi e vocaboli» viene rilevata «una nota vibrante di polisemicità che rende lo svolgersi degli eventi una trama avvincente»6, la presenza costante di un piano più profondo che non sempre è stato colto e debitamente valutato. Un’affermazione della scrittrice, «non dobbiamo rimanere ancorati alla descrizione, poiché non scriviamo per scrivere, ma per cambiare descrivendo»7, assurta a manifesto della sua poetica, che alla scrittura attribuisce la capacità di cambiare gli uomini e la realtà, ma che allo stesso tempo rivendica per lo scrittore la libertà della rielaborazione creativa, trova più completa formulazione in 4 Non è questa la sede per una disamina più approfondita, sia del complesso rapporto della scrittrice con il comunismo e con l’establishment della DDR, sia della sua limitata “fortuna” italiana. Questo saggio si inserisce in una più ampia ricerca sull’opera della scrittrice. Per la critica occidentale del dopoguerra, cfr. Chr. Degemann, Anna Seghers in der westdeutschen Literaturkritik 1946 bis 1983, Köln, Pahl-Rugenstein, 1985. 5 Cfr. H. Mayer, Der Turm von Babel, cit., p. 202. 6 Cit. in A. Schrade, Anna Seghers, Stuttgart-Weimar, Metzler, 1993, p. 2. 7 A. Seghers, Kleiner Bericht aus meiner Werkstatt, in Id., Gesammelte Werke in Einzelausgaben, Berlin-Weimar, Aufbau, 1977-1980, vol. XIII, Aufsätze, Ansprachen, Essays 1927-1953, pp. 32-33.

I colori delle fiabe

259

un’altra frase ormai famosa: «due erano le linee: raccontare quello che mi appassiona oggi, e la ricchezza di colori delle fiabe. Io avrei voluto unire le due cose e non sapevo come»8. La sua opera si definisce come un intreccio magistrale di realtà e fantasia, dove la tragicità degli eventi descritti si accompagna all’incanto della parola poetica, alle suggestioni delle leggende, delle fiabe e del mito e la lotta per un mondo più giusto attraverso gli orrori della storia non perde la magia della narrazione: la scrittrice militante rimane un’affascinante Sherazade della letteratura tedesca9. «Attualità e fiaba; realtà terrena e immaginazione “non terrena”, compiti politici, collegati alle idee, elaborati razionalmente e associazioni poetiche meravigliosamente irrazionali»10, il continuo intreccio dei due piani, caratterizzano la sua opera secondo un realismo irrinunciabile per uno scrittore marxista ma da intendersi, come viene affermato nel carteggio con Lukács, una delle punte più alte del dibattito sul realismo che divideva gli intellettuali marxisti negli anni Trenta11, non come cruda rappresentazione della realtà, privata di magia. Come lei stessa dimostra «solo un grandissimo artista può rendere interamente consapevole un nuovo pezzo di realtà; altri si limitano a vedere questo pezzo di realtà e non riescono, o riescono solo dopo molte difficoltà, a renderlo consapevole»12. “La ricchezza di colori delle fiabe” non costituisce soltanto un’efficace metafora, ma rappresenta anche un elemento 8 Riportata da Christa Wolf nel suo saggio Glauben an Irdisches, postfazione a A. Seghers, Glauben an Irdisches. Essays aus vier Jahrzehnten, Leipzig, Reclam, 1969, pp. 180-212 (trad. it. B. Bianchi, in A. Seghers, La gita delle ragazze morte e altri racconti, Milano, La Tartaruga, 1981, p. 170). Come ha indicato Christiane Zehl-Romero in Anna Seghers. Eine Biographie 1900-1947, Berlin, Aufbau Verlag, 2000, p. 98 e n. 20 p. 453, la formulazione si trova in una lettera all’amico W. Stehinski, Anna Seghers Archiv. E. Haas nel suo Ideologie und Mythos. Studien zur Erzahlstruktur und Sprache im Werk von Anna Seghers’, Stuttgart, Akademischer Verlag, 1975, p. 207 riprende direttamente la citazione da T. Motylowa, Anna Seghers, Mosca, Gos. Isd. Chudoshestwennoj literatury, 1953, p. 26 con una traduzione dal russo lievemente diversa nella forma, ma sostanzialmente uguale. 9 H. Schubert, Scheherasade Radványi, in «Neue Deutsche Literatur», n. 11, 1980, pp. 111-113. 10 Erregung von heute und die Märchenfarben, in L. Kopelew, Verwandt und verfremdet. Essays zur Literatur der Bundesrepublik und der DDR, Frankfurt a.M., S. Fischer, 1976, p. 46. 11 Cfr. G. Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, Torino, Einaudi, 1964. 12 Ivi, p. 351.

260

Lo sguardo reciproco

fondamentale della sua raffigurazione realistica e, allo stesso tempo, magicamente trasfigurata della realtà. I colori, lungi dal costituire un puro elemento decorativo, diventano costitutivi della prosa, assumono carattere simbolico, esprimono emozioni, suggeriscono stati d’animo, creano atmosfere, segnano la dimensione “altra” della scrittura. Possiamo seguire la metamorfosi dei colori e della luce, nonché delle suggestioni pittoriche, attraverso l’opera della scrittrice in alcuni momenti nodali: dalle grigie dissolvenze e dal contrasto netto tra bianco, nero e macchie di colore vivo dei primi racconti, La famiglia Ziegler (1927-28) e La rivolta di pescatori di Santa Barbara (1928), – colori della disperazione che si contrappongono a quelli della speranza13 –, nel romanzo La settima croce (1942) e nel bellissimo La gita delle ragazze morte (1942-43) si passa a un diverso uso dello spazio e del colore che diventa elemento centrale nei successivi Crisanta (1950) e Il vero azzurro (1967). Ma, pur con le loro differenze, colori e raffigurazioni figurative si collegano sempre alla dimensione mitica – intendendo per mito non un relitto del passato o la fuga regressiva, bensì la trama vitale dell’esistenza e la garanzia di eterno mutamento – che nelle sue opere migliori s’intreccia, arricchendolo, con quel particolare realismo frutto di esperienza e di autentico amore per l’umanità.

Arte figurativa e cinema È innegabile una forte dimensione visiva nell’opera di Anna Seghers, tanto da indurre ad affermare che i suoi racconti e romanzi possono essere spesso letti “con gli occhi”, in quanto anche i pensieri astratti vengono resi molto spesso con descrizioni realistiche, il linguaggio è sempre ricco di immagini. Sono state inoltre rilevate le «sorprendenti affinità tra lo stile della scrittura ed alcuni aspetti formali e compositivi di opere dell’arte figurativa»14. Le scene sono costruite in veri e propri tableaux «descritti fin nei più minuti 13 Cfr. M. Cangemi, Simbologie cromatiche e influssi pittorici nelle prime opere di Anna Seghers, Tesi di laurea, Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Scienze della Formazione, A.A. 1996-97. 14 S. Hilzinger, Anna Seghers, Stuttgart, Philipp Reclam jun., 2000, p. 44.

I colori delle fiabe

261

dettagli»15 dove le figure sono disposte secondo un gusto squisitamente pittorico e gli oggetti assumono una funzione soggettiva, vengono antropomorfizzati, presentando un’inquietante vita propria, fino a dominare ed opprimere gli esseri umani: Dai buchi tondi e sbilenchi tutti gli indumenti le facevano le boccacce. Così l’avevano sopraffatta e costretta a strofinarli fino a farli tornare bianchi, fino a quando le dolevano le mani e si sentiva debole per tutto il corpo16.

O, partecipi della loro disperazione, assumono sentimenti e paure dei protagonisti: Qualcosa di inesorabile aveva spremuto con tutta la sua forza l’ultima goccia di speranza da quella stanza crepuscolare, mobili e vasi e stelle all’uncinetto erano intristiti e appassiti come scorze rinsecchite17.

La descrizione della quotidianità piccolo-borghese in tale forma straniata assume dimensione da incubo. È stato detto che le descrizioni sono «simili nella loro limpida semplicità più a xilografie che a dipinti»18, ma in realtà entrambe le forme, come vedremo, sono presenti spesso in contemporaneità. Abbiamo vere e proprie riprese statiche: «Nella finestra erano infilati un pezzo di cielo, tetti e il muro del cortile»19. Fino al gioco della mise en abyme: «Accanto a loro, su una parete azzurra, erano dipinte le montagne, le nuvole e un fiume»20. I colori s’inseriscono in descrizioni dello spazio, organizzato in sequenze visive che sembrano riconducibili a quadri soprattutto di Rembrandt, cui, come vedremo, la studentessa di storia dell’arte dedica la sua tesi di dottorato, ma anche ad opere espressioniste nella loro particolare utilizzazione del colore, al segno netto della xilografia ed al tratto essenziale della litografia di Käthe Kollwitz, ai colori squillanti dei murales messicani. 15 A. Seghers, Der letzte Mann der Höhle. Erzählungen 1924-1933, con una postfazione di S. Hilzinger, Berlin, Aufbau Taschenbuch Verlag, 1994, p. 221. 16 A. Seghers, Die Ziegler, In Id., Auf dem Wege zur amerikanischen Botschaft und andere Erzählungen, Berlin, Kiepenheuer, 1930 (trad. it. di V. Ruberl Rovelli, La famiglia Ziegler, in Id., La gita delle ragazze morte e altri racconti, cit., p. 19). 17 Ivi, p. 38. 18 S. Hilzinger, Anna Seghers, cit., p. 80. 19 A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p.44). 20 Ivi, p. 46.

262

Lo sguardo reciproco

La rivolta dei pescatori di Santa Barbara evoca immediatamente alla memoria le opere della Kollwitz, che sembrano fare da contrappunto e illustrazione del testo. Il racconto fa pensare senz’altro «a un disegno a carboncino o ad un’incisione in linoleum»21, per il chiaroscuro degli interni, le descrizioni scarne ed immediate, l’uniformità del paesaggio. Nelle due artiste si riscontra la stessa presenza inesorabile della fame che cancella ogni femminilità: «Questa più giovane era di una magrezza pressoché eccezionale»22. Uguale attenzione viene rivolta da entrambe ai derelitti, ai bambini affamati, la medesima coralità proletaria appare nelle loro opere, analoghe le immagini di madri dolenti e disperate: Venne la moglie di Kedennek; era gravida, ma così magra che il ventre le stava in fuori come un nodo da una radice secca. Anche la moglie di Kedennek una volta aveva legato nella cuffia qualcosa di meglio di un mento aguzzo e un paio di zigomi, e non era passato molto tempo da quando anche lei aveva avuto fianchi e petto23.

La «typical narrative strategy of focalization»24 della scrittrice, il concentrare l’attenzione dallo sfondo di grandi eventi storici ai loro effetti sulla vita quotidiana della gente comune, ha un suo preciso corrispettivo nella strutturazione “visiva” delle descrizioni che riprende le tecniche del linguaggio cinematografico. Insieme all’effetto ‘zoom’ di evidenziazione di piccoli oggetti che concentrano il senso di un’intera situazione diventando vere e proprie «metafore visive»25, o di singoli elementi del paesaggio, altrimenti deserto, in cui spicca un unico elemento – un albero, una casa – che s’imprime nella memoria, Anna Seghers fa ampio uso di campi 21

L. Kopelew, Verwandt und verfremdet, cit., p. 43. A. Seghers, Grubetsch, in Id., Der letzte Mann der Höhle. cit., p. 13. 23 A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, Weimar, Kiepenheuer, 1947 (trad. it. di A. Bovero, La rivolta dei pescatori di Santa Barbara, Torino, Einaudi, 1976, p. 121). 24 E. Bourke, “Post ins Gelobte Land” – a Vindication, in «German Monitor» n. 43, Anna Seghers in Perspective, a cura di I. Wallace, Amsterdam-Atlanta, Rodopi, 1998, p. 140. 25 K. Sauer, Anna Seghers, München, Beck, 1978, p. 65. Anche a questo riguardo risultano divergenti le opinioni di G. Lukács che accusa il cinema di mancanza di sfondo e di prospettiva, limitandosi ad una dimensione puramente esteriore. Cfr. la traduzione italiana del suo Gedanken zu einer Ästhetik des Kinos, in A. Barbera, R. Turigliatto (a cura di), Leggere il cinema, Milano, Mondadori, 1978, p. 28. 22

I colori delle fiabe

263

lunghi e primi piani, utilizza con maestria la tecnica del montaggio e della simultaneità, comune ai romanzi urbani come Berlin Alexanderplatz di Döblin e Manhattan Transfer di Dos Passos, a loro volta più o meno direttamente ispirati dalle tecniche cinematografiche. La narrazione possiede un’evidente «sequenzialità filmica»26, procede spesso per singoli fotogrammi, con uso frequente della soggettiva27. L’immobilità compositiva dei quadri con immagini fissate e l’uso personalissimo del colore si combina felicemente con la dinamicità dell’arte cinematografica, il rigore della Neue Sachlichkeit, la nuova oggettività, si alterna alla sperimentazione delle avanguardie artistiche in una scrittura originale e personalissima che fa delle prime opere di Anna Seghers alcuni tra gli esiti più significativi dell’eterogenea e vitale cultura di Weimar. La contrapposizione finale tra i rivoltosi, simili ad un fiume in piena, e i soldati a piè fermo in La rivolta dei pescatori di Santa Barbara, per il ritmo convulso del montaggio con veloce cambio di prospettiva ed il contrasto stridente tra bianco nero, ricorda inequivocabilmente la potenza narrativa della Corazzata Potëmkin di Ejzenstejn28: I pescatori proseguirono. Forse per un attimo ebbero in mente qualcosa di così assolutamente insensato, che non potevano neppure capirlo; fors’anche avevano soltanto voglia di andare di nuovo in truppa … Quando giunsero alla conca, incontrarono i soldati di Kedel. S’era fatto buio, nella conca era notte fonda. Dapprima gli uni videro solo una massa scura, e in mezzo alcuni indefinibili punti bianchi: pescatori. A una conveniente distanza di alcuni metri, non un passo di più, non un passo di meno, i due gruppi si fermarono l’uno di fronte all’altro. I soldati s’accorsero che tra i pescatori c’erano anche donne: le cuffie bianche … passò la notte, cominciò ad albeggiare. I pescatori non andarono avanti e non tornarono indietro. Stavan lì, fermi. Davanti ai soldati la linea scintillante non era più così dritta; i punti bianchi fra i pescatori vacillavano un poco. Essi rimanevano inflessibilmente fermi gli uni di fronte agli altri, ma tutti erano esausti29. 26 P. Beicken, Das Siebte Kreuz, in Interpretationen. Romane des 20. Jahrhunderts, Stuttgart, Philipp Reclam, 1996, vol. I, p. 341. 27 Cfr. C. Zehl-Romero, Anna Seghers. Eine Biographie, cit., p. 265. 28 Per l’influsso del regista sovietico sulle prime opere della scrittrice cfr. C. ZehlRomero, Anna Seghers. Mit Selbstzegnissen und Bilddokumenten, Reinbek bei Hamburg, Rowohlt, 1993, p. 21. 29 A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. pp. 113-114).

264

Lo sguardo reciproco

Si fronteggiano oscurità e luccichio, probabilmente delle armi, linea invalicabile del potere e massa indistinta, ormai compatta, dei rivoltosi in cui si scorgono i punti bianchi delle cuffie femminili. Spicca fra tutte Caterina Nehr, che, nonostante le privazioni e lo sfinimento che hanno illividito il suo volto e fatto impallidire la striscia chiara dei capelli, sembra mantenere una luce interiore che rimane come scintilla di speranza, nonostante l’inevitabile fallimento della rivolta. Il montaggio di intrecci diversi per dare una visione complessiva della società, come in La settima croce (1932) con l’uso di un «montaggio della discontinuità»30 o le scene convulse di simultaneità con il rapido passaggio da un personaggio all’altro nel corso di una manifestazione in favore di Sacco e Vanzetti in Verso l’ambasciata americana (1930), l’alternarsi di monologhi interiori, in realtà racconti retrospettivi più vicini ai flash-back, alternati con voci fuori campo, risentono del taglio squisitamente cinematografico che non si è limitato all’uso delle tecniche. Come altri autori contemporanei Anna Seghers è affascinata ed influenzata dal cinema e, come Brecht, tenta, ma senza successo, di scrivere sceneggiature per l’industria hollywoodiana e si cimenta anche in altre forme mediatiche come il radiodramma31, abbandonando l’immagine per la forza esclusiva della parola, ma molte delle sue opere avranno un’edizione cinematografica32, prima fra tutte La settima croce, che, con la regia di Fred Zinnemann e protagonista Spencer Tracy, ottenne un grande successo e contribuì notevolmente alla fama internazionale della scrittrice e alla sensibilizzazione di vasti ambiti dell’opinione pubblica per la causa antifascista. Nel racconto La famiglia Ziegler il mondo senza speranza della piccola borghesia è spesso descritto in immagini statiche, puramente visive, senza dialoghi, eppure di grande efficacia a metà tra i quadri di genere ed il film muto, anzi il cinema compare anche 30

C. Zehl-Romero, Anna Seghers, cit., p. 265. Cfr. R. Calabrese, Voci e linguaggi nel radiodramma “Il processo di Giovanna D’Arco, a Rouen nel 1431” di Anna Seghers, in H. Dorowin, R. Svandrlik, U. Treder (a cura di), Il mito nel teatro tedesco. Studi in onore di Maria Fancelli, Perugia, Morlacchi Editore, 2004, pp. 275-290. 32 Per la bibliografia sulle trasposizioni cinematografiche delle opere di A. Seghers cfr. S. Hilzinger, Anna Seghers, cit., pp. 193-194 e il sito internet http://us.imdb.com/ Name?seghers,+Anna/ (2006). 31

I colori delle fiabe

265

come elemento di consolazione per la protagonista, fabbrica di sogni per chi non ha più vie d’uscita. Le immagini sullo schermo consentono una fuga momentanea dalla realtà opprimente: Non aveva mai immaginato che ci potessero essere simili voragini. Eppure il suo cuore sentiva al tempo stesso il desiderio che fossero ancora più profonde e quei cavalieri che galoppavano uno dopo l’altro sopra ponti e fossati non si raggiungessero mai … Un sole che rendeva il cuore leggero, splendeva sull’erba folta, sulla solitaria casetta bianca33.

La disperazione finale appare come rinuncia ad ogni gioia, prima fra tutte, il cinema: Non avrebbe mai più visto in un cinema le immagini di un abisso e di un bosco e di un cavaliere. Si mise a piangere, ma, non abituata al pianto, le lacrime venivano dure e dolorose34.

In Crisanta la protagonista vedrà anticipata in un melodramma cinematografico la propria vicenda di madre sola costretta a privarsi del suo bambino35.

Rembrandt L’arte figurativa ha un’importanza fondamentale per l’opera seghersiana; è una componente di quell’Originaleindruck, l’impressione originaria, di stampo goethiano36 ricevuta nei primi anni di Magonza. Il padre, Isidor Reiling, è proprietario con il fratello dell’azienda di famiglia, il più antico e rinomato negozio di antiquariato della città, con vasta clientela estesa anche al di fuori della Germania. Contrariamente a quanto finora si è creduto non è curatore del tesoro del duomo, ma membro della commissione di esperti preposta alla sua conservazione37, comunque sembra detta33

A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. pp. 37-38). Ivi, pp. 47-48. 35 Si tratta verosimilmente del film Las Abandonadas con Dolores Del Río, celebre attrice messicana cui A. Seghers ha dedicato un saggio, rimasto inedito. Cfr. O. Díaz Pérez, Dolores Del Río und Crisanta. Notizen über Dolores Del Río von Anna Seghers, in «Argonautenschiff», 12 (2003), pp. 262. 36 A. Seghers, Volk und Schriftsteller, in Id., Gesammelte Werke in Einzelausgaben, cit., vol. XIII, p. 120. 37 Esattamente «Mitglied der Beratungskommission für die Erhaltung des Mainzer Doms». Cfr. C. Zehl-Romero, Anna Seghers. Eine Biographie, cit., p. 21. 34

266

Lo sguardo reciproco

ta dall’attività familiare, in cui nei disegni paterni doveva subentrare, la scelta degli studi universitari. Netty Reiling – questo il suo vero nome – studia storia dell’arte e sinologia all’università di Heidelberg, svolge un anno di pratica presso il museo di arte orientale di Colonia e conclude i suoi studi nel novembre 1924 con una dissertazione su Ebreo ed ebraismo nell’opera di Rembrandt38, di grande importanza per il nostro discorso per molteplici ragioni. Intanto l’argomento rivela l’intreccio di diversi interessi: il legame con l’ebraismo, che contrariamente a quanto la critica ha sostenuto a lungo, non sarà mai negato, ma anzi assume una complessa configurazione con tracce evidenti nelle opere39, si coniuga con l’arte olandese di cui il padre era esperto riconosciuto ed infine si manifesta chiaramente l’amore per i diseredati. La dissertazione in storia dell’arte diventa uno studio storicosociologico sulla condizione ebraica nell’Amsterdam del diciassettesimo secolo. Esaminando diacronicamente la rappresentazione degli ebrei attraverso l’intera produzione di Rembrandt, vengono distinte diverse fasi, dimostrando come, contrariamente all’opinione corrente, da una visione dell’ebreo esotico ed immaginario, «immagine ideale addobbata in modo fantastico»40 ovvero «una figura vetero-testamentaria»41, il pittore sia giunto ad una rappresentazione realistica attraverso il contatto personale. Quelli a lui vicini inizialmente sono sefarditi, «esponenti di una splendida cultura pressoché secolarizzata»42 discendenti degli ebrei espulsi dalla Spagna e dal Portogallo alla fine del XV secolo, pienamente inseriti nella prospera e colta borghesia olandese. È con l’arrivo massiccio di ebrei orientali, tedeschi e polacchi, negli anni ’40 del Seicento che l’artista viene a contatto con una realtà diversa, con ebrei religiosi, poveri, autentici, veri e propri Ghettojuden, completamente diversi dai suoi concittadini ormai assimilati: 38 N. Reiling (Anna Seghers), Jude und Judentum im Werk Rembrandts, Leipzig, Reclam Verlag, 1990. 39 Sull’argomento mi permetto di rimandare a R. Calabrese, «Mio amato popolo ebraico…». Ebraismo, ebrei orientali e occidentali nell’opera di Anna Seghers, in G. Massino e G. Schiavoni (a cura), Stella errante. Percorsi dell’ebraismo fra Est e Ovest, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 283-300. 40 N. Reiling (Anna Seghers), Jude und Judentum im Werk Rembrandts, cit., p. 14. 41 Ivi, p. 54. 42 Ivi, p. 15.

I colori delle fiabe

267

Cenciosi e dimessi erano nullatenenti, cambiavalute, ambulanti e rigattieri che in tal modo contribuivano ad animare l’immagine della città. Erano disprezzati dai sefarditi in quanto proletari e, a loro volta, disprezzavano i sefarditi, che apparivano ai loro occhi come mezzi-ebrei ignoranti43.

Proprio l’attenzione verso questi aschkenaziti e la loro raffigurazione farà di Rembrandt «il vero pittore degli ebrei»44, valorizzandone quella dimensione dolente, «che può essere descritta come passività, speranza, afflizione e capacità di soffrire»45 e sembra suscitare anche la partecipazione della giovane studiosa, anche se la sua simpatia ha già un netto orientamento di classe, come è evidente nella definizione di «proletari». Lì si può distinguere un primo periodo, in cui il pittore parte dall’idealizzazione e da un’idea romantica di Judentum: «Qui l’ebreo viene rappresentato secondo l’idea del tempo, secondo quel concetto di un ebraismo romantico che specialmente per il giovane Rembrandt è occasione per dipingere la magnificenza e la solennità del sacerdote nei suoi gioielli e nel suo turbante e, allo stesso tempo, di stupire con una bizzarra e appariscente conformazione del viso»46. Segue quindi il passaggio ad una rappresentazione più realistica con la conoscenza degli ebrei orientali. In realtà, inizialmente egli utilizza questi modelli per rappresentare Gesù, «non immergendosi nell’ebraismo dipinge l’ebreo, ma l’ebreo in carne ed ossa entrando nell’opera di Rembrandt serve all’artista come possibilità per realizzare in immagine i suoi temi cristiani»47. Come esempio l’autrice porta due dipinti di epoche diverse rappresentanti lo stesso soggetto – il re Saul – mostrandone le differenze, segno del modificarsi dell’idea rembrandtiana. Lo splendore delle vesti, il fulgore delle gemme, il candore della barba imponente del primo si accompagnano, segnando uno stridente contrasto, con il corpo piegato dalla sofferenza del secondo (figg. 1, 2). Nell’ultima fase del suo sviluppo artistico, descritta nel capitolo La raffigurazione dell’ebreo ideale nel quadro biblico, il pittore, unendo idealismo e realtà, è riuscito a dipingere l’autentica figura 43 44 45 46 47

Ivi, pp. 24-25. Ivi, p. 26. Ivi, p. 17. Ivi, p. 30. Ivi, p. 48.

268

Lo sguardo reciproco

Fig. 1. Rembrandt, David suona l’arpa davanti a Saul, 1630.

Fig. 2. Rembrandt, David suona l’arpa davanti a Saul, 1657.

dell’ebreo, «a rendere visibile essenza e concetto dell’ebraismo attraverso la sua intuizione artistica»48. Scene quotidiane e dimensione biblica si identificano ma talvolta si va oltre la realtà e l’immagine dell’ebreo appare come «potenziamento di quella reale»49. È da rilevare come del risultato – visi dipinti come se nessuno l’avesse mai fatto prima – vengano sottolineate originalità ed autonomia dell’artista che affascinano la giovane e che del suo percor48 K. Batt, Anna Seghers. Versuch über Entwicklung und Werke, Leipzig, Reclam, 1973, p. 26. 49 N. Reiling, (Anna Seghers), Jude und Judentum im Werk Rembrandts, cit., p. 41.

I colori delle fiabe

269

so successivo saranno elemento caratteristico. Secondo la giovane studiosa Rembrandt giunge alla sua rappresentazione degli ebrei «non attraverso le concezioni dell’ebreo del suo tempo, quanto nonostante queste»50 e ciò le appare «l’aspetto più importante e sorprendente». Elementi che trovano sviluppo successivo e che si ritrovano un quindicennio dopo nel fondamentale carteggio con Lukács. Nel suo discorso sul realismo l’ormai famosa scrittrice Anna Seghers, esponente di spicco del fronte intellettuale antifascista, definisce le due fasi della creazione artistica con riferimento a Tolstoj, ma non sono certo dimenticate le riflessioni sul pittore olandese, che del resto viene espressamente citato come uno degli artisti che hanno fissato la realtà del proprio tempo «per tutti i tempi e per tutte le società»51. Traendo spunto dai diari dello scrittore russo, come è noto, Anna Seghers distingue due stadi: il primo, in cui l’artista accoglie in sé la realtà «in modo apparentemente inconscio e immediato»52, come se fosse la prima volta e nessuno l’avesse mai fatto prima, mentre nel secondo si tratta di rendere nuovamente consapevole questo inconsapevole. Il vero artista è colui che presenta, rende consapevole, un nuovo pezzo di realtà, fondendo l’immediatezza dell’esperienza in sintesi poetica con la propria intuizione artistica. Proprio quel mettere insieme quanto appassiona dell’oggi ed il colore delle fiabe della famosa formulazione. La peculiarità della rappresentazione rembrandtiana, analizzata con precisione – attenzione per gli umiliati ed offesi e descrizione della miseria con commossa partecipazione – può essere riferita a tanti personaggi della scrittrice: In realtà egli non presenta figure sofferenti, quanto colpite da un’improvvisa o insolita sventura. Utilizza volti in cui dolore o gioia guizzano improvvisamente ed in cui allora l’artista fissa il momento dell’agitazione, ma non lo stato dell’anima sofferente53.

I protagonisti, specialmente nei primi racconti, come ha sottolineato Christa Wolf nella sua introduzione, sono personaggi colpiti 50 51 52 53

Ivi, p. 58. G. Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, cit., p. 385. Ivi, p. 380. N. Reiling (Anna Seghers), Jude und Judentum im Werk Rembrandts, cit., p. 33.

270

Lo sguardo reciproco

da “improvvisa sventura”, che assume un’inaspettata connotazione coloristica: Nei primi lavori di Anna Seghers la sventura insolita ha un peso notevole per quei personaggi per i quali la felicità era un evento al di là della loro portata. In Grubetsch, il suo primo racconto di una certa lunghezza, pubblicato nel 1926, Anna si chiede: “Cos’è questa, una disgrazia? È come il cortile laggiù e la stanza là dietro? O vi sono anche altre sventure, sventure rosse, ardenti, sfavillanti? Oh, potessi averne anch’io una così!”54.

L’amore per il prossimo porta a rappresentare situazioni di degrado che non diventa disperazione, dove sempre è presente la possibilità del riscatto, brilla la scintilla, è proprio il caso di dirlo, della speranza55. Una delle scene più suggestive di La settima croce si svolge nel Duomo di Magonza e l’alternanza di luce consolatoria ed ombra minacciosa sembra già annunciare il successo della fuga per Georg Heisler, evaso dal campo di concentramento con altri sei compagni: Attraverso la navata centrale si rifletteva la luce di un vetro di finestra, che forse era illuminato da una lampada entro una casa dall’altra parte della piazza del duomo o dal fanale di una carrozza: enorme tappeto ribollente d’ogni colore, disteso nel buio, notte per notte, inutilmente e per nessuno, sopra le lastre del duomo deserto, giacché ospiti come Georg potevano capitare lì dentro una volta ogni mille anni56.

La dissertazione acquista un significato di svolta decisiva, segna il passaggio di Netty Reiling dal mondo ovattato della buona borghesia ebraica di Magonza e dall’influenza familiare alla scelta di vita definitiva suggellata dal nuovo nome, Anna Seghers, ponte tra le due parti diverse ma sempre legate della sua vita, tratto da Herkules Seghers, un artista contemporaneo di Rembrandt. Ancora una volta arte figurativa e letteratura s’intrecciano, nel gioco tra le due dimensioni si costruisce l’identità poetica. Nel dicembre del 1924 appare nella «Frankfurter Zeitung» il racconto I morti dell’i54

Ivi, p. 10. Un concetto, questo, ribadito ripetutamente. Cfr. tra l’altro A. Seghers, Selbstanzeige, in Id., Aufsätze, Ansprachen, Essays 1927-1953, cit., p. 7: «Quando si scrive, si deve scrivere in modo tale che dietro la disperazione si scorga la possibilità e dietro la sconfitta la via di uscita». 56 A. Seghers, Das siebte Kreuz. Roman aus Hitlerdeutschland, Mèxico, El Libro libre, 1942 (trad. it. di E. Vicol, La settima croce, Milano, Mondadori, 1958, p. 66). 55

I colori delle fiabe

271

sola di Djal. Una saga olandese ripresa da Antje Seghers. In un colloquio del 1970 così la scrittrice racconta la scelta del nome d’arte in collegamento a questo suo primo racconto: L’ho scritto in prima persona, come se questo capitano fosse mio nonno. Dovevo pur dargli un nome. Cercando un nome olandese m’imbattei in Seghers, un grafico dell’epoca di Rembrandt; probabilmente mi rimase in mente l’assonanza. Poi dovevo in qualche modo firmare la storia ed allora mi venne in mente che come nipote del vecchio dovevo chiamarmi pure Seghers…57.

Un brano, questo, di grande interesse, dove la consueta tendenza a celare gli elementi autobiografici sembra accentuata dalla grande distanza temporale. Intanto, se ad uno scherzo della memoria può essere attribuito l’errore sul narratore del racconto, in realtà in terza e non in prima persona, Seghers nel racconto non è il capitano, bensì il parroco, come appare nella lapide della sua tomba. Rimane aperta ad ogni congettura l’affermazione di pura casualità nella scelta del nome. Senz’altro può avere avuto un ruolo l’amore per l’Olanda, meta di diverse vacanze, nonché la conoscenza per ambiente familiare e per studio degli artisti olandesi dell’età di Rembrandt, ma tale scelta si carica per noi inevitabilmente di altri elementi. Herkules Seghers58 s’inserisce in quella schiera di artisti misconosciuti e disperati come Büchner, Hölderlin, Günderode, Kleist, Lenz citati nel carteggio con Lukács, perdenti, cui talvolta la storia ha dato giustizia e che, nel caso della Günderode e di Herkules Seghers, la scrittrice strappa dall’oblio e riconsegna alla memoria. Che poi nelle nebbie del passato sia celata anche un’ancora più sconosciuta omonima Anna Seghers, miniaturista, vissuta e morta prima del 1566 ad Anversa59, è elemento per ulteriori riflessioni. 57

C. Wolf, Lesen und Schreiben, Darmstadt-Neuwied, Luchterhand, 1980, p. 144. Nel corso dei suoi studi a Heidelberg Netty Reiling aveva seguito i seminari dello storico dell’arte Wilhelm Fraenger, autore del volume Die Radierungen des Hercules Seghers. Ein physiognomischer Versuch, Erlenbach-Zürich, Rentsch, 1922. 59 In M. Hübel, Mein Schreibtisch: Schriftstellerinnen aus drei Jahrhunderten. Spurensuche in Mainz, Mainz, Edition Erasmus, 1994, pp. 108-109 si legge che tra i molti pittori di nome Seghers, un’intera famiglia, dell’epoca di Rembrandt c’era «una Anna Seghers, vissuta intorno al 1550 e la cui biografia è sconosciuta. Nella sua epoca fu un’attiva miniaturista». Sono riuscita a trovare ulteriori notizie in Descrittione di tutti i Paesi Bassi, altrimenti detti Germania inferiore. Con più carte di geographia del paese et col ritratto naturale di più terre principali di L. Guicciardini, Anversa, presso G. Silvio, 58

272

Lo sguardo reciproco

È quasi superfluo sottolineare come il cambio del nome assuma un profondo significato. Per Netty Reiling sancisce l’abbandono della dimensione borghese e provinciale d’origine e la costruzione di un’identità poetica, che finisce quasi con il sostituire quella reale. Una tematica, questa del cambio di nome e della ricerca d’identità, che compare ripetutamente nell’opera della scrittrice e che sembra assumere particolare rilievo in collegamento alla letteratura ed all’origine ebraica. Nell’unico racconto che ha per tema la questione ebraica, Posta per la Terra Promessa, l’abbandono del nome Jakob a favore del più francese Jacques segna per il protagonista l’avvenuta assimilazione, o per meglio dire, la laicizzazione dei valori della tradizione ebraica, in Transito una serie di equivoci e di eventi hanno origine dallo pseudonimo di uno scrittore, con chiari riferimenti personali. Tra tutti i nomi delle sue diverse identità – Netty Reiling, Netty Radványi, Anna Seghers ed altri usati durante il nazismo – nel suo racconto più autobiografico, La gita delle ragazze morte, il primo, quello di famiglia, sembra possedere la sua più intima essenza con la capacità magica di farla tornare «sana, giovane, allegra»60 e di evocare il passato.

Luce, ombra, colori «Senza dubbio il mezzo proprio di Rembrandt è sempre la luce»61, affermava la giovane scrittrice nella sua dissertazione. Come nei quadri del grande pittore, anche nelle opere narrative di lei la luce è una presenza di grande forza evocativa che crea effetti suggestivi di chiaroscuro, sottili splendori, atmosfere fantastiche, misteriosi chiarori in cui sono immersi i personaggi. Egualmente irradiandosi da un punto inonda il quadro e anima volti e oggetti che si stagliano dal fondo scuro. Il gioco della luminescenza crea effetti di grande efficacia, disegna atmosfere trasfigurate e insieme sca1567, p. 99, dove insieme ad altre due «nella pittura donne eccellenti» viene citata «Anna figliola di maestro Segher già nominato, fisico eccellente, nativo di Breda, e cittadino d’Anversa: la qual’Anna molto virtuosa e divota seruando anch’essa virginità, finì poco fa i giorni suoi». 60 A. Seghers, Der Ausflug der toten Mädchen, in Id., Der Ausflug der toten Mädchen und andere Erzählungen, New York, Aurora, 1946 (trad. it. p. 82). 61 N. Reiling (Anna Seghers), Jude und Judentum im Werk Rembrandts, cit., p. 43.

I colori delle fiabe

273

va nella psicologia dei personaggi. Nella sua introduzione alla dissertazione, Christa Wolf afferma: «nei romanzi e nei racconti di Anna Seghers domina spesso una luce alla Rembrandt, che mette in risalto singole figure, gruppi o oggetti dal loro ambiente immerso nella semioscurità»62 e cita l’inizio di Grubetsch che costituisce un esempio della scrittura “pittorica” di Anna Seghers. La luce fioca della lanterna che illumina «la pozzanghera, nel selciato divelto, una pantofola gettata via e un mucchio di mele marce»63, in una scena senza personaggi, introduce visivamente un ambiente di miseria e di abbandono. Nei primi racconti è molto presente il gioco di luci ed ombra: lo sfondo grigio dell’ambiente viene rischiarato da un improvviso raggio luminoso o un colpo di colore attira l’attenzione del lettore, mettendo in evidenza i dettagli secondo una precisa tecnica rembrandtiana: In soggiorno, sul divano sotto lo specchio, era seduta sua sorella Anna con un giovanotto, il fidanzato. Anna portava una camicetta bianca stirata di fresco e una cintura stretta. Era una bella ragazza. Il suo compagno le teneva la mano e passava il pollice sul palmo, gli occhi di lei brillavano. La piega sulla gamba accavallata del giovane correva con una linea precisa attraverso la stanza vuota, quasi buia64.

In questo caso il gioco è duplice, due sono i punti di luce: uno che contrastando con la semioscurità della stanza mette improvvisamente in risalto i dettagli, e la luminosità emessa dalla ragazza bella e felice, a marcare la contrapposizione, come vedremo, con la sorella. Il contrasto tra luce ed ombra avviene anche sul piano metaforico nell’ambito della stessa frase, accentuando dissonanze e conflitti: «Qui è così bello e scuro, proseguì Anna con voce chiara»65. Questi racconti sono circonfusi di nebbia che sfuma i contorni e illanguidisce i colori e crea l’atmosfera spettrale di I morti dell’isola di Djal, che ricorda L’isola dei morti di Böcklin, e, insieme alla pioggia incessante di La famiglia Ziegler e specialmente di La rivol62 63 64 65

Ivi, pp. 10-11. A. Seghers, Grubetsch, cit. (trad. it. p. 13). A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p. 13). Ivi, p. 77.

274

Lo sguardo reciproco

ta dei pescatori di Santa Barbara, traccia un’atmosfera di desolazione, con brevissimi attimi di requie in un quadro dai colori smorzati e dalla lieve luminosità: La nebbia era svanita, il cortile invernale era lucido e levigato come uno specchio in cui si rifletteva il quadrato di cielo tra i tetti. Era lucido e levigato ed egualmente provvisto di una piccola luce solitaria come la lanterna di Munk66.

La famiglia Ziegler I racconti Grubetsch e La famiglia Ziegler hanno come punto centrale della loro ambientazione il cortile di uno squallido casermone. La tavolozza livida dei colori usati rende evidente la miseria del proletariato urbano, mentre il primo racconto presenta un personaggio di rivoluzionario velleitario e anarcoide, tipico di questa prima fase, l’altro descrive, secondo la definizione della stessa autrice, «il crollo della piccola borghesia»67 attraverso la famiglia Ziegler, proprietaria di un maglificio artigianale strozzato dalla crisi, che, ormai alla fame, cerca disperatamente di mantenere le forme di un decoro ormai insostenibile, vittima della solitudine e della mancanza di solidarietà: «si vive accanto, non insieme, ciascuno è solo con la propria pena interiore»68. Povertà ed illusioni, e tutta la rappresentazione dell’ambiente appaiono plasticamente nel gioco simbolico tra luce ed ombra, nei contrasti cromatici, come appare nella scena iniziale che introduce il personaggio principale, la giovane Marie, con la cui morte si conclude la triste vicenda degli Ziegler: In un pomeriggio d’autunno che sembrava soffocare più che ravvivare le luci della cittadina, Marie si trovò sul pianerottolo davanti alla porta appena richiusa nella Betzelgasse. Teneva in mano il denaro ricevuto per il lavoro a maglia che aveva appena consegnato. Chiuse la mano con forza e scese di un piano. Era quasi buio. I globi d’ottone illuminavano la ringhiera, i vetri rossi e azzurri della finestra, incandescenti quando era sali66

A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. p. 33). A. Seghers, Briefe an Leser, Berlin-Weimar, Aufbau, 1970, p. 8. 68 F. Albrecht, Die Erzählerin Anna Seghers 1926-1932, Berlin, Rütten & Loening, 1975, p. 46. 67

I colori delle fiabe

275

ta, adesso erano opachi […]. Si guardò intorno; le sfere di ottone adesso erano sottili mezzelune. Esitava, sembrava aspettare qualcosa. Il cuore le si stringeva, per la paura o per l’ansia. Chinò la testa e attese. Ma non accadde nulla […]. Premette il viso sull’unico vetro chiaro tra i molti colorati. Tra le case attigue c’era un cortile: contro il muro erano ammucchiati alcuni sacchi, una lanterna, un carretto; un operaio aspettava il compagno che armeggiava nella giacca. Guardò giù, fino a quando egli ebbe infilato le braccia nelle maniche, poi uscì in strada69.

La scena si apre nella Betzelgasse, una strada elegante, ben diversa dal quartiere popolare dove abitano gli Ziegler. Marie vi si reca per consegnare i lavori a maglia e ricevere nuove ordinazioni, che si fanno sempre più rare. È un pomeriggio autunnale, fosco e cupo, che inghiotte le luci della città. Viene descritto il sopraggiungere della sera che progressivamente oscura i globi di ottone, inizialmente sfere illuminate, per trasformarsi impercettibilmente in opache mezzelune, prima di svanire completamente, mentre le vetrate ardenti perdono a poco a poco i loro colori e si confondono nell’oscurità. Come la luce del giorno anche la speranza di Marie si va sempre più affievolendo. Solo fuggevolmente, nel soggiorno di una famiglia nella Betzelgasse, ritrova la Gemütlichkeit, l’intimità e il calore, ormai perduti nella sua casa, rappresentati da un cerchio di luce in cui la ragazza viene ammessa per un breve istante: Era caldo, si sentiva odore di caffè, un orologio ticchettava. Un ragazzino con gli occhiali alzò gli occhi da un libro illustrato. Qualcuno le rivolse parole gentili e le offrì una sedia. Lei si accostò al tavolo senza sedersi. Per un attimo fu inclusa nel cerchio luminoso della lampada. Si fece chiaro in lei, chiari i suoi desideri, le sue preoccupazioni, le sue ansie70.

La luce esterna, in cui si ritrova per un breve istante, si riflette immediatamente dentro di lei, mettendo a nudo ansie e timori, cominciando a rivelarle la sua condizione, di cui prende pienamente coscienza in una scena successiva. La stessa donna le offre simbolicamente delle mele “lustre”, che rappresentano i colori della vita da cui Marie, nonostante il suo più profondo desiderio, si va allontanando inesorabilmente: 69 70

A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p. 7). Ivi, p. 17.

276

Lo sguardo reciproco

La donna gentile le offrì delle mele, come qualche settimana prima le aveva offerto dei biscotti. Solo che nel frattempo le mani di Marie si erano fatte pesanti, un biscotto magari avrebbe ancora potuto prenderlo. Delle mele, meravigliosamente lustre, gialle, era impossibile71.

L’esclusione dal cerchio luminoso della vita è descritta visivamente: «la donna alta e scura non era sua madre, il ragazzo con gli occhiali non era suo fratello; doveva andarsene perché quella luce non le apparteneva». Più volte nel racconto la luce viene associata alla sicurezza, al calore ed all’intimità e nella contrapposizione con gli esclusi, al di fuori del cerchio luminoso, appare inequivocabilmente la devastante crisi economica che stritola le classi medie nell’impotente rabbia del padre: Lanciava accuse contro chi aveva distrutto la sua vita, l’aveva defraudato dei suoi averi. Li copriva di insulti e maledizioni. Avrebbe frantumato con un sasso le loro finestre, di quelli che se ne stavano al sicuro nella luce mentre la gente come noi va in malora72.

La situazione senza via di uscita di Marie, la sua soffocante immobilità si rivelano nell’atemporalità in cui è immerso il racconto. Come se il tempo non fosse passato, ritroviamo il ragazzino «seduto davanti all’album, che non sembrava ancora sfogliato del tutto dall’ultima volta». Tutto appare desolatamente uguale, immerso nel grigiore, spezzato da brevi irruzioni del colore. Se la luminosità ed il gioco del chiaroscuro si richiamano, da una parte, alla strutturazione dei quadri rembrandtiani ed alle xilografie della Neue Sachlichkeit, i colori violenti ed esplosivi sembrano rivelare l’origine espressionista, in quanto «ogni macchia di colore, ogni membro del verso è un urlo, una sferzata, uno scoppio; la realtà intera sembra presa da un folle dinamismo spasmodico»73. Sono colori irreali, di forte carica simbolica che finiscono con l’assumere una vita propria al di fuori della tela: Ora essi diventano “valeurs”, non nel senso impressionistico di colori complementari, ma valori per sé stanti, in quanto sono assurdamente diversi da quello che nella realtà dovrebbero essere e creano quindi una 71 72 73

Ivi, p. 30. Ivi, p. 20. L. Mittner, L’espressionismo, Bari, Laterza, 1965, pp. 28-29.

I colori delle fiabe

277

nuova realtà che è assurda nell’insieme non meno che nei particolari, perché non accetta la legge dei colori reali74.

In questi racconti, con una precisa valenza politica, dominano i colori smorzati della disperazione, specialmente il grigio, che con la loro uniformità e monotonia denunciano situazioni di miseria e desolazione. Come vedremo in La famiglia Ziegler i colori rappresentano “il colore delle fiabe”, l’evasione fantastica, ma anche la nota positiva, e, più esplicitamente, in La rivolta dei pescatori di Santa Barbara la fiducia nella vittoria finale della rivoluzione dopo la sconfitta, poiché «l’urlo di orrore davanti a una realtà sinistra, è il grido di speranza perché l’approssimarsi della fine non può che avvicinare il momento della rinascita»75. Il contrasto tra realtà e sogno di un mondo migliore presenta la più efficace formulazione all’inizio del racconto La famiglia Ziegler, nella policromia delle vetrate, le cui tinte cominciano a “sfaldarsi” agli occhi appannati di Marie, che, attraverso un vetro bianco, scorgerà una scena quotidiana di operai al lavoro mentre si accende un lampione. Desiderio di trasformare la propria vita, sogno, evasione fantastica saranno per Marie sempre coloratissimi, mentre la realtà è spoglia di ogni tonalità viva, le vetrate policrome «rappresentano la fuga in sogni fantastici … lo sguardo attraverso il vetro incolore significa lo sguardo sulla realtà»76. Le tinte dei vetri sono caratterizzate dal ricorrere del verbo “glühen”, ardere, a indicarne l’intensità vitale: le finestre sprigionano «scintille rosse e verdi»77 come se qualcuno «avesse attizzato i colori rossi e azzurri fino a farli scintillare e risplendere»78. Il grigio, come colore dominante o come polvere che si posa sugli altri colori uniformandoli nella tetraggine della realtà dei personaggi, vessati da una sorte ostile senza scampo, esemplifica la definizione di Kandinsky: «Il grigio è silenzioso e immobile …Il grigio è l’immobilità senza speranza. Più diventa scuro, più si accentua la desolazione e cresce il suo senso di soffocamento»79. Le pennellate 74

Ivi, p. 39. P. Chiarini, L’espressionismo tedesco, Bari, Laterza, 1985, p. 161. 76 F. Albrecht, Die Erzählerin Anna Seghers 1926-1932, cit., p. 21. 77 A. Seghers, La famiglia Ziegler, cit., p. 30. 78 Ivi, p. 40. 79 W. Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst, München, Piper, 1912 (trad. it. di E. Pontiggia, Lo spirituale nell’arte, Milano, SE, 1989, p. 67). 75

278

Lo sguardo reciproco

di rosso non fanno che accentuarne per contrasto la desolazione, così come il cortile tetro e opprimente si contrappone alla luminosa e colorata Betzelgasse: Nel laboratorio la polvere aderiva alle pareti come lanugine chiara, Marie non aveva neppure cominciato che tutto sembrò morto e grigio. Sul muro c’erano rosse macchie di sole, Marie vi si afferrava come se avesse voluto inghiottirle, stringerle in fondo, dove tutto era buio e vuoto80. In basso, c’erano le finestre del laboratorio, grigie, morte – già dimenticate. Dal cielo, abbassandosi, una cascata rossa scendeva sul davanzale, sulle braccia di Marie81.

Pur se nella dialettica di classe la dimensione piccolo-borghese appare senza possibilità di riscatto, la sua disperazione viene presentata con umana partecipazione. Proprio l’assenza di colore, la desolazione del grigio, rappresenta una realtà senza possibilità di riscatto a cui si contrappone la polarità del rosso in diverse significazioni. I colori inutilmente brillanti dei gomitoli di lana non serviranno a ridare lavoro e dignità alla famiglia. Pennellate di colore fanno risaltare il grigio e ne interrompono la fredda uniformità, danno calore e breve sollievo alla desolazione. Il rosso entra nella casa degli Ziegler ad accentuare la loro disperazione, “arde” fuggevolmente illuminando la tristezza della stanza in cui lavora Marie: «il rosso colore scoppiettante della stufetta di ferro dava allegria alle cose buttate alla rinfusa»82. Ma è all’esterno della casa che la pienezza ed il fulgore dei colori della vetrata alludono ad un mondo altro, più felice, da cui Marie si allontana, incapace di vincere la debolezza che l’avvolge e la paralizza sempre più. Progressivamente le tinte si fanno più intense, il mondo felice dei colori diventa sempre più irraggiungibile, più forte e irrealizzabile il desiderio di un’altra vita. La disperazione del padre e il suo tentativo, sempre più patetico, di mantenere le apparenze vengono fuori poco prima della morte in una sarabanda di colori ardenti, fiammeggianti, violentissimi che sfuggono dalla tela come nei quadri espressionisti e colpiscono profondamente il lettore: 80 81 82

A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p. 12). Ivi, p. 15. Ivi, p. 22.

I colori delle fiabe

279

La luce del sole non bastava a riempire del tutto il cortile […]. Girava la testa da tutte le parti per far capire ai curiosi il motivo per cui stava nel cortile vuoto. D’un tratto si mise a battere furiosamente i piedi sul selciato, e allora si fece chiaro dentro di lui, l’infelicità sgorgò dal suo cuore in colori audaci, luminosi. Inondarono il cortile, lo fecero fiammeggiare e ardere, in uno strano, disperato splendore. Poi tutto finì. I colori divini, audaci e fiammeggianti, si spensero intorno a lui e il cortile fu grigio e freddo83.

I colori diventano protagonisti della scena e indicano simbolicamente «ciò che potrebbe rendere Ziegler un uomo diverso: l’affrancamento dal timore schiavizzante di contravvenire ai pregiudizi della sua classe, la ribellione contro il suo destino»84. Una connotazione ancora più precisa di ribellione impotente che si esprime nel più tipico – e colorato – grido espressionista appare nella fuga del fratello di Marie dagli uomini venuti a prenderlo per condurlo al riformatorio: A questo punto il ragazzo si divincolò, con un salto uscì nel cortile dalla porta secondaria, gli uomini gli corsero dietro […] le grida continuavano, come se lo bruciassero o lo mordessero. Mai più, si sarebbero udite grida così terribili in quel cortile […] i rossi zigzag delle grida avevano inciso cicatrici nel cortile85.

Ai colori è affidata anche un’indicazione politica che rimane ancora vaga allusione. Il rosso appare nei berretti di due ragazze, compagne di scuola di Marie, ormai avviate ad una vita serena e spensierata. La scintilla della speranza e della possibilità di cambiamento è cromaticamente presentata dalla giovane dal berretto rosso: appartiene ad un mondo ormai distante da quello degli Ziegler e rappresenta la possibilità di evasione, la personificazione dei desideri, la dimensione indispensabile della fiaba e del mito, che ormai Marie, distrutta da una società ingiusta, non è più in grado di accogliere. Sarà proprio lei – alta, bella come una dea con gli occhi luminosi e la faccia bianca e rossa, quasi un’apparizione – a lanciarle un messaggio di salvezza: «Marie, volevo dirti, perché non vieni con noi, siamo sempre tante tutte insieme, vieni una volta con noi»86. Un in83 84 85 86

Ivi, p. 34. F. Albrecht, Die Erzählerin Anna Seghers 1926-1932, cit., p. 49. A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p. 34). Ivi, p. 31.

280

Lo sguardo reciproco

vito enigmatico (ancora di più nell’originale tedesco perché «wir sind immer viele zusammen» potrebbe benissimo essere anche una forma maschile e quindi far pensare alla possibilità di unirsi alla lotta proletaria)87. Ma ormai Marie (e la sua classe con lei) sembra paralizzata e svuotata di ogni capacità di scelta e possibilità di riscatto. Nonostante l’attrazione per la giovane, bella, sana, vitale, non ha più la forza di seguire il suo richiamo: Lasciò la sua mano, lentamente, lentamente; così come si sprofonda in una palude, una forza terribile, sconosciuta e violenta trascinava via Marie, lontano da quella ragazza: le loro mani si tenevano ancora, adesso le punte delle dita, adesso gli occhi, era ancora più forte di quanto fosse la ragazza, trascinava Marie giù per la via, verso la piazza88.

Marie morirà, scorgendo da lontano il berretto rosso della sua amica, di cui cerca di attirare l’attenzione, forse per un tardivo ripensamento, ma ogni articolazione della parola si spegne definitivamente in un grido di estrema, inutile ribellione. Lapidario e di grande impatto è il finale, senza parole, visivamente significativo, in cui con abile montaggio si alternano riprese da vari punti di vista, come il tragico finale di un film: La ragazza si fermò perplessa. Si guardò intorno stupita da tutti i lati; la piazza era vuota. Alzò le spalle e proseguì in fretta, senza vedere Marie che giaceva stesa per terra89.

Il fratello sia pure con «un atto di liberazione individuale»90 si allontana dalla famiglia e in città può incanalare il risentimento in azione politica. La sua reazione alla fame e all’indigenza sembrerebbe – come sarà analizzato in dettaglio nel successivo racconto Un uomo diventa nazista (1942-43) – l’adesione al nascente partito hitleriano: «Pensava a città lontane, ai suoi compagni, al suo lavoro, a sfilate, assemblee, bandiere, manganelli, fame e piazze nere di gente»91 ovvero, forse un po’ forzatamente, esempio di consapevolezza proletaria, come vitalistica autorealizzazione e fuga dalle ristrettezze92. 87 88 89 90 91 92

Cfr. A. Schrade, Anna Seghers, cit., pp. 16-17. A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p. 31). Ivi, p. 53. F. Albrecht, Die Erzählerin Anna Seghers 1926-1932, cit., p. 55. A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p. 50). Cfr. K. Batt, Anna Seghers. Versuch über Entwicklung und Werke, cit., p. 35.

I colori delle fiabe

281

L’impegno politico rimane ancora soltanto accennato nelle opere, senza precisa definizione, come invece succederà in seguito, dopo l’adesione della scrittrice nel 1928 al partito comunista, l’impegno intenso nella “Lega degli scrittori proletari” e l’avvento al potere di Hitler. Militanti e rivoluzione appaiono ancora avvolti in un’aura sognante, i “rivoluzionari” hanno tracce anarcoidi, più simili agli “eternisti” che agli attivisti” espressionisti. Marie rappresenta l’aspirazione alla realizzazione personale in una società più giusta del capitalismo che distrugge i deboli senza pietà, ma anche la vanità di una risposta puramente individuale, come appare chiaramente nelle seguenti parole: «non c’era salvezza. Non c’era proprio niente. Niente, se non quella forza che si ha dentro, e anche quella da sola era inutile»93. La condizione piccolo-borghese diventa una morte civile che assume connotazioni funeree, i cortili di questi due racconti sono tetri e oscuri, illuminati da una fioca «luce tombale»94, grigie e morte sono le finestre del laboratorio in disarmo degli Ziegler, mentre, in un racconto successivo, la raggiunta consapevolezza politica si accompagna ad una luce abbagliante: «Adesso il cielo era pieno di stelle. La luce era completamente chiara, come filtrata. Ogni granello di sabbia era risucchiato dalla luce»95. Diversamente da Marie, con la sua rassegnata disperazione, che svolge in silenzio le incombenze quotidiane, il fratello ha sviluppato rabbia e aggressività. Riempie prepotentemente lo spazio («adesso il locale era pieno e angusto»96), è caratterizzato da elementi animali, («lunghe membra», «bianchi denti cattivi») che ritornano nelle descrizioni come Leitmotive a designare fame e abbrutimento. La differenza tra loro è rappresentata da un contrasto cromatico, dalla contrapposizione tra grigio e giallo: Adesso la sua faccia unta e gialla faceva capolino fra le gambe del tavolo 93

A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p. 50). A. Seghers, Grubetsch, cit., p. 13. Sul ricorrente e complesso motivo della morte in tutta l’opera della scrittrice, cfr. F. Albrecht, Zwischen den Grenzpfahlen der Wirklichkeit. Zur Todesproblematik bei Anna Seghers, in «Weimarer Beiträge», vol. 36 n. 1, (1990), pp. 118-139. 95 A. Seghers, Der letzte Mann der Höhle, cit., p. 130. 96 A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. p. 9). 94

282

Lo sguardo reciproco

[…]. Marie venne avanti, la faccia sotto il tavolo era gialla e cattiva, strana e violenta; lei aveva paura dei suoi denti, aveva sempre avuto paura di questo fratello, disse piano: «Su, vieni». Il ragazzo girò la testa verso di lei: e questa cosa vuole? Noiosi erano il padre e la madre, noioso e tonto il fratellino, noiosa e stupida Anna, ma Marie era la peggiore, la più grigia di tutti; aveva voglia di ficcare i denti nelle sue gambe magre come fusi, nelle sue mani che trafficavano sempre, avrebbe voluto strapparle il cuore con un morso […]. Che si potesse avere pietà di qualcosa di così giallo e violento! «Vieni!». Il ragazzo chinò la testa, le gambe di Marie erano così misere e rammendate; venne fuori carponi, si rizzò in piedi e uscì di corsa dalla stanza97.

Nella dimensione puramente soggettiva dei personaggi, Marie appare la più grigia, rassegnata, passiva, mentre il fratello, che non perde occasione di dare sfogo alla rabbia ed alla violenza individuale, le appare segnato dal giallo. Un colore che, assieme alle connotazioni positive di allegria e luminosità, possiede anche un carattere ambiguo, è materiale, terragno, manca di profondità, si collega a rozzezza, ignoranza, aggressività irrazionale. La descrizione di Kandinsky corrisponde perfettamente al carattere del giovane: Il giallo è il colore tipico della terra. Non può avere troppa profondità. Se è raffreddato dal blu acquista, come abbiamo detto, un accento malato. Da un punto di vista psicologico può raffigurare la follia, intesa come accesso di furore, di irrazionalità cieca, di delirio. Un malato infatti aggredisce la gente all’improvviso, getta le cose per terra, disperde inutilmente le sue energie in tutte le direzioni, fino all’esaurimento. Il giallo si può anche paragonare all’estate morente, che dilapida assurdamente le sue energie nell’incendio delle foglie autunnali, di quelle foglie da cui ormai è scomparsa la quiete dell’azzurro, che è salito in cielo. Nascono così colori folli di energia, ma incapaci di profondità98.

Il patetico tentativo di preservare l’apparenza della dignità anche nella più cupa miseria, da parte del padre, presenta l’intreccio di grigio e giallo nel vestito in via di consunzione: Il delicato tessuto grigio faceva sempre più parte della propria carne. Cominciò ad osservarlo come si osserva la pelle ammalata, scoprì che non era composto soltanto da fili neri e grigi, ma che era percorso all’interno da un sottile filo giallo, sempre il primo a strapparsi99. 97 98 99

Ivi, pp. 22-23. W. Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst, cit. (trad. it. pp. 62-63). A. Seghers, Die Ziegler, cit. (trad. it. pp. 35-36).

I colori delle fiabe

283

Per Marie, ormai spenta ogni forza ed ogni legame con la vita, tutto è ormai colorato di giallo «una macchia gialla, disciolta, quello era il sole»100. Nell’assoluta solitudine non c’è aiuto, non c’è l’angelo salvatore dei quadri ingenui della scuola, c’è la desolazione del nulla.

La rivolta dei pescatori di Santa Barbara In La rivolta dei pescatori di Santa Barbara il chiaro impegno politico si accompagna con la descrizione di paesaggi amati, con l’amore per il mare101, immagine ricorrente di libertà e salvezza. L’azione – una rivolta destinata al fallimento – si svolge in un’isola indefinita dai tratti olandesi e bretoni, due paesaggi entrambi amati dalla scrittrice che vi aveva trascorso felici vacanze nell’infanzia. Anche l’ambito cronologico rimane incerto per mantenere un carattere esemplare di atemporalità. I personaggi della comunità di pescatori rimangono, come è consueto nei dramma espressionisti, mera astrazione, privati di tratti individuali, conferendo grande incisività alla vicenda narrata. Rimane valido il giudizio di H. H. Jahnn, nella motivazione del premio Kleist: «Un buon libro dal linguaggio conciso e chiaro […] in cui l’orientamento politico è meno forte rispetto alla forza dell’umano. È un processo esistenziale in trasfigurazione quasi metafisica. Questa io la chiamo arte»102, in cui si sottolinea come la simpatia della scrittrice per i diseredati, nutrita dall’ideologia, sia sincera e spontanea. L’isola è flagellata dal vento, sferzata da una pioggia incessante, avvolta da una nebbia pesante che inghiotte anche il sole. Il vento, anzi, secondo Mittner, è addirittura il vero protagonista del racconto103. Il piatto paesaggio nordico, tetro, ostile, è costellato di dune sabbiose e capanne, orlato di scogli perigliosi: 100

Ivi, p. 40. A. Seghers, Brief an Leser, cit., p. 10: «Quando ho scritto la novella La rivolta dei pescatori di Santa Barbara, l’ho fatto con un profondo attaccamento a tutto quanto vuol dire mare e pescatori». 102 Citato in H. Mayer, Der Turm von Babel, cit., p. 202. 103 L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, vol. 3, tomo 2, Torino, Einaudi, 1971, p. 1412. 101

284

Lo sguardo reciproco

Non erano vere dune, ma la costa verso il mare era corrosa in scogliere; verso l’interno, invece, coperta da uno strato di sabbia, su cui, in macchie sparse, cresceva una specie di rigida erba spinosa sempreverde. Ai due lati si stendeva il paese in lievi ondulazioni104.

Salvo quest’unica nota di colore – l’erba spinosa sempreverde – l’ambiente è dominato da un grigiore uniforme, dalla livida monotonia della pioggia che, «penetrava nel corpo, rendendolo molle come un cencio, sì che non ci restava più né sostegno, né fermezza, né ostinazione»105 e insieme al vento incessante ha modellato e indurito il paesaggio e gli uomini silenziosi, avvezzi al lavoro estenuante per miseri compensi, subalterni e rassegnati. Tale impotente abbandono ad un destino ingrato è segnato dal grigio, dalla sua pesantezza plumbea che grava anche nell’aria e sembra paralizzare in una fissità oppressiva e soffocante, in una tetra infelicità senza desideri: Cupi e immobili, plumbei e grevi di pioggia, cielo e terra si fissavano rigidi, come lastre di una gigantesca pressa idraulica. Faceva freddo, non un freddo acuto, ma lentamente penetrante, che mordeva tutte le cose […] Dietro la finestra il cielo calava opprimente in greve pioggia sul mare. La sera scendeva inaspettata, inavvertita, un po’ più grigia del giorno106.

Anche l’aria è spessa e grigia, egualmente grigi i muri e le strade: Di fronte c’era ancora un pezzo di muro che apparteneva alla casa di Nehr, tutto di pietrisco grigio … c’era ancora un pezzo di strada, altrettanto grigio, con lo stesso pietrisco e, in mezzo, bassi brandelli di cielo107.

Grigia è perfino la sabbia. La pioggia sembra tingere tutta la realtà, privandola di ogni traccia di vitalità. Cielo e terra, in un’immagine capovolta di grande efficacia, sembrano risucchiare il grigio per distribuirlo inesorabilmente in tutta l’isola senza lasciare un solo sprazzo o una traccia diversi, neanche nelle immagini più astratte: «il vento era mutato, il cielo era basso e con tutte le sue radici succhiava il grigio della terra, ricominciando a struggersi e a gocciolare»108. Senza parole, tutto esprime desolazione e immobi104 105 106 107 108

A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. p. 44). Ivi, p. 50. Ivi, pp. 6-7. Ivi, pp. 42-43. Ivi, p. 115.

I colori delle fiabe

285

lità, come per Kandinsky: «Il grigio è silenzioso e immobile … Il grigio è l’immobilità senza speranza. Più diventa scuro, più si accentua la sua desolazione e cresce il suo senso di soffocamento»109. Una situazione che sembrerebbe senza via d’uscita ma che può anche accennare ad una possibilità, dato che, è sempre il grande pittore, il grigio nella sua tonalità più chiara rivela una trasparenza che ha in sé un accenno di superamento. Se diventa più chiaro, è percorso da una possibilità di respiro che racchiude una segreta speranza, contiene anche una potenzialità di cambiamento che troverà nel racconto un tentativo di realizzazione. È intanto la fiera annuale ad accendere un forte desiderio di felicità e a scatenare un’esagerata euforia nella comunità di Santa Barbara, sottolineata dall’irrompere di colori forti, ardenti che fioriscono improvvisi come fiori selvatici: Infine furono spiegate le tende; l’uno sull’altro, sulle liste delle lotterie, fiorirono rossi e verdi i numeri delle vincite110.

Colori che tornano a rivestire il consueto paesaggio, trasformandolo, in una dettagliata descrizione più pittorica che letteraria, d’impronta, stavolta, impressionistica: Di sera, da un battello di passaggio si potevano vedere le luci scorrere nel mare in fili verdi e rossi. Ancor prima dell’ingresso nella baia, c’era qualche goccia di luce nel mare. L’acqua le sminuzzava in chiazze, esse andavano a galleggiar lontano, forse sul mare aperto, come altri rifiuti di navi e di villaggi, verso nord o verso sud, chissà dove111.

I colori inconsueti che trasformano fuggevolmente il paesaggio non fanno che accentuare la misera condizione dei pescatori112, ma anche rendere manifesto un fino ad allora insospettabile senso di comunanza e solidarietà che consentirà la rivolta, uno sciopero durissimo contro la spietata serrata dei padroni, non appena arriverà Hull, capo rivoluzionario carismatico, salvatore dai tratti messianici, capace di catalizzare e organizzare le forze. 109

W. Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst, cit. (trad. it. p. 67). A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. p. 55). 111 Ivi, p. 56. 112 F. Albrecht, Die Erzählerin Anna Seghers 1926-1932, cit., p. 129: «Così come i colori vividi creano un forte contrasto con il grigio monotono che altrimenti è dominante nella rappresentazione dell’ambiente, il contenuto psicologico rende pienamente visibile la totale infelicità e miseria della vita dei pescatori». 110

286

Lo sguardo reciproco

Grande attenzione è stata data dai critici all’inizio del racconto, un incipit ormai celebre che, annunciando la fine della rivolta, proclama la fede nella vittoria finale della rivoluzione. Ciò che a questo punto è da sottolineare, è la dimensione visiva di tale celebre metafora. Come ha affermato Mittner, la piazza «è presentata alla fine come lo spazio mitico della rivoluzione»113: La rivolta dei pescatori di Santa Barbara finì con un semplice ritardo nell’imbarco alle stesse condizioni dei quattro anni precedenti. Si può dire che la rivolta vera e propria era già finita, prima che Hull fosse consegnato a Port Sebastian e Andrea, fuggendo, perisse sugli scogli […]. Ma per gran tempo, quando già i soldati erano stati ritirati e i pescatori erano in mare, la rivolta rimase ancora sulla piazza del mercato, bianca e deserta nell’aridità estiva, e pensava silenziosamente ai suoi, che essa aveva generati, allevati, assistiti e protetti per quello che per loro fu il meglio114.

La piazza presenta l’astrazione metafisica delle geometrie di De Chirico insieme alle personificazioni espressioniste, sottolineate dal bianco nell’accezione positiva di Kandinsky: Il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto. Interiormente lo sentiamo come un non-suono, molto simile alle pause musicali che interrompono brevemente lo sviluppo di una frase o di un tema, senza concluderlo definitivamente. È un silenzio che non è morto, ma è ricco di potenzialità. Il bianco ha il suono di un silenzio che improvvisamente riusciamo a comprendere. È la giovinezza del nulla, o meglio un nulla prima dell’origine, prima della nascita. Forse la terra risuonava così, nel tempo bianco dell’era glaciale115.

Fin dal suo arrivo, Hull è contrassegnato dal colore bianco, che rivela un suo profondo legame con l’isola, bianco è il solco tracciato dalla nave che si apre e si richiude come la ferita infertagli durante la fuga da Port Sebastian: «Hull seguiva dalla ringhiera il bianco sfregio che la nave incideva nel mare, che guariva e si riapriva, e di nuovo guariva e si riapriva»116. Al ricordo della passata rivolta, che si collega con quella futura attraverso il bianco, viene associata una macchia colorata: il fazzoletto giallo di una passegge113 114 115 116

L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, cit., p. 1413. A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. p. 3). W. Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst, cit. (trad. it. p. 66). A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. p. 4).

I colori delle fiabe

287

ra. La «brutta, secca ragazza»117, suscita il desiderio immediato di Hull, che sembra poi limitarsi alla voglia di toccarle il seno. Pulsione erotica, paura della morte, spinta vitale e desiderio di un contatto fisico qui rendono immediatamente percepibili le sue contraddizioni, la tipica lacerazione di tanti personaggi espressionisti, la cui istanza di ribellione non riesce spesso a tradursi in azione politica. In questa che possiamo considerare la più espressionista delle sue opere, Anna Seghers presenta le incertezze di Hull, il suo oscillare tra vitalismo e stanchezza, desiderio di azione ed esitazione paralizzante che verrà alla fine superata dopo lunghe riflessioni e fughe. La scelta finalmente raggiunta è momento di autentica felicità, rappresentato dall’apparire del colore che sembra squarciare l’oppressivo grigiore dell’isola ed investe di vitalità tutta la natura: Era una gioia tale, che in un batter d’occhio ti riscaldava fino alla punta delle dita. Si volse. Santa Barbara era solo una sottile striscia bruna – egli non ci aveva proprio badato, ma ora si accorse, che il pomeriggio estivo era azzurro, che il sole odorava di mare e il mare di sole118.

Il ricorrente conflitto Eros-Thanatos119 si ripresenta in maniera più esplicita in un sogno, in cui Marie, la ragazza della nave, appare oniricamente trasfigurata: «il suo magro corpo spremuto dai pugni dei marinai»120 – che ricorda le spigolose prostitute di Otto Dix, Ludwig Kirchner e Georg Grosz, vittime del possesso maschile121 – maternamente si addolcisce e si arrotonda mantenendo il tocco di giallo che la contraddistingue: Hull si addormentò. Tosto il sonno gli mise accanto al corpo qualcosa di morbido e caldo. Egli toccò, e si stupì che Maria non fosse per nulla angolosa e fredda com’egli si era aspettato, ma piuttosto morbida e tonda. Poi non era affatto Maria, ma qualcosa di ricciuto e giallo di chissà dove, lassù122.

Alla tradizione espressionista sembrano riferirsi le scene di mas117

Ivi, p. 5. Ivi, p. 140. 119 Cfr. ivi, p. 91: «ma ora la morte gli apparve soltanto come l’impossibilità di dormire ancora con una donna». 120 Ivi, p. 5. 121 Cfr. ivi, p. 11: «dai suoi gomiti appuntiti, da tutti gli angoli e spigoli del suo corpo, come dagli spigoli di una pietra battuta, sprizzavano piccole scintille». 122 Ivi, p. 187. 118

288

Lo sguardo reciproco

sa, dallo «stile quasi allucinante»123 con i pescatori barcollanti per la fame e decisi a resistere con i fucili, le immagini antropomorfiche che conferiscono dimensione mitica al conflitto di classe, le grida inarticolate che subentrano alle parole: I pescatori gridavano: – Tre quinti della pesca! – Da principio gridavano confusamente, ma poi subentrò un certo ordine […]. La folla crebbe; la fiera si vuotò. A brevi intervalli regolari, le grida rintronavano contro la casa chiusa. Ma la casa non rispondeva, e le grida divennero rauche e confuse. La piazza nereggiava di gente: un brulicar di uomini e donne, che gridavano confusamente124.

La scena non può che tingersi del rosso delle bandiere rivoluzionarie, nonché colore «dilagante e tipicamente caldo, che agisce nell’interiorità in modo vitalissimo, vivace e irrequieto. Senza avere la superficialità del giallo, che si disperde in tutte le direzioni, dimostra un’energia immensa e quasi consapevole»125: «– Avanti! – Ancora pugni, e frastuono, e vetri infranti, e urla, e – avanti –, e rosso, e – sempre avanti! E fuoco»126. Il ritmo convulso della frase presenta con pochi, sapienti elementi la furia cieca e disperata della folla. Violenti contrasti cromatici, antropomorfizzazione di elementi inanimati, uso enfatico di verbi ed aggettivi conferiscono incalzante dinamicità alla scena dell’incendio che preannuncia plasticamente la sconfitta della rivolta con l’ineluttabile vittoria del grigio sul rosso: Cessarono solo quando furono esausti. Dalle lampade rotte la luce gocciolò nei mucchi di carta, scorse nei magazzini e rimbalzò dal pavimento all’abbaino. L’aria grigia e monotona succhiò con forza, avida di tanto rosso127.

Il giallo, una delle poche tinte, come si è visto, che interrompe l’uniformità plumbea del racconto, rivela le sue ambiguità. Ricorre nei volti macilenti delle donne ormai prive di ogni femminilità e dei bambini smagriti ed affamati, caratterizza fin dalla sua appari123 124 125 126 127

L. Mittner, L’espressionismo, cit., p. 126. A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. p. 61). W. Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst, cit. (trad. it. pp. 67-68). A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. p. 77). Ivi, p. 76.

I colori delle fiabe

289

zione, Marie, prostituta per miseria, generosa e pronta a schierarsi a favore delle richieste dei pescatori. Il fazzoletto giallo è l’unica cosa che possieda, forse racchiude i sogni irrealizzati di una vita diversa, ma soprattutto rappresenta la parte più bella e più vera di lei, quella «scintilla di umanità indistruttibile»128 che secondo la scrittrice sopravvive ad ogni violenza della storia. Allorché verrà brutalmente violentata ed uccisa dai soldati continuerà a tenerlo disperatamente con sé «come una madre il suo bambino»129. Con qualche pennellata, il giallo appare qua e là nel racconto, a sottolineare miseria e sconfitta, ma anche contemporaneamente l’irrinunciabile speranza. Ambigua come è in tedesco la parola Dämmerung che designa sia il crepuscolo che l’alba, il momento in cui lo sfumarsi delle tinte può dare luogo allo splendore del giorno o all’oscurità della notte ed ha in sé fine e principio, della stessa tonalità è la luce che avvolge Santa Barbara: «Sbarrava il cielo una gialla, miserabile striscia di luce, ancor del giorno passato o del già veniente»130, delineando una sospensione del tempo, quell’atemporalità che conferisce a vicende di crudele attualità l’aura fiabesca del ricorrere eterno del male ma anche dell’inevitabilità della sua sconfitta. Solo frammenti di sole strappati da una mano gigantesca131 aleggiano sull’isola, un mondo disumano in attesa, dove «mare e cielo eran tutti tagliuzzati, c’era odor di sale e il vento agitava pezze di gialla luce solare sulla piazza del mercato del paese»132. Se nell’oggi della storia la rivolta è stata soffocata ed i pescatori tornano al lavoro a condizioni ancora peggiori, rimane salda la fede «nella immortalità della lotta per la libertà e della rivoluzione»133, rimane il bianco delle cuffie delle donne, silenziose custodi della vita.

128 F. Albrecht, Die Erzählerin Anna Seghers, cit., p. 135. Cfr. il celebre finale di La settima croce, cit., p. 336: «ma noi sentimmo anche che nell’intimo esiste qualcosa di inafferrabile e di invulnerabile». 129 A. Seghers, Aufstand der Fischer von St. Barbara, cit. (trad. it. p. 112). 130 Ivi, p. 114. 131 Cfr. p. 40: «non invano il vento strappava il sole a pezzettini e li soffiava sul mare» e p. 88: «Così leggera e lieta era la forza del vento – come strappava frammenti di luce dal sole greve e se li spingeva innanzi». 132 Ivi, p. 20. 133 M. Reich-Ranicki, Der erste Absatz der Erzählung “Aufstand der Fischer von St. Barbara”, cit., p. 6.

290

Lo sguardo reciproco

La settima croce La suggestiva dimensione cromatica dei primi, felici racconti che caratterizza in modo così personale la prosa seghersiana, si spegne quasi completamente dopo il 1933, come risucchiata dagli eventi tragici. Il mondo appare immerso nell’oscurità come nei versi di Rose Ausländer: «allora seppellimmo il sole/fu un’eclissi senza fine»134. Le opere dell’esilio, specialmente la grande produzione dei racconti, perdono la dimensione coloristica per rappresentare in maniera asciutta ed essenziale la condanna del nazismo ed episodi di resistenza quotidiana. La letteratura diventa prioritariamente strumento militante. I colori delle fiabe impallidiscono dinanzi all’«odore della realtà»135. Il gioco di oggettività e di soggettività si regolarizza nell’asciutta narrazione di una voce fuori campo, nelle cronache di resistenza e di lotta al nazifascismo in forma quasi documentaristica. Una traccia espressionista si ritrova nel finale di Verso l’ambasciata americana con il grido della donna, schiacciata contro i cancelli, e del suo vicino che risuona irrefrenabile in tutto l’edificio. I colori tornano ad una dimensione quotidiana, qualche pennellata compare qua e là – il rosso in uno scorcio di viso, il bianco e rosa dei castagni fioriti o la tinta tenue dei lillà in L’ultimo cammino di Koloman Wallisch (1934), ricostruzione documentaria della vita del capo comunista austriaco, ucciso dai nazisti, – e sembrano accennare alla continuità della vita ma anche ad una sottile indifferenza della natura verso le vicende umane136. La contrapposizione luce-oscurità è costitutiva nel romanzo La settima croce, come nella narrazione biblica il primo atto della creazione è proprio la distinzione tra luce e tenebre. Westhofen, il campo di concentramento, che già nel nome vuole sottolineare l’occaso, il tramonto137, è avvolto in una dimensione infera, disu134 R. Ausländer, Damit kein Licht uns liebe, in Id., Wir pflanzen Zedern, Gedichte 1957-1963, Frankfurt a. M., Fischer Taschenbuch Verlag, 1993, p. 112. 135 A. Seghers, Auf dem Weg zur amerikanischen Botschaft, in Id., Auf dem Wege zur amerikanischen Botschaft und andere Erzählungen, cit. (trad. it. p. 57). 136 Questo aspetto avrà una più profonda accentuazione nel brevissimo racconto Der Baum des Ritters (L’albero del cavaliere), dove un cavaliere in fuga rimane imprigionato nel cavo dell’albero in cui aveva trovato rifugio e che continuerà a crescere per secoli, incurante della sua presenza. 137 Significativo il fatto che il nome del campo realmente esistente fosse Osthofen.

I colori delle fiabe

291

mana, contrapposta alla luce solare che avvolge il vicino paese, conferendogli una dimensione idilliaca. L’autunno, la stagione in cui inizia l’anno ebraico, appare diametralmente opposto nei due luoghi, uggioso e cupo nel lager, caldo e ricco di frutti nel paese; delimitato dall’inferriata nell’uno, libero e godibile nell’altro: La sentinella delle SA ci volgeva le spalle e senza volerlo guardava fuori attraverso l’inferriata della finestra, il sottile e grigio gocciolio della nebbia, improvvisamente divenuto pioggia scrosciante, che si rovesciava in ondate violente contro la baracca138. La nebbia s’era alzata. Sul paese si stendeva una luce autunnale dorata e pungente, che si sarebbe detta placida139.

Si può veramente parlare di una struttura ellittica140 i cui due fuochi sono «l’infernale lager Westhofen e il paesaggio paradisiaco del Taunus»141. Non può qui essere approfondita l’analisi, che esulerebbe dal nostro discorso, della complessa struttura mitica del testo, in cui la dialettica di «durata e cambiamento», il ripetersi del sempre nuovo e del sempre uguale, fissa la trama dell’esistenza umana, che non può ridursi all’appiattimento del qui ed ora, e delinea una prospettiva di futuro, in una visione provvidenziale della storia, con la speranza che il nazismo sia destinato a finire non diversamente da tutti gli imperi avvicendatisi nei secoli «come bolle di sapone iridescenti»142, mentre eterni si succedono i cicli della natura. Un esempio di uso vitale del mito in un’epoca della sua mortuaria tecnicizzazione143, come quella nazista. Ai fini del nostro discorso è, comunque, da sottolineare come nella descrizione dell’interno del Duomo, dove trova rifugio il fuggitivo Heisler, la conoscenza della storica dell’arte si carica della commozione struggente dell’esule, l’alternarsi di luce ed ombra ri138

A. Seghers, Das siebte Kreuz, cit. (trad. it. p. 20). Ivi, p. 34. 140 Cfr. E. Haas, Ideologie und Mythos, cit., p. 40. 141 U. Elsner, Das siebte Kreuz, Oldenbourg Interpretationen, vol. 76, München, Oldenbourg, 1999, p. 47. 142 A. Seghers, Das siebte Kreuz, cit. (trad. it. p. 11). 143 K. Kerényi, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, in Atti del colloquio internazionale su «Tecnica e casistica», Roma, Ist. di Studi Filosofici, 1964, pp. 153-168. Egualmente per Thomas Mann la cui tetralogia di Giuseppe, scritta nell’esilio americano, è un tentativo di strappare il mito al fascismo. 139

292

Lo sguardo reciproco

conduce alla lotta tra il bene e il male. Ed ancora la descrizione delle scene sacre i «due cacciati dal paradiso […] il Bambino […] la passione»144 sembrerebbero sottolineare come ebraismo e cristianesimo, al di là di ogni problematica religiosa, facciano parte – indissolubilmente legati – della cultura tedesca, del sapere comune del popolo. Egualmente al concetto di Heimat, patria, in una connotazione “materna” di legame con le radici, si collega in maniera vitale, contrapposta al mortuario culto nazista del sangue e del suolo, l’amore per il paesaggio renano, che per tutta la vita, nonostante la distanza, rimarrà per la scrittrice il suo paesaggio.

La gita delle ragazze morte Nella fuga di Heisler, scorci urbani e soprattutto agresti si alternano, ma in verità i dominanti paesaggi della campagna «rheinhessisch», nel significato di contrapposizione vitale del sempre uguale all’abisso infernale di Westhofen, rimangono elementi simbolici, evocati con i nomi reali ed anche fittizi di paesi, accennati più che descritti con brevi tratti e filtrati dal ricordo, come appare evidente in una descrizione che poi ritorna nel successivo La gita delle ragazze morte pressoché uguale, ma da due diversi punti di vista, una adulta e maschile e l’altra infantile e circonfusa di leggenda: Georg guardò al di là del Reno. Oltre la corrente, abbastanza vicino, su di un isolotto, c’erano tre casupole bianche, una attaccata all’altra, che si specchiavano nell’acqua. Da queste case, di cui quella di mezzo sembrava un mulino, spirava alcunché di fiducioso e di attraente, come se vi abitasse qualche persona cara145. Il nostro vaporetto passò accanto alla Petersau, l’isoletta su cui poggiava una delle colonne del ponte. Facemmo tutte gesti di saluto alle tre casette bianche che ci erano familiari fin da bambine come se le conoscessimo da un libro illustrato di racconti di streghe146.

In entrambe le opere – tra le più riuscite della scrittrice – il Reno assume un ruolo centrale. Consueto simbolo di fuga e di 144 145 146

A. Seghers, Das siebte Kreuz, cit. (trad. it. p. 66). Ivi, p. 92. A. Seghers, Der Ausflug der toten Madchen, cit. (trad. it. p. 101).

I colori delle fiabe

293

libertà, nel romanzo è il mezzo della salvezza di Georg in Olanda147, nel racconto diventa quasi un personaggio: il fiume germanico per eccellenza, eroico e virile, della mitologia nazista, diventa il dolce sfondo della vicenda quotidiana, ricondotto a far parte della vita in una dimensione di pace, così come termini quali popolo e patria vengono sottratti alla deformazione nazista e riconquistati all’umano. Un complesso intreccio di piani temporali – la realtà dell’esilio messicano, una gita scolastica negli anni precedenti la prima guerra mondiale, la proiezione nel futuro – in questa che è l’opera più dichiaratamente autobiografica della scrittrice (ed una delle più commosse metafore della scrittura) sostituisce in gran parte la dimensione spaziale. Si ricostruiscono gradualmente le vite di una quindicina di ragazze: giovani piene di sogni e di speranze che la prima guerra mondiale ed il nazismo sconvolgeranno inesorabilmente. Nessuna si salverà, moriranno tutte, suicide, nei campi di sterminio, nelle prigioni naziste o sotto i bombardamenti, per eroismo, per viltà, per sacrificio, per tradimento, per caso. A sopravvivere alla tragedia saranno la futura scrittrice, come custode della memoria, e la figlia di una di loro, come speranza per il futuro. Pur senza dettagliate descrizioni le ragazze acquistano precise personalità che destino e scelte diverse contribuiranno ulteriormente a differenziare. Sono pochi, ma significativi elementi, che tracciano schizzi essenziali ma rappresentativi: forma del viso, occhi, pettinature – trecce, crocchie, code, capelli ondulati o ruvidi e arruffati – che in questo affresco di gruppo distinguono le singole individualità. La bellezza di Marianne, al di là dei criteri razziali del nazismo, viene accostata ad un modello eterno, immortalato dall’arte: Aveva le trecce biondo-cenere puntate a crocchia sopra le orecchie. Il suo viso, dal taglio nobile e regolare come i volti delle statue medioevali del Duomo di Marburg, non esprimeva altro che allegria e grazia148. 147 A. Seghers, Über Kunstwerk und Wirklichkeit, vol. II, Erlebnis und Gestaltung, a cura di S. Bock, Berlin, Akademie, 1971, p. 324: «Non è un caso che il mio romanzo La settima croce si svolga nella zona di Magonza, non è un caso che il fuggitivo Georg Heisler si nasconda una notte nel duomo di Magonza. Non è un caso che la fuga gli riesca con una nave sul Reno». 148 A. Seghers, Der Ausflug der toten Madchen, cit. (trad. it. p. 83).

294

Lo sguardo reciproco

Lontana nel tempo e nello spazio, la gita viene presentata con un gioco di dissolvenze che coinvolge tutti sensi, raggiungendo la forza di un’autentica evocazione. La voce narrante, come in nessun’altra opera, s’identifica quasi completamente con l’autrice e si definisce con un unico tratto fisico: le folte trecce, tagliate nell’ospedale di Città del Messico e inspiegabilmente intatte. Fuggita dall’Europa, lontana come una favola, ha trovato rifugio precario, come viene espressamente definito, in Messico; è convalescente di una malattia, come la scrittrice che andava recuperando la memoria dopo un grave incidente automobilistico che aveva fatto pensare a lungo ad un attentato; rivela spossatezza e stanchezza che invece di paralizzarla, come succede alla Marie di La famiglia Ziegler, la inducono a continuare con maggiore lena la sua missione di scrittrice militante; si chiama Netty, il suo vero nome, e presenta con lievi modificazioni le sue compagne e maestre di scuola. La cornice iniziale presenta un paesaggio messicano, uno sfondo descritto con distacco se non diffidenza: Il villaggio faceva pensare a una fortezza, circondato com’era da palizzate di cactus a canne d’organo. Attraverso una fessura potevo spingere lo sguardo sui pendii montagnosi di un bruno grigiastro, nudi e selvaggi come montagne lunari, che facevano svanire al solo guardarli ogni sospetto di avere mai avuto qualcosa a che fare con la vita. Due alberi di pepe ardevano sul margine di un dirupo completamente deserto. E anche quegli alberi sembravano in fiamme più che in fiore149.

Il paesaggio messicano appare arido, privo di vita, minacciosamente bruciante, sicuramente estraneo, definito in maniera piuttosto convenzionale da cactus, alberi del pepe, radici pietrificate, cani addormentati che ne fanno uno sfondo di contrasto con l’amato paesaggio renano, che appare dopo una serie di dissolvenze presentate dal ricorrere di vocaboli, quali nebbia, foschia, polvere, riverbero, fata morgana, miraggio, attraverso l’iniziatico superamento di un cancello. È il senso dell’olfatto ad agire inizialmente, riconoscendo l’odore del verde e dell’acqua insieme a quello del caffè, suscitando il desiderio di «inspirare l’illimitata vastità soleggiata del paesaggio»150, mescolandosi con il gusto e la vista «ora potevo sentire l’odore del verde del giardino e, quanto più a lungo lo 149 150

Ivi, p. 80. Ivi, p. 81.

I colori delle fiabe

295

guardavo, tanto più si faceva fresco e rigoglioso … cespugli sempre più fitti e succosi». Finché è quest’ultima a prendere il sopravvento con un effetto di zoom che focalizza i dettagli: Nuvola, che tuttavia si aprì subito e si rivelò composta da cespugli di biancospino. Ben presto in mezzo ai vapori che si levavano dalla terra attraverso l’erba alta e fitta qualche ranuncolo brillò mentre i vapori si dissipavano fino a farmi distinguere nettamente alcuni denti di leone e fiorellini di geranio. In mezzo c’erano anche ciuffi d’erba d’un bruno rosato, che tremavano al solo guardarli151.

Come estremo contrasto con la scena messicana dai tratti quasi infernali, a sottolinearne la dimensione vitale, ma anche la trasfigurazione del ricordo, il Reno assume tinte lievi, circonfuse di un sole benevolo: Scorreva là davanti, grigio azzurro e luccicante. I paesi e le colline sulla sponda opposta si specchiavano con i campi e i boschi in una rete di anelli di sole152.

La descrizione diventa rivendicazione di appartenenza, di irrinunciabile identità nazionale, nonostante e contro il regime che la esclude e la perseguita in quanto ebrea e comunista, il tempo e la distanza, in cui i tratti fisici della realtà diventano espressione di “impressione originaria”, in una struggente dichiarazione d’amore al paesaggio natio, patria materna come legame irrinunciabile e non oggetto di possesso e aggressione: Alla sola vista di quel morbido paesaggio collinare, al posto della malinconia, mi sgorgavano dal sangue serenità e gioia di vivere, come un certo seme nasce soltanto in un determinato terreno153.

Più volte nella descrizione della gita ritorna il gioco delle prospettive, delle focalizzazioni, dell’avvicinamento ed allontanamento in cui diviene essenziale il ruolo dell’occhio – affaticato, annebbiato ma sempre vigile – nel cogliere quel pezzo di realtà che poi trasfigurato, diventa arte, conoscenza generale e messaggio eterno. Dopo la gita sul fiume, l’approdo somiglia all’arrivo in una città fantasma, una sorta di sommersa Vineta della leggenda che riemer151 152 153

Ivi, p. 82. Ivi, p. 85. Ivi, p. 86.

296

Lo sguardo reciproco

ge dalle nebbie del passato, o meglio, nell’evocazione della scrittura Magonza acquista eternità incontaminata, indenne dalle ferite della guerra «non recava né squarci né segni di incendio»154. La scrittrice fissa per sempre il percorso verso la propria casa nei dettagli: attraverso la Rheinstrasse, passa dinanzi alla Christofkirche miracolosamente indenne, costeggia i negozi in realtà ormai distrutti dai bombardamenti, per poi sfociare nella Flachsmarktstrasse, vicino al negozio di famiglia, nel formicolio della gente che torna a casa, poi ecco la Bauhofstrasse da cui può imboccare la via preferita, orlata di alberi di Giuda che si curvano in un arco di trionfo, dove il padre, morto dopo l’espropriazione forzata del negozio nel 1940, si attarda invece a chiacchierare, com’era sua abitudine, fino a giungere a casa dove, in una giovinezza eterna, l’aspetta la madre, destinata «alla fine crudele, nello sperduto villaggio in cui Hitler l’aveva relegata»155. Come ha ricordato Christa Wolf, che di Anna Seghers è stata rispettosa amica e sensibile interprete, dalla descrizione di questo percorso «si può imparare che cosa è la prosa, punto d’incontro tra soggetto e oggetto, precisione fantastica e rigoroso attaccamento, libertà sconfinata, incantesimo dei fatti in nuova realtà»156. Sono due suoni incongrui a riportare alla realtà: il picchiettare delle mani sulla pasta, battuta per le tortillas invece che stesa con il matterello per i cibi tedeschi, e il grido dei tacchini. Poi ritorna la vista, la luce abbagliante del sole che tramonta senza crepuscolo ma piomba improvvisamente nella notte, la parete di cactus. Anche in Messico Netty Reiling-Anna Seghers avrebbe continuato a svolgere «il compito assegnato», fissare nella scrittura il passato per conferirgli l’eternità della memoria, «render morti i viventi e vivi i morti»157.

154

Ivi, p. 102. Ivi, p. 106. 156 C. Wolf, Anmerkungen zu Geschichten, in Id., Die Dimension des Autors. Essays und Aufsätze, Reden und Gespräche 1959-1985, Darmstadt-Neuwied, Luchterhand, 1987, p. 323. 157 A. Seghers, Sonderbare Begegnungen, Berlin, Aufbau-Verlag, 1973 (trad. it. di M.T. Mandalari, Incontro a Praga, Milano, Guanda, 1983, p. 8). 155

I colori delle fiabe

297

Crisanta e Il vero azzurro Una nuova dimensione cromatica riapparirà più tardi, in due opere ambientate in Messico, Crisanta e Il vero azzurro, dove il colore, e specialmente l’azzurro, diventa nucleo simbolico, segnando nuovi sviluppi dell’opera seghersiana di grande importanza per la letteratura della DDR. Mentre in La gita delle ragazze morte, scritta in Messico, il paesaggio locale con alcuni elementi obbligati, quasi scenografici, fa da elemento di contrasto per la rievocazione del paesaggio renano della giovinezza e lo sguardo dalla distanza oceanica è decisamente rivolto alla situazione tedesca del passato e del presente, per un tentativo di interpretazione degli eventi e per definire il compito di memoria e monito dello scrittore impegnato in tempi tragici, nei due racconti più evidente è l’elaborazione dell’esperienza messicana che diventa anche rappresentazione cifrata della situazione tedesca e forte dichiarazione poetica. Contrariamente al distacco ed all’estraneità espressi in La gita delle ragazze morte, Anna Seghers si lega profondamente al paese che l’ha accolta nel momento più tragico della sua esistenza, fino a chiedere (ed ottenere) la cittadinanza messicana ed alla fine della guerra, non senza esitazioni ed un impraticabile progetto di pendolarismo, è il profondo senso di responsabilità, a convincerla al ritorno in patria ed alla scelta della zona di occupazione sovietica, poi DDR, dove la sua opera di scrittrice «sarebbe stata ben accolta e utilizzata nella lotta per una nuova società e per ogni singolo individuo»158. Conoscenza del paese ospitante ed ammirazione per la dignità e la fierezza della sua popolazione, pur nella povertà, appaiono nei due racconti, in diversi saggi e accenni in varie occasioni, ma soprattutto nella nostalgia «per i colori di quel paese […] i colori nell’aria e nei suoi muri»159. La calda atmosfera tropicale, la sugge158 Discorso tenuto al IV Congresso degli scrittori tedeschi nel 1956, in A. Seghers, Aufsätze, Ansprachen, Essays 1954-1979, cit., p. 83. 159 A. Seghers, Diego Rivera, in Id., Aufsätze, Ansprachen, Essays 1927-1953, cit., p. 300. Sull’esperienza messicana della scrittrice cfr. I. Diersen, Erfahrung Mexiko. Die lateinamerikanische Spur im Schaffen von Anna Seghers, in «Argonautenschiff», 3 (1994), pp. 145-154; F. Pohle, Kriegsexil in Mexiko und mexikanische Stoffe bei Anna Seghers, in F. Schmidt (a cura di), Wildes Paradies - rote Hölle. Das Bild Mexikos in Literatur und Film der Moderne, Bielefeld, Aisthesis, 1992, pp. 111-129 e J. Sandoval,

298

Lo sguardo reciproco

stione dei murales, con le precise descrizioni di Diego Rivera, le tinte brillanti «ardite, quasi selvaggie»160 di José Orozco, le raffigurazioni di Xavier Guerriero e David Alfaro Siqueiros, dall’apparente semplicità dove le «più straordinarie reminiscenze degli affreschi delle chiese europee e … dei pittori del primo rinascimento»161 si mescolano con la realtà, che attraggono il popolo insegnando in maniera immediata a gente semplice ed analfabeta la storia del paese, sovrapponendo in affreschi di grande efficacia senza preoccupazioni cronologiche gli eventi salienti del passato e del presente, non possono non colpire la scrittrice e sembrano fare da sfondo ai racconti che ne assumono apparente semplicità narrativa e vivacità cromatica. Il blu, un colore carico di significati simbolici per la cultura occidentale che qui non possiamo certamente analizzare162, è comparso chiaramente insieme al rosso dei vetri, così importanti per delineare la desolazione e desideri della protagonista, in La famiglia Ziegler e, indistinto e sfumato, nelle vetrate gotiche del duomo di Magonza, ma più che la carica dirompente espressionista – basti pensare al “cavaliere azzurro” di Franz Marc – sembra assumere una più antica, affascinante ambivalenza. Come afferma Kandinsky, il colore del cielo presenta una gamma di significati nelle diverse sfumature. Se molto scuro «dà un’idea di quiete»163, quando «precipita nel nero acquista una nota di tristezza e struggente, affonda in una drammaticità che non ha e non avrà mai fine», se México in Anna Seghers’ Leben und Werk 1940-1947, Berlin, Wissenschaftlicher Verlag, 2001; W. von Bernstorf, Fluchtorte. Die mexikanischen und karibischen Erzählungen von Anna Seghers, Göttingen, Wallstein Verlag, 2006. 160 A. Seghers, Die gemalte Zeit in Id., Aufsätze, Ansprachen, Essays 1927-1953, cit., p. 219. 161 Ivi, p. 219. 162 Sull’argomento esiste comprensibilmente una vasta bibliografia. Mi limiterò a citare i testi seguenti: A. Overath, Das andere Blau. Zur Poetik einer Farbe in moderner Kunst, Stuttgart, B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung, 1987; A. Lochmann, A. Overath, Das blaue Buch. Lesarten einer Farbe, Nördlingen, Greno, 1988; S. Samburski (a cura di), Il sentimento del colore. L’esperienza cromatica come simbolo, cultura, scienza, Como, Red Edizioni, 1990; D. Schuth, Die Farbe Blau. Versuch einer Charakteristik, Münster, LIT, 1995; G. Linder (a cura di), Blau - die himmlische Farbe, Frankfurt a.M., Insel, 2001; M. Pastoureau, Bleu. Histoire d’une couleur, Paris, Seuil, 2000 (trad. it. di F. Ascari, Blu. Storia di un colore, Firenze, Ponte alle Grazie, 2002); A. Valtolina, Blau. Metamorfosi di un colore nella moderna lirica tedesca, Milano, Bruno Mondadori, 2002. 163 W. Kandinsky, Über das Geistige in der Kunst, cit. (trad. it. p. 63).

I colori delle fiabe

299

invece tende alle sfumature più chiare «diventa indifferente e distante, come un cielo altissimo». Un colore che possiede la massima ambiguità: la levità del cielo e il livido colore della notte, a metà tra luce e oscurità che ne fanno il colore del sogno, come viene esaltato al massimo dal Romanticismo e che nella «blaue Blume», il fiore azzurro di Enrico di Ofterdingen di Novalis, ha la sua più pregnante rappresentazione. Con il tono immediato dei cantastorie popolari, citando una serie di illustri personaggi – Hidalgo, Morelos, Juarez – l’attenzione viene focalizzata su Crisanta, una ragazza povera, orfana, che sembra incarnare nel proprio destino individuale la storia del suo paese. Dal natìo paese di Pachuca viene accompagnata, sedicenne, a Città del Messico per lavorare nella tortilleria di una parente della madrina che l’ha allevata. Non possiede nulla Crisanta, se non un rebozo, il pesante mantello con cui le contadine si avvolgono completamente, e il ricordo indistinto di una felicità perduta che si tinge di azzurro: Nei primissimi anni della sua adolescenza aveva avuto l’impressione di essere stata in un luogo unico al mondo. Là era stata così bene come mai più in seguito. Come se fosse stata protetta da un suo cielo tutto per sé. Quando si domandava cosa potesse essere stato, le veniva in mente soltanto: azzurro. Un azzurro delicato e forte che non aveva mai più rivisto164.

Il racconto presenta una consueta vita femminile: il lavoro duro, un uomo che, dopo un grande amore, scompare per cercare fortuna oltre confine, una gravidanza inattesa, un aborto, lavori sempre più precari compresa l’occasionale prostituzione, finché, nuovamente incinta, Crisanta ritorna al villaggio. E poi, abbracciando il bambino piccolissimo nel suo rebozo, ritrova il luogo della perduta felicità infantile, «l’incomparabile, l’incomprensibile profondo e intenso azzurro»165. La maternità appare come realizzazione che non rimane evento individuale, poiché, dentro al suo rebozo, Crisanta sente scorrere, forte, la presenza del suo popolo. Un’immagine ispirata – o comunque perfettamente illustrata – più che dalle diverse opere con analogo argomento di David Alfaro 164 A. Seghers, Crisanta. Mexikanische Novelle, Leipzig, Insel Verlag, 1951 (trad. it. di M. Ponzi, G. Pugliese, in Id., Il vero azzurro, Roma, Editori Riuniti, 1988, p. 5). 165 Ivi, p. 30.

300

Lo sguardo reciproco

Fig. 3. D. Alfaro Sequeiros, La madre contadina, 1929.

Siqueiros, in particolare dal quadro La madre contadina (1929), dove accanto a due cactus appare, tracciata con tratti decisi da scultura lignea, una donna india che avvolge il suo bambino nel rebozo in un abbraccio amorevole (fig. 3). Il realismo con cui viene presentata la dura lotta per la conquista del pane quotidiano è interrotto e suggestivamente potenziato dal “filo azzurro” che percorre il racconto. L’inesausta nostalgia di Crisanta, vera inestinguibile Sehnsucht romantica, trova il suo compimento in una maternità che non diventa isolamento ma si ricollega consapevolmente alla collettività e che si colora decisamente di azzurro. Crisanta non solo appare, contrapposta ai grandi eroi rivoluzionari, come esempio di quella forza dei deboli cui la scrittrice intitolerà nel 1965 una raccolta di racconti, ma dinanzi alle innumerevoli e quasi interscambiabili Marie delle opere precedenti, acquista una precisa individualità che si colloca in un panorama prettamente femminile. Mentre gli uomini appaiono come figure di scorcio, irresponsabili e deboli, si rivela tutto un mondo di donne autorevoli – come Dolores «tronco ben saldo con forti radici in ogni circostanza della vita»166 –, solidali, che presentano una 166

Ivi, p. 10.

I colori delle fiabe

301

modalità propria di stare al mondo e si riconoscono in una sacralità del materno che si tinge ancora una volta di azzurro. È il colore del manto della Vergine di Guadalupe, di pelle scura e apparsa a un indio, che sembra più una pagana divinità materna, così come Madonna trasgressiva e laica appare Crisanta nella scena finale, madre di un figlio senza padre, immagine di forza primordiale e di continuità della vita, che diversamente dalla protagonista del film167 assume completamente la responsabilità della maternità. In un’infinita narrazione, non nuova per la scrittrice che ama riprendere gli stessi personaggi in più opere per seguirne gli sviluppi successivi, un elemento di scorcio di Crisanta – una famiglia di vasai che trasporta la sua mercanzia – diventa protagonista nell’altro racconto, Il vero azzurro, che per affinità e contrasti si collega strettamente al primo. Stessa ambientazione messicana, più precisi riferimenti storici sullo sfondo e un protagonista maschile anche se la presenza femminile rimane di grande significato per lo svolgimento della vicenda, ma soprattutto due momenti diversi: se il primo nasce nel clima dell’immediato dopoguerra e sembra presentare il calore del clima e del popolo messicano contro il freddo che caratterizzava quegli anni, il secondo viene scritto nel 1967, alla vigilia di un anno di grandi rivolgimenti, diversi ad Est e ad Ovest, in quanto alla rivolta studentesca occidentale si contrappone la tragica invasione sovietica di Praga. Inoltre, se si pensa che nel dicembre 1965 all’undicesimo Plenum del Comitato Centrale della SED era stato sancito un giro di vite contro gli intellettuali non dogmatici, il racconto acquista ulteriori significati. L’apparente semplicità della fabula rivela una grande, affascinante complessità. Il vasaio Benito Guerrero, famoso per «l’azzurro, profondo, inimitabile»168 delle stoviglie che fabbrica, si trova improvvisamente in difficoltà, allorché, a causa della guerra, s’interrompe il rifornimento della materia prima del suo colore ed allora va alla sua ricerca con un lungo viaggio, finché non trova la polvere da cui può trarre personalmente il colore che rende le sue opere straordinarie, senza dovere più dipendere da altri: «Ho trovato il mio azzurro e me lo 167

Cfr. n. 35. A. Seghers, Das wirkliche Blau. Eine Geschichte aus Mexiko, Berlin-Weimar, Aufbau, 1967 (trad. it. di M. Ponzi, G. Pugliese, in Il vero azzurro, cit., p. 31). 168

302

Lo sguardo reciproco

procuro da solo, quando ne ho bisogno. Una volta per tutte»169. Il testo in realtà ha una struttura ossimorica, come appare già dal titolo in cui la forza della realtà si unisce al colore più sognante. Possiamo senz’altro parlare di «fiaba realistica»170 in cui in maniera magistrale si compongono la passione dell’oggi ed il colore della fiaba. Come ha dimostrato in modo convincente Antonella Gargano171 applicando le categorie di Propp, troviamo tutte le funzioni della fiaba popolare, ma altresì evidente, e la critica è pressoché unanime, è il riferimento a Novalis, al suo Enrico di Ofterdingen, nei suoi elementi fondamentali: il viaggio e il ritorno, la miniera e l’immersione nel seno della terra, la funzione premonitrice dei sogni, ma il raggiungimento del fiore azzurro del poeta romantico è qui conquista di un materiale, l’utopia si esplica nella concretezza dell’azione. L’apparente realizzazione nel lavoro di matrice marxista, sottolineata dai critici della DDR172, in realtà è esaltazione dell’unicità e irripetibilità dell’opera d’arte, del percorso individuale di autorealizzazione, sia pure inserito nella comunità del proprio popolo. Contro il piatto realismo di regime, Anna Seghers riprende con questo racconto l’antico dialogo con Lukács, difendendo in tempi duri il valore emancipatorio della fantasia, legittimando il potere della poesia, facendosi «fondatrice di una tradizione»173, avviando la riabilitazione del Romanticismo e del fantastico, banditi fino ad allora nella DDR, secondo i dettami del grande critico marxista. Nonostante la distanza temporale e fisica dal Messico, in cui malgrado il desiderio più volte espresso non sarebbe mai più tornata, Anna Seghers mostra nel racconto uno sguardo commosso, 169

Ivi, p. 114. U. Karlavaris-Bremer, Frauen in Anna Seghers’ Erzählung »Das wirkliche Blau«, in «Argonautenschiff», 5 (1996), p. 205. 171 A. Gargano, Die Morphologie des Wirklichen Blaues. Zu Anna Seghers’ Erzählung, in «Studi Germanici», N.S., A. XXXIII, 1, (1995), pp. 79-90. 172 Cfr. F. Pohle, Kriegsexil in Mexiko und mexikanische Stoffe bei Anna Seghers, cit., p. 124. 173 W. Kusche, Die “blaue Blume” und das “wirkliche Blau”, in «Weimarer Beiträge», 20 (1974), n. 7, p. 78. Sull’importanza della scrittrice per la rivalutazione del Romanticismo e della letteratura fantastica, cfr. R. Calabrese, Il viaggio a Praga di Anna Seghers, in Praga, «Cultura tedesca», n. 15, 2000, pp. 159-170 e A. Horn, Kontroverses Erbe und Innovation. Die Wovelle Die Reise begegnung von Anna Seghers im literaturpolitischen Kontext der DDR der siebziger Jahre, Frankfurt a.M., Peter Lang, 2005. 170

I colori delle fiabe

303

attenzione e conoscenza delle condizioni del popolo e della sua quotidianità e nostalgica rappresentazione del paesaggio, che acquista spessore, assume colori e dettagli. Ai consueti brucianti alberi del pepe, alle distese desertiche punteggiate da cactus, che diventano metafora di solitudine rispetto alla comunità degli alberi nel bosco («ognuno era come un albero in mezzo a un bosco e non solo come un cactus in una steppa»174), subentra una descrizione più articolata e reale: «i prati erano variegati di tutti i colori, un velo sottile di bouganvillee si stendeva sulle case bianche della periferia»175. Oltre la dominante metafora cromatica dell’azzurro che unisce poeticamente il paese americano a quello europeo, la Germania è presente con riferimenti del testo e come sfondo in filigrana. Tedesco di origine è il disinvolto fornitore del colore, la Germania, coinvolta in una guerra sfocata dalla distanza, causa dello sconvolgimento nell’opera coscienziosa di Benito Guerrero. Il nome è un omaggio ulteriore al pittore di murales, quell’azzurro da lui cercato senza cedimenti o compromessi, è prodotto con procedimenti più vicini all’industria tedesca che non alla tradizione messicana e maya di tinte vegetali176. L’ambientazione esotica consente l’ampliamento della gamma cromatica, che mette in risalto la magica presenza dell’azzurro, la dimensione preindustriale può delineare la possibilità di nuove forme economiche, ma soprattutto presenta la critica più profonda alle prescrizioni dogmatiche, con cui il singolo viene appiattito in un’anonima generalità, la concretezza in un’insignificante quotidianità, il «miracolo dell’arte»177 guardato con sufficienza, se non con sospetto. Anche successivamente, probabilmente con sempre maggiore disillusione, ma non con minore forza, Anna Seghers continua a ribadire tali convinzioni. Che il fantastico e l’irreale possono e devono essere strumenti del realismo, che ogni individualità deve potersi sviluppare armonicamente collegata alla comunità attraverso la solidarietà, che nonostante le difficoltà è irrinunciabile la ricerca del blu, vera rivoluzione dell’umano. 174

A. Seghers, Crisanta, cit. (trad. it. p. 9). A. Seghers, Das wirkliche Blau, cit. (trad. it. p. 31). 176 Cfr. F. Pohle, Kriegsexil in Mexiko und mexikanische Stoffe bei Anna Seghers, p. 125 e ss. 177 L. Kopelew, Verwandt und verfremdet, cit., p. 59. 175

VISIONI IN FORMA DI RACCONTO NARRAZIONI PER IMMAGINI IN ITALO CALVINO Valeria Cammarata

L’intera opera di Italo Calvino, dal Barone rampante alle Lezioni americane, è da sempre stata percepita da lettori e critici come uno straordinario universo autonomo e coerente di immaginazione e visualità. Tra castelli e taverne, città invisibili e strani osservatori la penna di Calvino ha costruito una molteplicità di racconti inquadrati su aspetti di una realtà così complessa e sottile che soltanto una sensibilità come la sua – cerebrale e sensuale al tempo stesso – è stata capace di percepirne i livelli significativi partendo dalla rielaborazione dei dati forniti dal mondo circostante. Concentrandosi sulla produzione fantastica dell’autore ligure, rintracciando nei principali romanzi e racconti del genere il percorso di un universo immaginario e simbolico, l’indagine critica ha, generalmente, portato alla luce soltanto alcuni degli aspetti di un sistema che, nella realtà dei fatti, si dimostra molto più complesso1. Se, infatti, nelle Città invisibili, nel Castello dei destini incrociati, in Palomar la riflessione sul visuale si concentra su tre diversi ambiti del più ampio sistema – rispettivamente l’immaginazione, la figuratività, la relazione tra osservazione e descrizione – è comunque nella miriade di racconti e di recensioni – che prendono le mosse da eventi concreti come mostre, esposizioni e vernissage – che Calvino realizza la complessa riflessione sull’immagine e, soprattutto, sul rapporto tra questa e la scrittura. Proprio dalla relazione tra la sensibilità nei confronti di un mondo concepito nella sua molteplicità, per quanto geometrica, e la necessità di applicarvi una griglia di lettura – quanto più possibile coerente – nasce la riflessione di Calvino sulla percezione e l’elaborazione visuale. Il mondo in cui noi esseri umani abitiamo, insieme agli altri es1 Uno dei primi a interessarsi di questo versante dell’opera di Calvino è stato Marco Belpoliti in L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 1996.

306

Lo sguardo reciproco

seri viventi, viene percepito da Calvino come il «pozzo del non scritto» da cui chi esercita il mestiere di scrittore deve estrarre continuamente il combustibile per la propria «fabbrica di parole», fabbrica dalla quale ci si aspetta la capacità di catturare «le rapide immagini di quel che succede»2. L’approccio al visivo nasce, dunque, nell’opera di Calvino dalla necessità di raccontare; e, a sua volta, la necessità di raccontare nasce dalla provocazione delle immagini che, per qualche ragione, si presentano significative agli occhi dell’autore. Così egli afferma: «All’origine di ogni mio racconto c’era un’immagine visuale»3. Questa immagine che ispira la creazione letteraria, così come le manifestazioni del mondo circostante, appartiene, comunque, ad uno statuto particolare. Essa non è, infatti, ingenua traccia della realtà, al contrario fa parte del medesimo «discorso costruito» cui appartiene la letteratura. Infatti, secondo Calvino, queste immagini, sono «colonizzate» dalle parole tanto che il nostro stesso senso della vista «porta con sé una pesante crosta di discorsi»4, e tanto che l’osservazione si converte in lettura del mondo – scritto e non scritto – all’interno di un processo che coinvolge contemporaneamente occhio e mente5. Da quanto sin qui detto risulta possibile delineare un primo, per quanto parziale, carattere della figurazione calviniana, e cioè la relazione tra immagine e scrittura nell’approccio alla rappresentazione del mondo. All’interno della questione che attraversa e caratterizza tutta la cultura occidentale, da Platone, al cristianesimo, da Kant a Scho2 I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, in «Lettera internazionale», 16-18 febbraio 1983. Ora in Id., Saggi, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, vol. II, p. 1877. 3 I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988. Ora in Id., Saggi, cit., vol. I, p. 704. 4 I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, cit., p. 1879. 5 Sulla dibattuta questione del ruolo ricoperto nell’elaborazione visiva dal rapporto occhio/mente Calvino si esprime chiaramente nella recensione di un libro di Ruggero Pierantoni, L’occhio e l’idea. Fisiologia e storia della visione, Torino, Boringhieri, 1982: «L’alternativa occhio-cervello continua fino a che il microscopio non dimostra che la retina e la corteccia visiva sono fatte nello stesso modo: s’apre così la strada che porterà a capire che la retina è una porzione periferica della corteccia cerebrale. Insomma il cervello comincia dall’occhio. (Quest’ultima frase la dico io e speriamo che sia giusto)». I. Calvino, Il segreto della luce, in «la Repubblica», 17 luglio 1982. Ora I. Calvino, La luce negli occhi, in Id., Saggi, cit., vol. I, p. 530.

Visioni in forma di racconto

307

penhauer e Nietzsche, Calvino assume una posizione che è tipica del suo tempo, post-industriale e post-bellico, in cui letteratura e arti figurative si trovano più che mai impegnate in una difficile resa della realtà altrettanto frammentata quanto l’individuo. Così nella visione di Calvino pittori e scrittori dell’avanguardia si trovano a fare i conti con il dualismo soggettività-oggettività da una parte, e con la complessità “labirintica” della realtà dall’altra; gli uni muovendosi alternativamente tra le linee pure o nervose dell’individualità – Calvino si riferisce soprattutto a Mondrian e Kandinskij –, fra rappresentazioni insieme naturali e meccaniche dell’esterno – in Pollock e Wols –, fino ad assumere definitivamente le produzioni della stessa civiltà industriale con un ritrovato valore estetico – nelle visioni anticipate da Cézanne, poi nell’art noveau, nel cubismo e nel futurismo –; gli altri ancor più impegnati nel magma stratificato di realtà in cui autori e lettori devono necessariamente fare i conti con questa complessità pur non abbandonandosi completamente alle sue maglie: così Calvino presenta come modelli propri della sua visione la «cultura plurima» strumento di Musil e «l’ottimismo storicista d’avanguardia» con le sue alterne vicende da Majakovskij a Céline, da Artaud a Henry Miller6. Risulta chiaro da quanto detto il duplice approccio letterario e figurativo e, soprattutto, il carattere immaginifico della realtà secondo Calvino. L’immaginazione visiva, infatti, è un elemento fondamentale lungo tutta la sua riflessione sulla letteratura e la realtà, già a partire dalla cultura cristiana: da Ignacio de Loyola – nei cui scritti si attua un passaggio dalla parola all’immaginazione per il raggiungimento della comprensione dei significati più profondi – alla Divina Commedia, in cui Dante mette in scena una serie di immagini che riguardano personaggi, rappresentazioni, ricordi, metafore: «Dante sta parlando delle visioni che si presentano a lui quasi come proiezioni cinematografiche o ricezioni televisive su uno schermo separato da quella che per lui è la realtà oggettiva del suo viaggio ultraterreno»7. Come per Dante e Sant’Ignazio la questione del primato del6 Cfr. I. Calvino, La sfida al labirinto, in «Il Menabò 5», 1962. Ora in Id., Una pietra sopra, Milano, Mondadori, 1995. 7 I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 698.

308

Lo sguardo reciproco

l’immagine visuale e dell’espressione verbale risulta centrale nell’opera di Calvino, certamente influenzata dalle opere di Hofstadter8 e di Starobinski9, e sicuramente rivolta al versante del visuale. Se, infatti, una volta trasposto il pensiero sul foglio la parola scritta – quella linea che ripetutamente e in forme e direzioni sempre diverse attraversa gli scritti e il mondo di Calvino – si evolve da serva dell’immagine a padrona assoluta della narrazione, l’origine di ogni racconto sta sempre, come abbiamo visto, in un’immagine visuale: «dunque nell’ideazione di un racconto la prima cosa che mi viene alla mente è un’immagine che per qualche ragione mi si presenta come carica di significato»10. È allora possibile a questo punto distinguere all’interno di questo complesso di opere e riflessioni due diversi tipi di «processi immaginativi»: l’uno che dall’immagine visiva conduce all’espressione verbale e l’altro che compie il movimento opposto, per lo più creando un vortice di significazione in cui diventa difficile discernere l’origine del discorso. Ecco quindi delineato il sistema visuale-letterario di Calvino: da un lato le opere in cui la visualità ha costituito il fondamento di un sistema come riflessione sull’immaginario e lo sguardo – opere cioè in cui il pretesto immaginativo è nato dalla fantasia dell’autore; quindi opere che partendo da un’immagine hanno prodotto una narrazione connessa e, talora, riguardante la stessa rappresentazione –; da un altro lato scritti in cui opere fisicamente presenti allo sguardo di Calvino hanno offerto la “lente” attraverso cui guardare il mondo visibile, ma anche invisibile; infine quelle che articolano un preciso discorso descrittivo, potremmo dire ekphrastico, sulle immagini storicamente prodotte.

La riflessione sull’immaginario Nel senso della riflessione fantastica operano i romanzi che hanno costruito il manifesto generale della narrativa calviniana: Le città invisibili, con la sua struttura reticolare di racconti che – 8 D. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: An Eternal Golden Braid, New York, Basic Books, 1979. 9 J. Starobinski, La relation critique, Paris, Gallimard, 2001. 10 I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 704.

Visioni in forma di racconto

309

pur molto generosi nei particolari di luci, colori, linguaggi, sapori e tradizioni di città – costituiscono una sottile riflessione sulle trame invisibili che reggono il mondo e che gli uomini tentano faticosamente di cogliere; Palomar, il vero e proprio romanzo dell’osservazione, perfettamente inquadrato in una struttura che prevede la successione continua e ripetuta in ogni sezione di capitoli dedicati alla descrizione (i primi), alla narrazione (i secondi) alla meditazione (i terzi), e il cui protagonista è fondamentalmente l’incarnazione dell’osservatore; Il castello dei destini incrociati, in cui parola e immagine giocano in un esemplare rapporto di mutuo sostegno, l’una realizzando le storie tracciate dai percorsi dell’altra. Proprio nel Castello dei destini incrociati troviamo un emblema del sistema visuale-narrativo che abbiamo prima delineato. Qui, infatti, più ancora che nei casi precedenti la parola, ispirata dall’immaginazione, trova in immagini culturalmente determinate, pur se non immediatamente presenti all’autore, la traccia del percorso da seguire. Insomma, le carte sul tavolo costituiscono soltanto l’inizio di un racconto che si svilupperà attraverso le sale della personale e immaginaria pinacoteca dell’autore. In questo romanzo possiamo, infatti, rintracciare uno dei primi elementi della galleria d’immagini care a Calvino e che ci avvicinano a tutta quella parte dell’universo letterario strettamente connessa all’arte figurativa, e alla pittura in particolare. Infatti, ciò che Calvino realizza, nel capitolo autobiografico del romanzo, si delinea, per sua stessa ammissione, come una piccola «iconologia fantastica» in cui la figura, alter ego dell’autore, si costruisce a partire da una rilettura dei quadri raffiguranti San Girolamo e San Giorgio lungo le pareti degli Schiavoni a Venezia interpretate, quasi fumettisticamente, come un’unica storia. La particolare costruzione che l’autore attribuisce al racconto – una storia interamente costruita sulla successione immaginaria di quadri storici – è quella più capace di esaltare la collaborazione di testo e immagine, pur non compresenti: quella dell’ipertesto. Prima di essere utilizzato nelle intuizioni elettroniche e digitali il termine ipertesto era già stato inserito in una riflessione sul sistema letterario come complessa rete di riferimenti intertestuali ricondotti ad un carattere fondamentale della letteratura, quello della mescolanza di modelli diversi, dell’appropriazione e integrazione delle forme più disparate, quella caratteristica che Bachtin

310

Lo sguardo reciproco

chiama dialogicità, e che più generalmente è riconducibile all’intertestualità letteraria, ossia al rapporto più o meno palese di testi diversi o di loro parti. In questo racconto, intitolato Anch’io cerco di dire la mia, Calvino si distacca per la prima volta dai tarocchi e passando da un atlante di immagini “in praesentia” ad uno “in absentia” costruisce l’effigie del suo mestiere e della sua personalità all’interno di una galleria invisibile, ma i cui quadri sono perfettamente individuabili e riconoscibili nella tradizione pittorica cristiana. Così nell’immaginario del lettore si ricrea una successione di situazioni e amFig. 1. L’Eremita, Tarocchi bientazioni in cui è possibile riconomar-sigliesi, 1761. scere l’evoluzione del personaggio: un romanzo di formazione tra le sale dei più grandi musei del mondo, attraverso le quali lo scrittore deve tracciare il percorso di un incerto cammino. Questo cammino comincia con una traslazione dalla figura dell’eremita dei tarocchi (fig. 1), in quella di un San Girolamo prima generico, poi individuato nella stampa di Dürer11, che lo contestualizza in un’ambientazione precisa in cui la città appare su uno sfondo piuttosto ampio e pesante, mentre al protagonista è lasciato uno spazio ristretto (fig. 2). La città cambia peso figurativo e narrativo, passando all’incisione di Rembrandt, in un accostamento che viene reso narrativamente come la dedizione del santo allo studio più forte della tentazione dei divertimenti che la città, facilmente raggiungibile, sarebbe in grado di offrire. Passo dopo passo la narrazione del personaggio “in crescita” assume sembianze più simili a quelle di Sant’Agostino, grazie all’ambiente chiuso e alla compagnia di altri animali che accompagnano l’onnipresente 11 In realtà la stampa di Dürer cui si riferisce Calvino raffigura S. Antonio in eremitaggio.

Visioni in forma di racconto

311

Fig. 2. A. Dürer, Sant’Antonio, 1519.

leone – figura che interessa Calvino fin dalle prime osservazioni e cui è affezionato perché simbolo del suo mestiere, in unione alla figura del santo dedito allo studio. Vediamo, così, succedersi rapidamente il San Girolamo di Antonello da Messina con il suo pavone, un’altra incisione di Dürer (fig. 3), in cui la rappresentazione è arricchita da un lupo, e, infine, il Carpaccio a Venezia. A questo punto la narrazione, concentrandosi su questo ciclo di quadri, si sofferma sugli interni e sui particolari che, tra tutti gli oggetti, riconducono all’iconologia dello studio e della scrittura: astrolabi, clessidre, volumi, rotoli di pergamena, «sappiamo che il ritratto congloba il catalogo degli oggetti, e lo spazio della stanza riproduce lo spazio della mente, l’ideale enciclopedico dell’intelletto, il suo ordine, le sue classificazioni, la sua calma»12. La calma concentrazione del racconto viene, a questo punto, improvvisamente sconvolta da un’agitazione e un disordine che, inaspettatamente, irrompono nella stanza dello scrittore, il quale, viene disturbato nel bel mezzo dell’«armoniosa geometria intellet12

I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, Milano, Mondadori, 1994, p. 100.

312

Lo sguardo reciproco

Fig. 3. A. Dürer, San Girolamo nello studio, 1514.

tuale [che]sfiora al limite l’ossessione paranoica»13. Lo scrittore si ritrova al chiuso della sua stanza, guardando dai vetri la città lontana, e ricorda il motivo del suo eremitaggio14, l’epoca in cui girando per i musei la figura in cui si specchiava era più volentieri quella di San Giorgio e il drago, il cavaliere di spade dei tarocchi viscontei (fig. 4). Questa nuova iconologia viene inserita in una riflessione circa il fare pittorico e narrativo: dipingendo il soggetto di San Giorgio, infatti, i pittori, secondo Calvino, danno poco peso alla vicenda – considerata per lo più una rivisitazione del mito pagano di Perseo – e, ciononostante, finiscono per crederci «nel modo che hanno gli 13 Si tratta dello scompiglio creato nel quadro nel quadro del Carpaccio dall’apparizione mistica di sant’Agostino. 14 In questi anni Calvino vive a Parigi in un eremitaggio “volontario” e non troppo lontano dal suo paese. Ciononostante, nel 1974 scrive Eremita a Parigi, in cui racconta la sua vita nella capitale francese vissuta né da cittadino, né da turista. I. Calvino, Eremita a Parigi, intervista a Valerio Riva per la televisione svizzera, Lugano, 1974. Ora in Id., Romanzi e racconti, cit.

Visioni in forma di racconto

scrittori di credere ad una storia che è passata per tante forme, e per il fatto di dipingerla e ridipingerla, scriverla e riscriverla, se non era vera lo diventa»15. Dopo la pausa meta-narrativa il racconto riprende dalla narrazione della storia di S. Giorgio: la carica contro il drago tra i cadaveri delle povere vittime della bestia – nella raffigurazione di Carpaccio (fig. 5) –, la sopraffazione del nemico e il colpo di lancia – nel quadro di Raffaello –, la posizione della principessa, prima tra i due contendenti – in Paolo Uccello (fig. 6) –, o distaccata in primo piano – per Tintoretto. La vicenda si conclude con la vittoria annunciata dalla riconciliazione con la natura presentata da Altdorfer, quindi con i pubblici festeggiamenti, organizzati nei quadri di Pisanelli e Carpaccio.

Fig. 4. Cavaliere di Spade, Tarocchi marsigliesi, 1761.

Fig. 5. V. Carpaccio, San Giorgio in lotta col drago, 1502-1507.

15

Ivi, p. 101.

313

314

Lo sguardo reciproco

Fig. 6. P. Uccello, San Giorgio e il drago (particolare), 1460.

Tirando le fila del discorso, lo scrittore confida di voler tracciare all’interno di questa sequenza un percorso inverso, che dall’impetuosa giovinezza del S. Giorgio conduca alla tranquilla saggezza del S. Girolamo. Ma quest’altra vicenda è già nei particolari di tutti i quadri orientati ad un soggetto che risulterà fondamentale ai fini della narrazione e della caratterizzazione dei personaggi. Infatti «l’eroe d’azione», come lo chiama Calvino, è sempre rappresentato nel chiuso dell’armatura, il suo volto non è mai reso espressivo patemicamente, anzi spesso è raffigurato all’ingiù. L’unico personaggio che viene caricato di un’aura di passionalità è il drago sempre diversamente contorto. Le bestie che fungono da trait d’union tra S. Girolamo e S. Giorgio, leone e drago, sono accostabili come raffigurazione della psiche, di quell’elemento aggressivo e pericoloso presente in ogni essere umano che il savio e il guerriero tengono sempre presente alla propria memoria. Sta qui la saggezza del guerriero e dello studioso, del pittore e dello scrittore. I rapporti messi in campo da questo racconto lasciano intendere non soltanto una relazione intermediale tra testo e immagini,

Visioni in forma di racconto

315

ma una struttura che, con Bachtin, possiamo ricondurre alla plurivocità, ossia all’esistenza di voci diverse all’interno della stessa realizzazione testuale. Essa nasce, in sostanza, dalla presenza simultanea, al di sotto di una superiore unità, di unità stilistico-compositive diverse16.

L’immagine e la narrazione L’approccio narrativo di questa piccola iconologia riassume in qualche modo le suggestioni visuali cui Calvino ha dato un larghissimo spazio durante tutta la sua carriera, soprattutto in tutta la serie di interventi espressamente dedicati all’arte cui si è dedicato dalla metà degli anni Settanta fino alla fine dei suoi lavori, e in cui ha costruito una narrazione a partire dalle immagini via via incontrate in mostre o allestimenti. Recentemente riuniti in due raccolte, Guardando disegni e quadri17 e Immagini e teorie. Intorno alle arti figurative18, questi interventi fanno a loro volta parte di una “cultura visuale” che in Calvino, come abbiamo già visto, è sempre stata alla base della propria esperienza personale e professionale. In questi brevi saggi, talora trasformati in veri e propri racconti che utilizzano le immagini come spunto per la narrazione o come contrainte, ci è data la possibilità di ripercorrere tutte le tappe del suo pensiero sull’argomento: la concezione della realtà esterna e del suo spazio – fondamentalmente costituito di linee che si intersecano e di frecce che guidano nella multidimensionalità del mondo; il rapporto tra arte figurativa e scrittura – e la costante attrazione, mista a invidia, dello scrittore e della sua arte nei confronti del pittore e della sua arte; tutto ciò sempre governato da una precisa 16 «I confini tra artistico ed extrartististico, tra letteratura e non letteratura, ecc., infatti non sono stati stabiliti dagli déi una volta per sempre. Ogni specifico è storico. Il divenire della letteratura non è soltanto crescita e mutamento di essa all’interno dei confini incrollabili dello specifico, ma investe questi stessi confini. Il processo di mutamento dei confini delle sfere della cultura (compresa la letteratura) è processo estremamente lento e complesso. Singole violazioni dei confini dello specifico (come quelle sopra indicate) non sono che sintomi di questo processo, il quale si svolge a una grande profondità». M. Bachtin, Epos e romanzo, in Id., Voprosy literatury i estetiki (1975), trad. it., Estetica e romanzo, a cura di C. Strada Janovicˇ, Torino, Einaudi, 1979, p. 475. 17 I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., vol III, pp. 382-440. 18 I. Calvino, Saggi, cit., vol. II, pp. 3002-3006.

316

Lo sguardo reciproco

concezione della dimensione della visibilità e del senso della vista. Proprio a quest’ultimo tema è dedicato un racconto, rimasto allo stadio di progetto, che avrebbe dovuto fare parte di un’opera dedicata ai cinque sensi cui Calvino lavora approssimativamente dal 1970 fino al 1984 e che porterà a compimento soltanto per le sezioni dedicate all’olfatto19, al sapore20, all’udito21. Nonostante, però, il progetto riguardante la vista non sia mai stato realizzato (ne rimangono soltanto piccole tracce sul dorso di un biglietto) è stato sicuramente questo il tema che più ha interessato l’autore, come possiamo evincere dalla straordinaria quantità di appunti, notazioni bibliografiche e documenti, testimonianze di un interesse che andava oltre il mero spunto letterario e che costruisce il disegno di una cultura visuale saldamente fondata. Questi documenti, infatti, citano opere fondamentali nella concezione della vista tanto dal punto di vista fisiologico che da quello culturale: da Della natura delle cose di Lucrezio, alla Storia naturale di Buffon, dai Manoscritti economico filosofici di Marx ai Marginalia di Poe, fino ancora alle riflessioni filosofiche che vanno da Descartes a Febvre, da Gibson a David Marr. Da tutte queste speculazioni Calvino trae una percezione del mondo visivo che sembra coincidere con la costruzione della sua intera opera, e, sebbene si rimpianga di non poter leggere il racconto che da questi spunti sarebbe stato prodotto, gli appunti che ne delineano la gestazione rimangono comunque di grandissimo effetto. In essi, infatti, l’osservazione di Calvino sembra cogliere perfettamente le istanze delle più recenti riflessioni sulla cultura visuale22 costruendo un regime scopico ben preciso in cui il mondo costituisce l’oggetto visivo, gli occhi lo strumento attraverso cui questo mondo viene percepito, e l’arte il mezzo di produzione e, insie19 I. Calvino, Il nome e il naso, in «Playboy», novembre 1972. Ora in Id., Romanzi e racconti, cit., vol. III, pp. 113-126. 20 I. Calvino, Sapore, sapere. (Sotto il sole giaguaro), in «FMR», giugno 1982. Ora in Id., Romanzi e racconti, cit., vol. III, pp. 127-148. 21 I. Calvino, Un re in ascolto, in «la Repubblica», 12-13 agosto 1984. Ora in Id., Romanzi e racconti, cit., vol. III, pp. 149-173. 22 Uno studio fondamentale a questo proposito è senz’altro quello di M. Jay, Downcast Eyes. The Denigration of Vision in Twentieth-Century French Tought, Berkeley, Los Angeles-London, University of California Press, 1994.

Visioni in forma di racconto

317

me, di trasmissione della visività23. All’interno di questa riflessione Calvino attribuisce uno spazio anche a ciò che rimane «al margine del campo visivo», così come anche ai segni visivi trasmessi involontariamente e a quelli nascosti, occulti o che attendono di essere scoperti. Anche se non ci è possibile avere un’idea chiara sullo svolgimento dell’invenzione narrativa, l’opera di Calvino e le sue riflessioni sparpagliate tra appunti e documenti possono comunque fornirci almeno un’idea del suo modo di percepire e riflettere la visività: «il mondo non è un panopticon ma un pancripticon. Non il nascosto occulto (viscere, segreto) ma il nascosto con intenzione d’essere trovato (tracce, tesoro nascosto)»24. La percezione del mondo come sistema multiplanare di linee è alla base di tutta la creazione, soprattutto romanzesca di Calvino, ma è anche lo strumento particolare di descrizione del mondo e della sua rappresentazione. Così se il mondo è costituito da serie di linee spezzate e oblique, di segmenti sporgenti e verticali ascendenti, e le dimensioni del nostro spazio, checché ne dicano le convenzioni, si riducono ad un singolo meridiano e parallelo25, allora l’unico modo di figurarci la nostra posizione al suo interno è quello della mappatura, ma della speciale mappatura del labirinto. Così Il viandante nella mappa – racconto-recensione di una mostra cartografica contenuto in Collezione di sabbia – si concentra sulla storia e la necessità che hanno caratterizzato quest’espressione dell’uomo e, soprattutto, ne rivela le similitudini con l’arte narrativa: «Il seguire un percorso dall’inizio alla fine dà una speciale soddisfazione sia nella vita che nella letteratura (il viaggio come struttura narrativa) e c’è da domandarsi perché nell’arte figurativa il tema del percorso non abbia avuto altrettanta fortuna e compaia solo sporadicamente»26. 23 Un posto all’interno di questi mezzi di produzione sarebbe spettato sicuramente anche alla fotografia, nominata in parentesi e interrogativamente ma più volte oggetto di riflessione negli scritti di Calvino a partire dal piccolo saggio in memoria di Roland Barthes: I. Calvino, In memoria di Roland Barthes, in Id., Saggi, cit. vol. II. 24 I. Calvino, Racconti per i cinque sensi, in Id., Romanzi e racconti, cit., vol. III, p. 1215. 25 I. Calvino, Dall’opaco, in Aa.Vv., Adelphiana 1971, Milano, 1971. Ora in Id., Saggi, cit., vol. II, p. 2952. 26 I. Calvino, Il viandante invisibile sulle strade della terra, «la Repubblica», 18 giugno 1980. Ora in I. Calvino, Il viandante nella mappa, in Id., Saggi, cit., vol. II, p. 427.

318

Lo sguardo reciproco

Questa mappa visuale costituisce in qualche modo la griglia di lettura di Calvino non soltanto per la realtà ma per le stesse rappresentazioni figurative. Così le opere di Carlo Levi27, di Sebastian Matta28, di Shusaku Arakawa29, vengono analizzate come diversi ponti tra il razionale e l’irrazionale, come espressione della difficoltà di esprimere un mondo difficilmente rappresentabile, come spazio mentale di un mondo attraversato dalle traiettorie di frecce in movimento e di parole che raggiungono e oltrepassano i margini del quadro. Proseguendo le sue peregrinazioni tra quadri, poi, Calvino costruisce una vera e propria mappa di città rappresentate da alcuni tra i più grandi pittori a lui contemporanei. Si tratta degli scritti che accompagnano i cataloghi delle mostre di artisti e, molto spesso, di amici allestite negli anni compresi tra il 1976 e il 1983: Cesare Peverelli, Lucio del Pezzo, de Chirico, Leonardo Cremonini. Ognuna di queste opere trasforma il percorso tra le opere in esposizione in un discorso unico che ci accompagna all’interno di tutta l’opera dell’artista pittore, ma anche dello scrittore. Così il primo trasmette allo scritto una città che agita i suoi mille piani alle spalle di una coppia addormentata in un abbraccio: «ogni punto dello spazio è collegato ad altri punti sopra e sotto di loro, linee che attraversano il letto, file di persone interminabili che continuano a passare»30. Tutti questi punti collegati, come in un gioco enigmistico, si trasformano in grattacieli dalle vetrate trasparenti e specchi misteriosi in cui sembra che si nascondano figure umane. È la stessa città in cui nel buio della sera soltanto le luci alle finestre restituiscono immagini di vita trasmesse e ricevute unicamente dai video dei televisori: « In milioni di video si delinea l’immagine di altri video, e assorti a contemplarli nelle stanze in penombra non restano che altri video, soli o a gruppi»31; la stessa 27 I. Calvino, Litografie di Levi, in Carlo Levi, in «Carte segrete», Roma 1970. Ora in Id., Saggi, cit. 28 I. Calvino, Per Sebastian Matta, in A. Bonito Oliva, Matta, Roma, L’Attico Esse Arte, 1984. Ora in I. Calvino, Saggi, cit. 29 I. Calvino, Un Calvino inedito: il colore della mente nei quadri di Arakawa, «Tuttolibri», Milano, 23 novembre 1985. Ora I. Calvino, Per Arakawa, in Id., Saggi, cit. 30 I. Calvino, Altre città, in C. Peverelli, L’atelier de l’artiste, Paris, Musée d’art moderne de la ville de Paris, 1976. Ora in I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., vol. III, pp. 383-386, citaz. p. 383. 31 Ivi, p. 385.

Visioni in forma di racconto

319

che nel cielo che la copre non vede altro che i suoi stessi tetti aguzzi e le lamiere delle sue vetture. L’unico cielo che appare intatto, nell’opera di Peverelli o, forse, in quella di Calvino è quello sotto il quale nessuna città è mai esistita, nessuna pena e nessuna gioia è stata mai prodotta32. La città «ai confini del sonno» di Peverelli si trasforma, nelle immagini di del Pezzo, in una città in cui «i segni parlano ai segni, si dicono cose diverse da quelle che noi vorremmo far dire»33, una città che parla di più superfici, di luci e ombre. In questo autore, il cui stile differisce così tanto dal precedente, le visioni cittadine diventano geometriche e spigolose, ma non per questo più facilmente leggibili. Lavoro arduo, quindi, per il cartografo segnare le strade di queste metropoli di volta in volta concentriche, aeree, disarmoniche: «nella mente […] più sali, più la forma della perfezione t’appare rigorosa e necessaria, e più il mondo che esiste lo senti, nel confronto, intollerabile»34. Proprio a questa necessità Calvino risponde con de Chirico, autore di quella che egli considera la città del pensiero, in cui le maestose costruzioni e le immobili statue invitano a decifrare segni, a seguire le linee della prospettiva, a rivedere gli spazi del dentro e del fuori: «Ma queste vedute sono piatte, incorniciate, appoggiate a cavalletti in mezzo a strumenti da disegno. Se un albero fiorito finalmente s’illumina tra due oscuri muri di palazzi, si scoprirà che è solo un fondale di tela appeso. L’aria aperta qui è solo dipinta, un impiantito di palcoscenico è il terreno in cui si posano i nostri passi»35. Il viaggio nelle città di de Chirico – che ci getta subito in una strana ambientazione di spaesamento – prosegue per tappe se32 Il riferimento alle visioni delle Città invisibili è qui d’obbligo. Infatti nel romanzo modulare che Calvino aveva scritto nel 1972, il tema della città e del suo doppio celeste è costruito nello spazio di cinque capitoli che descrivono proprio l’ambiguo rapporto di cinque diverse città con un modello cui aspirare proiettato nel cielo. Sono queste immagini in cui rimane difficile fino alla fine discernere il lato “buono” da quello “cattivo”. 33 I. Calvino, Parafrasi. Vingt peinture en relief de Del Pezzo à la Galerie Bellechesse, Paris, 1978. Ora in Id., Romanzi e racconti, cit., vol. III, pp. 387-389, citaz. p. 388. 34 Ivi, p. 389. 35 I. Calvino, Accanto a una mostra, in «FMR», luglio-agosto 1983. Ora in I. Calvino, Viaggio nella città di de Chirico, in Id., Romanzi e racconti, cit., vol. III, pp. 397-406, citaz. p. 404.

320

Lo sguardo reciproco

gnate da figure che si caricano di suggestioni diverse: così l’immobilità delle statue, la figura dell’angelo della melanconia, le torri e le piazze, suggeriscono allo scrittore il silenzio e la meditazione: il loro compito sembra qui quello di farsi carico delle nostre inquietudini e di renderle oggettive al nostro sguardo. Se il silenzio è ciò che fondamentalmente queste immagini ispirano, altre, invece, rappresentano con linee, curve e diagrammi le approssimazioni di un universo più vasto fatto di mappe e scacchiere. Poi le immagini in movimento che escludono l’osservatore dai propri spazi e dai propri tempi: un altrove fatto di uomini che sono ormai stati «annessi al mondo delle cose»36. L’inquietudine del cyborg finisce, nel racconto di Calvino, col ritorno alla figura pacificatrice che l’uomo ha per sempre fissato nel marmo: «la statua paterna della storia»37. Infine l’opera di Cremonini rivolge la riflessione di Calvino al ricordo e alla memoria, trattenuta tra gli oggetti dal reticolo geometrico del mondo, cioè dal quadro stesso. Quello che Calvino compie in occasione della mostra dell’artista del 1984, è una vera e propria critica della tecnica pittorica, una narrazione della significazione dentro e fuori il quadro a partire dai suoi stessi elementi compositivi: una meta-narrazione contemporaneamente della pittura e della scrittura. Il ricordo, infatti, protagonista del racconto, viene eccitato in prima istanza dalla visione dei colori, soprattutto di quelli che nel quadro creano l’illusione dell’ombra e della luce. Sono essi i primi a coinvolgerci all’interno della cornice del quadro in cui immediatamente il nostro universo viene ricombinato in una rete di altre cornici, di porte e finestre, di vetri e di specchi, in cui non siamo più capaci di ricostruire i rapporti di interno e di esterno. Soltanto i piani della rappresentazione diventano capaci di imprigionare i nostri ricordi nelle irregolari delimitazioni fatte di segmenti rettilinei e superfici piane, di aperture e di chiusure interne. Così il percorso graduale della narrazione ci ha condotto all’interno del quadro, in cui il nostro ricordo diviene capace di ricondurre la visione ad una parola del mondo esterno. Tuttavia, ammonisce Calvino, non è da questa parola che traiamo l’emozione dell’arte, ma all’interno della grammatica particolare fatta di linee e direttrici dello sguardo, che è il quadro: «la mia memoria de36 37

Ivi, p. 405. Ibidem.

Visioni in forma di racconto

321

ve subito essere fissata a impalcature, a sostegni […] se è dalla gabbia di un reticolo geometrico che devo estrarre un ricordo, non c’è ragione che vada a cercarne gli antecedenti in un prima o in un fuori che sarà ugualmente ingabbiato; è qui che devo cercare»38. L’altra consistente parte del discorso visuale di Calvino, come abbiamo già accennato, si occupa della stretta relazione tra arte figurativa e arte narrativa che si realizza tanto nell’analisi di autori che hanno raccolto entrambe le capacità artistiche, tanto nell’asservimento della parola poetica dell’autore alle figure dei pittori. Questo genere di lavoro trova comunque la propria origine nelle figure distinte ma in continua reciproca ricerca dell’altro: lo scrittore e il pittore, appunto. La storia di questo particolare rapporto di creatori di storie nasce con la figura di Leonardo. È, infatti, il celeberrimo uomo di scienze a chiudere la terza delle lezioni americane sull’Esattezza. Maestro irrangiungibile nel campo delle scienze e dell’arte figurativa, Leonardo ci è presentato nella sua piena consapevolezza di uomo senza lettere che, pur inveendo più volte contro i letterati – giudicati inferiori nella forma di espressione e nell’originalità speculativa –, ha sempre avvertito con disagio il non poter comunicare con gli scienziati del resto d’Europa e, soprattutto – come dimostra la lezione di Calvino – ha continuamente ricercato le forme di scrittura che potessero consentirgli di esprimere la profondità della sua immaginazione che neanche il disegno e la pittura erano in grado di raggiungere. Così, in chiusura, Calvino ci lascia l’immagine di Leonardo che durante uno studio sull’origine e l’evoluzione della terra, nel momento in cui si trova di fronte alla rappresentazione di un mostro marino, avverte la necessità della parola scritta per una più completa descrizione. Sul dorso del foglio Leonardo segnerà tre frasi, frutto di rielaborazioni in successione, che cercano di arricchire l’immagine disegnata. Come nota Belpoliti nel suo studio sull’opera visuale di Calvino, la riflessione sui rapporti tra letteratura e arti figurative, tra immagine e linguaggio, ha portato l’autore alla pratica ripetuta di accostamento tra stili e aspetti in qualche modo assimilabili tra pitto38 I. Calvino, Il ricordo è bendato, in Aa.Vv., Cremonini. Opere dal 1960 al 1984, Casalecchio di Reno, Grafis edizioni, 1984. Ora in I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., vol. III, pp. 432-433.

322

Lo sguardo reciproco

ri e scrittori. Le coppie fondamentali di queste comparazioni sono senz’altro costituite da Montale e Morandi, prima, e da Picasso e Vittorini, poi. Quando, nel 1959, Calvino tiene una conferenza alla Columbia University di New York sulle correnti del romanzo italiano del suo tempo39, dovendo indicare quali siano le strade espressive intraprese dalla nostra cultura, sceglie un percorso che – attraversando l’Italia da nord a sud, passando per Pavese e Vittorini, Gadda e Pasolini, Tomasi di Lampedusa ed Elsa Morante – porta alle figure emblematiche di Eugenio Montale e Giorgio Morandi. Nella perfetta corrispondenza delle figurazioni realizzate dai due, Calvino rintraccia i segni del tempo: poesie difficili ed «universo pietroso, secco, glaciale, negativo senza alcune illusioni» da un lato, e nature morte con «la fredda esattezza della luce che avvolge l’umile realtà delle cose»40 dall’altro. Sono queste le eredità raccolte da chi ha vissuto l’esperienza dell’ermetismo poetico e figurativo. Più tardi ricorrerà nuovamente alla cooperazione di parole e forme nel disegno di un’epoca, in occasione della commemorazione di Vittorini ad un anno dalla sua morte nel numero monografico a lui dedicato da «Il menabò»41. Descrivendo l’opera del maestro, Calvino parla di progettazione, di prospettiva di indicazione, introducendo metafore visive che conducono direttamente a chi ha operato, contemporaneamente, nel senso di una sperimentazione stilistica avversa all’empirismo: Picasso. Come l’autore ricorda, Vittorini ha sempre avuto presente il pittore spagnolo tanto nelle sue riflessioni critiche quanto nelle sue opere condividendo con questo la ricerca di nuove corrispondenze tra forme del mondo e forme del linguaggio. Entrambe le sperimentazioni sembrano convergere nel momento in cui Vittorini scrive quello che Calvino chiama «un libro-Guernica», Conversazione in Sicilia: un progetto che, come la celebre pittura, «oppone all’afasia del mondo una babele di figure parlanti»42. 39 I. Calvino, Tre correnti del romanzo italiano d’oggi, in «Italian Quarterly», n. IV, primavera-estate 1960. Ora in Id., Una pietra sopra, Milano, Mondadori, 1995, pp. 55-68. 40 Ivi, p. 58. 41 I. Calvino, Vittorini: progettazione e letteratura, in «Il Menabò 10», 1967. Ora in Id., Una pietra sopra, cit., pp. 155-182. 42 Ivi, p. 166.

Visioni in forma di racconto

323

In quegli stessi anni Calvino si occupa di due pittori contemporanei che dalle sue descrizioni risultano dei perfetti alter-ego: Giulio Paolini, – per il quale scrive la prefazione al catalogo Idem, nel 1975 – e Leo Steinberg – di cui si occupa a Parigi nel 1977. Entrambi gli autori, pur se in modi diversi, dimostrano di condividere le medesime intuizioni di Calvino circa il mondo da rappresentare e l’arte che scelga di rappresentarlo. L’oggetto di questa arte finisce così per ridursi allo stesso processo di creazione artistica. Così nelle tele di Paolini che Calvino affronta esattamente alla maniera di Palomar, procedendo dalla descrizione alla riflessione alla meditazione, egli vede manifestati i tre elementi del regime scopico: chi fa il quadro, chi osserva il quadro, e il dispositivo stesso del “quadro”. Con ciò Paolini e Calvino si trovano d’accordo nell’affermare che nessuno dei due tipi di linguaggio, e probabilmente nessun altro linguaggio, è capace di parlare del mondo né dell’individuo, o perché non esistono, o perché quelli che esistono non piacciono o non interessano la loro opera. Per giungere a questa “capacità espressiva”, però, il pittore ha dovuto eliminare tutto quanto potesse risultare superfluo alla sua narrazione, e la selezione è risultata talmente dura da lasciare sulla tela soltanto la squadratura, la stessa tela, il cavalletto, il barattolo di colore. Da qui nasce un certo rammarico, nello scrittore, rispetto alla sua opera che, a causa dei suoi stessi mezzi espressivi, non può raggiungere una tale semplificazione di forme. Così se il globalizzante approccio all’esperienza, rappresenta il territorio comune ad entrambi gli artisti, è proprio sul versante dei mezzi espressivi che le loro strade divergono. Da un lato, infatti, Calvino compie, nella complessità della sua opera, una parabola che descrive il tentativo di ricondurre l’«anomia contemporanea» ad un alveo di regole sintattiche; dall’altro, invece, Paolini concentra interamente il proprio lavoro sulla «possibilità concettuale di realizzazione dell’opera (o delle opere)»43. Nei quadri successivi di Paolini, poi, il pittore si rivolge non più soltanto alla trasparenza dello sguardo, – attraverso il raddoppiamento fotografico delle immagini di Lotto, di Poussin e di un manuale di storia dell’arte –, ma anche all’irriducibilità del molte43 R. Deidier, Le forme del tempo. Saggio su Italo Calvino, Milano, Guerini Studio, 1995, pp. 161-166.

324

Lo sguardo reciproco

plice all’unico, nell’opera intitolata Averroè, e viceversa, nel tentativo di unificare tutte le sue opere precedenti. Proprio questo tentativo di unificare in un quadro tutti i possibili quadri è ciò che più di tutto avvicina l’opera di Paolini alle aspirazioni di Calvino, autore di un romanzo che ne contenga molti altri, o almeno ne contenga gli incipit44. Nella medesima direzione meta-narrativa si dirige l’opera di Leo Steinberg cui Calvino dedica il saggio La penna in prima persona. L’attenzione e la sensibilità che il pittore dedica a quegli strumenti che consentono alla sua personalità artistica di muoversi in un universo «a n dimensioni del disegnato e del disegnabile, di stabilire una comunicazione tra gli universi stilistici più contraddittori»45, portano Calvino ad associare i suoi disegni di penne alla poesia di Cavalcanti, il quale pure dà voce ai suoi stessi strumenti di lavoro, e ai dialoghi di Galilei, inventore secondo Calvino di alcune delle metafore più fantasiose. Il comune denominatore di tutte queste personalità non è altro che la candida ammissione dell’artificiosità della propria creazione artistica senza alcuna pretesa di realismo, ma con intatta validità narrativa: «Anziché il mondo come oggetto rappresentabile dell’arte e l’arte come rappresentazione del mondo, ci si apre un nuovo orizzonte in cui il mondo vissuto è visto come opera d’arte e l’arte propriamente detta come arte al secondo grado […] l’arte sarà riflessione sulle forme, ipotesi di formalizzazioni visive d’un mondo virtuale […] critica dell’esposizione permanente del mondo in cui siamo coinvolti nel triplo ruolo d’espositori, d’esposti e di pubblico»46. «Col Romanticismo in Francia gli scrittori cominciano a disegnare. La penna corre sul foglio, si ferma, esita, distrattamente o nervosamente deposita sul margine un profilo, un pupazzo, un ghirigoro, oppure s’applica nell’elaborazione di un fregio, d’un’ombreggiatura, d’un labirinto geometrico […] è la fisionomia dello scrittore a cambiare, con l’aspirazione che prende forma nella Germania romantica 44 È interessante notare come nel 1979 Calvino pubblicherà Se una notte d’inverno un viaggiatore, il celebre romanzo multiplo composto dagli incipit di molteplici romanzi. 45 I. Calvino, La penna in prima persona, in «Derrière le miroir», n. 224, maggio 1977, trad. fr. di Jean Thibaudeau. Ora in Id., Una pietra sopra, cit., pp. 352-362, citaz. p. 358. 46 Ivi, p. 359.

Visioni in forma di racconto

325

d’un’“opera totale”, un sogno accarezzato da Novalis (inventore della formula) e che diventerà il programma di Wagner. Hoffmann (tradotto in Francia nel 1829) diventa subito un modello per la nuova letteratura francese, non solo perché ha creato un genere nuovo […], ma anche perché viene presentato come qualcuno che è allo stesso tempo scrittore, disegnatore, musicista: il nuovo tipo di talento poliedrico che il romanticismo risveglia»47. Con queste parole Calvino introduce la recensione ad una mostra intitolata ai “Disegni di scrittori francesi del XIX secolo” in cui ha potuto ammirare più di duecento documenti degli scrittori più o meno illustri del secolo e tutti illuminanti per quanto riguarda quel rapporto, per lui così stretto, tra «grafismo pittorico e scrittura». In questo caso il nostro autore è costretto a parlare di grafismo dal momento che ci troviamo in un territorio che più degli altri fin qui analizzati, risulta vissuto, e segnato, contemporaneamente da disegno e scrittura. Dal dettagliato resoconto di questa mostra possiamo ricavare le distinte personalità che si sono accostate a queste pratiche. L’occhio di Calvino sembra senz’altro più incline alle sperimentazioni degli artisti che dimostrano una vena artistica dotata di un talento non accademico, ma moderno quando non avanguardistico. Così rimangono fuori dalle riflessioni più interessanti – ma non da oneste osservazioni – scrittori quali Mérimée, Vigny, Théophile Gautier, che avendo seguito regolari studi artistici mostrano scarsa inclinazione all’invenzione e alla sperimentazione. Questo testo, comunque, si rivela tra i più ricchi per notazioni curiose e interessanti sul piano del visuale, e per lo straordinario allestimento di figure di personaggi inattesi. Così se la brava George Sand viene riconosciuta per le sue capacità di paesaggista, piuttosto malinconica e desolata, ella viene sicuramente esaltata per l’invenzione di una tecnica detta “dendritica” che consente di dare rilievo nel disegno alle stesse ramificazioni e venature del colore, così come avviene nei minerali da cui prende il nome. Altrettanto interessate risultano le notazioni sull’intelligenza grafica di Baudelaire e di Mallarmé, i quali appaiono dotati, al47 I. Calvino, E de Musset creò il fumetto, in «la Repubblica», 9 febbraio 1984. Ora I. Calvino, Scrittori che disegnano, in Id., Saggi, cit., vol. I, p. 474.

326

Lo sguardo reciproco

trettanto nel disegno che nella scrittura, di «acutezza pungente» e «divertimento verbale». Tra tutte le osservazioni, comunque, maggiormente significative risultano quelle dedicate alle invenzioni narrative di Alfred de Musset, Barbey d’Aurevilly, François Coppé, i quali nelle divertenti invenzioni di innesto del figurativo nello scritto sono stati in grado di mettere in comunicazione millenni d’arte figurativa, dai geroglifici ai calligrammi ai fumetti. La produzione artistica di Alfred de Musset ha senz’altro reso noto il suo spirito incline ai contatti tra lettura e visione, basti pensare alle opere teatrali destinate alla lettura di Uno spettacolo in poltrona, del 1834. Tuttavia alla Maison de Balzac, luogo in cui si svolge la mostra, Calvino trova qualcosa di più, un divertente autore di racconti accompagnati da illustrazioni che per il tratto e la composizione possono essere accostati ai moderni comic stripes e ai disegni di illustratori quali Töpfer e Tofano. Così la creazione di quelle che sembrano delle vere e proprie vignette vengono ritenute «disegni di scrittore», cioè «qualcosa di diverso dal disegno d’un artista, in quanto è funzionale a un’invenzione e a una stilizzazione narrative e a un tipo d’ironia e autoironia: tutti procedimenti letterari, anche se si staccano notevolmente dai procedimenti usati dall’autore nelle opere scritte»48. Altrettanto sorprendenti risultano i disegni con cui Barbey d’Aurevilly – il duca di Guisa della letteratura francese, nelle parole di Lamartine – arricchiva i suoi diari. In realtà più che di veri e propri disegni si tratta di linee e simboli che il dandy esoterico tracciava tra le parole con un certo gusto per l’art brut. Congeniale, tra l’altro, con la sua passione per il calligramma molto denso in cui amava trasformare la sua firma. Al termine di questa visita il nostro visitatore rimane ancora colpito da un nuovo autore, François Coppée, che alla fine del secolo ha affiancato alla perizia calligrafica – con cui istoriava ciascuna lettera delle proprie corrispondenze d’amore come un ideogramma o un rebus – la trasposizione figurata degli oggetti amorosi: così appellando sé stesso come “gatta” e l’amata corrispondente come “uccello”, illustrava le rispettive sembianze con un irruente felino ed una leggiadra colomba. «L’inseguimento d’un orizzonte 48

Ivi, p. 476.

Visioni in forma di racconto

327

dell’espressione diverso da quello delle parole è la spinta che anima molti di questi pittogrammi tracciati in margine a pagine fitte di scrittura. Come non sentirvi l’eterna insopprimibile invidia dello scrittore per il pittore?»49.

Narrazione e descrizione Per completare il complesso mosaico delle “visioni in forma di racconto” di Calvino non manca ormai che l’ultimo tassello, quello, cioè, dedicato ai veri e propri sistemi di mappatura utilizzati per affrontare, secondo il suo punto di vista, la descrizione di particolari opere d’arte. In questo senso l’ékphrasis messa in campo da Calvino ha utilizzato particolari forme di narrazione che, secondo le linee del suo pensiero sin qui delineato, possiamo ricondurre alla spirale, all’enciclopedia, all’atlante. Sono quindi queste i modi in cui il suo discorso ha parlato rispettivamente dello svolgimento della storia nella Colonna Traiana, della catalogazione dei disegni fantastici di Serafini, della descrizione e genesi della Libertà che guida il popolo di Delacroix. Tra le cose viste – o che pur nascendo da letture, riguardano sempre il visibile o l’atto stesso del vedere – che compongono la raccolta Collezione di sabbia, entra a far parte il resoconto di un “viaggio” compiuto tra i tralicci che nel 1981 ingabbiavano la Colonna Traiana per i restauri di mantenimento. In quell’occasione Calvino, accompagnato da Salvatore Settis, ebbe la straordinaria occasione di seguire, quasi fino alla fine del racconto, una delle storie che, pur essendo alla base della cultura – e della stessa narrativa occidentale, e soprattutto latina –, è sempre stato precluso, per ovvi motivi, a un’agile lettura. Il resoconto di questa esperienza, che lo stesso autore definisce filmica, risulta composta da una successione di scene che si dipanano lungo tutta l’altezza della colonna, collegati da piccoli lembi insieme figurativi e narrativi. È per questo che Calvino utilizza la tanto cara metafora della spirale. Seguendo il filo allestito dallo scultore, che qui opera veramente come un regista, Calvino articola il discorso in una sequenza ar49

Ivi, p. 478.

328

Lo sguardo reciproco

chitettata secondo i canoni epici e quelli patemici di tutti i tempi, senza disdegnare effetti speciali e colpi di scena. La storia comincia con la presentazione del “setting”: una città fortificata sul Danubio, in stato d’allarme pronta a rispondere ad un attacco che potrebbe essere sferrato da un momento all’altro (fig. 7); quindi siamo messi al corrente dello spostamento delle truppe romane (fig. 8). A questo punto ci viene presentata la figura del protagonista: l’imperatore Traiano (fig. 9). Nella sequenza di scene che Calvino afferma di vedere egli pone particolare attenzione alla resa figurativa dei personaggi organizzata da una sintassi visuale ben precisa in cui ogni rima è resa da un motivo di «stilizzazione geometrica» sempre diverso: «i Romani tutti con l’avambraccio destro alzato ad angolo retto nella stessa direzione, come a scagliare un giavellotto (fig. 10); […] Giove [..] che alza la destra nell’identico gesto»50. Analogo procedimento di rime, richiami e inversioni, viene individuato da Calvino nello stacco tra le sequenze, effettuato in genere da un movimento verticale, nel caso di cambi di scena repentini, altre volte invece – quando il passaggio da un episodio all’altro necessita di un accostamento temporale – alcuni elementi supereranno i margini della scena. Seguendo lo svolgimento unidirezionale della storia, che quindi non ritorna mai nel medesimo luogo, Calvino giunge fino all’immagine della vittoria alata che segna la fine gloriosa della prima campagna e l’inizio della seconda (fig. 11). Questo secondo tempo della storia, però, non può esserci narrato, perché l’impalcatura non permette al nostro Cicerone di proseguire oltre. Pur nei suoi misteri e nelle sue difficoltà di ricezione, questo monumento rimane comunque uno dei casi di narrazione che oggi potremmo definire “cinematografica”: «Ciò che fa l’eccezionalità della Colonna Traiana non sono soltanto i suoi quaranta metri d’altezza, ma la sua “narratività” figurativa […] che richiede una “lettura” tutta di seguito della spirale di bassorilievi lunga duecento metri […] epopea di pietra, una delle più ampie e perfette narrazioni figurate che si conoscano»51.

50 I. Calvino, In guerra con Traiano, in «la Repubblica», 12-13 aprile 1981. Ora I. Calvino, La Colonna Traiana raccontata, in Id., Saggi, cit., vol. I, p. 501. 51 Ivi, pp. 498-505.

Visioni in forma di racconto

Fig. 7

Fig. 8

Fig. 9.

Fig. 10

Figg. 7-11. Colonna Traiana (particolari).

Fig. 11

329

330

Lo sguardo reciproco

Dalla spirale che abbiamo appena sciolto nelle parole di Calvino, passiamo adesso ad un altro racconto, questa volta decisamente fantastico e molto più criptico, che lo scrittore indaga nel Codex seraphinianum, raccolta di strane opere definite da Calvino “teratologiche” e che ricorda in qualche modo certe opere medievali. Nonostante il titolo, comunque, bisogna ricordare come si tratti di un pittore moderno, mosso da una certa vena misteriosa all’articolazione di un messaggio fuori dal tempo. È proprio questa riarticolazione eccentrica del linguaggio figurativo che Calvino cerca in qualche modo di scovare, partendo dalla convinzione che comunque rimanga sempre sottostante all’opera di Serafini un grafismo letterario nascosto. Infatti se nella combinazione di parti corporee in nuovi mostri immaginifici possiamo riscontrare le tracce di una nuova invenzione sintattica, è comunque nelle ultime tavole che riusciamo a ritrovare il mistero linguistico che cercavamo. In questa sezione infatti l’immagine gioca con la parola – sia parlata che scritta – assumendola interamente alla propria dimensione: così la vediamo colare come bava nera dalle labbra, o la vediamo estratta a forza con una canna da pesca da una bocca. Se, quindi, la parola sembra restia alla manifestazione, il segno grafico – anch’esso vivente, tanto da sanguinare se punto – acquista i propri spazi in una corporeità tridimensionale e policroma. Così essa decide spontaneamente di raggiungere il foglio e lo fa nella sua leggerezza aerea trasportata da palloni e paracadute. Ma una volta giunta sul foglio sembra sia necessario imprigionarla, con ago e filo, per fissarla ad esso. Cosa porta una parola scritta è possibile vederlo attraverso una lente d’ingrandimento: una fitta corrente di significato percorre quel che sembrava un sottile filo d’inchiostro, come una rete colma di percorsi. Ma la parola, come tutto ciò che appartiene all’essere umano, è caduca e destinata a perire. Come colui che l’ha segnata e coloro che l’hanno letta, anche la lettera si staccherà dal foglio e si ridurrà in polvere. Questa polvere, però, non si perderà inutilmente nel vento della storia, essa sarà il terreno da cui le parole di nuove generazioni nasceranno e ricominceranno il ciclo del senso. Questo senso è esattamente lo stesso che si articola e circola all’interno di qualsiasi costruzione pittorica, fin tanto da varcarne i limiti e porla in relazione con una storia che parte dai componenti

Visioni in forma di racconto

331

minimi del quadro e lo ricollega ad una più ampia tradizione culturale. È questa la tesi promossa da Calvino nell’esame del quadro di Delacroix, La libertà guida il popolo. A questo quadro Calvino dedica un articolo scritto in occasione di una mostra tenuta al Louvre in quello stesso anno52. Il museo parigino aveva allestito un’esposizione che si risolveva in qualche modo non come una retrospettiva dell’autore quanto più che altro dello stesso quadro, realizzando una sorta di Wunderkammer di disegni, abbozzi, e altre opere connesse con la genesi del quadro. A partire da questa realizzazione veramente moderna Calvino riscrive la storia dello studio di Delacroix. L’operazione che qui compie Calvino può essere ricondotta ad uno dei più innovativi metodi di critica della storia dell’arte e del visuale in generale: il metodo di Aby Warburg. Il resoconto di Calvino si accosta alle indagini warburgiane sotto tre punti di vista: innanzitutto nella scelta accurata di un linguaggio capace di comunicare anche visivamente; quindi nella stessa costruzione della narrazione, che sembra ricostruire nelle parole ciò che nelle tavole dell’atlante Mnemosyne, creato da Warburg intorno alla fine degli anni venti del XIX secolo, veniva costruito soltanto attraverso immagini. Tanto nell’ékphrasis di Calvino che nella tavola di Warburg, infatti, ogni elemento è immediatamente accostato ad altri con cui è messo in relazione secondo le regole del “buon vicino”, attraverso ingrandimenti e, soprattutto, a particolari ricorrenti che in Calvino, come già in Warburg, rappresentano i principali mezzi attraverso cui vengono trasmesse le funzioni più significative della tradizione artistica di tutti i tempi. Infine le due tecniche possono essere accostate nella costruzione che per entrambi gli studiosi può essere assimilata all’immagine di un labirinto in cui diversi sono i percorsi possibili e, in ogni caso, quello proposto dall’autore non è che uno dei possibili, molte altre sperimentazioni sono lasciate all’intuizione dello spettatore53. Vediamo, quindi, come si realizza il discorso di Calvino. Innanzitutto l’insieme dei documenti rende subito evidente co52 I. Calvino, Sì, dipingerò una barricata, in «la Repubblica», 4 Febbraio 1983. Ora I. Calvino, Un romanzo dentro un quadro, in Id., Saggi, cit. 53 A proposito degli studi di Aby Warburg si rimanda all’analisi di K.W. Forster, K. Mazzucco, Introduzione ad Aby Warburg e all’Atlante della Memoria, Milano, Mondadori, 2002.

332

Lo sguardo reciproco

me il quadro allegorico, finora considerato come una realizzazione spontanea e immediata, subito successiva, e per questo ispirata, agli eventi rivoluzionari del 1830 parigino, sia più che altro interpretabile come la realizzazione finale di un progetto che nasceva, non soltanto dalla riflessione su figure plastiche e allegoriche appartenenti alla tradizione occidentale – come la tradizione legata al corpo d’Ercole, alla pittura celebrativa di David, allo stesso tema della libertà –, ma dallo studio minuzioso di singoli personaggi – tanto numerosi nel quadro da far parlare Calvino di romanzo – e delle loro pose, ideato per quadri e motivi precedenti. Così, infatti, procedendo ad uno studio delle singole componenti si dimostra come il quadro di Delacroix sia il frutto di un attento studio e di una continua rielaborazione. Innanzitutto la figura centrale della libertà, la più famosa rappresentazione iconologico-simbolica del motivo, sembra proprio non essere nata in occasione dei moti su citati, ma esistere nella mente e nelle sperimentazioni di Delacroix almeno a partire dal 1824, ispirata dai moti insurrezionalisti della Grecia, e, perciò, sembra essere inizialmente destinata alla tela I massacri di Chio del 1824. In seguito poi gli studi sulla donna riprenderanno e la trasformeranno nella Grecia sulle rovine del Missolungi, del 1827. A questo punto lo studio di Calvino si concentra su una precisione di particolari che sembra particolarmente ispirata ad un approccio warburghiano: è infatti dai movimenti delle braccia e del dorso che la figura ci appare riconoscibile lungo tutte le sue evoluzioni, e nonostante tutte le acconciature che via via la caratterizzeranno, dal berretto frigio alla corona turrita; e ancora la sottana più o meno ampia, il volto prima frontale e poi di profilo: l’idea è senz’altro legata ad una motivazione precedente. Altrettanto interessanti da questo punto di vista risultano le tre figure rappresentanti del popolo con una chiara connotazione operaia – la figura col cilindro sembra caratterizzare un artigiano, quella col grembiule un operaio di manifattura, quella del ragazzo ferito un manovale dei cantieri edilizi. Le figure più interessanti, però, per un’indagine iconologica sembrano essere nello studio di Calvino quelle in primo piano. Questi personaggi hanno il compito di rivestire un ruolo specifico nella narrazione dell’avvenimento – riconosciamo in essi un soldato della guardia reale, un corazziere, infine un popolano – carican-

Visioni in forma di racconto

333

dosi della plasticità del mito. Essi infatti sono incarnazioni delle figure tradizionali culturalmente legate rispettivamente a David, a Gros e ad Ettore: «Questa minuziosa indagine iconologica ha portato delle sorprese ideologiche che riguardano proprio il personaggio più operaio di tutti… i tre morti in primo piano»54. Nella consapevolezza dell’incidenza che la produzione simbolica umana esercita continuamente sulla terra Calvino sembra sposare le parole del Michelangelo dei Dialoghi romani di Francisco de Holanda: «Ben considerando quello che si fa in questa vita, vi accorgerete che ognuno, senza saperlo, sta dipingendo questo mondo, sia nel creare e nel produrre forme e figure, come nell’indossare vari abbigliamenti, sia nel costruire e occupare lo spazio con edifici e case dipinte, come nel coltivare i campi, nel fare pitture e segni lavorando la terra, nel navigare i mari con vele, nel combattere e dividere le legioni, e finalmente nelle morti e nei funerali, come pure in tutte le altre operazioni, gesti e azioni»55, ma forse, conclude Calvino, i segni di questa nostra civiltà non saranno occhi umani a goderli.

54 55

Ivi, p. 466-467. I. Calvino, Palomar e Michelangelo, in Id., Saggi, cit., vol. II, p. 1991.

Indice

Gradienti di reciprocità Roberta Coglitore

7

I. Sopravvivenze Nemesi-Adrastea Sulla cultura visuale di Herder e Hölderlin Michele Cometa

17

Psiche e la piramide Le arti e la morte nell’età neoclassica Elena Agazzi

55

Amare una statua La modella e l’amante nella letteratura europea Paolo D’Angelo

93

II. Descrizioni Un dipinto e i suoi sonetti Proserpina di Dante Gabriel Rossetti Federica Mazzara

141

Note di immortalità Hofmannsthal sul Concerto campestre di Giorgione Roberta Ascarelli

175

Malinconia e immaginazione Una genealogia fantastica per Melencolia I Roberta Coglitore

205

336

Lo sguardo reciproco

III. Rappresentazioni Un’idea di Roma Piranesi, Moritz e la teoria del punto di vista Renata Gambino

237

I colori delle fiabe e la passione della realtà Dimensioni visuali in Anna Seghers Rita Calabrese

257

Visioni in forma di racconto Narrazioni per immagini in Italo Calvino Valeria Cammarata

305

Finito di stampare nel mese di luglio 2007 in Pisa dalle EDIZIONI ETS

Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa [email protected] www.edizioniets.com

Lihat lebih banyak...

Comentários

Copyright © 2017 DADOSPDF Inc.