Sistema de Museos de Vaste y Poggiardo Guía

June 9, 2017 | Autor: Giovanni Mastronuzzi | Categoria: Archaeology, Environmental Education, Cultural Heritage, Museums, Byzantine art
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5 - 20

DIPARTIMENTO DI BENI CULTURALI uNIVERSITÁ DEL sALENTO

Uni-Salento prossimo venturo. Rifondare il patto Università-Territorio

UNIONE EUROPEA

Fondo europeo di sviluppo regionale

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UNIONE EUROPEA

Regione Puglia

Città di Poggiardo

DIPARTIMENTO DI BENI CULTURALI

5 - 20

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Ministero dei beni delle attività culturali e del turismo

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Fondo europeo di sviluppo regionale

uNIVERSITÁ DEL sALENTO Uni-Salento prossimo venturo. Rifondare il patto Università-Territorio

cea Sistema de Museos de Vaste y Poggiardo Guía

Coordinación: Giovanni Mastronuzzi

Sistema Museale di Vaste - Poggiardo Finanziamento P.O. FESR 2007-2013, Asse IV, Linea IV.2, Azione IV.2.1, lettera D, Riqualificazione e valorizzazione del sistema museale.

Sistema Museale di Vaste - Poggiardo Finanziamento P.O. FESR 2007-2013, Asse IV, Linea IV.2, Azione IV.2.1, lettera D, Riqualificazione e valorizzazione del sistema museale.

R.U.P. dott. arch. Lucio Ricciardi

Proyecto y dirección de obras dott. arch. Gianluca Pede, dott. ing. Luigi Antonazzo

Director Científica prof. Giovanni Mastronuzzi

Imagen de portada: Conjunto paleocristiano de la Hacienda Giuliano (foto P. Caputo)

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Sistema de Museos de Vaste y Poggiardo Guía Coordinación: Giovanni Mastronuzzi

Textos Francesco Baratti, Manuela De Giorgi, Marina Falla Castelfranchi, Katia Mannino, Giovanni Mastronuzzi, Valeria Melissano (Dipartimento di Beni Culturali – Università del Salento)

Traducción Fabia Del Giudice y Diego Símini

Comité de redacción Fabrizio Ghio, Antonio Mangia, Valeria Melissano

Secretaría de redacción Chiara Francone, Annalucia Spagnolo

Proyecto gráfico Fabio Leone, Antonio Mangia

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Sono passati quasi 35 anni da quando, in una mattinata di sole del 1 novembre 1980, l’ingegnere Gianni Carluccio mi aveva convinto ad andare con lui a Vaste, nella zona dei Santi Stefani, per mostrarmi una, a suo dire, eccezionale scoperta: egli affermava di aver trovato un capitello simile a quello arcaico di Cavallino, che avevo da poco pubblicato nella Guida archeologica della Puglia, edita nella serie della Newton Compton. Devo confessare che non ero convinto dell’utilità di questa escursione, anche se Gianni insisteva che nell’esemplare di Vaste l’abaco recava, come a Cavallino appunto, una fila di rosette. Poi, in una grotticella accanto alla celebre chiesa rupestre, avevo avuto la conferma che Gianni aveva visto giusto, che si trattava davvero di un manufatto di età arcaica, che non era capitato lì per caso. In quel momento nasceva una solida amicizia e si andava in me formando la convinzione che bisognasse avviare a Vaste un sistematico programma di ricerca che portasse alla conoscenza di un insediamento messapico di età ellenistica. Dopo le esperienze di Cavallino, la cui vita si interrompeva nella prima metà del V sec. a. C., era necessario indagare un abitato indigeno che si fosse sviluppato nei secoli successivi. Fu una scelta felice, perché i dati emersi nel corso degli scavi ci hanno permesso di comprendere lo sviluppo di un insediamento salentino in un ampio periodo di tempo che include l'età romana, e poi il Medioevo, sino all’età moderna. Le attività di ricerca poterono iniziare nell’ambito della Convenzione stipulata dall’Università di Lecce con l’Ecole Française di Roma e con la Scuola Normale di Pisa, con la partecipazione di Jean-Luc Lamboley, al quale dobbiamo contributi importanti per la conoscenza di Vaste e della Messapia in età ellenistica. Seguì una serie di campagne di scavo, alcune con risultati decisivi, come nell’ottobre del 1985, quando, nel Fondo Melliche, vennero alla luce e furono oggetto di scavi sistematici il luogo di culto arcaico, con i cippi recanti iscrizioni messapiche, e la necropoli, che ancor oggi costituisce uno dei complessi funerari più interessanti nell’Italia meridionale preromana. Ricordo alcune delle più difficili giornate di lavoro, sotto la pioggia, sino a tarda sera con la luce delle fotoelettriche, per completare lo scavo e documentare il complesso sistema delle deposizioni; la notte poi ci riposavamo, si fa per dire, negli umidissimi locali della Pro Loco di Poggiardo. Penso che proprio in quella occasione, straordinaria per l’importanza e la ricchezza dei ritrovamenti, nonostante la fatica e la mancanza di ogni comodità, alcune delle mie allieve, come Grazia Semeraro, Maria Piera Caggia e Valeria Melissano, scoprirono la loro vocazione al lavoro dell’archeologia. Ed ancora, nel novembre del 1989, con Rino D’Andria, la scoperta del tesoretto di 150 stateri d’argento, prevalentemente tarentini, nel Fondo S. Antonio; tutti questi materiali furono poi presentati nella Mostra del 1990, presso il Museo Provinciale di Lecce, e nel catalogo “Archeologia dei Messapi”, pubblicato in occasione del Convegno di Studi sulla Magna Grecia che fu dedicato a queste antiche popolazioni del Salento. Negli anni più recenti vari finanziamenti del CNR, del Ministero dei Beni Culturali e di quello per lo Sviluppo Economico, della Regione Puglia attraverso i fondi europei, hanno permesso di realizzare a Vaste il Parco dei Guerrieri, con il Portale in cui si è voluto rappresentare una stratigrafia muraria che racconti il succedersi delle tecniche di costruzione nella storia del nostro territorio, la copia delle sculture dell’Ipogeo delle Cariatidi, divise tra i Musei di Lecce e di Taranto, infine il Museo di Vaste. In tutto questo periodo Valeria Melissano, come responsabile del Laboratorio di Archeologia Classica dell’Università, e Giovanni Mastronuzzi, curatore di questo volume, hanno assicurato la gestione scientifica della ingente documentazione archeologica di Vaste, sia nella conduzione delle ricerche

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sul terreno, sia nel seguire gli studenti della Facoltà di Beni Culturali i quali, nei cantieri di scavo e sui materiali di Vaste, hanno potuto acquisire un livello eccellente di formazione sul campo, misurandosi anche con l’elaborazione di tesi dedicate ai vari complessi di reperti. Non è qui il luogo per raccontare la storia di queste ricerche che continuano ancora, come illustra il volume, e che sono presentate nel Museo di Vaste, desidero invece sottolineare come la continuità dell’impegno da parte dell’Università del Salento ed il lavoro dell’équipe che ho avuto la gioia di dirigere in questo lungo periodo di tempo, permettono ora di disporre di una ricchezza culturale straordinaria e di realizzare per Poggiardo e Vaste un Sistema Museale che ha pochi confronti nel nostro Salento.

Francesco D’Andria Università del Salento

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A. Museo Arqueológico B. Parco dei Guerrieri C. El Portal D. Fondo Giuliano E. Iglesia rupestre de los Santos Esteban F. Santa María de los Ángeles G. Arboreto pedagógico Cimitero Municipio

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Poggiardo - Vaste

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Piazza Episcopo

E G D

Fondo Giuliano

C B

A

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Museo Arqueológico El Museo Arqueológico de Vaste se halla en el Palacio Baronal, una residencia que incluye distintos elementos, edificados y conectados entre ellos en un largo lapso de tempo entre el s. XIV y el s. XVIII. Se accede a las salas de exposición por la entrada que da a la Plaza Dante. Lo primero que se ve es una reproducción de gran tamaño – idea de Francesco D’Andria, realización del estudio InkLink de Florencia – de uno de los elementos que más caracterizan el paisaje de la antigua Mesapia, las murallas de Vaste, en el sector adyacente a la puerta Este, en el momento en que un sisma, documentado históricamente y por investigaciones arqueosismológicas, causó su derrumbe en la primera mitad del siglo III a.C. A continuación, a mano izquierda se pueden admirar dos vasijas que proceden de la necrópolis de la ciudad mesápica del siglo IV a.C.: una crátera con figuras rojas y una trozzella. La crátera es el recipiente que antiguamente se usaba para mezclar el vino con agua. En las poblaciones indígenas de Apulia se observa como elemento principal del ajuar de los hombres adultos: solo ellos podían consumir la preciosa bebida. El ejemplar expuesto es la obra de la que recibe su nombre el Pintor de Vaste. La escena representa a un hombre entre dos mujeres, persiguiendo a una de ellas, y es quizás símbolo del matrimonio. La trozzella es la vasija típica de la civilización mesápica; habitualmente se deponía en los sepulcros femeninos. Se usaba para contener agua e indicaba la importancia de la mujer como responsable de las actividades domésticas y de los bienes de la familia. El ejemplar expuesto presenta una rica decoración con elementos 11

vegetales y geométricos. Frente a la entrada se abre la primera sala, instalada con la reconstrución en madera de una parte del Hipogeo de las Cariátides, realizada en tamaño natural, conforme al estilo del escultor contemporáneo Mario Ceroli: dos figuras femeninas sostienen un arquitrabe con friso de erotes que conducen carros tirados por leones. Las esculturas originales, actualmente expuestas en los Museos de Tarento y Lecce, decoraban la fachada de una gran tumba con dos celdas funerarias, del s. III a.C. A través de la apertura definida por las Cariátides se accede a una especie de cámara sepulcral en que están instaladas dos tumbas tal y como se hallaron en las excavaciones realizadas en 1985 por la Universidad de Lecce. La «Tumba del Jinete», así llamada por la presencia de una espuela en bronce, se remonta aproximadamente a 430 a.C.; la «Tumba del Atleta», de los comienzos del s. IV a.C., debe su nombre a los estrígiles, instrumentos usados para la limpieza del cuerpo después de las competiciones, y tiene una crátera con la figura de Dioniso. Los preciosas vasijas destinadas al banquete, como las cráteras figuradas y la jofaina de bronce procedente de Etruria, denotan la pertenencia de los difuntos a la aristocracia. La sala siguiente está dedicada a un tipo de monumentos peculiarmente difundido en el Salento meridional en época arcaica: los mojones monolíticos en pietra leccese. Caracterizaban el paisaje rural y estaban vinculados a la presencia de pequeñas sedes de culto. Recintos sagrados al aire libre estaban consagrados a ceremonias religiosas para 12

invocar la fertilidad de los campos y, en Vaste, formaban un auténtico anillo de protección alrededor del asentamiento urbano: en su interior, cerca de los mojones o de las columnas votivas, visibles en la sala, se presentaban ofrendas de vino y agua y los restos de los sacrificios de cabrunos y ovinos. En el interior de una reconstrución en madera está insertado un bloque de piedra caliza con friso de motivos vegetales que cumplía una función de coronamiento de una de las estructuras de delimitación. En la exposición, además, se ha incluido la reconstrucción exacta del hallazgo de la Hacienda Melliche, un área periférica al norte del asentamiento. En esta zona, en el mismo lugar ocupado en lo sucesivo por una necrópolis gentilicia, la sede de culto en uso entre 550 y 480 a.C. estaba formada por un recinto grande en que estaban alojados los mojones. Allí se deponían las vasijas utilizadas para ofrecer las libaciones y los restos de los sacrificios; en algunos casos las inscripciones grabadas en los objetos conservan el nombre del dedicante. Otra reconstrucción en madera sugiere la comparación con las arquitecturas de los siglos IV-III a.C. en un gran segmento murario que está incluido en un bloque decorado por un friso dórico con métopas y triglifos: se halló englobado en albañilería de época moderna del mismo Palacio Baronal y en sus orígenes debía pertenecer a una residencia de la nobleza mesápica, ubicada en una zona central de la ciudad antigua, en las cercanías de la Piazza Dante. En el Salento se conocen asimismo otros ejemplos de decoración arquitectónica de residencias particulares; sin embargo, hasta la fecha, casi no constan testimonios de una arquitectura templar de tipo griego, con la llamativa excepción de los recientes hallazgos en el área del santuario de Atena cerca de las murallas de Castro. La exposición arqueológica continúa en el piso superior del Palacio Baronal, al que se accede por la escalera ubicada en la zona posterior, que da a un antiguo jardín de naranjos. Una primera sala está equipada como sector de consultación, con tótem interactivo y ordenadores para la navegación en archivos y recursos internet relacionados con la arqueología de Apulia. En la siguiente sala, grande, se propone un cuadro de la vida y de las transformaciones del asentamiento humano en las principales etapas de la Antigüedad. Los objetos que se exponen pertenecen a las tareas de la vida de todos los días en el lapso entre la Edad de Hierro (s. IX a.C.) y la etapa tardía de la época romana (s. VI d.C.). Aunque los rastros más antiguos de la ocupación del territorio de Vaste y Poggiardo se remonten a finales de la Edad de Bronce (siglos XI-X a.C.), solamente a partir del s. IX a.C. se reconocen las estructuras de asentamiento en chozas, protegido por un terraplén de fortificación. En las residencias y en la sede de culto, identificado en la periferia norte de la aldea se utilizaban vasijas de producción local, realizadas a mano, sin tornio, en arcilla bruta (pasta) o depurada, con decoración geométrica pintada. Está documentada a la vez la presencia de vasijas importadas de Grecia, en especial de Corinto, destinadas al consumo de vino (copas, bocales, jarras, cráteres). Un magnífico ejemplar de fíbula en forma de gafas (alfiler para vestido), realizado a partir de un cuerno de ciervo procede también de una producción corintia. La exposición comprende una amplia selección de cerámicas de mesa y ánforas comerciales 13

procedentes de los desechos de la aldea en los siglos IV-III a.C. Este período es el que mejor conocemos de la historia de Vaste. La zona habitada se extendía sobre un área de casi 70 hectáreas y estaba rodeada de poderosas fortificaciones. Los barrios de residencia estaban alrededor de la zona de la actual Piazza Dante. Las cerámicas eran vasijas con barniz negro, en su mayoría copas y platos; las otras formas están documentadas en las producciones locales sin revestimiento o con decoración geométrica y vegetal. Es muy interesante una matriz de piedra destinada a reproducir figuras femeninas que llevan cesto, en estuco. En el fondo de la sala hay una reproducción en escala de una escena de sacrificio en ocasión de la partida de un contingente de guerreros: en el transcurso del siglo III a.C. algunos episodios bélicos afectaron sensiblemente el Salento. En 267-266 a.C., los Romanos finalizaron la conquista de Apulia; pocos años más tarde la región es uno de los principales escenarios de la guerra contra Haníbal.

Por dichos acontecimientos, Vaste sufre una considerable reducción de sus dimensiones, concentrándose en la zona del actual casco antiguo. Las cerámicas finas de pasta gris de los ss. II y I a.C proceden del relleno de cisternas abandonadas. A partir del s. I d.C. se difunden las cerámicas cerradas con revestimiento de color rojo, a veces con decoración figurada engomada. Los testimonios más antiguos se refieren a producciones itálicas, señaladamente de la zona de Arezo; en lo sucesivo se hallan vasijas de producción oriental (actual Turquía) y del norte de África (área de Túnez). Un objeto de especial valor es la lucerna del s. II d.C., decorada con cabezas en relieve y firmada por el artesano griego Epagathos. A mano derecha de la sala grande, la visita prosigue en un sector dedicado a la exposición de objetos que proceden de las necrópolis mesápicas de Vaste. El hallazgo de una sepultura de finales de la época arcaica (520-470 a.C.) y la recuperación de dos conjuntos 14

de vasijas se remontan a los comienzos del s. XX. En los años ‘80 del siglo pasado la Universidad de Lecce puso en marcha un programa de indagaciones sistemáticas que interesó el área cementerial de la Hacienda Melliche, usada entre mediados del s. V a.C. y comienzos del s. III a.C. por una familia aristocrática, y otros sectores de uso funerario en la misma zona habitada y en los aledaños de las puertas este y noreste de la ciudad. Están reseñados sarcófagos monolíticos y tumbas en caja, construidas y cubiertas con losas de piedra caliza. Las tumbas masculinas se caracterizan por la presencia de la crátera y también por elementos de la armadura, como los cinturones en lámina de bronce con ganchos en forma de cabeza de serpiente, y partes del yelmo. En las tumbas femeninas prevalecen objetos muy significativos, como la trozzella, los recipientes para ungüentos (lekythoi) y las estatuillas. Las sepulturas de los niños se distinguen por vasijas miniaturizadas. Con frecuencia se observa la reutilización de las tumbas: en la tierra adyacente a las losas laterales hay unos pequeños huecos en que se colocaban los restos del esqueleto y los objetos del ajuar anterior en el momento en que la tumba se preparaba para una nueva deposición. El rito fúnebre está ilustrado en una reconstrucción animada, basada en la elaboración de 15

los datos arqueológicos. Una pequeña sala está reservada a la exposición del tesoretto de 150 monedas de plata, hallado en 1989 en el área del barrio habitado de la Hacienda San Antonio: gracias a un escaparate realizado expresamente es posible observar las monedas por ambos lados;

además está expuesto el recipiente de bronce (olpe) en que se encontraba el caudal. Ciento cuarenta y dos monedas pertenecen al cuño de Tarentum, siete al de Heraclea y una al de Thurium; su datación numismática oscila entre 281 y 235 a.C. Las condiciones del hallazgo autorizan la hipótesis que apunta a que los dueños de la cercana residencia aristocrática hayan escondido allí lo esencial de sus haberes, en una situación de peligro cuando la conquista romana. El itinerario continúa en una sala dedicada a la sede de culto descubierta en 1999 en la Piazza Dante, justo en el área frente al Museo: como era imposible dejar abierta la excavación, en la pavimentación se reprodujeron exactamente la forma y la posición de las principales estructuras halladas. La zona sagrada comprendía dos recintos adosados, con hogares. A proximidad se abrían tres cavidades hipogeas: dos estaban destinadas a la deposición de ofrendas votivas (vasijas miniaturizadas, jarritas, copitas, platillos, 16

tazas y recipientes para óleos perfumados), mientras que la más grande se utilizaba para realizar ritos religiosos, que incluían libaciones y sacrificios de cochinillos. Una cabeza femenina en piedra caliza, con restos de decoración polícroma restituye la imagen de la divinidad a la que estaba dedicado el pequeño santuario; algunos objetos manufacturados llevan el nombre mesápico Oxxo. Una losa horadada servía como altar para el sacrificio de perros por degüello: de esta forma la sangre fluía directamente hacia las divinidades subterráneas. La gran cantidad y variedad de datos arqueológicos han permitido realizar reconstrucciones gráficas, de vídeo y un plástico, que completan la presentación de los objetos. El tema de los distintos tipos de culto en la ciudad mesápica se afronta también en la sala siguiente. En la periferia norte de la ciudad helénica, se han identificado dos distintos edificios formados por recintos adosados, sin cobertura, con altares y hogares, que datan de entre finales del s. IV y comienzos del s. III a.C. En un caso la ofrenda de una vasija miniaturizada que contenía tres monedas de plata es especialmente significativa, mientras que el cuello de las ánforas se utilizaban para verter las ofrendas de líquidos al subsuelo; en otro caso el conjunto se caracteriza por la presencia de mojones-pilares. Entre otros materiales procedente de depósitos votivos cabe señalar un grupo de utensilios en hierro que identifican al ofrecedor como guerrero y agricultor; una losa con doble inscripción dedicatoria pertenecía a la delimitación de un área sagrada. En Vaste han aparecido escasos restos monumentales o de construcciones residenciales de la época romana; sin 17

embargo, perteneciente a la segunda mitad del s. II a.C., ha vuelto a la luz el más consistente conjunto de fichas de juego de todo el mundo romano. Halladas en el relleno de una cisterna en desuso, se relacionan con una desconocida forma de diversión: se puede suponer una especie de sorteo, por la asociación entre números y apelativos (despectivos en los números bajos, elogiosos para los altos), o bien una especie de recorrido afín al juego de la oca. Hacia finales de la época romana, Vaste presenta un extraordinario testimonio de la difusión del cristianismo. Probablemente ya antes de finalizar el s. IV, a dos km. de la actual ciudad, surge una iglesia vinculada con el culto de las reliquias de un mártir (martyrium), posiblemente San Esteban; a su alrededor se extiende una necrópolis rupestre. La exposición incluye algunos de los ajuares fúnebres que en parte mantienen costumbres paganas, como la deposición de 18

monedas, óbolo para Caronte. La iglesia sufre una ampliación después de la guerra grecogótica (535-553 d.C.) y otra modificación en el s. IX. Una reconstrucción vídeo y un plástico acompañan la lectura del conjunto arqueológico. La última sala alberga una serie de testimonios relativos a la vida en Vaste en la época medieval y moderna. Se han rescatado principalmente gracias a intervenciones de arqueología urbana implementadas en ocasión de la realización de servicios subterráneos. Ha sido reconstruido un vertedero del s. XIV con vasijas, utensilios, escorias de metal y sobras de comida, que contenía también platos decorados con escudos polícromos de las familias de los propietarios. Su composición y su ubicación, a escasa distancia del Palacio Baronal de la Piazza Dante, autorizan la hipótesis de que se trate de un auténtico basural vinculado con la residencia patricia. De otros vertederos similares hallados en la Piazza Dante y en la Via Principe Umberto proceden materiales del siglo XVI.



Giovanni Mastronuzzi

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Parco dei Guerrieri El Parque de los Guerreros de Vaste nació en 2002, tras la adquisición por parte del Ayuntamiento de Poggiardo de algunas decenas de hectáreas de tierra en que se extendía la antigua Vaste, (Baῦsta en griego, Basta en latín). Entre los siglos IV y III a.C. la ciudad mesápica disponía de murallas cuyo perímetro medía 3,38 km delimitando un área de alrededor de 78 hectáreas. La superficie incluida en las fortificaciones no estaba totalmente ocupada por las construcciones, que se concentraban en la zona central, que coincide aproximadamente con la actual urbanización. Se destinaban amplias superficies a las actividades artesanales, a la agricultura y también a cobijar el ganado; dentro y fuera de las murallas se distribuían las áreas de necrópolis. El Parque de los Guerreros nació del deseo de mantener el recuerdo del gran anillo amurallado, muy dañado por el arado y la quita de piedras, que se efectuaron hasta el comienzo de las indagaciones sistemáticas, en los años ‘80 del siglo pasado. A lo largo del perímetro fortificado se realizaron excavaciones extensas, sondeos, reconocimientos y relieves que permiten reconstruir el recorrido exacto de la estructura; a continuación se realizó una campaña de restauraciones. En los tramos en que las murallas se conservaban peor, siendo difícil detectar su presencia hasta para los arqueólogos, el recorrido se ha remarcado por una duna: de tal forma la función de proteger las estructuras presentes en el subsuelo se une a la oportunidad de señalar la presencia de las fortificaciones, que difícilmente se pueden detectar de otra manera. La duna conserva en su base el ancho de las fortificaciones mesápicas, alrededor de 4 metros. La altura en cambio no llega a los 6 metros que tenían antiguamente. Para recordar las guarniciones militares que lucharon en ocasión de la ofensiva romana entre 267 y 266 a.C., algunos guerreros aún pululan en la línea de defensa de la ciudad mesápica. Se trata de modelos realizados en tamaño natural en lámina de hierro por el escultor salentino Ferruccio Zilli: las siluetas se inspiran en las representaciones presentes en las vasijas italiotas y apulienses de figuras rojas del siglo IV a.C. La visita del Parque se puede realizar partiendo del Portal, por la Carretera 363 (Strada Provinciale 363), o por la Piazza 21

Dante, el centro de la actual Vaste, donde el Palacio Baronal alberga el Museo Arqueológico, o también desde el área de los Santos Esteban (Santi Stefani), donde se puede admirar la iglesia rupestre y el adyacente conjunto paleocristiano de la Hacienda Giuliano. Entre las áreas diseñadas para recibir a los visitantes se extienden más de 3 km de carriles de bici y peatonales. A unos 150 metros al este del Portal, en el camino vecinal Melliche, se conserva la puerta norte de la ciudad mesápica, ubicada en la ruta que conduce a Muro Leccese, el centro principal de la comarca de Otranto en la Antigüedad. Aquí, al igual que en el resto del circuito murario, se reconocen elementos relativos a tres fases de construcción. Datan de entre 350 y 300 a.C. dos cortinas amuralladas, no contiguas, realizadas con piedras irregulares, sin cemento (en seco) y reforzadas por un paramento en bloques a los costados de la apertura para el acceso; en el lado este se conserva el encaje para la hoja de la puerta y, más al sur, se conserva un pequeño espacio rectangular, posiblemente sede del guardián. Hacia finales del siglo IV a.C. se construyó un nuevo revestimiento en bloques cuidadosamente recortados, colocados con la extremidad hacia el frente exterior y el lado según el pasillo de acceso. Un refuerzo ulterior de la estructura pertenece a la primera mitad del siglo III a.C., cuando bloques de forma y dimensiones irregulares se instalaron con la extremidad hacia el exterior de las dos cortinas, causando el adelanto de la cortina este con respecto a la oeste; en realidad de la cortina este solo se conserva la marca en negativo. Prosiguiendo hacia el sur, por unos 150 metros se recorre el antiguo camino que iba hacia el centro de la ciudad mesápica, y se llega al área donde, en correspondencia con un curva amplia, las excavaciones de 1985 pusieron de manifiesto una sede de culto con mojones de 22

550-480 a.C., a la que se superpone una necrópolis en túmulo, utilizada hasta comienzos del siglo III a.C. El área sagrada comprendía un recinto y algunos mojones en piedra caliza, engastados en bases de arenisca de forma rectangular, o clavados directamente en la tierra. Algunos mojones, actualmente expuestos en el Museo, llevan decoraciones geométricas grabadas, mientras otros tienen inscritos nombres mesápicos al genitivo, relacionables con los donantes. En las áreas frente a los mojones, protegidas por balaustres en pietra leccese decorados con incisiones, se hallaron restos de sacrificios de cabritos y vasijas utilizadas para las libaciones de vino (copas, jarritas y cráteras). En la zona de culto se llevaban a cabo ceremonias relacionadas con la agricultura, en las que se efectuaban ritos para propiciar la fertilidad. Volviendo al camino vecinal Melliche el itinerario de visita bordea un largo muro en seco de época moderna, que repite parcialmente el trazado antiguo, para luego girar, al comienzo ligeramente, y después de manera neta, hacia el sur, hacia la puerta noroeste de la ciudad: aquí están ubicadas las siluetas de los guerreros antiguos, armados de lanza y protegidos por un escudo redondo y un yelmo cónico en forma de pileo. Los rastros de la puerta se conservan en negativo en la roca viva: el acceso se halla en el vértice de un ángulo agudo formado por las cortinas norte y este. La obra realizada en seco con piedras no geométricas, de distintas dimensiones, se remonta a la primera fase de construcción (aprox. 350-300 a.C.); la reconstrucción de comienzos del siglo III está atestiguada por un revestimiento en grandes bloques geométricos, colocados con la extremidad en el nivel de fundación y los lados en la primera fila de la elevación. Un elemento útil para la datación de la fortificación es el hecho de que el revestimiento de la segunda fase se superpone a dos tumbas en fosa, cavadas en la roca, cuyos ajuares,

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Vaste en los siglos IV y III a.C.

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Hacienda S. Antonio

Puerta Norte

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expuestos en el Museo, datan de entre 310 y 290 a.C. El itinerario sigue bordeando las antiguas fortificaciones, a las que se superpone un muro en seco moderno, por aproximadamente 250 metros, hasta alcanzar la puerta este, de la que partía el camino al Mar Adriático. En este tramo también, las murallas de la primera fase (segunda mitad del siglo IV a.C.) están realizadas con técnica en seco, con paramentos de piedras de grandes dimensiones, y relleno de pedruzco mezclado con tierra. Por el lado noroeste del corredor de acceso se halla un ambiente cuadrangular, interpretado como puesto de guardia. En el borde exterior del muro de la primera fase se apoyó una nueva capa de bloques geométricos entre finales del siglo IV y comienzos del III a.C.; puestos en obra en seco, ubicados con la extremidad en la fundación y en prevalencia con el lado en la elevación que se conserva en cuatro filas. Con esta refacción probablemente se cerró el acceso al puesto de guardia. En la primera mitad del siglo III a.C. en correspondencia con el costado oeste de la puerta, se construyó un antemural rematado en un pequeño bastión casi cuadrado: construida de manera apresurada, con bloques poco regulares, la estructura tenía la función de impedir que se acerquen máquinas para el asedio, protegiendo también el tramo de camino exterior a las murallas. A breve distancia de la puerta, en una gran área de excavación, se ha hallado una porción de muralla en que los elementos se conservan en la posición de derrumbe: un atento estudio de la ubicación de los bloques induce a poner en relación la destrucción de las murallas con un evento sísmico que se verificó en la primera mitad del siglo III a.C. Más allá del circuito amurallado el itinerario continúa unos 300 metros más, hasta la Via Altipiani. Aquí entramos en la zona habitada, hasta alcanzar la Piazza Dante: hoy en día, al igual que en la época mesápica, es el centro de la ciudad. En la pavimentación se ha grabado la forma y la ubicación de las estructuras arqueológicas identificadas en las excavaciones 26

de 1999. A partir de la segunda mitad del siglo VI a.C. el área se reconoció como sagrada y delimitada por una gran pared de piedras amorfas; copas para libaciones y sobras de sacrificio documentan la primera fase de uso cultual. El periodo de más intensa utilización de la sede de culto se sitúa entre finales del siglo IV y la primera mitad del siglo III a.C. Dos recintos adosados, probablemente descubiertos, se apoyan a la pared arcaica; en su interior se ubican hogares y puestos de cocción, mientras que en el espacio enfrente, se hallan tres ambientes hipogeos cavados en la roca. Presentan entrada circular o elíptica, regularizada con bloques o losas en pietra leccese; tienen sección en forma de campana y fondo ligeramente cóncavo, con planta circular. La oquedad mayor mide aproximadamente 3 metros de ancho y 3 metros de profundidad; además, en la base de otra hendidura de la roca, en comunicación con ella, está colocada una losa en pietra leccese horadada, con función de altar. Se utilizaba para la celebración de ritos dirigidos a una divinidad protectora de la agricultura, comparable con la diosa griega Demetra: la cabeza de una estatua en pietra con policromía conserva su imagen. Las demás cavidades, más pequeñas, tenían en cambio la función de recibir las deposiciones votivas compuestas por instrumentos utilizados en las ceremonias que comprendían el sacrificio, la preparación y la consumación de comidas rituales. Alrededor del área de la Piazza Dante estaban los barrios de residencia; el núcleo de las casas principales estaba incluido en un perímetro fortificado, por la Via Enrico Toti, actualmente no visible, que delimitaba el centro neurálgico del asentamiento. Las unidades de habitación se asomaban a una red irregular de caminos que seguían los accidentes del terreno. A unos 100 metros de la plaza, en la Hacienda San Antonio, se ha identificado un barrio dominado por la presencia de un edificio grande, con planta en L. Incluye varios ambientes y tiene una 27

superficie cubierta de 750 metros cuadrados. Del lado que da a la llanura de Poggiardo, la estructura se completa con un largo pórtico que asoma sobre un área con cisternas para la recolección del agua pluvial: en proximidad de una de ellas se halló el tesoretto de 150 monedas de plata, expuesto en el Museo. El edificio en L, además, delimita un patio grande de aproximadamente 500 metros cuadrados con hogar para la preparación de alimentos y pequeño pozo para sacrificios: dichos elementos se relacionan con formas ceremoniales vinculadas a la función de residencia de un grupo familiar aristócrata. Las demás casas excavadas en la misma área presentan dimensiones inferiores a 300 metros cuadrados y los ambientes de habitación se disponen alrededor de patios de dimensiones reducidas. Una importante característica de esta urbanización mesápica (al igual que otras) es la alternancia de zonas residenciales con áreas de uso cementerial. Se hallaron grandes tumbas en fosa revestidas de losas de pietra leccese en el área de la guardería (Asilo), por la Via Alessandro Manzoni, y en las inmediaciones de la Capilla de la Cofradía (Cappella della Confraternita), donde se hallaba el Hipogeo de las Cariátides. Lamentablemente solo muy pocas sepulturas se han conservado intactas, con deposición y ajuar. Volviendo hacia el Portal es posible visitar también algunos tramos de las fortificaciones del lado oeste de la urbanización. En particular por la Via Eugenio Rubichi y cerca de la esquina con la Via Italo Calvino, se conservan algunos restos del muro en seco de la primera fase (segunda mitad del siglo IV a.C.), mientras está bien documentado la refacción de finales del siglo IV o comienzos del siglo III a.C., con un paramento en bloques geométricos conservado en fundación y en la primera hilera en elevación. La tercera fase de construcción se divisa en un ulterior revestimiento de bloques y en una estructura antemural erigida como protección de un recorrido exterior a las murallas. La puerta oeste de la ciudad se ha descubierto en correspondencia con la Via Monte Li Gatti, pero actualmente no es visible; finalmente cerca de la Carretera 363 se ha reconstruido un breve tramo de fortificación. La quinta puerta de la ciudad, al sur, por la que se iba a Castro, no es visible actualmente; se ha identificado cerca de la Via Enrico Toti. Giovanni Mastronuzzi

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El Portal El proyecto para el Portal del Parque de los Guerreros en Vaste ha querido dar respuesta a dos preguntas fundamentales: ¿cómo se puede resolver el problema del acceso a las áreas arqueológicas? ¿Qué se puede hacer para comunicar el encanto de la excavación arqueológica? Con el portal se ha intentado realizar un enlace entre la ciudad antigua y la moderna, aprovechar la oportunidad para celebrar la importancia del dato arqueológico en los procesos de desarrollo urbano del territorio y también marcar metafóricamente, en la forma y en la composición, la Puerta de acceso a la ciudad y el comienzo del itinerario de visita siguiendo el trazado de las fortificaciones. Esto remite, más que a un acceso físico, a una disposición mental que guíe al visitante hacia el conocimiento de las ruinas antiguas.

Tradicionalmente los accesos a las zonas arqueológicas, donde los hay, son inadecuados. No se entiende cuál es la entrada, ni dónde está el aparcamiento, y los visitantes se sienten lanzados a la ciudad antigua sin enterarse de cómo ni por qué. Por ello se ha pensado que en la entrada se medía la posibilidad del «buen» espectáculo de la arqueología. En esta zona, pues, se planeó la ubicación de todos los servicios de recepción (taquilla, informaciones, estacionamiento, etc.) construyendo una estructura que introduzca a la visita de la ciudad 29

antigua según un itinerario circular, que coincide con el trazado de las murallas mesápicas de Vaste. Desde el punto de vista de la arquitectura, el proyecto del Portal se pensó desde el comienzo como una intervención que pudiera «asimilar» las características del lugar y lo específico de las técnicas y de los materiales tradicionales de construcción. Se ha querido darle énfasis al tema de las murallas de fortificación con la reconstrucción física de un tramo, desplazado con respecto al trazado auténtico. Por otra parte la presencia de la carretera favoreció la idea de la monumentalidad para atraer la atención de los turistas. El cuerpo de la construcción, ligeramente encorvado, cubre dos pisos además de la terraza belvedere que da al Parque. Mide 19 m. por 4,5 m. (sin contar la escalera) y tiene una altura de 6,50 m. La galería de acceso está enmarcada en cemento; «fisura» que permite acceder al Parque y al jardín adyacente en que los pilares que contrastan con la escalera se usan como bastidores para proyecciones o exposiciones al aire libre. La distribución vertical se realiza a través de una escalera exterior ubicada en la fachada posterior del edificio. La intervención, realizada en colaboración con el profesor Francesco D’Andria, coordinador científico del proyecto, representa deliberadamente una referencia a las murallas de fortificación reproduciendo sus dimensiones y su forma, basándose en los datos científicos aportados por la investigación arqueológica. El edificio está desplazado de unos 50 metros respecto al trazado de las murallas. La escalera descubierta en la parte trasera se inspira en las escaleras del perímetro de ronda de las murallas helénicas y permite alcanzar la terraza para observar el paisaje arqueológico circundante. La fachada presenta tres técnicas de constucción. En la parte inferior la estructura en bloques geométricos típica de las fortificaciones mesápicas (siglos IV-III a.C.); en la parte central la estructura de época medieval realizada con materiales reutilizados como piedras de distintas dimenciones, tejas, bloques labrados; en la parte superior la estructura en pequeños bloques rectangulares típica de las fortificaciones que construyeron en el Salento aragoneses y españoles entre el siglo XVI y el siglo XVII. La parte superior finalmente tiene un letrero realizado con la técnica de las luminarias, que pertenece a la tradición popular salentina de las fiestas de los santos patronos. El letrero está compuesto por 850 lámparas led afirmadas con igual número de sostenes al soporte de madera de cada letra. Este elemento, típico de la identidad tradicional, corona una estructura que quiere presentar, a través de la técnica de albañilería, las principales etapas de la historia de las técnicas de construcción en el Salento. Francesco Baratti

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Hipogeo de las Cariátides El Hipogeo de las Cariátides, la monumental tumba helénica de cámara, ricamente esculpida en piedra caliza local, fue descubierto en 1869 por Luigi De Simone en la Hacienda Maura. Según el investigador salentino, se accedía a la sepultura – cavada en la tierra – por «una escalinata», a cuyos pies había un vestíbulo seguido por «dos celdas» contiguas; en la fachada del Hipogeo, esculpidas en los fustes de las puertas de acceso a las cámaras funerarias, resaltaban cuatro figuras femeninas de altorrelieve – las Cariátides – quienes, tomadas en perspectiva con un largo vestido con tirantes y pecho desnudo, levantaban los brazos con el palmo de las manos hacia arriba. Dos bajorrelieves con carros conducidos por erotes y tirados por tres felinos – probablemente hallados en el vestíbulo – se referían, según De Simone, a un supuesto friso colocado por encima de las Cariátides. La reconstrucción del Hipogeo se basa en la descripción de De Simone: la labor, realizada por el artesano Antonio Fiera y basada en un proyecto de 1997 del arquitecto Baratti, procede de una idea del profesor Francesco D’Andria y se inspira en las siluetas, esenciales y sugerentes, recortadas en madera bruta por el escultor Mario Ceroli. Una nueva reconstrucción de la fachada del monumento se llevó a cabo en 2011 en el

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Portal de entrada al Parque de los Guerreros utilizando las reproducciones en 3D de las esculturas del Hipogeo expuestas en el Museo Provincial de Lecce y en el Museo Nacional Arqueológico de Tarento. La reconstrucción del Hipogeo de las Cariátides que se halla en el Portal se basa en una propuesta de interpretación que los arqueólogos de la Universidad del Salento han avanzado recientemente, poniendo de relieve una comparación entre el monumento de Vaste y el Hipogeo Palmieri de Lecce, una tumba mesápica de cámara, bien conservada, caracterizada por esculturas. En la nueva reconstrucción los bajorrelieves son los elementos terminales de dos frisos con series de carros viajando hacia el Más Allá. Los frisos, simétricos y paralelos, coronan las paredes de un pasillo descubierto que lleva al vestíbulo de cielo abierto. La fachada de la tumba da hacia el vestíbulo. Se la supone con una trabeación con friso de triglifos y métopas, igual que en los hipogeos apulienses conservados. El friso está sostenido idealmente por las Cariátides, figuras majestuosas en que se identifican las Ménades, seguidoras de Dionisio, dios relacionado con los Infiernos. Estas figuras míticas tenían la tarea de custodiar la última prestigiosa mansión de una eminente familia aristocrática. Katia Mannino

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Conjunto paleocristiano de la Hacienda Giuliano El área de la Hacienda Giuliano se encuentra a 2 km aproximadamente al norte de Vaste en las modestas alturas de las Serre de Poggiardo. En esta zona, de considerable belleza desde el punto de vista del paisaje y del medioambiente, la Universidad de Lecce puso en marcha en 1991 un programa de excavaciones e indagaciones que, con el paso de los años, ha puesto en luz un conjunto arqueológico que se remonta al período paleocristiano. Incluye tres edificios de culto, construidos en sucesión entre finales del siglo IV y el siglo X d.C., y una vasta necrópolis rupestre. La iglesia más antigua tiene una planta cruciforme, con una pequeña ábside orientada hacia el este; mide 14,70 m. por 14 m. De las estructuras solo se conservan algunos elementos de las paredes en bloques geométricos con fundaciones en piedras unidas con «bolo» (tierra arcillosa); el suelo era de calcio molido y apisonado; el techo de tejas estaba apoyado en vigas de madera. En la zona del presbiterio, fueron halladas numerosas losas calizas pertenecientes a la balaustrada que dividía la nave del espacio en que se oficiaba la liturgia y estaba el altar. Algunas losas están decoradas con elementos geométricos (arcos y rombos), floreales o cruciformes, a veces pintados en rojo. Estos objetos, manufacturados por artesanos locales que se refieren a esquemas presentes en el área del Mar Adriático, remiten a los fragmentos de balaustres procedentes de la basílica episcopal de Egnazia. Otros elementos horadados se refieren en cambio a las rejas de las ventanas. Un objeto manufacturado en forma de cruz debía de estar incluido en el recinto presbiterial. Dos capiteles con hojas de acanto podrían pertenecer en cambio a las pequeñas columnas del ciborio o de la pérgula, una estructura típica de los edificios paleocristianos (que coincide con el iconostasio de las iglesias de rito oriental), consistente en columnas apoyadas en un muro bajo y que sostienen un arquitrabe del que cuelgan las lámparas. Esta hipótesis se confirmaría por el hallazgo de numerosas lucernas de vidrio para la iluminación. En el exterior de la iglesia, adosado a la pared norte de la nave, se encuentra un ambiente de servicio con funciones de actividad litúrgica y de ayuda o, en alternativa, a la preparación de las ceremonias fúnebres. A poca distancia de la iglesia, hacia el sur, se halla una valla de delimitación cuya función es la de cerrar el área de la iglesia y de la necrópolis. Basándose en los datos planimétricos y en los restos arqueológicos, como algunas monedas de Valentiniano II (383-392) y Constanzo II (351-361), la construción de la iglesia se puede datar en la segunda mitad del siglo IV, mientras que su destrucción se sitúa en torno a mediados del siglo VI. Algunos importantes elementos favorecen la identificación de la iglesia como martyrion: los martyria eran edificios que se levantaban en el lugar en que reposaban los restos o las reliquias de un santo, o en los lugares donde viviera, como «recuerdo» de su muerte o como testimonio de sus andanzas terrenales. El monumento, en efecto, presenta interesantes analogías 34

Martyrium y necrópolis (finales del s. IV - primera mitad del s. VI) Iglesia (segunda mitad del s. VI) Iglesia (s. IX)

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con muchas iglesias de planta cruciforme de Asia Menor (Turquía) y de las regiones adriáticas occidentales, en especial del área dálmata (Solona). Además de la estructura en cruz latina, la hipótesis de que se tratara de un martyrion se refuerza con la costumbre de hacerse enterrar ad sanctos, o sea cerca de las tumbas de los mártires. También cabe apuntar que la documentación acerca del rito del refrigerium en la necrópolis permite proponer otra referencia directa al culto de las reliquias. La función martirial se confirma por la presencia del culto bizantino de San Esteban en la cercana iglesia rupestre, atestiguado a partir del siglo XI: no es descabellado pensar que las señales del culto del Protomártir, quizás sus reliquias, estuvieran en la zona ya a finales del siglo IV, en el periodo de la cristianización del Salento, propugnada por la sede obispal de Otranto. Quizás, tras haber recibido la veneración en las iglesias de la Hacienda Giuliano hasta el siglo X, el culto, por causas desconocidas, se trasladó en las inmediaciones. La destrucción del edificio martirial, en la guerra greco-gótica (535-553), llevó a la construción de una segunda iglesia, más grande (31,50 x 21 m), que podía acoger a más fieles. El edificio se coloca encima del anterior, modificando la planta que ahora tiene tres naves, un ábside grande semicircular y nártex. La nave central está separada de las laterales por dos filas de ocho pilares cada una. A lo largo de las paredes de fondo de las naves laterales, adosados, se hallan dos bancos en obra de albañilería, utilizados como asientos para los participantes a la liturgia, que se llevaba a cabo en la zona presbiterial, como ocurre hoy en día. El suelo, en tierra apisonada mezclada con tufina y pedruzco, engloba el nivel anterior de calzada. Una moneda de bronce de Justino II (575-576) es un elemento para fechar la construcción de la basílica en

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la segunda mitad del siglo VI. La cobertura era a dos aguas, realizada con el empleo de vigas de madera recubiertas por tejas planas, halladas solo en las naves laterales, a causa de la superposición de la iglesia altomedieval. La bóveda del ábside estaba decorada con frescos, de los que se han recuperado fragmentos en los niveles de derrumbe: se reconocen elementos de aderezo decorados con motivos en hileras de pequeños globos blancos relacionables con figuraciones de santos. También el muro de fondo del ábside lucía frescos: le pertenece un bloque que representa la Virgen con Niño Jesús (Theotokos). El edificio es parte del sistema de la arquitectura cristiana de Terra d’Otranto y tiene varias analogías con numerosas iglesias paleocristianas del Salento, como la contemporánea San Juan en Patù, Santa Eufemia en Specchia Preti y la llamada «Cien Puertas» (Le Centoporte) cerca de Giurdignano. En el resto de Apulia también se conocen edificios de culto que presentan una planta en tres naves divididas por pilares, identificados en el subsuelo de las basílicas románicas, como en la catedral de Barletta. Los edificios paleocristianos de Siponto, Trani y Tarento tienen unas dimensiones y un esquema planimétrico similares a los de la iglesia de Vaste, mientras que la presencia del nártex es afín al conjunto de San Justo cerca de Lucera y a la basílica episcopal de Egnazia. La destrucción de la segunda iglesia determinó la edificación de un nuevo edificio religioso, datable al siglo IX. Reutiliza completamente la anterior estructura absidal y parte de la nave central, mientras que se excluyeron las naves laterales y se hizo retroceder la fachada (16,50 x 10 m). Se cerraron los espacios entre los pilares y se le añadieron porciones transversales de pared para crear cuatro «capillitas» de cada

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lado. El suelo se compone de malta extendida, con la excepción de la primera parte al entrar, que presenta una superficie con losas de piedra caliza, igual que el espacio frente a la iglesia. La cobertura era una bóveda en cañón con trasdós llano, más alta en el aula central que en las partes laterales. El tercer edificio de Vaste remite directamente a la iglesia de Santa Marina en Muro Leccese, por la planta de nave única y las dimensiones contenidas, elementos típicos del periodo altomedieval.

La necrópolis Conjuntamente con la construcción del martyrium se realiza la implantación de una necrópolis rupestre, en una superficie de más de 5.000 metros cuadrados. El núcleo principal, que comprende alrededor de 100 tumbas cavadas en la misma roca, se ubica en una gran losanga que delimita el martyrium. Su entrada está definida por un umbral dotado de soporte para las hojas de la puerta. El ambiente rupestre se extiende sobre más de 150 metros cuadrados: la bóveda estaba sostenida por tres pilares y dos columnas mesápicas reutilizadas. Las tumbas tienen cojín esculpido en el fondo y estaban cubiertas por grandes losas con obra de albañilería para cerrarlas. Las ubicadas en las paredes de la cueva se hallan dentro de arcosolios y cubiertas por bloques de pietra leccese a dos aguas y acroterios angulares. En los acroterios, además, hay unas pequeñas «copillas» de malta, que servían para realizar el refrigerium. Este rito del cristianismo antiguo, que tiene sus orígenes en cultos paganos, consistía en derramar en la tumba líquidos, como agua, vino, leche o miel, con el fin de dar alivio material y moral al difunto. También se procedía a la preparación e ingesta de comidas fúnebres cerca de las tumbas, por parte de parientes y amigos de los extintos. En Vaste está atestiguado por la presencia de un hogar con huesos de animales y de una mensa; a su lado se ha encontrado una olla. El refrigerium, además de atender a las necesidades espirituales del difunto, era una oportunidad para manifestar caridad por los necesitados (comidas evergéticas). El fiambre iba acompañado casi siempre de un ajuar, que incluía instumentos de vidrio, como jarras, vasos, copas, lucernas, píxides y ampollas para ungüentos o perfumes, de fabricación refinada, procedentes de Egipto o del área siro-palestina. En muchas tumbas había también objetos de ornamento personal, pulseras de vidrio o bronce, collares de pasta vítrea y piedras duras, pendientes de oro, plata o bronce, alfileres y agujas de hueso o plata, hebillas de bronce, y peines de hueso. Menos frecuentes resultan ser las vasijas de terracota, jarras, anforillas y lucernas. Sobre una anforilla aparece grabado el nombre del dueño: Sextus Proculus. En las sepulturas, se hallaron con frecuencia cáscaras de huevo y sobras de pescado y aves; en veintitrés tumbas se ha comprobado el uso de deponer monedas: se trata del «óbolo de Caronte», el precio exigido por el feroz transbordador de almas, recordado en el Infierno de Dante, para completar el viaje ultraterrenal. Fuera del ábside, en el centro de la curva absidal, se ha hallado una tumba, aislada de las demás, con los restos de cinco individuos adultos, tres hombres y dos mujeres, de entre 35 y 65 años de edad: se trata de un osario construido para recibir los restos de difuntos anteriormente enterrados en otro lugar, quizá dentro del mismo martyrium. En el 38

momento de la construcción de la segunda iglesia dichos restos se debían trasladar y se les quiso preparar una nueva sepultura, quizás como una señal de respeto. La necrópolis de la Hacienda Giuliano se refiere sin duda a personas de rango elevado: se trata a lo mejor de propietarios fondiarios de la zona, quienes debían gozar del privilegio de estar enterrados cerca de un importante lugar sagrado. La posición social preminente se deduce por el hecho de que las sepulturas se realizan en arcosolios y por la riqueza de los ajuares. El planteamiento general presenta notables analogías con varios conjuntos cementeriales de época paleocristiana documentados en disitintas zonas del Mediterráneo. En la Italia del sur, se pueden citar los cementerios hipogeos de Canosa y Venosa, del Gargano y de la zona de Matera, y algunas necrópolis rupestres del sureste de Sicilia, como las de Santa Lucía y de San Juan en Siracusa; fuera de Italia, situaciones similares están documentadas en hipogeos y catacumbas situadas en la isla de Malta. Valeria Melissano

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Iglesia rupestre de los Santos Esteban En el rico y diversificado contexto de las iglesias rupestres de Terra d’Otranto y su decoración, no cabe duda de que la iglesia rupestre llamada de los Santos Esteban (Santi Stefani) ocupa un puesto de primera fila por su configuración arquitectónica, el interés y la calidad misma de sus pinturas murales, realizadas en distintas fases, a partir de finales del siglo X hasta finales del siglo XIV. Las distintas contribuciones pictóricas que renovaron el programa iconográfico, atestiguan la masiva frecuentación del lugar, cuando menos en toda la época medieval, y quizás después también. Es oportuno advertir que aún carecemos de un estudio exhaustivo sobre el lugar y su decoración. La iglesia presenta una implantación basilical de tres naves divididas por gruesos pilares cuadrangulares, que desembocan en tres ábsides, mientras las paredes laterales presentan nichos de diseño irregular, no muy profundos. Cerca de la entrada, a mano izquierda, hay intervenciones probablemente relacionadas con la fase de pinturas de 13791380, que implicaron el cierre del intercolumnio con el fin de crear un ambiente para guardar herramientas agrícolas, destruyendo de tal modo las pinturas originales, mientras que el nivel de calzada se rebajó de aproximadamente 60 centímetros: esta última intervención modificó, en mi opinión, el espacio primitivo, y la misma percepción de los espacios y de la decoración pictórica. Esta cubre también las caras de los pilares, en que aparecen numerosas imágenes de santos y de la Virgen con Niño Jesús. En general, tal y como he remarcado, las iglesias rupestres presentan, con respecto a las construidas en superficie, programas iconográficos simplificados, carentes de ciclos cristológicos polarizados en la representación de figuras de santos: dentro del programa, a veces, la advocación de la iglesia rupestre está expresada por la reiteración del retrato del santo titular. Otro aspecto peculiar es la presencia, en el interior y en el exterior inmediato de la iglesia rupestre, de una o varias tumbas, que indican su vocación eminentemente funeraria, y su dimensión privada, como indican, por ejemplo, los retratos de los donantes figurados a los pies de las imágenes de los santos, añadidos a las inscripciones fúnebres, como ocurre en Vaste. Además, hay que abandonar la idea romántica, que tuvo mucho éxito, del monje 40

bizantino perseguido por los iconoclastas, que se refugia en el Mezzogiorno y conduce una vida de ermitaño en las zonas rupestres: en Apulia, a diferencia de Calabria, Sicilia y de la Costiera de Amalfi, no constan ermitaños; los monjes son cenobitas – o sea, han adoptato la fórmula comunitaria experimentada por San Pacomio entre el siglo III y el IV en el Egipto copto – y viven en monasterios construidos en la superficie. Dicho tópico tuvo difusión probablemente por el célebre trabajo de Alba Medea, Gli affreschi delle cripte eremitiche pugliesi (Los frescos en las criptas eremíticas de Apulia), publicado en Roma en 1939. Volviendo a Vaste, la iglesia estaba probablemente dedicada a San Esteban, como se desprende de la lectura de una de las numerosas inscripciones votivas pintadas cerca de las imágenes de los donantes, retratados a los pies de los santos; se trata de un representante del clero, Jorge, arrodillado a los pies de la imagen de la Virgen con el Niño Jesús, puesta sobre una cara del tercer pilar a mano izquierda entrando en la cripta: en la inscripción se le indica como «servidor de San Esteban», o sea dedicado al servicio del santo, probablemente como guardián de la sede sagrada. La decoración pictórica, que se conserva parcialmente, como ya se ha dicho, presenta distintas fases, a partir de finales del siglo X o comienzos del XI hasta 1379-1380, y cubre las paredes, los nichos y las caras de los pilares: al último periodo pertenecen en primer lugar el ábside central, y luego la mayoría de las pinturas que, en varios lugares, se superponen a la decoración antecedente, en el ábside central, y también en las paredes y en los pilares. Las pinturas más antiguas son, en mi opinión, las figuras de los apóstoles Andrés y Felipe, acompañados de sus nombres en griego; ambos con un rótulo cerrado en la mano izquierda, bendicen con la derecha: las figuras son monumentales, envueltas, como es tradicional para los apóstoles, en túnica y amplio palio, cuyos pliegues son el resultado de pinceladas negras paralelas unidas a pinceladas de color más claro para remarcar conos de luz y sombra. En los rostros, realizados con un color claro y cremoso, destacan los ojos grandes, avellanados, remarcados por una línea oscura que, con un movimiento sinuoso, se une al párpado. Pienso que la decoración de las ábsides laterales no pertenece a la misma temporada; se debe datar probablemente en el transcurso del siglo XI, aunque comparta numerosos detalles con los retratos de los dos apóstoles: la paleta de colores, el fondo bícromo sobre el que resaltan las figuras y la forma de tratar los rasgos del rostro y los pliegues. En el pequeño ábside a mano derecha, las imágenes representadas – Cristo entre dos ángeles en adoración – se caracterizan 41

por siluetas delgadas y elegantes y no tienen la monumentalidad de las de los dos apóstoles: en especial los ángeles son figuras casi incorpóreas – y así a menudo se les describe en las fuentes griegas: asomatoi. Cosimo De Giorgi señaló que Charles Diehl había leído las fechas 1032 en el pequeño ábside de la derecha, y 1093 en el izquierdo, del que por cierto, según André Jacob, no hay rastro. En todo caso, acerca de la presunta inscripción de 1032, se trata de una datación coherente con el estilo de la pintura, afín, por ejemplo, al Cristo del Juicio Universal del nártex de la iglesia de la Panaghia ton Chalkèon en Salónica, erigida en 1028. En el ábside norte están las imágenes de tres conocidos santos obispos: San Nicolás en el centro, entre San Juan Crisóstomo, identificado por Medea, erróneamente, como Gregorio de Nazancio, a la derecha del observador, y San Basilio a la izquierda: la liturgia bizantina, como se sabe, se basa sobre los textos de Basilio y Crisóstomo. San Nicolás, al centro, tiene una dimensión levemente mayor que las otras; esto denota su importancia creciente en Bisanzio. La pintura, por su misma presencia, debería datarse después de 1087, pero quiero recordar que ya antes de la llegada a Bari de sus reliquias desde Licia, en ese año, documentos e imágenes de San Nicolás atestiguan la difusión de su culto en la región. Estas imágenes también, recortadas sobre un fondo tripartito amarillo-oro y azul, son de extremada elegancia, cercanas, desde el punto de vista formal, a numerosos frescos bizantinos del s. XI, ante todo los de Santa Sofía de Ohrid, en Macedonia, la catedral de los Búlgaros (1037-1056), y las pinturas contemporáneas del oratorio de San Martín en Bari Vecchia. Probablemente a esta fase del s. XI – entre mediados y finales del siglo mismo – se relacionan algunas figuras de santos que se encuentran en los pilares, como la imagen de San Antonio con una cartilla escrita, y en los nichos que se abren en la pared derecha. Hay otras dos imágenes del mismo santo, pertenecientes al estrato de finales del s. XIV, que atestiguan un intenso culto en este espacio sagrado – y en otros lugares de la zona – por el fundador del eremitismo. A este respecto, cabe señalar que, de forma general, precisamente porque en Terra d’Otranto las iglesias rupestres no tuvieron función eremítica, los retratos de santos monjes y ermitaños son infrecuentes, y entre ellos Antonio es el más rapresentado. Por el contrario, en algunas iglesias monásticas ítalo-griegas de Salento, como Santa María a Cerrate, cerca de Squinzano, la función parece estrechamente vinculada a la elección de un programa iconográfico rigurosamente monástico. En la cara interior del pilar derecho cerca del ábside, se halla la bella imagen del santo médico Pantaleón, que sostiene una especie de bisturí en su mano izquierda, y en la 42

derecha una cajita que contiene los ungüentos, elemento peculiar de la iconografía de los santos médicos. La mayoría de las pinturas en los pilares son casi invisibles, especialmente los más antiguos. Frente a la imagen de San Pantaleón sería de esperarse ver a otro santo médico, en su función de santos de intercesión, subrayada por su posición frente al ábside: en cambio se encuentra un santo monje, figura que no se percibe bien. No lejos de Pantaleón, en los subarcos del nicho situado en la pared derecha de la cripta, cerca del comienzo de la pared absidal, donde se ha abierto una ventana, se distinguen, con dificultad, los restos de las imágenes de la más conocida pareja de santos médicos, los santos Cosme y Damián, venerados en Apulia desde la época del conflicto greco-gótico (535-55): los Anargiros por excelencia eran los protectores de Justiniano, y están representados también en Poggiardo, en la cripta de Santa María de los Ángeles, en la pared absidal. La magnífica figura de un santo militar, probablemente San Jorge, pertenece al siglo XI o a la primera mitad del XII. No está muy bien conservada, y lo que mejor se distingue es la coraza en la que resalta un bonito nudo «macedonio», detalle iconográfico que marca el atuendo de los santos militares en Bisanzio. Hay ulteriores indicios que vinculan las pinturas a esta fase: sobre dos de los nichos que se abren en la pared norte, los más cercanos a la pared absidal, o sea un gran Arcángel, San Miguel, cuyas alas desplegadas siguen el movimiento del arco del nicho: como es habitual en los retratos de los arcángeles en Bisanzio, Miguel viste el uniforme imperial, con un pesado loros con gemas – una faja que por lo general medía unos 5 metros y se cruzaba en X en el pecho. Se divisan, sobre todo en las caras de los pilares, otras figuras que pertenecen a finales del siglo X y a los siglos XI-XII, pero se perciben con dificultad, mientras en el ábside central, bajo la escena inspirada en el Apocalipsis, se recorta la imagen de un santo que se dirige hacia la parte central del espacio. A mano derecha se conservan unos pocos fragmentos de la figura de un santo con cartilla, que no se había reseñado hasta la fecha. Un momento significativo para la vida de la «cripta» es la importante fase de decoración que cubrió todas las paredes, el ábside central y las caras de los pilares. Se percibe en el fresco absidal, bastante bien conservada, una escena de contenido apocalíptico, un unicum en la zona, y no solo en la zona, fechada 13791380, por una inscripción aún en griego: la única otra excepción es el célebre ciclo del Apocalipsis de San Juan que se conserva en el llamado tempietto de Sepannibale cerca de Fasano (Brindisi), de finales del siglo VIII. La elección del infrecuente tema, y sobre todo su ubicación en el 43

ábside, donde se anidan las imágenes más significativas de un ciclo, no parecen casuales. Habitualmente, la producción de textos apocalípticos se relaciona con eventos históricos dramáticos. La fecha indicada por la inscripción en griego cerca de las imágenes del donante y su familia – su mujer y sus dos hijas – evoca la temporada histórica difícil que Europa y el papado estaban viviendo con el cisma de Occidente, en parte provocado por el bando francés que se oponía al regreso de los papas de Aviñón a Roma, decidido por Gregorio XI. A la luz de esta observación, me parece evidente que se trata de un concepteur culto y audaz, que no sería prudente identificar, creo, con el mecenas, mujer e hijas, que parecen no estar al tanto del momento dramático en que viven, ya que desgranan serenamente sus rosarios – una de las más antiguas representaciones de ese objeto de devoción, apunta Jacob. La elección del tema y su ubicación, apoyan la interpretación, esta lectio difficilior. Quiero apuntar que el territorio de la región está directamente involucrado en la lucha: el legítimo papa Urbano VI y el antipapa Clemente VII se contendieron el nombramiento del nuevo arzobispo de Brindisi. Así, no me parece casual que la fecha – comienzos de 1379 – del nombramiento del nuevo arzobispo de Brindisi y Oria, sostenida por el antipapa, coincida con la de la inscripción de Vaste: además, me parece claro que el eco de aquel episodio llegara hasta las comarcas más apartadas, al sur del Salento, donde se percibió toda su dramática actualidad, llegando a influenciar el programa absidal de una iglesia rupestre. En definitiva, se trata, de un unicum iconográfico-iconológico de considerable importancia. Se vinculan con esta fase pictórica de finales del s. XIV varios paneles situados en las paredes laterales y sobre algunos pilares. La monumental figura de San Nicolás, que ocupa un nicho en la pared sud de la cripta, representado de medio cuerpo, bendiciendo y acompañado por su nombre en caracteres griegos, evoca, precisamente en virtud de ese determinado corte, y por sus amplias dimensiones, los íconos despóticos colgados de las paredes del iconostasio, es decir los íconos más significativos, en primer lugar los de Cristo y de la Virgen, colocados a los lados de las «puertas reales»: se trata, pues, en lo que concierne las imágenes de medio cuerpo de Vaste, y no solo, de auténticos íconos pintados en las paredes. El iconostasio es un segmento murario que separa el área del bema – el presbiterio de las iglesias occidentales – del naos. La original división presbiterial, formada por plúteos encajados en pilares que sostenían pequeñas columnas que, a su vez, sostenían un arquitrabe, es el llamado templon, documentado a partir de finales del s. VI. Con el correr de los siglos, se transformó en un auténtico tabique que separa netamente las dos partes principales 44

del edificio de culto, la más sacra, el bema, del área de las naves; además se convirtió en uno de los lugares reservados a los íconos, habitualmente sobre tabla y, en la mayoría de los casos, de medio cuerpo; es precisamente el corte de medio cuerpo el que distingue, en las iglesias, las simples imágenes de los íconos pintados en las paredes. En la tardía pintura bizantinizante de Terra d’Otranto, a partir de finales del s. XIII se registran numerosos casos análogos, como en las iglesias rupestres de la Celimanna cerca de Supersano (Lecce), en la del Crucifijo cerca de Ugento (Lecce); o en la cripta de la iglesia de Santa Lucía en Brindisi. Entre las imágenes que remiten a esta temporada decorativa, además de San Nicolás, hallamos a San Esteban, San Antonio, Santa Catalina, la Virgen con Niño Jesús y varios más, distribuidas en las paredes laterales y en las caras de los pilares; en algunos casos, a sus pies aparecen los retratos de los donantes, mencionados también en las inscripciones devocionales, siempre en griego: hay hombres y mujeres, como Donata, retratada dos veces a los pies de sendas imágenes de Santa Catalina, a la que debía tenerle particular devoción, una en la pared de fondo, entrando a mano izquierda, la otra en la pared lateral de la derecha. Las inscripciones griegas que acompañan los frescos de esta campaña pictórica, aunque pertenezcan a la etapa final de la Edad Media, atestiguan el uso de dicha lengua en el Salento, y a la vez prefiguran su paulatina decadencia. Marina Falla Castelfranchi

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Cripta de Santa María de los Ángeles y Museo de los Frescos Murales Los habitantes de Poggiardo hoy en día se sienten orgullosos de este monumento, que ha llegado a la categoría de símbolo de la ciudad. Se trata de un lugar de culto que durante mucho tiempo permaneció al margen de la atención ya que, a partir de finales del siglo XVII y a lo largo del XVIII, un nuevo y floreciente desarrollo urbano anuló este elemento, el más importante de la herencia medieval de la ciudad. No está a la vista del visitante por ser una iglesia cavada en la roca. El descubrimiento fortuito de la antigua cripta de Santa María de los Ángeles se remonta a 1929. Tras su restauración, las preciosas pinturas están cobijadas en el Museo de los Frescos Murales. El proceso de recuperación culminó con la inauguración de la actual sede del museo en la Piazza Epíscopo, en 1975, por Aldo Moro, a la sazón Presidente de Gobierno.



La arquitectura

Las raíces históricas y culturales de Santa María de los Ángeles se remontan a una época remota, en plena Edad Media, antes de que termine el siglo XII, época de datación de las pinturas que la decoraban. El edificio fue excavado probablemente hacia el año 1000. La planimetría (longitud máxima 9,25 m; latitud máxima 7 m; altura máxima 2,20 m) reproduce, con adaptaciones debidas a la dificultad de la excavación y con correcciones durante la obra, el esquema mediobizantino más corriente: una planta de cruz griega con cuatro pilares, inscrita en un cuadrado, con tres ábsides orientadas. Frente al ábside principal se conserva intacto el pilar del altar primitivo, hoy visible solo en la cripta debajo de la iglesia matriz, en el costado que da a la Via Don Minzoni. Nueve arcadas marcaban la separación entre naos (la parte destinada a los feligreses, equivalente a las naves de la arquitectura eclesiástica occidental) y bema (la zona presbiterial en que el clero oficiaba la liturgia). En Santa María de los Ángeles el bema está separado del naos por un templon, un septo transversal con tres aperturas que permitía al clero desplazarse del santuario 46

hacia los fieles y viceversa, según lo indicado por la liturgia bizantina. Se trata de un triforio, definido a veces de manera incorrecta iconostasio, destruido casi totalmente, pero del que permanecen rastros en la fundación y en algunos puntos de las paredes laterales. La cripta se excavó de forma bastante rudimentaria en la primera fase de realización: no están alineados naos y bema, que vira marcadamente hacia el norte; la excavación fue más cuidada para los nichos de lado este, y sobre todo, el asiento de piedra que corre por los lados sur y norte. En este último se sentaban los feligreses durante las celebraciones litúrgicas. El único acceso se hallaba en el rincón noroeste, donde había unos pocos peldaños, cavados en la roca, como se puede ver también en la sede debajo de la Piazza Epíscopo. Casi no hay elementos de decoración escultórea, costumbre habitual en la mayoría de las criptas apulienses, salvo contadas excepciones (como San Salvatore en Giurdignano); Molajoli en 1934, Alba Medea en 1939 y Venditti en 1967 señalaban, sin embargo, dos bloques relacionados con la decoración original, encontrados durante las excavaciones de los años ‘30 (hoy extraviados): un pequeño pilar y un capitel en piedra, de modesta dimensión, en forma de canasto. El modelo céntrico del volumen arquitectónico no es novedad en el contexto salentino: se halla en muchos otros edificios, tanto contruidos en la superficie como rupestres. La célebre capilla de San Pedro, en Otranto, pertenece sin duda a la primera categoría y es el único caso en Apulia que presente este esquema de construcción en la superficie. Existen casos análogos en Calabria: Católica de Stilo e iglesia de San Marcos en Rossano. Entre las iglesias rupestres, en cambio, la referencia más afín es la cripta de Giurdignano, de la que Santa María de los Ángeles podría ser una derivación directa. En todo caso es evidente la gran similitud entre los edificios citados y el Oriente bizantino. La decoración pictórica Las pinturas murales han sido objeto de estudio reiteradas veces, tanto por su interés artístico, como por su aspecto epigráfico. El programa iconográfico pertenece a la rígida tradición rupestre de la decoración de las criptas de Apulia, que se caracterizan por las secuencias de paneles con representaciones de santos, intercaladas por imágenes de la Virgen – con o sin Niño – y de Cristo. El planteamiento decorativo de Santa María de los Ángeles presenta un recorrido llano que se resuelve en una sencilla serie de santos que, por ambos lados de la estructura, iba acompañando al devoto en su camino hacia el ábside central, donde está ubicado el grupo de la Virgen con Niño Jesús entre dos ángeles, imagen de pronunciada vocación litúrgica. La pérdida de varios paneles no permite reconstruir la sucesión de santos ni suponer una interpretación distinta del eje oeste-este, que culmina en la trilogía del ábside central. Por el lado sur, en proximidad de la entrada, se halla casi enseguida la figuración de un santo militar a caballo – San Jorge –, imagen fuerte, reconfortante y que se supone que tenía un efecto de prevención; a continación una serie de santos obispos y Padres de la Iglesia de Oriente, quienes, con sus escritos, guiaban idealmente a los feligreses durante la liturgia; es intencional la ubicación de dos mártires «de peso» (Lorenzo y Esteban) en los pilares que bordean la gran imagen de la Virgen en el ábside. Campeones de la fe 47

por el martirio, posiblemente cumplían la función de amedrentar a los que se acercaban al banquete eucarístico; también la reiterada imagen de la Virgen con Niño Jesús, repetida dos veces más en la cripta, en partes diferenciadas jerárquicamente en el edificio, indica la advocación mariana de la cripta, declarada no ya por documentos, sino aludida, a la hora del descubrimiento, por la decoración del ábside central y confirmada por la frecuencia del tema en la cripta. Empezando por la entrada primitiva, el primer panel presenta una figura monumental de San Nicolás, obispo de Myra: el santo está situado en un marco rojo bordeado de una línea blanca que, por los costados y por arriba se duplica en una franja ocra, delimitada a su vez por la misma línea blanca; el obispo destaca sobre un fondo partido en cinco partes, definido en bandas de color azul, rojo y amarillo, separadas por una línea blanca en zigzag. Nicolás está representado bendiciendo con su mano derecha, mientras en la izquierda mantiene un libro cerrado con la portada decorada y adornada con doble hilera de perlas. Un doble perlinado define el contorno de la aureola que rodea el rostro, dibujado con rasgos fisionómicos esenciales y con su habitual barba corta y cabellera cana, que deja descubierta la frente. Un gusto casi de miniatura caracteriza la decoración de la vestimenta de Nicolás: entre la túnica azul y la casula rosa asoma un puño y un trozo de tela amarillo-ocra, decorados con encajes. Destaca la estola en forma de Y (omophorion) blanca y crucimarcada en los hombros, y el epitrachelion del que cuelga un paño, al centro de la figura, que presenta tres órdenes de decoraciones geométricas negras sobre fondo blanco. De la inscripción que originalmente acompañaba al santo, hoy solo se puede leer  AGIOC (el santo), a la izquierda de la aureola, mientras que el nombre se ha perdido. El siguiente panel representa a San Jorge a caballo matando el dragón. Las figuras planas parecen casi flotar en el fondo dividido en cinco partes: el caballo está suspendido en el vacío, aparentemente rampante aunque desarticulado en sus movimientos, acartonado en un diseño esquemático que traba los miembros del animal en una sucesión de brillos blancos que surcan el manto entre zaino y rojizo de forma innatural. En la grupa está San Jorge, vestido de militar con una corta túnica roja, decorada con diminutos ornamentos blancos; el busto está protegido por una brillante armadura amarilla, cuya consistencia 48

metálica se realiza mediante la decoración «en escamas» del peto y el motivo con plumas del brazo; una amplia capa completa el «uniforme» del soldado, de color marrón, adornado por un apretado doble perlinado que forma una serie de rombos ondeando en la espalda. La larga lanza que el santo tiene en su mano derecha traspasa el dragónserpiente a los pies del caballo: el cuerpo se revuelca y las grandes fauces reaccionan con una mueca de dolor. En la figuración de San Jorge el decorativismo minucioso tiene mayor énfasis que en la de San Nicolás, ya que se preocupa de engalanar no solo la vestimenta, sino también el arreo, los estribos y el freno del caballo. La posición apotropaica del santo militar en el programa iconográfico de Poggiardo está bien definida y recalca su intensa difusión en la pintura bizantina del sur de Italia: sus figuraciones se multiplican sobre todo a partir de finales del siglo XI y luego en el XII, con la dominación normanda. El cuadro siguiente tiene una función díptica, con la figuración de una pareja de santos: Juan Teólogo (identificado por la inscripción O AGIOC IWANNHC QEOLOGOC, a la derecha) que tiene un libro en la mano izquierda; y otro santo, bendiciendo, identificado como San Gregorio Nazanceno, a la izquierda; sin embargo, la identificación hoy ya no se puede verificar por la total pérdida de la inscripción, y también en consideración de una pauta iconográfica muy común, con solo un rótulo cerrado en la mano izquierda como elemento distintivo. Ambos llevan túnica y palio. Lamentablemente está muy deteriorado. Los dos paneles siguientes, despegados separadamente cuando los frescos se quitaron en el siglo pasado, pertenecían originalmente a un solo recuadro: a la izquierda un Cristo bendiciendo sobre un trono decorado con gemas y a sus pies una pequeña figura femenina, de rodillas, en adoración (proskynesis); a la derecha un santo mártir señalado por su pequeña cruz astil blanca y por la palma de la mano derecha abierta: su identificación con San Anastasio se basa en la lectura de la inscripción aún presente a finales de los años ‘30 y que hoy apenas se intuye en la letra ∑ (sigma) a la derecha. La imagen resulta más bien inusual en el catálogo bizantino y aun más en la Italia del sur, y esto hace que la identificación de Alba Medea sea dudosa, por la pauta iconográfica: en las escasas imágenes conocidas del santo persiano, en efecto, se le representa joven, con barba y pelo oscuros y vestido habitualmente de militar, rara vez como monje. En Poggiardo en cambio lleva suntuosas ropas: una larga túnica roja, con una amplia banda bordada y con perlinado en el fondo, un manto azul, con borde decorado de perlas, y ornamentación con rodas. Del rostro, hoy perdido, solo permanecen visibles algunas zonas de color que sugieren que en su origen la figura tenía una cabellera cana, en contraste con la representación habitual. A su lado está Cristo: sentado, tiene la misma altura que los demás miembros del «desfile» de santos de pie de la pared sur, subrayando en el tamaño la jerarquía entre las imágenes. Viste una túnica azul oscuro y un himation marrón; la mano derecha bendice a la griega, mientras la izquierda tiene el habitual libro abierto en que se lee parcialmente, en griego, el versículo de Juan «Yo soy la luz del mundo; el que me sigue, no andará en tinieblas» (Juan VIII, 12). El rostro, deturpado por las lagunas, es pálido y sombreado con ligeras estrías verdosas, los ojos muy abiertos miran fijamente al observador; la cabellera, igual que las líneas de contorno, es rojiza y no negra a diferencia de las figuras que anteceden. La aureola con perlinado está crucimarcada y en el brazo derecho se conserva un Ω (omega). El trono 49

está ricamente decorado con perlas, tanto en los montantes del respaldo, cubierto por un mantel rojo con rotas y flores de ocho puntas, como en el basamento del mismo, que imitan una madera labrada en volutas; en el asiento hay un cojín tubular azul y en la base un supedáneo trapezoidal, a la derecha del cual se ve una inelegante pequeña figura adorante, de melena pelirroja. Por la inscripción adyacente se le suele identificar con la Magdalena evangélica, aunque la dimensión reducida induce a compartir la hipótesis de Marina Falla Castelfranchi: se trata probablemente de una mecenas del mismo nombre, con la misma postura, los mismos gestos y rasgos similares a los de Santa Magdalena. El panel siguiente, bastante deteriorado, funciona como un díptico: hay una figura con ropaje suntuoso a la derecha y otra imagen de San Nicolás a la izquierda. Si para la identificación del segundo santo no hay duda porque reproduce el segundo panel de la entrada, para la identificación del primero las únicas indicaciones útiles son las pocas letras del nombre que aún se leían en el siglo XX remitiendo a San Demetrio (hoy permanece visible solo una ρ – ro – a la derecha de la cabeza). Demetrio, mártir de Salónica, se representa con más frecuencia en atuendo militar, aunque también se le ve retratado con túnica y palio y con el estendarte del martirio. La imagen en Santa María de los Ángeles no sigue ninguna de las dos variantes: aquí el santo está ricamente vestido y tiene el brazo izquierdo en posición orante, mientras el derecho está pegado al busto con la palma abierta, sin ninguna cruz. La parte del rostro está totalmente perdida y no ayuda a confirmar la identificación. Al final de la pared sur, en el breve septo del templon, hay una segunda imagen de San Juan Teólogo, en pendant, sobre el lado norte, con otro Juan, el Bautista. Respecto a la anterior figuración, el Evangelista aquí se distingue por pequeños detalles: el color de la vestimenta (el palio es azul en vez de blanco), la falta de chapaduras en el libro, y la mano derecha bendiciendo en lugar de indicar el Evangelio. Con la excepción del pequeño nicho del lado sur, extraviado, la decoración del bema se conserva íntegra. El interés está focalizado por la trilogía del ábside central, donde está la Virgen en trono con el Niño Jesús entre dos ángeles adorantes; a sus costados, 50

dos diáconos (Lorenzo a la derecha, Esteban a la izquierda del observador), y en el nicho norte, el Arcángel Miguel, al que posiblemente le correspondiera otro Arcángel en el de la derecha. El carácter litúrgico del santuario está subrayado por la presencia de los dos diáconos: en la tradición salentina Esteban es sin duda más popular que Lorenzo; la composición combinada, como en Poggiardo, parece repetirse solamente en el caso de la iglesia de San Juan Evangelista en San Cesario di Lecce. Volviendo al ábside central, la elección del tema iconográfico se diferencia ostensiblemente de la tradición bizantina del Salento, que ve habitualmente figurada la Deesis. En este caso remite a tradición bizantina de la ecúmene (San Jorge Kurbinovo, en Macedonia, 1191; iglesia de los Anargiros en Kastoria, Grecia, finales del siglo XII). La diferente especifidad de los espacios está marcada por un cambio de los fondos que, en lugar de estar divididos en cinco partes, aquí son tripartitos, azul-amarillo-azul, con bandas de distinta altura; los espacios residuos de la arquitectura están decorados con motivos ornamentales y volutas con decoraciones vegetales. La Madre y el Hijo ocupan un rico trono. Están representados en posición perfectamente frontal, el segundo alineado con la primera. La Virgen Kyriotissa calza escarpines rojos, lleva túnica azul y maphorion marrón, decorado con una estrella de cuatro puntas a la altura de su frente. La figura de María es estirada y elegante, casi incorpórea; dentro de la gran aureola, el rostro diáfano está marcado solamente por las líneas trazadas por la nariz, la boca y los grandes ojos y por dos leves sombras a los lados de la nariz y debajo de la barbilla; a la altura de los hombros el monograma mariano MHR QY (MHTHR QEOY, Madre de Dios). El Cristo Niño Jesús es estilísticamente gemelo de la Virgen. Está representado de frente, con grandes ojos que dominan la palidez del rostro, el himation rosado; su mano derecha bendice mientras que la izquierda parece suspendida en el vacío; el monograma que lo identifica, IC XC, está ubicato debajo del materno. Presentan gran interés las letras que acompañan los brazos de la cruz dentro de la aureola: NOW, que para el Cristo Niño Jesús – como en la figura en trono ya vista – sustituye al más habitual C (luz) (como en Santa Cristina, Carpignano); la sigla no tiene fácil interpretación, ya que se puede entender tanto como abreviación de O NAZWRAIOC (el Nazareno), como O WN, (el que es): en ambos casos se trataría de la única aparición conocida. A los lados de la pareja principal están las dos figuras gemelas de los Arcángeles, identificados, el uno y el otro, con la abreviación O AX (O ARCAGGELOC, el Arcángel) Gabriel a la derecha, Miguel a la izquierda, quizás realizados utilizando el mismo cartón preparatorio ya que se pueden superponer especularmente. A la derecha del ábside está San Lorenzo, joven e imberbe, hoy deturpado por una laguna orizontal a la altura de las rodillas. El santo, diácono del papa Sisto II, martirizado en Roma en 258, conserva aún la inscripción que lo identifica como C THOC, el santo fuego del Señor. Le corresponde, entre el ábside central y el nicho norte, el otro diácono, San Esteban. A los pies del santo se abre otro pequeño nicho en que está representado, sobre fondo blanco, un personaje en atuendo militar, de dimensión reducida y no identificado. En el nicho norte campea un busto monumental del Arcángel Miguel, que custodia el bema: 51

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la figura está en posición frontal con sus alas desplegadas, una túnica roja decorada con perlas que forman motivos decorativos circulares y lleva un loros, larga estola bordada que pasa alrededor del cuello, rodea la cintura y cae en el brazo derecho: se trata de un rasgo de distinción de la jerarquía de los Arcángeles que deriva de la vestimenta imperial de Bisanzio. En su mano derecha sostiene una lanza, mientras que con la izquierda levanta el globo en que se yergue una cruz sobre un monte flanqueada por las letras and : según una interpretación reciente, podría tratarse de una versión abreviada de C (Miguel, el primero del Señor). Completa el programa iconográfico del bema la pareja formada por los santos médicos Cosme y Damián, representados de medio cuerpo en el lado norte. Ambos llevan túnicas con capas ricamente decoradas en rojo y azul y se les figura jóvenes con pelo y barba cortos y morenos. Aunque los nombres estén perdidos, su identificación es indudable por la peculiaridad de los atributos que tienen en sus manos: un rótulo y un bisturí Cosme, un ungüentario Damián. La imagen de los Anargiros siempre tuvo gran fortuna iconográfica en Bisanzio y, por consiguiente, en Apulia y más en general en el sur de Italia; baste citar el caso, muy cercano de la «cripta» de los Santos Esteban (Santi Stefani) en Vaste, donde hay hasta tres imágenes de santos médicos, dos jóvenes y uno mayor, identificable con Ciro de Alejandría. Después del bema, regresemos al naos, donde en primer lugar se encuentra la ya mencionada figura del Bautista seguida, hacia el oeste, por otro San Miguel Arcángel de cuerpo entero y por San Julián. El fondo, otra vez, está dividio en cinco secciones orizontales; la diferencia del fondo no parece anecdótica, como no es casual que el pintor utilice dos distintas formas de perlinado en las aureolas: doble fila en el naos en asociación con las cinco franjas; única fila de perlas blancas con intercalación de grandes perlas rojas en el santuario, en correspondencia con el fondo tripartito. Esta consideración, junto al hecho de que los santos del bema están estilísticamente más cuidados, deja suponer que al menos dos artistas diferentes se ocuparon al mismo tiempo de la decoración de la iglesia. Volviendo a San Juan, el Pródromo ostenta una cabellera fornida ligeramente despeinada y barba, ambas morenas, y se le representa descalzo, con túnica y capa. En el siguiente panel, San Miguel es similar al Arcángel del nicho norte, pero de cuerpo entero, de pie sobre un pedestal. San Julián, de cuerpo entero, mártir como indica la cruz en su mano izquierda, lleva rico atuendo con túnica roja bordada con bandas amarillas decoradas en volutas, puños bordados y capa marrón con rombos de perlas. El rostro joven del santo está sombreado con maestría y rodeado de una poblada cabellera morena, apenas rizada. La inscripción que lo identifica se conserva casi completa. Solo queda considerar un panel, interesantísimo: una segunda Virgen con Niño Jesús flanqueada por San Nicolás, en el lado oeste, cerca de la entrada actual. Se reconoce al santo obispo por los atributos episcopales y por el inconfundible modelo facial, copia del panel de la pared sur, aunque de distinta mano y asimilable a imágenes de más alta calidad (el grupo del bema y San Julián); a la derecha de Nicolás está María que sostiene en su brazo derecho al Niño Jesús. El tiempo ha borrado un valioso testimonio epigráfico, el más significativo de toda la cripta, leído en su día por Alba Medea y cuyo texto transmite 53

una invocación: «Recuerda, Señor, a tu siervo León y a su mujer. Amén». Pocas pinturas, algunas aún apreciables, otras casi indistinguibles, adornan el pilar noroeste. La cara sur mantiene pocos vestigios de pigmento; al oeste está representado un santo con ojos grandes y cabellera morena, vestimenta ricamente decorada con perlas y gemas, elementos que sin embargo no alcanzan para identificarlo. Las imágenes en las restantes dos caras del pilar se conservan mejor. En el lado norte, aparece por tercera vez la Virgen con Niño Jesús: la Madre, representada de tres cuartos, con una bella tez rosácea, con el Niño Jesús sentado en su brazo derecho indica con su mano izquierda el camino de la salvación: el Hijo, en una variante insólita del Hodegetria. Cristo, cuyo rostro está tratado con poco esmero, bendice con su mano derecha y en la izquierda sostiene un rótulo cerrado. Como se ha observado para el Niño Jesús del ábside, la cruz en el nimbo del Cristo del pilar también lleva las letras . En la última cara, hacia los ábsides, se halla la figura de un santo joven lampiño, de medio cuerpo, en atuendo militar. La similitud de su rostro con el de San Jorge a caballo de la pared sur confirma la lectura de las pocas letras aún presentes, C, Jorge. La aparente monotonía del programa iconográfico es el reflejo de una costumbre consolidada en las iglesias rupestres salentinas, organismos en su mayoría privados y con función funeraria, en que los santos más conocidos concentran la atención: Nicolás entre los obispos; la Virgen con Niño Jesús; el Arcángel Miguel; y – en Poggiardo – San Jorge, cuya representación, en dos actitudes distintas, podría ser el fruto de una devoción personal. Desde el punto de vista de la cronología, la crítica aún se divide entre una datación hacia finales del siglo XI o comienzos del XII, por un lado, y por otro, más razonablemente, finales del s. XII o alrededor del año 1200.

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La musealización y los nuevos logros en diagnóstico y digitalización

No se conocen las razones que indujeron al obispo de Castro, Giorgio Rosa, a clausurar el sitio de «Santa María della Grotta» entre 1521 y 1530, aunque sin duda los testimonios, sobre todo decimonónicos, de ilustres habitantes de la ciudad aluden a cierta insatisfacción por el cierre de Santa María de los Ángeles. El redescubrimiento de la cripta no se realizó hasta 1929. Enseguida resultó estar en precarias condiciones de conservación, sobre todo a raíz de filtraciones de humedad. A pesar de algunas intervenciones de emergencia en los siguientes veinticinco años, Cesare Brandi, Director del Istituto Centrale del Restauro de Roma, optó en 1955 por la definitiva asportación del conjunto de las pinturas murales, para evitar su pérdida, que las incipientes incrustaciones de carbonato y moho podían causar. Los paneles recuperados se restauraron en los talleres de Roma y se expusieron primeramente en los Mercados de Trajano en 1958 y en Turín en 1961. Poggiardo reclamaba su devolución. Brandi en varias oportunidades consideró inviable que los frescos regresaran a su sede original, siendo necesaria la instalación de un nuevo lugar expositivo adecuado; en 1969, el Ayuntamiento le encargó a Franco Minissi el «proyecto de un pabellón para alojar los frescos bizantinos de Santa María de los Ángeles». Las obras para el Museo de las Pinturas Murales en Fresco se realizaron rápidamente y en septiembre de 1972, cuando las obras ya casi estaban ultimadas, las pinturas fueron trasladadas a su nueva sede. Quien hoy visita Poggiardo recupera la memoria bizantina de Santa María de los Ángeles en el sitio original de la cripta, visitable previa cita, y contemplando las pinturas conservadas en la sede del museo de la Piazza Epíscopo. El sitio y los frescos se podrán en breve visitar virtualmente, en el marco de una colaboración italo-japonesa que tiene 55

como protagonistas el Opificio delle Pietre Dure (Florencia), la Superintendencia de Bienes Histórico-Artísticos y Etnoantropológicos de Apulia (Bari) y la Universidad de Kanazawa (Centro de Investigación sobre la Pintura Mural Italiana). La cripta de Poggiardo se enmarca en un amplio proyecto de investigación, diagnóstico y documentación sobre la técnica de realización y sobre el estado de conservación de las pinturas murales altomedievales y bizantinas de Apulia: un equipo ha trabajado in situ a finales de septiembre de 2012, verificando las condiciones medioambientales actuales de los frescos y del sitio, procediendo a una serie de análisis no invasivos cuyos resultados están en prensa. El proyecto italo-japonés incluye, en su última etapa, la realización y la puesta en red de un modelo virtual en tres dimensiones, interactivo, de la cripta y su decoración, modelo aún no realizado, que permitirá una visita virtual «avanzada», para ver no solo el «contenedor» original, el museo actual y las imágenes de las pinturas murales, sino también para conocer los esfuerzos, en cuanto a estudio y medidas para la conservación, puestos en marcha en estos años por los científicos y el Ayuntamiento en pos de un resurgimiento de Santa María de los Ángeles. Manuela De Giorgi

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Arboreto pedagógico El arboreto pedagógico es un área naturalística y medioambiental implantada dentro del Sistema de Museos de Poggiardo y Vaste. Se extiende sobre una superficie de casi una hectárea y está ubicado en el declive de la Serra de Poggiardo, por el camino vecinal de los Santos Esteban (vicinale Santi Stefani), a breve distancia de la iglesia rupestre del mismo nombre y del conjunto arqueológico paleocristiano de la Hacienda Giuliano. La acentuada concentración en la zona de múltiples especies vegetales, que caracterizan el habitat de las Serre Salentine, es el punto de partida para la creación de un parque cuya finalidad, por un lado, es la conservación del ecosistema de la macchia mediterranea, por el otro la realización de un itinerario didáctico equipado para la fruición del ambiente por parte del público, especialmente grupos escolares, estudiosos, turistas y amantes de la naturaleza. El área presenta amplias zonas que permiten disfrutar con tranquilidad de un rico conjunto de formas, aromas y colores proporcionados por el entorno natural. Por los senderos, se instalaron bancos y paneles que explican las distintas especies de hierbas, árboles y arbustos. Cabe señalar el cistus, el madroño, el mirto, el romero, el timo, el lentisco y muchas más. Gracias a la presencia de auténticas aulas al aire libre el Arboreto también es la sede de inciativas importantes cuyo objeto es la educación medioambiental y la preservación de la biodiversidad, entre las cuales es interesante recordar el curso de apicultura ecológica, organizado por la Asociación NettareNatura (Néctar-Naturaleza).

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Índice Museo Arqueológico Parco dei Guerrieri El Portal Hipogeo de las Cariátides Conjunto paleocristiano de la Hacienda Giuliano Iglesia rupestre de los Santos Esteban (Santi Stefani) Cripta de Santa María de los Ángeles y Museo de Frescos Murales Arboreto pedagógico Bibliografía

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Imágenes: G. Carluccio: pp. 20-21, 45. Lab. Archeologia Classica - Università del Salento: pp. 12, 14, 15, 16, 19, 22, 23, 25, 29, 36, 37, 39, 57, 58, 59. Coordinamento SIBA - Università del Salento: pp. 31, 32, 33 (reconstrucción 3D: F. D’Andria, K. Mannino - panel en el Portal). InkLink - Firenze: pp. 17, 18, 26-27 (ideación F. D’Andria). M. De Giorgi: pp. 50, 52, 54, 56-57. M. Falla Castelfranchi: pp. 33, 34, 35, 36. F. Gabellone - CNR IBAM - Lecce: pp. 6-7. F. Ghio: pp. 38-39. F. Malinconico: pp. 32, 48.

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