Sistema Museale di Vaste e Poggiardo. Guida

June 9, 2017 | Autor: Giovanni Mastronuzzi | Categoria: Archaeology, Environmental Education, Cultural Heritage, Museums, Byzantine art
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Descrição do Produto

Ministero dei beni delle attività culturali e del turismo

UNIONE EUROPEA

Città di Poggiardo

5 - 20

15

cea

DIPARTIMENTO DI BENI CULTURALI

195

Regione Puglia

Fondo europeo di sviluppo regionale

uNIVERSITÁ DEL sALENTO Uni-Salento prossimo venturo. Rifondare il patto Università-Territorio

Sistema Museale di Vaste e Poggiardo Guida

a cura di Giovanni Mastronuzzi

Sistema Museale di Vaste - Poggiardo Finanziamento P.O. FESR 2007-2013, Asse IV, Linea IV.2, Azione IV.2.1, lettera D, Riqualificazione e valorizzazione del sistema museale.

Sistema Museale di Vaste - Poggiardo Finanziamento P.O. FESR 2007-2013, Asse IV, Linea IV.2, Azione IV.2.1, lettera D, Riqualificazione e valorizzazione del sistema museale.

Comune di Poggiardo R.U.P. arch. Lucio Ricciardi Centro Educazione Ambientale delle Serre Salentine Direttore Generale avv. Luigi Contino Circolone R.U.P. dott.ssa Giuliana Longo Università del Salento Responsabile Scientifico del Sistema Museale (SMVP) prof. Giovanni Mastronuzzi

Ringraziamenti Nel corso di oltre trenta anni di ricerche archeologiche il prof. Francesco D’Andria, in accordo con la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia e con il sostegno delle Amministrazioni Comunali, ha promosso importanti iniziative culturali finalizzate alla valorizzazione del patrimonio culturale del Comune di Poggiardo. Nella progettazione del Sistema Museale di Vaste e Poggiardo ha continuato a garantire il suo apporto consigliando ed incoraggiando quanti, a vario titolo, operano sul territorio. Si ringraziano inoltre i proff. Raffaele Casciaro, Letizia Gaeta, Mario Lombardo, Massimo Guastella e Grazia Semeraro dell’Università del Salento e l’arch. Michela Catalano (Soprintendenza BSAE della Puglia) per il sostegno al progetto del Sistema Museale di Vaste e Poggiardo; Mons. Quintino Gianfreda, Don Gino De Vito, Padre Rocco Alba per l’accesso e l’autorizzazione alla riproduzione di immagini dei beni ecclesiastici. In copertina: il complesso paleocristiano di Fondo Giuliano (foto P. Caputo)

Sistema Museale di Vaste e Poggiardo Guida a cura di Giovanni Mastronuzzi

Testi Francesco Baratti, Manuela De Giorgi, Marina Falla Castelfranchi, Fabiola Malinconico, Katia Mannino, Giovanni Mastronuzzi, Valeria Melissano (Dipartimento di Beni Culturali – Università del Salento)

Traduzioni Inglese: Maria Rosaria Faggiano Spagnolo: Fabia Del Giudice Tedesco: Karl Gerhard Hempel

Progetto grafico Fabio Leone, SAPIENS 20.14 Antonio Mangia

La redazione del presente volume è stata possibile grazie all'impegno delle dott.sse Chiara Francone ed Annalucia Spagnolo coordinate dalla dott.ssa Valeria Melissano (Lab. di Archeologia Classica, Dipartimento di Beni Culturali - Università del Salento).

Presentazioni 4

L’occhio non rimane mai digiuno passeggiando tra secoli di storia. Vaste e Poggiardo distillano suggestioni interiori che conducono inevitabilmente ad un’armonia e ad una leggerezza che conciliano con la vita. Infatti, sfogliando le pagine di questo volume si ha l’impressione di essere presi per mano e introdotti in ciascuno degli edifici e dei luoghi più significativi di questo meraviglioso territorio. Si ha la sensazione di poter viaggiare nel tempo, di incontrare i personaggi, vivere le vicende e gli eventi che hanno segnato le tappe più importanti di una storia che coniuga nella più alta espressione passato, presente e futuro. La Guida rappresenta un tassello importante nel più ampio progetto di avvio del Sistema Museale di Vaste e Poggiardo che abbiamo il privilegio di poter sviluppare, quale omaggio a una terra generosa, accogliente, espressione armonica dell’incontro di popoli e culture, le cui tracce le conferiscono un fascino senza eguali. L’obiettivo è quello di far percepire questo percorso di umanità come un patrimonio davvero di tutti, per dare concretezza alla cultura del conoscere che è pilastro della tutela del bene monumentale. Una strada già tracciata che percorriamo con la consapevolezza di dover fare uno sforzo collettivo ulteriore: continuare a custodire con cura e promuovere con intelligenza questa immensa ricchezza, sapendo che essa rappresenta il lascito più prezioso per i nostri figli. Il rispetto e la tutela, infatti, nascono e si rafforzano, prima di tutto, se riusciamo a trasmettere ai più giovani la gioia di vivere in un territorio straordinario, in cui ogni angolo parla la lingua del tempo, e ogni traccia - anche la più minuta - è simbolo, segno, di un sapere profondo. Poggiardo, 12 novembre 2015 Giuseppe Colafati Sindaco di Poggiardo

Imparare a camminare per le strade della vita significa studiare e conoscere il tempo, gli eventi, i protagonisti che hanno costruito e costruiscono il nostro presente. Infatti la storia delle civiltà, ci insegna che il progresso è figlio dell'intelligenza dell'uomo, delle sue idee, della sua creatività. Ma il fertile terreno dell'intelligenza ha bisogno di essere innaffiato, coltivato, concimato costantemente per produrre conoscenza e gli strumenti da usarsi, sono i saperi. I saperi sono come tante finestre aperte sul mondo che fanno volare libero il nostro pensiero, i saperi ci permettono di avvicinare gli altri, di condividere le loro culture e, come tanti mattoni depositati uno sull'altro, determinano la nascita, l'evoluzione e la sedimentazione del nostro universo di valori e di ideali. Questa breve premessa per sottolineare, se ce ne fosse bisogno, come il tema dello sviluppo della vita e dell'organizzazione della cultura è oramai, divenuto una questione dirimente e decisiva per il governo e la crescita dei territori. Il ruolo della politica declinato in tal senso, non può essere solo l'esercizio di un mestiere freddo e separato ma la capacità, l'arte, la maestria di intrecciare il proprio percorso di vita con quello degli altri, sforzandosi di cooperare per condividere le scelte fondamentali che riguardano il governo del territorio e la qualità della vita di ognuno di noi. Per questo motivo, accettando l’invito del Sindaco di Poggiardo, mi piace essere considerato il Sindaco della Puglia, perché oggettivamente, i Sindaci oggi rappresentano l'ultimo presidio democratico presente sui territori in quanto, si interfacciano direttamente e quotidianamente con i cittadini e con le loro problematiche. La guida serve pertanto, non solo ad indicare un percorso di umanità che parte dalla preistoria e intreccia il vissuto di diverse civiltà, in particolare quella dei Messapi, per poi incontrare l'afflato di libertà proveniente del mondo greco classico assimilando usi, costumi e tradizioni tipici anche degli antichi romani in una forma di sincretismo laico e religioso che fa di questo territorio un unicum rispetto ad altre realtà pure importanti ma rappresenta di fatto, il progetto e l'azione lungimirante che proietta il ruolo di ciascuno di noi nel tempo che verrà. Bari, 12 novembre 2015 Michele Emiliano Presidente Regione Puglia

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Le statue femminili, le cariatidi, e il fregio in pietra leccese, opera di artisti tarantini dell’inizio del III sec. a.C., che decoravano la fronte di una tomba a camera ipogea rinvenuta a Vaste nel XIX secolo e che fanno bella mostra di sé nelle sale del Museo Nazionale Archeologico di Taranto e nel Museo Provinciale di Lecce, indicano il prestigio raggiunto dalle aristocrazie messapiche di Basta nel pieno ellenismo e delineano il quadro di una società colta, opulenta e aperta al dialogo con la colonia greca di Taranto. Ma se nell’immaginario collettivo per anni l’archeologia di Vaste si è identificata in tali capolavori, o nel magnifico cratere a volute in bronzo della collezione Castiglione poi venduto al Museum of Fine Arts di Boston, testimonianze comunque di anni di ricerche più tese al saccheggio che alla conoscenza e al recupero delle memorie, le ricerche sistematiche avviate all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso in collaborazione con l’Università del Salento, hanno consentito definire nelle grandi linee le dinamiche di occupazione del territorio tra l’età del Ferro e la conquista romana. Nuclei sparsi di capanne disposti sui pianori più elevati già aperti ai rapporti con i traffici d’oltre adriatico, come testimoniano i numerosi frammenti di vasi e di anfore commerciali d’importazione greca nell’età del Ferro e in epoca arcaica, e poi, a partire dal IV sec. a.C., il crescere di un abitato organizzato su assi stradali, con case a pastas, aree di culto, possenti mura di difesa, ancora in parte conservate. Proprio le mura definiscono il “Parco dei Guerrieri” di recente realizzazione, presidio all’avanzare dell’abitato moderno e, insieme alla vicina cripta dei Santi Stefani, promessa di un processo compiuto di valorizzazione di un patrimonio straordinario che si completa nel rinnovato Museo Archeologico nel Palazzo Baronale, sulla centrale Piazza Dante, altro punto focale dell’archeologia di Vaste. Il percorso museale racconta, dando voce ai reperti archeologici accuratamente selezionati, lo sviluppo diacronico del un centro messapico, evidenziando i temi topici delle diverse fasi storiche, le forme dell’insediamento, le ideologie funerarie e religiose, i processi di trasformazione della società e dell’economia, i traffici e i contatti commerciali e, ancora, gli esiti della conquista romana e i segni dell’organizzazione del borgo nel medioevo. Un percorso plurimillenario che raccoglie i segni preziosi della storia e della cultura della nostra terra, al tempo stesso un invito alla tutela di un patrimonio comune che dalle sale di un museo si restituisce alla comunità perché solo la comunità può custodirlo, conservarlo e tramandarlo alle future generazioni. Luigi La Rocca Soprintendente Archeologo della Puglia

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La forza delle tradizioni mediterranee racchiuse nella terra d’Otranto, area di passaggio e di frontiera compresa tra oriente e occidente, è in grado di sprigionare grande fascino e interesse con la poco conosciuta civiltà messapica, la cui lingua e i cui graffiti sono ancora tutti da indagare insieme ai misteriosi monumenti megalitici e alla tessitura dei muri a secco veri segni identitari insieme alle estese coltivazioni di olivi del paesaggio salentino. Esistono in Salento alcune comunità cittadine, come quella di Poggiardo, che hanno da tempo creduto nella conservazione e nella valorizzazione della propria cultura e attualmente sono impegnate a investire nella tutela del loro patrimonio storico-artistico e nella possibilità che esso possa essere maggiormente conosciuto e tutelato apportando ulteriori benefici sia economici che sociali a tutti gli abitanti. Per proseguire lungo questo percorso virtuoso di crescita e approfondimento oltre che di conoscenza della propria storia, gli abitanti di Vaste e Poggiardo e le amministrazioni hanno pensato alla redazione di una guida che illustrasse i tesori del patrimonio culturale e ambientale e il sistema museale locale, sfruttando in maniera adeguata il finanziamento P.O. FESR 2007-2013 per la riqualificazione delle emergenze monumentali e archeologiche. La collaborazione con l’Università del Salento e il coinvolgimento di numerosi studiosi hanno consentito di mettere in luce e illustrare i tesori d’arte e di storia presenti sul territorio comunale dimostrando così che i flussi legati al turismo possono essere potenziati e incrementati con una corretta diffusione degli itinerari di visita e con iniziative turistiche differenziate Per tali encomiabili attività sono state restaurate e aperte al pubblico emergenze monumentali come il parco archeologico dell’antica città messapica di Basta con i ruderi delle mura e i brani di eccezionale valore architettonico legati agli edifici cultuali tardoantichi. Ciò ha consentito di informare sulla evoluzione delle tipologie chiesastiche che preludono alla creazione del sistema basilicale romanico e che unitamente al museo archeologico, costituiscono un complesso di rilevante valore storico diffuso sull’intero territorio comunale, sicuramente in grado di attrarre ulteriori flussi di turisti interessati alla riscoperta delle risorse del paesaggio salentino e dei suoi tesori. Se a questo si aggiunge la presenza di eccezionali cripte rupestri arricchite di cicli affrescati realizzati tra altomedioevo e XII-XIII sec. di sicuro pregio pittorico e la successiva evoluzione dell’abitato di Poggiardo con le numerose chiese barocche e gli edifici ottocenteschi, arricchiti dalle straordinarie esperienze costituite dall’artigianato artistico salentino, si può affermare che l’intero comprensorio presenta un’offerta variegata e sicuramente in grado di soddisfare il gusto e la voglia d’arte di un turismo culturale sempre più informato e alla ricerca di nuovi itinerari. La guida riserva inoltre alcuni capitoli alle emergenze ambientali ed in particolare passa in rassegna sia le caratteristiche geologiche del territorio che quelle floro-faunistiche non trascurando il patrimonio del verde storico costituito dal giardino Episcopo con le sue specie arboree e le fabriques, ovvero i padiglioni eclettici tipici del gusto ottocentesco, e l’arboreto didattico, di sicuro interesse per le scolaresche e per i turisti più colti alla ricerca di curiosità e rarità botaniche. Non mancano infine gli accenni alle tradizioni popolari che ripetono rituali che affondano nella notte dei tempi ed in un substrato culturale che ha visto succedersi e intrecciarsi influssi culturali appartenenti ai vari popoli che hanno abitato il Salento, dai Messapi, ai Greci ai Bizantini dando vita a quella eccezionale stratificazione che costituisce la vera ricchezza culturale del nostro paese e delle straordinarie testimonianze locali presenti nell’area. La mia ammirazione e il plauso vanno, quindi, a tutti gli autori e all’intera comunità cittadina che è stata in grado di credere al potere della cultura e alla sua capacità di produrre reddito e incentivazione per la conservazione delle vestigia della propria storia e per il rafforzamento dell’identità salentina e delle radici che la legano al proprio territorio . Francesco Canestrini Soprintendente Belle arti e paesaggio per le province di Lecce Brindisi e Taranto

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La parola sistema presuppone un insieme di entità fra cui esiste un tessuto relazionale. Nella specifica circostanza, il Sistema Museale di Vaste e Poggiardo è anche il risultato di aggregazioni territoriali finalizzate alla gestione integrata di uomini, cose e ambiente che ha alle spalle una visione politica ricostruibile senza eccessive difficoltà (SAC). Configurare in un sistema museale patrimonio culturale e patrimonio ambientale significa porsi al riparo da interpretazioni semplicistiche dei fenomeni del passato. Rischio, inoltre, sempre in agguato quando si tratta di pubblicazioni a carattere divulgativo. Questa Guida non è un contenitore di informazioni per turisti che attraversano più o meno consapevolmente un’area paesaggistica affascinante e molto alla moda negli ultimi anni. E’ prima di tutto il punto d’arrivo di un percorso di indagine storica e di sistematiche campagne di scavo avviate nei primi anni ottanta del secolo scorso le quali divennero presto l’occasione per istituire dialoghi a più voci tra l’Università di Lecce e altri atenei italiani e stranieri. Un punto di forza destinato a crescere durante la fase d’oro degli anni novanta, quando la Facoltà di Beni Culturali poteva contare su floridezza economica e vivacità intellettuale, mentre si formava al suo interno una folta schiera di giovani archeologi (e storici dell’arte) addestrati dentro e fuori le aule universitarie. Per tale ragione la Guida offre strumenti come piccole lezioni di metodo sulla geografia archeologica che non lascia quasi mai gli oggetti rinvenuti in astratti isolamenti museali; prediligendo un contesto di destinazione d’uso talvolta restituito attraverso i diorami (molto cari a taluni maestri della disciplina). Le diverse sezioni di cui si compone il libro rispondono ad un criterio di complessità di contenuti che pur nell’esigenza didattica di tracciare una linea diacronica delle epoche oggetto di studio, non mancano di offrire letture sincroniche e più specialistiche. Sicché il peso degli interventi degli studiosi specialisti dei singoli settori si avverte nella consistenza bibliografica che fa da corredo allo svolgimento discorsivo di un raccontare che si porta dietro il tempo degli oggetti e quello umano di archeologi e storici dell’arte. Nelle stratificazioni del passato narrato compaiono altresì pezzi di vita professionale dedicati al lavoro di ricerca mai disgiunto da una didattica universitaria intesa come alto momento di educazione e formazione. La straordinarietà del territorio di Vaste e Poggiardo, che è anche un museo diffuso, consiste tra l’altro nel far sentire, paradossalmente, proprio mentre vengono resi esperibili i risultati della passione istituzionale, il declino di una stagione di impegno civile che serpeggia ovunque nella nostra società liquida per citare Bauman non a sproposito, considerato che l’Università del Salento qualche mese fa gli ha conferito la Laurea honoris causa. Il discorso del sociologo (e filosofo) sul presente fragile, sottoposto ad un erosivo processo di precarizzazione, ci riguarda perché la ricerca storica rimane un baluardo; una cinta muraria che argina la liquefazione in atto. I parchi archeologici vanno guardati dall’alto; sovente quel che resta degli insediamenti messapici necessita di una visione d’insieme che ricomponga in uno sforzo di immaginazione post-romantico le “rovine” e i materiali di studio. Il turista in questo caso potrà beneficiare di reali e metaforici balconi e terrazze sulla storia, trasformandosi da “consumatore” frettoloso di paesaggi e opere d’arte, in “osservatore partecipe”. Cionondimeno la Guida su Vaste e Poggiardo, proprio perché nasce da una ricerca accademica, si oppone al concetto di turismo come consumo, sostituendolo a quello di viaggio con un tempo da ritrovare. Va da sé che conoscere è già un modo per tutelare e valorizzare. Questi termini tuttavia, oggi più che mai, vagano desemantizzati in cerca di un habitat istituzionale che dia tregua alle modifiche legislative. Frattanto noi preferiamo utilizzare una perifrasi: mettere in valore, che sembra indurre ad un pensiero prolungato; a deporre, con un gesto, una riflessione su cosa si fa e come lo si fa. Una sorta di metodo, insomma. Letizia Gaeta Delegata alla conoscenza, ricerca e messa in valore dei beni culturali Università del Salento

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Come Direttore del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento, non posso che esprimere tutto il mio apprezzamento per questo libro, non solo perché è l’ennesimo frutto di quella felice interazione tra il Comune di Poggiardo, la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia e il nostro Ateneo, che è operante ormai da tanti anni e che ha consentito, grazie all’impegno di tanti studiosi e studenti, e in primo luogo di Francesco D’Andria, di produrre già in passato così tanti risultati di grande rilievo scientifico e socio-culturale, che hanno ormai guadagnato al sito archeologico di Vaste un posto di primo piano negli studi sulle civiltà del Mediterraneo antico, ma anche per due altri motivi che vorrei qui brevemente sottolineare. Esso in effetti offre, sotto la forma di una guida insieme densa ed agile, curata da par suo da Giovanni Mastronuzzi, la prima concreta esposizione dei risultati straordinari di un intervento progettuale di riqualificazione e valorizzazione del sistema museale di Vaste-Poggiardo, meritoriamente finanziato dalla Regione Puglia, nell’ambito del FESR 2007-2013. Risultati che dimostrano, ove ce ne fosse bisogno, che un impiego intelligente e coraggioso delle risorse disponibili, purtroppo sempre meno abbondanti, può portare significativi contributi per la crescita del territorio, sia in termini di valorizzazione del patrimonio culturale e dunque di sviluppo dell’attrattività turistica, sia, e forse soprattutto, in termini di consapevolezza della propria identità e del proprio passato da parte delle comunità civiche. Ma c’è anche un altro motivo che mi rende orgoglioso e felice di prefare questo volume, ed è il fatto che esso ospita, nelle sue diverse sezioni, contributi di Colleghi, amici e allievi, molti dei quali hanno condiviso, o almeno accompagnato, non solo lo sviluppo straordinario delle ricerche nel territorio di Vaste-Poggiardo, a cui facevo sopra riferimento, ma anche la storia, e direi la preistoria, del Dipartimento che ho l’onore di dirigere, rappresentandone le diverse e complementari anime, da quella squisitamente archeologica, a quella storico-artistica, da quella tecnologico-scientifica a quella etno-antropologica, tutti comunque partecipi di un comune orientamento che considera l’approccio più ampio e interdisciplinare allo studio del patrimonio culturale, in sinergia con tutti gli altri soggetti interessati alla sua conoscenza, tutela e valorizzazione, come lo strumento principe per la crescita sostenibile del nostro territorio.

Mario Lombardo Direttore del Dipartimento di Beni Culturali Università del Salento

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Sono passati quasi 35 anni da quando, in una mattinata di sole del 1 novembre 1980, l’ingegnere Gianni Carluccio mi aveva convinto ad andare con lui a Vaste, nella zona dei Santi Stefani, per mostrarmi una, a suo dire, eccezionale scoperta: egli affermava di aver trovato un capitello simile a quello arcaico di Cavallino, che avevo da poco pubblicato nella Guida archeologica della Puglia, edita nella serie della Newton Compton. Devo confessare che non ero convinto dell’utilità di questa escursione, anche se Gianni insisteva che nell’esemplare di Vaste l’abaco recava, come a Cavallino appunto, una fila di rosette. Poi, in una grotticella accanto alla celebre chiesa rupestre, avevo avuto la conferma che Gianni aveva visto giusto, che si trattava davvero di un manufatto di età arcaica, che non era capitato lì per caso. In quel momento nasceva una solida amicizia e si andava in me formando la convinzione che bisognasse avviare a Vaste un sistematico programma di ricerca che portasse alla conoscenza di un insediamento messapico di età ellenistica. Dopo le esperienze di Cavallino, la cui vita si interrompeva nella prima metà del V sec. a. C., era necessario indagare un abitato indigeno che si fosse sviluppato nei secoli successivi. Fu una scelta felice, perché i dati emersi nel corso degli scavi ci hanno permesso di comprendere lo sviluppo di un insediamento salentino in un ampio periodo di tempo che include l'età romana, e poi il Medioevo, sino all’età moderna. Le attività di ricerca poterono iniziare nell’ambito della Convenzione stipulata dall’Università di Lecce con l’Ecole Française di Roma e con la Scuola Normale di Pisa, con la partecipazione di Jean-Luc Lamboley, al quale dobbiamo contributi importanti per la conoscenza di Vaste e della Messapia in età ellenistica. Seguì una serie di campagne di scavo, alcune con risultati decisivi, come nell’ottobre del 1985, quando, nel Fondo Melliche, vennero alla luce e furono oggetto di scavi sistematici il luogo di culto arcaico, con i cippi recanti iscrizioni messapiche, e la necropoli, che ancor oggi costituisce uno dei complessi funerari più interessanti nell’Italia meridionale preromana. Ricordo alcune delle più difficili giornate di lavoro, sotto la pioggia, sino a tarda sera con la luce delle fotoelettriche, per completare lo scavo e documentare il complesso sistema delle deposizioni; la notte poi ci riposavamo, si fa per dire, negli umidissimi locali della Pro Loco di Poggiardo. Penso che proprio in quella occasione, straordinaria per l’importanza e la ricchezza dei ritrovamenti, nonostante la fatica e la mancanza di ogni comodità, alcune delle mie allieve, come Grazia Semeraro, Maria Piera Caggia e Valeria Melissano, scoprirono la loro vocazione al lavoro dell’archeologia. Ed ancora, nel novembre del 1989, con Rino D’Andria, la scoperta del tesoretto di 150 stateri d’argento, prevalentemente tarentini, nel Fondo S. Antonio; tutti questi materiali furono poi presentati nella Mostra del 1990, presso il Museo Provinciale di Lecce, e nel catalogo “Archeologia dei Messapi”, pubblicato in occasione del Convegno di Studi sulla Magna Grecia che fu dedicato a queste antiche popolazioni del Salento. Negli anni più recenti vari finanziamenti del CNR, del Ministero dei Beni Culturali e di quello per lo Sviluppo Economico, della Regione Puglia attraverso i fondi europei, hanno permesso di realizzare a Vaste il Parco dei Guerrieri, con il Portale in cui si è voluto rappresentare 10

una stratigrafia muraria che racconti il succedersi delle tecniche di costruzione nella storia del nostro territorio, la copia delle sculture dell’Ipogeo delle Cariatidi, divise tra i Musei di Lecce e di Taranto, infine il Museo di Vaste. In tutto questo periodo Valeria Melissano, come responsabile del Laboratorio di Archeologia Classica dell’Università, e Giovanni Mastronuzzi, curatore di questo volume, hanno assicurato la gestione scientifica della ingente documentazione archeologica di Vaste, sia nella conduzione delle ricerche sul terreno, sia nel seguire gli studenti della Facoltà di Beni Culturali i quali, nei cantieri di scavo e sui materiali di Vaste, hanno potuto acquisire un livello eccellente di formazione sul campo, misurandosi anche con l’elaborazione di tesi dedicate ai vari complessi di reperti. Non è qui il luogo per raccontare la storia di queste ricerche che continuano ancora, come illustra il volume, e che sono presentate nel Museo di Vaste, desidero invece sottolineare come la continuità dell’impegno da parte dell’Università del Salento ed il lavoro dell’équipe che ho avuto la gioia di dirigere in questo lungo periodo di tempo, permettono ora di disporre di una ricchezza culturale straordinaria e di realizzare per Poggiardo e Vaste un Sistema Museale che ha pochi confronti nel nostro Salento. Lecce, 15 giugno 2015 Francesco D’Andria Università del Salento

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A. Palazzo baronale e Museo Archeologico B. Parco dei Guerrieri C. Portale D. Fondo Giuliano E. Chiesa rupestre Ss. Stefani F. S. Maria degli Angeli G. Arboreto didattico

Cimitero Municipio

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Poggiardo-Vaste

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Piazza Episcopo

E G D

Fondo Giuliano

C B

A

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Il palazzo baronale e il Museo Archeologico Palazzo baronale Il complesso è composto da due edifici principali, la torre e il palazzo, collegati da un tratto di cinta muraria quattrocentesca. Di particolare interesse è l’elemento più antico della fabbrica: ovvero la torre quadrangolare, isolata e su tre livelli, eretta tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo come punto di avvistamento contro i possibili assalti esterni. Il piano terra, in origine seminterrato, venne utilizzato come carcere, mentre il piano superiore, formato da un unico vano raggiungibile tramite una scala in muratura esterna e scoperta, venne destinato all’alloggio dei militari. Verso la prima metà del ‘400, intorno alla torre si aggregò un piccolo insediamento cinto da mura; in corrispondenza dell’angolo sud-occidentale venne edificata la prima residenza fortificata, costituita da un piano terra ed un primo piano collegati da una scala esterna. A partire dal 1560, Ottavio dei Falconi, barone di Vaste, fece ampliare l’edificio conferendogli l’attuale fisionomia planimetrica, come testimonia un’iscrizione in latino incisa sull’architrave della porta d’ingresso al primo piano:

RECTIUS AC STABANT AEDES OCTAVIUS AUXIT HAS SIBI ET UXORI VIVAT UTERQUE DIU “Ottavio ha ampliato questo edificio in maniera più giusta di come stava, per sé e sua moglie: l’uno e l’altra vivano a lungo”. Nella prima metà del XVII secolo il palazzo fu ulteriormente ampliato verso sud-ovest, all’esterno della cinta muraria ormai in disuso; nel 1646 i baroni Acquaviva ospitarono, in occasione della visita pastorale, il vescovo di Castro Mons. Francesco Colonna. La prima significativa descrizione del complesso risale al 1728, nell’“Apprezzo del feudo di Vaste” in allegato all’atto di vendita del complesso da parte della Regia Corte al barone Ippazio De Marco nel 1747. Dal documento si evince come, con l’aggiunta del loggiato a destra dell’ingresso al borgo, l’edificio acquisti la fisionomia definitiva e attuale. Nel 1814 Girolamo De Marco, ultimo barone di Vaste, vendette alla famiglia Mauro metà del palazzo, mentre la restante parte fu ceduta alla famiglia Guarini nel 1816. Nel 1888, Pasquale Episcopo di Poggiardo acquistò la struttura e diede l’avvio ad un corposo restauro. Nel 1902, per evitare il crollo della parte angolare verso sud, venne realizzato il contrafforte tuttora visibile. Nel 1941 il palazzo baronale cambiò ancora una volta proprietario, divenendo patrimonio della banca Vincenzo Tamborino di Maglie. Nel successivo cinquantennio l’edificio fu completamente abbandonato e iniziò una lunga fase di degrado e incuria, fino a quando, nel 1985, l’amministrazione comunale decise di acquistarlo. La struttura, nel frattempo, versava ormai in pessime condizioni di manutenzione e di conservazione, con parti completamente crollate e diffusi dissesti statici, 17

nonché priva di impianti e pavimenti. Iniziarono così i laboriosi interventi di restauro, finanziati di volta in volta con fondi comunali, statali, provinciali e privati, per restituire al complesso l’antico splendore. Attualmente risulta composto da tre piani: il piano terra composto da 6 vani, il primo piano con 14 ambienti ed il secondo piano composto da un unico vano (il piano superiore della torre). L’edificio è destinato a sede di iniziative culturali fin dal 1997, da quando fu inaugurata la mostra archeologica “Dalle terre di Vaste. Storie di Messapi, Romani e Bizantini”; attualmente è sede del Museo Archeologico. Fabiola Malinconico Nota Per la storia dell’edificio si veda S. Rausa, Vaste in età moderna, Lecce 2001, pp. 275-288.

Museo Archeologico Il Museo Archeologico di Vaste è ospitato nel palazzo baronale, una residenza che comprende diversi elementi, edificati e collegati tra loro in un lungo periodo di tempo che va dal XIV al XVIII secolo. Alle sale dell’esposizione si accede dall’ingresso su Piazza Dante. Il visitatore è accolto da una gigantografia che rappresenta uno degli elementi maggiormente caratteristici del paesaggio dell’antica Messapia: la cinta muraria di Vaste. Ideata da Francesco D’Andria e realizzata dallo studio di illustrazione InkLink di Firenze, essa rappresenta il settore del circuito murario adiacente alla porta est, illustrato nel momento in cui un sisma ne determinò il crollo nel corso della prima metà del III sec. a.C.: il terremoto è documentato su basi storiche ed archeosismologiche. Appena a sinistra si possono ammirare due vasi provenienti dalla necropoli della città messapica del IV sec. a.C.: un cratere a figure rosse ed una trozzella. Il cratere è il contenitore che anticamente veniva usato per miscelare il vino con l’acqua. Presso le popolazioni indigene della Puglia si riscontra il suo impiego come elemento principale del corredo funerario degli uomini adulti: solo ad essi, infatti, era permesso consumare la preziosa bevanda. L’esemplare esposto costituisce l’opera da cui convenzionalmente prende il nome il Pittore di Vaste. La scena rappresenta un uomo tra due donne, all’inseguimento di una di esse, ed è forse simbolica del matrimonio. La trozzella è il vaso tipico della civiltà messapica; solitamente veniva deposta all’interno delle tombe femminili. Essa era usata come contenitore di acqua e indicava il ruolo della donna come responsabile delle attività domestiche e dei beni della famiglia. L’esemplare esposto presenta una ricca decorazione con elementi vegetali e geometrici. Di fronte all’ingresso si apre la prima sala, allestita con la ricostruzione in legno di una parte dell’Ipogeo delle Cariatidi, realizzata a grandezza naturale, conforme allo stile dello scultore contemporaneo Mario Ceroli: due figure femminili sostengono un architrave con fregio di eroti che guidano carri trainati da leoni. Le sculture originali, attualmente esposte nei Musei di Taranto e Lecce, decoravano la facciata di una grande tomba con due celle funerarie risalente al III sec. a.C. 18

Attraverso l’apertura definita dalle Cariatidi si accede ad una sorta di camera sepolcrale in cui sono allestite due tombe esattamente come sono state rinvenute nel corso degli scavi condotti nel 1985 dall’Università di Lecce. La “Tomba del Cavaliere”, così chiamata per la presenza di uno sperone in bronzo, risale al 430 ca. a.C. e contiene un cratere di produzione ateniese con figura di Dioniso; la “Tomba dell’Atleta”, degli inizi del IV sec. a.C., prende il nome dagli strigili, gli utensili usati per l’igiene del corpo dopo le gare. I preziosi vasi destinati al banchetto, come i crateri figurati ed il bacile in bronzo proveniente dall’Etruria, sono indicativi dell’estrazione aristocratica dei defunti. La sala successiva è dedicata ad una tipologia di monumenti particolarmente diffusa nel Salento meridionale in età arcaica: i cippi monolitici in pietra leccese. Essi segnavano fortemente il paesaggio rurale, in quanto collegati alla presenza di piccoli luoghi di culto. Recinti sacri all’aperto erano destinati a cerimonie religiose per invocare la fertilità dei campi e, a Vaste, formavano un vero e proprio anello protettivo intorno all’abitato: al loro interno, presso i cippi o le colonne votive, visibili nella sala, venivano versate offerte di vino e acqua e deposti i resti dei sacrifici di caprovini. All’interno di una ricostruzione in legno è inglobato un blocco in pietra calcarea con fregio a motivi vegetali che svolgeva funzione di coronamento di una delle strutture di recinzione. Nell’allestimento, inoltre, è stata inclusa l’esatta ricostruzione del contesto riportato alla luce nel Fondo Melliche, un’area alla periferia nord dell’abitato. In questa zona, nel medesimo punto successivamente occupato da una necropoli gentilizia, il luogo di culto in

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uso tra il 550 ed il 480 a.C. era costituito da un grande recinto in cui erano sistemati i cippi e, davanti ad essi, si deponevano i vasi usati per offrire le libagioni ed i resti dei sacrifici; in alcuni casi le iscrizioni graffite sui manufatti conservano il nome del dedicante. Un’altra ricostruzione in legno suggerisce il confronto con le architetture del IV-III sec. a.C. In un grande setto murario è inserito un blocco decorato da fregio dorico a metope e triglifi: esso è stato rinvenuto inglobato in murature di epoca moderna dello stesso palazzo baronale ed in origine doveva appartenere ad una residenza nobiliare messapica, collocata in una zona centrale dell’insediamento antico, nei pressi di Piazza Dante. Nel Salento, sono noti anche altri esempi di decorazione architettonica di residenze private, mentre, fino ad ora, risultano quasi del tutto assenti le testimonianze di una architettura templare di tipo greco con la significativa eccezione rappresentata dai recenti ritrovamenti nell’area del santuario di Atena presso le mura di Castro. L’esposizione archeologica continua al piano superiore del palazzo baronale; vi si accede dall’ingresso posto nell’area retrostante, prospiciente un antico giardino adibito ad aranceto. Una prima sala è allestita come settore di consultazione, con postazioni PC per la navigazione in archivi e risorse WEB attinenti all’archeologia della Puglia. Nel grande ambiente che segue viene proposto un quadro della vita e delle trasformazioni dell’insediamento nelle principali fasi dell’antichità. I reperti qui presentati appartengono alle manifestazioni della vita quotidiana nel periodo compreso tra l’età del Ferro (IX sec. a.C.) e la tarda età romana (VI sec. d.C.). Sebbene le più antiche tracce dell’occupazione del territorio di Vaste e Poggiardo risalgano alla tarda età del Bronzo (XI-X sec. a.C.), è solo a partire dal IX sec. a.C. che si riconoscono le strutture dell’insediamento a capanne, protetto da un terrapieno di fortificazione. Nelle abitazioni e nel luogo di culto identificato alla periferia settentrionale del villaggio venivano usati i vasi di produzione locale realizzati a mano, senza l’impiego del tornio, in argilla grezza (impasto) o depurata con decorazione geometrica dipinta. Insieme ad essi è documentata la presenza di vasellame importato dalla Grecia, in particolare da Corinto, destinato al consumo del vino (coppe, boccaletti, brocche, crateri). Ad una produzione corinzia appartiene anche un bellissimo esemplare di fibula ad occhiali (spilla per abiti) ricavata da un palco di cervo. Viene illustrata un’ampia selezione di ceramiche da mensa e di anfore commerciali provenienti dagli scarichi dell’abitato del IV-III sec. a.C. Questo periodo cronologico rappresenta il momento meglio conosciuto della storia di Vaste. L’abitato si estendeva per quasi 80 ettari ed era circondato da possenti mura di fortificazione. I quartieri di abitazioni si distribuivano intorno all’area di Piazza Dante. Le ceramiche pregiate erano costituite dai vasi a vernice nera, per lo più coppe e piatti; le altre forme sono attestate nelle produzioni locali prive di rivestimento o con decorazione geometrica e vegetale. Di particolare rilievo è una matrice in pietra destinata a riprodurre figure femminili portatrici di cesto, in stucco. Sul fondo della sala è presente un diorama con rappresentazione di una scena di sacrificio in occasione della partenza dei guerrieri: nel corso del III sec. a.C. il Salento viene profondamente segnato da eventi bellici, destinati a modificarne gli assetti. Nel 267-266 a.C. i 20

Romani completano la conquista della Puglia; pochi anni più tardi la regione costituisce uno dei principali scenari della guerra contro Annibale. A causa di questi eventi l’abitato di Vaste subisce un notevole ridimensionamento, concentrandosi nella zona dell’attuale centro storico. Dai riempimenti di cisterne abbandonate provengono le ceramiche fini a pasta grigia del II e I sec. a.C. A partire dal I sec. d.C. si diffondono le ceramiche sigillate con rivestimento di colore rosso, talora con decorazione figurata applicata. Le più antiche attestazioni si riferiscono a produzioni italiche e, in particolare, della zona di Arezzo; successivamente si rinvengono vasi di produzione orientale (odierna Turchia) e nordafricana (area della Tunisia). Un oggetto di particolare pregio è la lucerna del II sec. d.C. decorata con teste a rilievo e firmata dall’artigiano greco Epagathos.

Sulla destra della grande sala la visita prosegue con un settore dedicato all’esposizione di reperti provenienti dalle necropoli messapiche di Vaste. Agli inizi del ‘900 risalgono il ritrovamento di una sepoltura tardoarcaica (520-470 a.C.) ed il recupero di due complessi di vasi. A partire dagli anni ‘80 del secolo scorso l’Università di Lecce ha avviato un programma di indagini sistematiche che ha riguardato l’area cimiteriale nel Fondo Melliche, usata dalla metà del V sec. a.C. agli inizi del III sec. a.C. da una famiglia aristocratica, ed altri settori a destinazione funeraria all’interno dell’abitato ed in prossimità delle porte urbiche Est e Nord-Est. Sono documentati sarcofagi monolitici e tombe a cassa, costruite e coperte con lastre di pietra calcarea. Le tombe maschili sono caratterizzate dalla presenza del cratere ed anche di elementi 21

dell’armatura, come i cinturoni in lamina di bronzo con ganci a testa di serpente, e parti dell’elmo. Nelle tombe femminili prevalgono oggetti estremamente significativi, come la trozzella, i contenitori per unguenti (lekythoi) e le statuette. Le sepolture dei bambini sono contraddistinte da vasi miniaturizzati. Frequentemente è documentato il riuso delle tombe: nella terra, accanto alle lastre delle fiancate, sono ricavate piccole fosse in cui venivano sistemati i resti scheletrici e gli oggetti di corredo nel momento in cui la struttura era allestita per una nuova deposizione. Il rituale funerario viene illustrato in un plastico animato, basato sull’analisi dei dati archeologici. Una piccola sala è riservata all’esposizione del tesoretto di 150 stateri d’argento, rinvenuto nel 1989 nell’area del quartiere abitativo del Fondo S. Antonio: grazie ad una teca realizzata appositamente è possibile osservare le monete su entrambi i lati; inoltre è esposto il vaso di bronzo (olpe) all’interno del quale era stato compresso il gruzzolo. 142 monete appartengono alla zecca di Tarentum, 7 a quella di Heraclea ed una a quella di Thurium; esse vengono datate su base numismatica tra il 281 ed il 235 a.C. Le condizioni del ritrovamento autorizzano l’ipotesi che il ripostiglio sia stato nascosto dai proprietari della vicina residen22

za nobiliare in occasione di pericolose circostanze verificatesi durante la conquista romana. Il percorso continua con una sala dedicata al luogo di culto riportato alla luce nel 1999 in Piazza Dante, proprio nell’area antistante il Museo: nell’impossibilità di lasciare aperto lo scavo archeologico, sulla pavimentazione della piazza, sono state riprodotte la forma e la posizione delle principali strutture rinvenute. L’area sacra comprendeva due recinti affiancati con focolari. In prossimità di essi si aprivano tre cavità ipogeiche: due erano destinate alla deposizione di offerte votive costituite da vasi miniaturistici, brocchette, coppette, piattelli, tazze e contenitori di oli profumati, mentre la più grande era utilizzata per compiere riti religiosi, comprendenti le libagioni ed il sacrificio di maialini. Una testa femminile in pietra calcarea, con resti di decorazione policroma restituisce l’immagine della divinità a cui era dedicato il piccolo santuario; alcuni manufatti riportano il nome messapico Oxxo. Una lastra forata fungeva da altare per il sacrificio dei cani tramite sgozzamento: in tal modo il sangue fluiva direttamente verso le divinità sotterranee. La grande quantità e la varietà dei dati archeologici hanno permesso di realizzare ricostruzioni grafiche, video ed un plastico che integrano la presentazione dei reperti. Il tema dei culti nell’insediamento messapico viene sviluppato anche nella sala successiva. Alla periferia nord dell’abitato ellenistico, sono stati identificati due diversi edifici costituiti da recinti affiancati, privi di copertura, con altari e focolari, che si datano tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C. In un caso è particolarmente significativa l’offerta di un vaso miniaturistico contenente tre monete di argento, mentre colli di anfore venivano usati per trasmettere le offerte di liquidi nel sottosuolo; nell’altro caso il complesso era caratterizzato dalla presenza di cippi-pilastri e louteria (bacini per abluzioni). Tra gli altri materiali provenienti da depositi votivi si segnala un gruppo di utensili in ferro che identifica l’offerente come guerriero ed agricoltore; inoltre, nel Fondo Lucernara, una lastra con doppia iscrizione dedicatoria apparteneva alla delimitazione di un’area sacra. Sebbene per tutta la fase romana l’abitato di Vaste abbia restituito scarsi resti monumen23

tali o comunque riferibili a strutture di abitazione, alla seconda metà del II sec. a.C. appartiene il più consistente nucleo di tessere da gioco mai rinvenuto in tutto il mondo romano. Provenienti dal riempimento di una cisterna in disuso, esse appartenevano ad un divertimento di incerta ricostruzione: si può ipotizzare una forma di estrazione vista l’associazione tra numeri e appellativi (ingiuriosi per i numeri bassi, elogiativi per quelli alti), oppure una specie di percorso assimilabile al gioco dell’oca. Nella tarda età romana Vaste restituisce una straordinaria testimonianza della diffusione del Cristianesimo. Probabilmente già entro la fine del IV secolo, a 2 km dall’abitato attuale, sorge una chiesa collegata al culto delle reliquie di un martire (martyrium), forse S. Stefano; intorno ad esso si sviluppa un’estesa necropoli rupestre. L’esposizione presenta alcuni dei corredi funerari che comprendono alcune oreficerie e preservano anche consuetudini di tradizione pagana, come la deposizione delle monete, obolo per Caronte. La chiesa viene successivamente ampliata dopo la guerra grecogotica (535-553 d.C.) e poi ancora modificata nel IX secolo. Una ricostruzione video ed un plastico accompagnano la lettura del complesso archeologico. L’ultima sala ospita una serie di testimonianze relative alla vita di Vaste in epoca medievale e moderna. Esse sono state recuperate soprattutto grazie ad interventi di archeologia urbana condotti in occasione della realizzazione di sottoservizi. E’ stato ricostruito un grande scarico del XIV secolo con vasellame, utensili, scorie di metalli e resti di pasto; esso comprendeva anche piatti effigiati con gli stemmi policromi delle famiglie dei proprietari. 24

La sua composizione, nonché la sua ubicazione, a poca distanza dal palazzo baronale di Piazza Dante, autorizzano ad ipotizzare che si tratti di un vero e proprio immondezzaio collegato alla residenza nobiliare. Da altri scarichi simili rinvenuti in Piazza Dante ed in Via Principe Umberto provengono materiali risalenti al ‘500 come la ceramica graffita policroma di produzione locale.



Giovanni Mastronuzzi

Nota La maggior parte dei materiali presenti nel Museo di Vaste proviene dalle ricerche sistematiche condotte dall’Università di Lecce sotto la direzione del prof. Francesco D’Andria; essi furono presentati in occasione di una grande mostra sulla civiltà messapica allestita nel Museo Provinciale di Lecce “Sigismondo Castromediano” nel 1990 (F. D’Andria (a cura di), Archeologia dei Messapi, Bari 1990, pp. 49-189). Successivamente nel 1997, il palazzo baronale accolse una prima esposizione temporanea di reperti per la mostra “Dalle Terre di Vaste. Storie di Messapi, Romani e Bizantini”, a cura di Francesco D'Andria. Sull’architettura messapica: T. Ismaelli, Un timpano “a triglifo” da Castro. Alcune osservazioni sull’architettura dorica in Messapia, in F. D’Andria (a cura di), Castrum Minervae, Galatina 2009, pp. 215-261. Sul luogo di culto dell’età del Ferro: F. D’Andria, Il Salento nella prima Età del Ferro (IX –VII sec. a.C.): insediamenti e contesti, in Atti del Convegno Internazionale di Studi sulla Magna Grecia L, Taranto 2012, pp. 551-592. Su Vaste in età romana: V. Melissano, G. Mastronuzzi, Contesti e materiali di età imperiale a Vaste, nel Salento, in C.S. Fioriello (a cura di), Ceramica romana nella Puglia adriatica, Bari 2012, pp. 155-177. Per il luogo di culto di Piazza Dante: G. Mastronuzzi, P. Ciuchini, Offerings and rituals in a Messapian holy place: Vaste, Piazza Dante (Puglia, Southern Italy), in World Archaeology 43:4, 2011, pp. 676-701 (con bibl. prec.). Per le tesserae lusoriae: L. Campagna, Cisterne e buca di scarico di età repubblicana a Vaste (LE), scavi di Fondo S. Antonio, in Studi di Antichità 8, 2, 1995, pp. 215-288. Il diorama con scena di sacrificio e partenza dei guerrieri è stato ideato da Francesco D’Andria e realizzato da Francesco Narracci; esso si ispira alle raffigurazioni presenti sulle ceramiche a figure rosse prodotte in Italia meridionale nel IV sec. a.C., nonché alla decorazione delle tombe di Paestum. Il plastico del rituale funerario, la scena di culto e il plastico della chiesa sono opera dell’arch. F. Ghio. Ricostruzioni grafiche: ideazione F. D’Andria, realizzazione InkLink-Firenze; video luogo di culto messapico: ideazione F. D’Andria, realizzazione studio No Real - Torino; video chiesa paleocristiana ideazione F. D’Andria, realizzazione arch. F. Gabellone (CNR - IBAM, Lecce).

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Il Parco dei Guerrieri Il Parco dei Guerrieri di Vaste è stato istituito nel 2002, in seguito all’acquisizione da parte del Comune di Poggiardo di alcune decine di ettari di terreno su cui si estendeva l’antico insediamento di Vaste, Baῦsta in greco, Basta in latino. Nel periodo compreso tra il IV ed il III sec. a.C. l’abitato messapico era munito di una cinta muraria lunga 3,380 km che delimitava un’area di ca. 78 ha. In realtà lo spazio compreso all’interno delle fortificazioni non era interamente occupato dalle abitazioni, ma queste si concentravano nella zona centrale, in buona parte corrispondente all’abitato attuale. Ampie superfici erano destinate alle attività artigianali, all’agricoltura ed anche ad accogliere il bestiame; all’interno ed all’esterno delle mura si distribuivano le aree di necropoli. Il Parco dei Guerrieri è nato dall’esigenza di fissare il ricordo del grande circuito murario profondamente danneggiato dalle arature e dagli spietramenti compiuti fino all’avvio delle ricerche sistematiche negli anni ’80 del secolo scorso. Lungo tutto il perimetro fortificato sono stati effettuati scavi in estensione, sondaggi, ricognizioni e rilievi che hanno permesso di ricostruire l’esatto andamento della struttura; a tali operazioni è seguita una intensa campagna di restauri. Nei tratti in cui le mura erano conservate in maniera meno consistente, risultando di difficile lettura anche per gli archeologi, il percorso è stato ricalcato da una lunga duna: in tal modo la funzione di proteggere le strutture sottostanti va di pari passo con l’opportunità di segnare la presenza delle fortificazioni, altrimenti difficilmente percepibile. La duna conserva alla base lo spessore medio delle fortificazioni messapiche, pari a 4 m ca., mentre in altezza si è potuta restituire solo una frazione dell’elevato che si spingeva fino a 6 m. A ricordo delle guarnigioni che affollavano gli spalti in occasione delle operazioni belliche condotte dalle legioni romane tra il 267 e il 266 a.C., alcuni guerrieri popolano ancora la linea di difesa della città messapica. Si tratta di modelli realizzati a grandezza naturale in lamina di ferro, ad opera dello scultore salentino Ferruccio Zilli: le sagome riprendono le raffigurazioni diffuse sui vasi italioti ed apuli a figure rosse del IV sec. a.C. La visita del Parco può essere effettuata a partire dal Portale, lungo la SP 363, o da Piazza Dante, il cuore dell’abitato moder27

no, dove il palazzo baronale ospita il Museo Archeologico, o anche dall’area dei Ss. Stefani, dove si possono ammirare la chiesa rupestre ed il vicino complesso paleocristiano di Fondo Giuliano. Dalle aree attrezzate per accogliere i visitatori si sviluppano oltre 3 km di percorsi ciclo-pedonali. A ca. 150 m ad est del Portale, proprio a ridosso della strada vicinale Melliche, si conserva la porta urbica settentrionale della città messapica, posta sulla strada che conduce a Muro Leccese, l’insediamento principale del comprensorio di Otranto nell’antichità. Qui, come in tutto il circuito murario, si riconoscono elementi relativi a tre fasi costruttive. Tra il 350 ed il 300 a.C. si datano due cortine, sfalsate, realizzate con pietrame irregolare messo in opera a secco e rinforzato da un paramento in blocchi sui lati del varco d’accesso; sul lato est si conserva l’incasso per il battente della porta e, più a sud, è presente un piccolo vano rettangolare, forse sede del posto di guardia. Verso la fine del IV sec. a.C. venne costruito un nuovo rivestimento di blocchi accuratamente squadrati, posti di testa sul fronte esterno e di taglio lungo il corridoio di ingresso. Un ulteriore rinforzo della struttura avvenne nella prima metà del III sec. a.C., quando blocchi di forma e dimensioni irregolari furono messi in opera di testa sui fronti esterni delle due cortine, determinando l’avanzamento della cortina est rispetto a quella ovest; in realtà della cortina orientale si è conservata solo la traccia in negativo. Procedendo in direzione sud, per ca. 150 m si segue l’antica strada che portava verso il cuore della città messapica, raggiungendo l’area dove, in corrispondenza di un’ampia curva, gli scavi del 1985 hanno riportato alla luce un luogo di culto a cippi del 550-480 a.C., a cui si sovrappone una necropoli a tumulo, in uso fino agli inizi del III sec. a.C. L’area sacra comprendeva un recinto ed alcuni cippi in calcare, incassati in basi di arenaria di forma rettangolare, o infissi direttamente nel terreno. Alcuni, attualmente esposti nel Museo, recano decorazioni geometriche incise, mentre altri sono iscritti con nomi messapici al genitivo, riferibili alle persone dei dedicanti. Nelle aree antistanti i cippi, protette da balaustre in pietra leccese decorate da scanalature, sono stati rinvenuti resti dei sacrifici di capretti e vasi usati per le libagioni di vino (coppe, brocchette e crateri). Nel complesso cultuale si svolgevano cerimonie connesse con l’agricoltura, nel corso delle quali venivano effettuati riti propiziatori della fertilità. Tornati sulla strada vicinale Melliche il percorso di visita costeggia un lungo muro a secco 28

di età moderna, in parte sovrapposto al tracciato murario antico, per poi piegare, prima leggermente, e poi nettamente, a sud, verso la porta urbica nord-est: qui sono posizionate le sagome degli antichi guerrieri, armati di lancia e protetti da scudo circolare ed elmo conico a pileo. Della porta si conservano le tracce in negativo sul banco di roccia: il varco di accesso è posto al vertice di un angolo acuto formato dalle cortine nord ed est. Ad una prima fase costruttiva (350-300 ca. a.C.) appartiene l’opera realizzata con pietrame non squadrato di varia pezzatura, messo in opera a secco; il rifacimento degli inizi del III secolo è documentato da un rivestimento a grandi blocchi squadrati, posti di testa nel livello di fondazione e di taglio nel primo filare dell’elevato. Un prezioso elemento per la datazione della fortificazione è rappresentato dal fatto che il rivestimento della seconda fase si sovrappone a due tombe a fossa, scavate nel banco roccioso, i cui corredi, esposti nel Museo, sono databili tra il 310 ed il 290 a.C. Il percorso costeggia ancora le antiche fortificazioni, a cui si sovrappone un muro a secco moderno, per ca. 250 m, fino a giungere alla porta est, attraversata dalla strada che conduceva sul mare Adriatico. Anche in questo tratto le mura di prima fase (seconda metà del IV sec. a.C.) sono costituite da una struttura a secco, con paramenti di pietre di grandi dimensioni, e riempimento di pietrame misto a terra. Lungo il lato nord-ovest del corridoio di accesso è presente un ambiente quadrangolare, interpretato come posto di guardia. Sul filo esterno del muro di prima fase viene appoggiata una nuova fodera di blocchi squadrati tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C.; essi sono messi in opera a secco, posizionati di testa in fondazione e prevalentemente di taglio nell’elevato che si conserva per quattro filari. Con questo rifacimento probabilmente viene chiuso l’accesso al posto di guardia. Nella prima metà del III sec. a.C. in corrispondenza del fianco ovest della porta, viene realizzato un antemurale terminante in un piccolo bastione

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Carta archeologica dell'insediamento messapico di Vaste nel IV e III sec. a.C.

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Fondo S. Antonio

Porta nord

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quasi quadrato: costruita in maniera affrettata, con blocchi poco regolari, la struttura serviva ad impedire l’avvicinamento alla città di macchine da assedio, proteggendo anche un percorso stradale esterno alle mura. A breve distanza dalla porta in una grande area di scavo è stata riportata alla luce una porzione della fortificazione in cui gli elementi si conservano in crollo: un’attenta valutazione della posizione dei blocchi porta a mettere in relazione la distruzione delle mura con un evento sismico verificatosi nel corso della prima metà del III sec. a.C. Più oltre il circuito murario si segue ancora per ca. 300 m, fino alla Via Altipiani. Qui il percorso di visita continua all’interno dell’abitato, fino a raggiungere Piazza Dante: oggi come in passato essa corrispondeva al centro della città messapica. Sulla pavimentazione si leggono la forma e l’esatta collocazione delle strutture archeologiche individuate nella campagna di scavo del 1999. A partire dalla seconda metà del VI sec. a.C. l’area fu identificata come spazio sacro e delimitata da un grande muro di pietre informi; coppe per libagioni e resti di sacrificio documentano la prima fase di uso cultuale. Il principale periodo di frequentazione del luogo di culto si colloca tra la fine del IV e la prima metà del III sec. a.C. Una coppia di recinti affiancati, probabilmente scoperti, viene addossata al muro arcaico; al loro interno erano sistemati focolari e piani di cottura, mentre nello spazio ad essi antistante, si trovano tre ambienti ipogeici scavati nella roccia. Essi presentano imboccatura circolare o ellittica, regolarizzata con blocchi o lastre in pietra leccese; hanno sezione a campana e fondo leggermente concavo, a pianta circolare. La cavità maggiore misura ca. 3 m di larghezza, per 3 m di profondità; inoltre, alla base di un’altra fenditura della roccia, comunicante con essa, è posta una lastra in pietra leccese forata, con funzione di altare. Essa era destinata alla celebrazione di riti rivolti ad una divinità protettrice dell’agricoltura, assimilabile alla greca Demetra: la testa di una statua in pietra con policromia ne conserva l’immagine. Le altre ca32

vità più piccole avevano invece la funzione di accogliere le deposizioni votive composte dalla suppellettile utilizzata nel corso delle cerimonie che includevano il sacrificio, la preparazione e la consumazione di pasti rituali. Intorno all’area di Piazza Dante si distribuivano i quartieri di abitazione; il nucleo delle residenze principali era incluso in un perimetro fortificato, rinvenuto lungo Via Enrico Toti, ma attualmente non visibile, che delimitava il cuore dell’insediamento. Le unità abitative si affacciavano su una rete irregolare di strade impostate secondo la morfologia del terreno. A soli 100 m dalla piazza, nel Fondo S. Antonio è stato identificato un quartiere dominato dalla presenza di un grande edificio, con pianta “ad elle”. Esso comprende vari ambienti per una superficie coperta complessiva di 750 mq. Sul lato rivolto verso la piana di Poggiardo, la struttura è completata da un lungo porticato affacciato su un’area con cisterne per la raccolta dell’acqua piovana: in prossimità di una di esse fu rinvenuto il tesoretto di 150 monete d’argento, esposto nel Museo. L’edificio “ad elle”, inoltre, delimita un grande cortile di ca. 500 mq con focolare per la cottura dei cibi e pozzetto sacrificale: tali elementi si ricollegano a forme cerimoniali connesse con la funzione di residenza di un gruppo famigliare aristocratico. Le altre case scavate nella stessa area presentano dimensioni inferiori ai 300 mq e gli ambienti di abitazione si dispongono intorno a piccoli cortili. Caratteristica importante di questo come di altri insediamenti messapici era l’alternarsi di spazi residenziali ad aree a destinazione cimiteriale. Grandi tombe a fossa rivestite da lastre di pietra leccese sono state rinvenute nell’area dell’Asilo, lungo Via Alessandro Manzoni, e nei pressi della Cappella della Confraternita, dove si trovava anche l’Ipogeo delle Cariatidi. Purtroppo solo pochissime sepolture sono giunte sino a noi intatte, con deposizione e corredo. Tornando verso il Portale è possibile visitare anche alcuni tratti delle fortificazioni sul lato ovest dell’insediamento. In particolare lungo Via Eugenio Rubichi e presso l’angolo con Via 33

Italo Calvino, si conservano alcuni resti del muro a secco di prima fase (seconda metà del IV sec. a.C.), mentre è ben documentato il rifacimento della fine del IV - inizi del III sec. a.C. con il paramento a blocchi squadrati conservato in fondazione e nel primo filare dell’elevato. La terza fase costruttiva è riconoscibile in un ulteriore rivestimento di blocchi ed in una struttura antemurale posta a protezione di un percorso stradale extramuraneo. La porta ovest dell’insediamento è stata messa in luce in corrispondenza della Via Monte Li Gatti, ma non è attualmente visibile; infine a ridosso della SP 363 è stato ricostruito un breve tratto delle fortificazioni. Anche una quinta porta urbica, quella sud, da cui si raggiungeva Castro, non è attualmente visibile; essa è stata rinvenuta presso la Via Enrico Toti. Giovanni Mastronuzzi

Nota “VASTE. Parco dei Guerrieri”, finanziamento POR Puglia 2000-2006, Mis. 2.1, Responsabile Scientifico: Francesco D’Andria, Committente: Comune di Poggiardo (LE): si veda F. D’Andria, Il ruolo dell’Università nel sistema della tutela, in G. Volpe, M.J. Strazzulla, D. Leone (a cura di), Storia e archeologia della Daunia. In ricordo di Marina Mazzei, Atti delle Giornate di Studio, 2005, Bari 2008, pp. 437-445. Le ricerche archeologiche sistematiche a Vaste sono state avviate agli inizi degli anni ’80, sotto la direzione del prof. Francesco D’Andria, nel quadro di una collaborazione tra Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia, Università degli Studi di Lecce, Ecole Française de Rome, Scuola Normale Superiore di Pisa, anche grazie alle segnalazioni dell’ing. Gianni Carluccio autore della prima carta archeologica dell’insediamento (G. Carluccio, La carta archeologica di Vaste, in Studi di Antichità 2, 1981, pp. 87-107). Agli scavi condotti inizialmente nell’ambito del Cantiere Scuola di Archeologia si sono successivamente affiancate anche indagini preventive nell’ambito di una stretta collaborazione con l’Amministrazione Comunale di Poggiardo. Per una presentazione dell’attività di Ferruccio Zilli: http://www.laterradimezzo.org/ferrucciozilli/ . Un’ampia illustrazione dell’abitato messapico di Vaste è in F. D’Andria (a cura di), Archeologia dei Messapi, Bari 1990, pp. 49-189; F. D’Andria, s.v. Vaste, in Enciclopedia dell’Arte Antica, Classica e Orientale, II s. (1971-1994), Roma 1997, pp. 951-954; per la storia delle ricerche archeologiche si veda: G. Carluccio, G. Mastronuzzi, V. Melissano, s.v. Vaste, in Bibliografia Topografica della Colonizzazione Greca in Italia e nelle isole tirreniche, XXI, Pisa - Roma - Napoli 2012, pp. 534-552; negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso le indagini sulle mura di Vaste sono state coordinate da J.-L. Lamboley (da ultimo J.-L. Lamboley, Fortifications messapiennes et “condottieri”: étude de deux exemples, in Atti del Convegno Internazionale di Studi sulla Magna Grecia XLIII, Taranto 2004, pp. 633-660, con bibl. prec.). Per il luogo di culto di Piazza Dante: G. Mastronuzzi, P. Ciuchini, Offerings and rituals in a Messapian holy place: Vaste, Piazza Dante (Puglia, Southern Italy), in World Archaeology 43:4, 2011, pp. 676-701 (con bibl. prec.).

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Il Portale del Parco Il progetto per il Portale del Parco dei Guerrieri di Vaste ha inteso rispondere a due quesiti fondamentali: come si può risolvere il nodo dell’accesso alle aree archeologiche? cosa si può fare per comunicare al visitatore il fascino dello scavo archeologico? Con il portale si è cercato di attuare la ricucitura tra la città antica e quella moderna, di cogliere l’occasione per celebrare la centralità del dato archeologico nelle dinamiche di sviluppo urbanistico del territorio ed anche di segnare metaforicamente, nella forma e nella composizione, la Porta d’ingresso alla città e l’avvio dell’itinerario di visita seguendo il tracciato delle fortificazioni. Questo corrisponde non tanto al vero e proprio ingresso fisico, ma soprattutto a quello mentale che guidi il visitatore verso la conoscenza delle rovine antiche. Per tradizione i sistemi di accesso alle aree archeologiche, quando esistono, sono spesso inadeguati. Non si capisce mai quali siano gli ingressi e i parcheggi ed i visitatori sono catapultati nella città antica senza sapere bene come e perché. Si è pensato allora che qui, all’entrata, si giocasse la partita del “buono” spettacolo dell’archeologia. In questa zona si sono collocati tutti i servizi di accoglienza (biglietteria, centro informazioni, parcheggi, ecc.) costruendo una struttura che introducesse alla visita della città antica invitando i visitatori a percorrere un circuito circolare, coincidente con il tracciato delle mura messapiche di Vaste. Da un punto di vista architettonico, il progetto per il portale è stato pensato fin dall’inizio come un intervento che potesse “assimilare” i caratteri del luogo e le specificità delle tecniche e dei materiali costruttivi tradizionali. Si è quindi cercato di dare enfasi al tema delle mura di fortificazione come riproposizione fisica di un tratto delle stesse, traslate rispetto al percorso autentico. D’altra parte la presenza della strada provinciale ha favorito l’idea della monu35

mentalità per richiamare l’attenzione dei turisti. Il corpo di fabbrica, leggermente curvo, si sviluppa su due piani oltre alla terrazza belvedere sul Parco. Misura una lunghezza complessiva di 19 m per una larghezza di 4,5 m (scala esclusa) ed una altezza di 6,50 m. La galleria d’ingresso viene inquadrata da una cornice in cemento faccia a vista; “squarcio” che permette di accedere al Parco ed al giardino retrostante nel quale i setti che contrastano la scala sono usati come quinte per proiezioni o esposizioni all’aperto. La distribuzione verticale avviene tramite una scala esterna posta sulla facciata posteriore dell’edificio. L’intervento, realizzato in stretta collaborazione e con i preziosi suggerimenti di Francesco D’Andria, responsabile scientifico del progetto, rappresenta volutamente il riferimento alle mura di fortificazione riprendendone le dimensioni e la forma sulla base dei dati scientifici restituiti dalla ricerca archeologica. Tuttavia l’edificio è traslato di ca. 50 m dal tracciato delle mura. La scala a giorno sul retro riprende le scale del percorso di ronda delle mura ellenistiche e permette di raggiungere la terrazza per osservare il paesaggio archeologico circostante. La facciata presenta tre tecniche costruttive. In basso la struttura a blocchi squadrati tipica delle fortificazioni messapiche (IV-III sec. a.C.); in mezzo la struttura di età medievale realizzata con materiali di riutilizzo come pietre di dimensioni diverse, tegole, blocchi scolpiti; in alto la struttura a blocchetti rettangolari tipica delle fortificazioni che vengono costruite nel Salento da aragonesi e spagnoli tra il XVI e il XVII sec. d.C. La parte superiore infine reca una scritta realizzata con la tecnica delle luminarie appartenente alla tradizione popolare delle feste patronali del Salento. La scritta è composta da 850 lampadine a led fissate con altrettanti portalampade al supporto in legno di ciascuna lettera. Questo elemento tipico dell’identità salentina corona una struttura che vuole presentare, attraverso la tecnica muraria, le principali tappe della storia delle tecniche costruttive del Salento.

Francesco Baratti

Nota Il portale di accesso al Parco dei Guerrieri di Vaste è stato inaugurato nell’aprile 2011. Esso sorge sul luogo di un vecchio capannone industriale demolito, pertanto la probabilità di rinvenire reperti archeologici nella realizzazione delle fondazioni era certamente scarsa, come in effetti si è dimostrato in corso d’opera. Tra i principali interventi realizzati con la progettazione di chi scrive, oltre il Parco dei Guerrieri di Vaste, si ricordano: il Museo Diffuso di Cavallino, il Museo Diffuso di San Vito dei Normanni, l’Ecomuseo dei Paesaggi di Pietra di Acquarica di Lecce, il Raggio Verde di Rudiae, il Parco Archeologico Urbano delle Mura di Ugento. Tali azioni sono state rese possibili grazie ai risultati delle attività di ricerca archeologica condotte dalle équipes del prof. Francesco D’Andria e della prof.ssa Grazia Semeraro dell’Università del Salento. Per una presentazione dettagliata dell’esperienze progettuali condotte si veda: F. Baratti, Ecomusei, paesaggi e comunità, Milano 2012; F. Baratti, Oltre il Parco Archeologico: le esperienze nei siti antichi del Salento, in M. Vaudetti, V. Minucciani, S. Canepa (a cura di), The Archaeological musealization, Torino 2012, pp. 17-22; inoltre, chi scrive ha ideato e coordinato il S.E.SA. - Sistema Ecomuseale del Salento, progetto pilota sui paesaggi archeologici del Salento: dal 2008 mediante un Protocollo d’Intesa tra Regione Puglia, Università del Salento e sei Comuni è stato sviluppato il progetto “Mappe di Comunità”, inserito tra quelli sperimentali per l’attuazione del nuovo Piano Paesaggistico Territoriale Regionale di Puglia (PPTR) (www.ecomuseipuglia.net).

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L'ipogeo delle Cariatidi L’Ipogeo delle Cariatidi, una monumentale tomba a camera ellenistica dalla ricca decorazione scultorea in calcare locale, costituisce uno dei più importanti documenti della cultura artistica della Messapia. L’individuazione del «magnifico doppio ipogeo» si deve a Luigi De Simone, membro della Commissione di Antichità e Belle Arti di Terra d’Otranto, che, nel settembre del 1869, mentre effettuava scavi nel Fondo Maura descrisse il monumento purtroppo «molti anni indietro» saccheggiato, e in parte distrutto, dai soldati francesi di Gioacchino Murat. Osserva lo studioso salentino che alla sepoltura, scavata nel terreno e «rivestita da muratura regolare», si accedeva da «una gradinata» ai piedi della quale si apriva un vestibolo seguito da «due celle» affiancate. Sulla facciata dell’Ipogeo, ricavate negli stipiti delle due porte d’accesso alle camere funerarie, spiccavano quattro figure femminili ad alto rilievo: le Cariatidi. Due bassorilievi con eroti alla guida di carri, verosimilmente rinvenuti nel vestibolo, venivano ipoteticamente riferiti dal De Simone a «una fascia, che dovea soprastare alle cariatidi». La pianta schematica e la sintetica descrizione dell’Ipogeo realizzate dal De Simone rappresentano una testimonianza preziosa. Oggi infatti dell’edificio – già negli ultimi decenni

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dell’Ottocento ridotto a «una vera pietraja» – si conservano esclusivamente le sculture, prelevate dal sito in tempi diversi. Un bassorilievo e una Cariatide furono trasferiti, fra il 1869 e il 1873, a Lecce nel Museo Provinciale “S. Castromediano” dove sono tuttora esposti. Le altre tre Cariatidi e il secondo bassorilievo, dapprima acquisiti nella collezione del barone Filippo Bacile di Castiglione, confluirono, alla fine dell’Ottocento, nel Museo Nazionale Archeologico di Taranto e attualmente sono inseriti, insieme con la riproduzione in resina delle sculture custodite a Lecce, nel percorso espositivo inaugurato nel 2007 (MARTA, primo piano, sala X) . Le quattro Cariatidi – la cui funzione nell’Ipogeo di Vaste era esclusivamente decorativa – sono alte 176 cm e riproducono, con lievi varianti, lo stesso tipo iconografico. Ciascuna figura, posta su un plinto trapezoidale, si presenta stante e di prospetto; le braccia sono sollevate e piegate con il palmo della mano rivolto verso l’alto. Nel volto, incorniciato da lunghi capelli ondulati che si raccolgono dietro la nuca, risaltano i grandi occhi dalle pupille incise e la bocca dischiusa. Il lungo abito, stretto in vita da una cintura, è trattenuto da bretelle che, fermate da una testa di Gorgone, si incrociano sul busto lasciando il seno scoperto. L’abito ora aderisce al corpo ora forma plastiche ondulazioni e pieghe che ricadono sui piedi calzati. Nei due bassorilievi è rappresentato un erote che, con il corpo inarcato per lo sforzo e le redini in mano, guida un carro trainato da tre felini. Sul blocco conservato a Taranto i felini si muovono verso destra; su quello di Lecce vanno nella direzione opposta. La folta criniera, a lunghe ciocche fiammeggianti, consente di riconoscere, sul rilievo di Lecce, dei leoni; sul blocco tarantino figurano invece delle leonesse dalla chioma a ciocche ondulate e schiacciate. Su entrambi i rilievi, davanti ai felini, si riscontra una fascia piat38

ta verticale con motivi vegetali incisi la cui funzione è quella di chiudere lateralmente il blocco. Le sculture erano originariamente ravvivate dal colore: tracce di giallo e di rosso si riscontrano infatti sul fondo del rilievo e in corrispondenza della ruota del carro. Le sculture dell’Ipogeo di Vaste trovano confronto nella produzione artistica di Taranto della fine del IV e degli inizi del III secolo a.C., soprattutto nelle raffigurazioni delle ceramiche sovradipinte cosiddette di Gnathia e nei rilievi dei naiskoi, i tempietti funerari che sormontavano le tombe delle famiglie in vista della colonia spartana. Anche il committente dell’Ipogeo delle Cariatidi doveva essere un personaggio di spicco, probabilmente un membro dell’aristocrazia messapica. Suggeriscono ciò sia la raffinata decorazione scultorea della sepoltura sia la sua ubicazione nel settore centrale di Vaste, a poche decine di metri dalla cosiddetta “acropoli”. Di questo prestigioso Ipogeo, collocato nella parte più rappresentativa dell’insediamento, sono state nel tempo formulate varie proposte di ricostruzione basate sui dati noti ed elementi di confronto. In particolare, vari studi condotti negli anni ‘80 e ‘90 del XX secolo, sviluppando l’idea del De Simone, hanno elaborato, con soluzioni diverse, l’ipotesi che, sulla facciata, sopra le Cariatidi, corresse un fregio continuo con eroti su carri trainati da felini. I risultati raggiunti in queste ricerche hanno suggerito, fra l’altro, le ricostruzioni dell’ingresso all’Ipogeo realizzate nel Museo Nazionale Archeologico di Taranto in occasione della Mostra “Vecchi scavi nuovi restauri” (1991) e del nuovo allestimento (2007). Nel 2010 il Coordinamento SIBA dell’Università del Salento, sotto la direzione di Virginia Valzano, ha prodotto un’originale ricostruzione tridimensionale dell’Ipogeo delle Cariatidi 39

basata su una nuova ipotesi di lettura della documentazione archeologica formulata da Francesco D’Andria con la collaborazione di chi scrive e di Tommaso Ismaelli. La nuova ipotesi di ricostruzione del monumento è proposta nella sala al primo piano del Portale di ingresso al Parco Archeologico dei Guerrieri, dove sono esposte le riproduzioni in 3D delle sculture dell’Ipogeo realizzate in poliuretano in scala 1:1 (progetto sviluppato in sinergia da Università del Salento, Comune di Poggiardo, Direzione Regionale del MIBACT e Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Lecce, Brindisi e Taranto). Per la nuova ricostruzione del monumento di Vaste si è utilizzato come elemento di confronto l’Ipogeo Palmieri di Lecce, un rarissimo esempio di tomba a camera messapica ben conservata caratterizzata da fregi scolpiti con scene di battaglia e motivi floreali sulle pareti del corridoio (dromos) di accesso al vestibolo. Anche all’Ipogeo di Vaste si accedeva attraverso un corridoio. Quest’ultimo, a scala, era ampio all’incirca m 1,5, scavato nel banco roccioso e a cielo aperto. Del dromos, al momento della scoperta – come si evince dalla pianta del De Simone – si conservavano solo alcuni gradini: in questa parte del monumento erano con molta probabilità originariamente collocati i due bassorilievi per lungo tempo ipoteticamente riferiti alla facciata dell’Ipogeo. Nel dromos i bassorilievi dovevano costituire gli elementi terminali di due fregi che – come nell’Ipogeo Palmieri di Lecce – correvano, paralleli e simmetrici, a coronamento delle pareti. Ai lati della gradinata si sviluppavano pertanto due teorie di carri guidati da eroti – simbolo del viaggio nell’Aldilà – tirati a destra da leoni, a sinistra da leonesse. Il dromos immetteva nell’ampio vestibolo, anch’esso a cielo aperto, che presentava pareti intonacate e dipinte così da simulare una «muratura regolare»; il pavimento era invece formato da lastre in calcare ancora visibili alla fine dell’800. Dal vestibolo si ammirava appieno la facciata dell’Ipogeo. Larga m 5 e alta quasi m 2,5, la facciata nella parte superiore doveva essere caratterizzata – come si riscontra negli altri ipogei apuli conservati – da una trabeazione con fregio dorico, a triglifi e metope. Lateralmente alle porte, entrambe rastremate verso l’alto e a un unico battente, si ergevano le quattro Cariatidi. Queste imponenti figure femminili in cui si riconoscono delle Menadi – le seguaci di Dioniso, divinità sotto vari aspetti collegata al mondo degli Inferi – proteggevano, in qualità di guardiane dell’Ipogeo, l’accesso alle camere funerarie. Nella Grecia arcaica e classica le figure femminili – si veda la celebre loggia dell’Eretteo di Atene – erano custodi dei monumenti funerari degli eroi; in età ellenistica le Cariatidi sorvegliano il sepolcro degli aristocratici Messapi di Vaste, chiaro «segno di una eroizzazione che è concessa anche ai mortali». Katia Mannino Nota Le prime segnalazioni dell’Ipogeo si devono a S. Castromediano, Relazione della Commissione di Archeologia e Storia Patria di Terra d’Otranto, Lecce 1869, pp. 13, 16-17, 27; L.G. De Simone, La Commissione Conservatrice dei monumenti storici e di belle arti di Terra d’Otranto. Tipi degli scavi eseguiti negli anni 1869-1870, Lecce 1872, tav. VIII; S. Castromediano, La Commissione Conservatrice dei monumenti storici e di belle arti di Terra d’Otranto. Relazione per gli anni 1873-1874, Lecce 1875, pp. 62, 64; L.G. De Simone, Note Iapygomessapiche, Torino 1877, pp. 46-50. Sulle condizioni deplorevoli della sepoltura alla fine dell’800: C. De Giorgi, La provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, II, Lecce 1888, pp. 12-13. I principali studi sul monumento relativi agli anni ’80 e ’90 del XX secolo sono rappresentati da: J.-L. Lamboley, Note sur l’Hypogée de Vaste, in Studi di Antichità 2, 1981, pp. 197-206 (con bibl. prec.); J.-L. Lamboley, Les

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hypogées indigènes apuliens, in Mélanges d’archéologie et d’histoire de l’Ecole française de Rome, Antiquité, 94, 1982, pp. 91-148; G. L’Arab, L’Ipogeo delle Cariatidi di Vaste, in Taras XI, 1, 1991, pp. 19-40 (con ampie osservazioni sugli aspetti stilistici e iconografici delle sculture); E. Lippolis, Vaste, Ipogeo delle Cariatidi: sculture architettoniche del vestibolo, in AA.VV., Vecchi scavi nuovi restauri, Catalogo della Mostra, Taranto 1991, pp. 148-158 (con la ricostruzione dell’ingresso all’Ipogeo realizzata a Taranto nel 1991). Per una lettura dell’Ipogeo nel panorama della cultura artistica della Messapia: F. D’Andria, Messapi e Peuceti, in AA.VV., Italia omnium terrarum alumna, Milano 1988, pp. 653-715, in part. 706, 711; J.-L. Lamboley, Recherches sur les Messapiens. IVe-IIe siècle avant J.-C., Rome 1996, pp. 233, 371-373, 458-459. Inquadramento dell’Ipogeo nella topografia di Vaste: F. D’Andria, s.v. Vaste, in Enciclopedia dell’Arte Antica, Classica e Orientale, II s. (1971-1994), Roma 1997, pp. 951-954. La presentazione dell’Ipogeo all’interno dell’attuale percorso espositivo del Museo Nazionale Archeologico di Taranto è in A. Dell’Aglio, Il Museo Nazionale Archeologico di Taranto = The National Archaeological Museum of Taranto, Taranto 2008, pp. 36, 38-39. La recente ipotesi di ricostruzione dell’Ipogeo ideata da Francesco D’Andria è presentata in: V. Valzano, K. Mannino, A. Bandiera (a cura di), L’Ipogeo delle Cariatidi di Vaste = The Hypogeum of the Caryatids at Vaste, DVD-ROM, Coordinamento SIBA-Università del Salento, Lecce 2010; F. D’Andria (a cura di), Parco dei Guerrieri, Lecce 2010, p. 15. Una ricca mostra documentaria sull’Ipogeo intitolata “Le Cariatidi di Vaste. Storia di un capolavoro della Messapia”, curata da G. Carluccio, si è tenuta nell’aprile del 2011 presso il palazzo della cultura di Poggiardo. La frase tra virgolette a conclusione della scheda è tratta da: L. Bacchielli, La tomba delle “Cariatidi” ed il decorativismo nell’architettura tardo-ellenistica di Cirene, in Quaderni di Archeologia della Libia, 11, 1980, pp. 11-34 (citazione p. 26).

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Il complesso paleocristiano di Fondo Giuliano L’area di Fondo Giuliano si trova a 2 km ca. a nord di Vaste sulle modeste alture delle Serre di Poggiardo. In questa zona di notevole bellezza dal punto di vista paesaggistico-ambientale, l’Università di Lecce ha avviato nel 1991 un programma di scavi e ricerche che, nel corso degli anni, hanno portato alla luce un complesso archeologico risalente al periodo paleocristiano. Esso comprende tre edifici di culto, costruiti in successione tra la fine del IV ed il X secolo d.C., ed una vasta necropoli rupestre. La chiesa più antica ha pianta cruciforme, con una piccola abside orientata ad est; è lunga 14,70 m e larga 14 m. Delle strutture si conservano alcuni elementi dell’alzato a blocchi squadrati con fondazioni in pietre legate da “bolo” (terreno argilloso); il pavimento era in calcare sbriciolato e pressato; il tetto di tegole si appoggiava su un sistema a capriate lignee. Nella zona del presbiterio, sono state rinvenute numerose lastre in calcare appartenenti alla balaustra che divideva la navata dallo spazio in cui si officiava la liturgia e nel quale si trovava l’altare. Alcune lastre sono decorate da motivi a traforo con elementi geometrici (archetti e losanghe), floreali o cruciformi, talvolta dipinti di rosso. Questi manufatti, opera di artigiani locali che si rifanno a schemi diffusi in tutta l’area adriatica, trovano precisi confronti nei frammenti di transenne provenienti dalla basilica episcopale di Egnazia. Altri elementi traforati sono invece riferibili alle grate delle finestre. Del recinto presbiteriale doveva far parte, forse posto al centro di esso, anche un manufatto a forma di croce. Due capitelli a foglie di acanto potrebbero essere invece pertinenti alle colonnine del ciborio o della pergula, una struttura tipica degli edifici paleocristiani (corrispondente all’iconostasi delle chiese di rito orientale) consistente in colonne impostate su un basso muro e sormontate da un architrave dal quale pendono le lampade. Questa ipotesi troverebbe conferma nel ritrovamento di numerose lucerne di vetro destinate ad illuminare la chiesa. All’esterno della chiesa, addossato al muro settentrionale della navata, è presente un ambiente di servizio adibito ad attività liturgico/assistenziali o, in alternativa, alla preparazione delle cerimonie funerarie. A poca distanza dalla chiesa, verso sud, si trova un muro di recinzione che aveva la funzione di delimitare l’area della chiesa e della necropoli collocata alle sue spalle. Sulla base dei dati planimetrici e dei reperti rinvenuti, come alcune monete di Valentiniano II (383-392) e Costanzo II (351-361), la costruzione della chiesa può essere collocata nella seconda metà del IV secolo, mentre la sua distruzione va posta intorno alla metà del VI secolo. Alcuni importanti elementi conducono ad interpretare la chiesa come martyrion: i martyria erano edifici che sorgevano sul luogo in cui si trovavano le spoglie o le reliquie di un santo, o nei posti in cui era vissuto, a “memoria” della morte o a testimonianza delle vicende terrene. Il monumento, infatti, presenta suggestive analogie con molte chiese a pianta cruciforme dell’Asia Minore (Turchia) e delle regioni adriatiche occidentali, in particolare dell’area dalmata (Solona). Oltre alla struttura a croce latina, un sostegno a tale ipotesi viene dalle strette connessioni con l’area cimiteriale, che testimonia la diffusione del 42

Martyrium e necropoli (fine del IV prima metà del VI secolo) Chiesa (seconda metà del VI secolo) Chiesa (IX secolo)

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desiderio di farsi seppellire ad sanctos, cioè presso le tombe dei martiri. Inoltre, la sicura attestazione nella necropoli del rito del refrigerium permette di proporre un altro diretto riferimento al culto delle reliquie. La funzione martiriale trova conforto nella presenza del culto bizantino di S. Stefano nella vicina chiesa rupestre, testimoniato a partire dall’XI secolo: è suggestivo pensare che i segni del culto del protomartire, forse le sue reliquie, fossero presenti nella zona già alla fine del IV secolo, nel periodo della cristianizzazione delle campagne salentine voluta dalla sede episcopale di Otranto. Forse, dopo aver ricevuto la venerazione all’interno delle chiese di Fondo Giuliano fino al X secolo, il culto, per ragioni sconosciute, fu trasferito nelle immediate adiacenze. La distruzione dell’edificio martiriale, da collegare alla guerra greco-gotica (535-553), portò alla costruzione di una seconda chiesa, più grande (31,50 x 21 m), per l’esigenza di accogliere un maggior numero di fedeli. L’edificio si impianta al di sopra del precedente, trasformandone la pianta che diventa a tre navate, con grande abside semicircolare e nartece. La navata centrale è divisa dalle navatelle da due file di otto pilastri ciascuna. Lungo i muri di fondo delle navate laterali, addossate ad essi, sono presenti due banchine in muratura, utilizzate come sedili da quanti partecipavano alla liturgia che si svolgeva nella zona presbiteriale, così come accade ancora oggi nelle chiese. Il pavimento, in terra battuta mista a tufina e piccole pietre, ingloba il piano di calpestio precedente. Una moneta di bronzo di Giustino II (575-576) costituisce un preciso elemento per fissare la costruzione della basilica nella seconda metà del VI secolo. La copertura del tetto era a doppio spiovente, realizzata con l’impiego di travature lignee ricoperte da tegole piane, rinvenute solo nelle navate laterali, a causa della sovrapposizione della chiesa altomedievale. Il catino absidale era decorato da affreschi, frammenti dei quali sono stati recuperati nei livelli di crollo: vi si

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riconoscono elementi di drappeggi decorati da motivi a file di globetti bianchi riferibili a figure di santi. Anche il muro di fondo dell’abside era affrescato: a questo appartiene, infatti, un blocco con la raffigurazione della Madonna con Bambino (Theotokos). L’edificio si inserisce nel quadro dell’architettura cristiana di Terra d’Otranto e trova ampio riscontro in numerose chiese paleocristiane salentine, come la contemporanea S. Giovanni a Patù, S. Eufemia a Specchia Preti e la c.d. “Le Centoporte” presso Giurdignano. Anche nel resto della Puglia sono noti edifici di culto che presentano una pianta a tre navate divise da pilastri, identificati sotto le basiliche romaniche, come nella cattedrale di Barletta. Dimensioni e schema planimetrico simili alla chiesa di Vaste mostrano gli edifici paleocristiani di Siponto, Trani e Taranto, mentre la presenza del nartece la avvicina al complesso di S. Giusto presso Lucera ed alla basilica episcopale di Egnazia. Dopo la distruzione della seconda chiesa fu costruito un nuovo edificio religioso nel IX secolo. Esso riutilizzò completamente la precedente struttura absidale e parte della navata centrale, mentre furono escluse le navate laterali e arretrato il muro di facciata (16,50 x 10 m). Gli spazi tra i pilastri vennero chiusi e ad essi innestati setti murari trasversali, tali da creare quattro “cappellette” su ogni lato. Il pavimento è composto da gettate di malta, ad eccezione della prima campata dopo l’ingresso, che presenta un piano a lastre di calcare, come lo spazio davanti alla chiesa. La copertura era costituita da una volta a botte con estradosso piano, più alta sull’aula centrale rispetto alle campate laterali. Il terzo edificio di Vaste trova un diretto confronto nella chiesa di S. Marina a Muro Leccese, per la pianta a navata unica e le ridotte dimensioni, entrambi elementi tipici del periodo altomedievale.

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La necropoli Alla costruzione del martyrium si affianca l’impianto di una necropoli rupestre, estesa su una superficie di oltre 5.000 mq. Il nucleo principale, che comprende ca. 100 tombe scavate nel banco di roccia, si colloca in una grande esedra che fa da cornice al martyrium. Il suo ingresso è segnato da una soglia provvista di risega per i battenti della porta. Il grande ambiente rupestre si sviluppa per oltre 150 mq: la volta era sostenuta da tre pilastri e due colonne messapiche in reimpiego. Le tombe hanno un cuscino ricavato sul fondo ed erano coperte da lastroni sigillati con malta. Quelle collocate lungo le pareti della grotta sono sistemate all’interno di arcosoli e coperte da blocchi in pietra leccese a doppio spiovente ed acroteri angolari. Sugli acroteri, inoltre, sono presenti piccole “coppelle” di malta, che servivano per compiere il refrigerium. Questo rito del cristianesimo antico, che trae origine da culti pagani, consisteva nel versare sulla tomba liquidi, come acqua, vino, latte o miele, allo scopo di arrecare ristoro materiale, ma anche morale, al defunto. A questa pratica si affiancavano la preparazione e il consumo di pasti funebri presso le tombe, ad opera di parenti e amici degli estinti. A Vaste ciò è testimoniato dalla presenza di un focolare con ossa animali e di una mensa, accanto alla quale è stata ritrovata una pentola. Il refrigerium, oltre a provvedere alle necessità spirituali del defunto, rappresentava anche un’occasione per manifestare la carità verso i bisognosi (pasti evergetici). L’inumato è accompagnato quasi sempre da un corredo, comprendente vasi di vetro, come brocche, bicchieri, coppe, lucerne, pissidi e fiale per unguenti o profumi, di fattura molto raffinata, fabbricati in Egitto e nell’area siro-palestinese. In molte tombe si sono trovati anche oggetti di ornamento personale, bracciali di vetro e bronzo, collane di pasta vitrea e pietre dure, orecchini in oro, argento o bronzo, spilloni ed aghi crinali di osso o argento, fibbie in bronzo e argento, e pettini in osso. Più raro il vasellame di terracotta, brocche, anforette e lucerne. Su un’anforetta è graffito il nome del proprietario: Sextus Proculus. Nelle sepolture, spesso, sono stati trovati gusci di uova e resti di pesci e volatili e in 23 tombe è documentato l’uso di deporre monete: si tratta dell’“obolo per Caronte”, il prezzo da pagare al feroce traghettatore di anime, ricordato nell’Inferno dantesco, per compiere il trapasso nell’aldilà. All’esterno dell’abside, al centro della curva absidale, si è trovata una tomba isolata dalle altre, contenente i resti di cinque individui adulti, tre maschi e due femmine, di età compresa tra 35 e 65 anni: si tratta di un ossario costruito per accogliere i resti di defunti sepolti altrove, forse addirittura all’interno del martyrium, rimossi al momento della costruzione della seconda chiesa ed ai quali si volle destinare una nuova sepoltura in segno di rispettosa memoria. La necropoli di Fondo Giuliano appartiene certamente ad un gruppo sociale di rango elevato: si tratta forse di proprietari terrieri della zona, i quali potevano avere il privilegio di essere seppelliti presso un importante luogo sacro. Un ruolo sociale di rilievo è indicato in particolare dalle sepolture negli arcosoli caratterizzate dai corredi più preziosi e dalle coperture a doppio spiovente. L’impianto generale presenta forti analogie con numerosi complessi cimiteriali di età pa46

leocristiana attestati in aree diverse del Mediterraneo. Nell’Italia meridionale, si possono citare gli ipogei di Canosa e Venosa, del Gargano e del Materano, ed alcune necropoli rupestri della Sicilia sud-orientale, come quelle di S. Lucia e di S. Giovanni a Siracusa; al di fuori dell’Italia, contesti molto simili sono documentati, ad esempio, in ipogei e catacombe dell’isola di Malta. Valeria Melissano Nota Un’approfondita trattazione del complesso paleocristiano, con la presentazione dettagliata dei corredi notevoli ed ampio apparato illustrativo e bibliografico, è in F. D’Andria, G. Mastronuzzi, V. Melissano, La chiesa e la necropoli paleocristiana di Vaste nel Salento, in Rivista di Archeologia Cristiana LXXXII, 2006, pp. 231-322. Si veda anche la breve sintesi del contesto offerta nell’opuscolo F. D’Andria (a cura di), Vaste. Parco dei Guerrieri, Lecce 2010, e le rassegne delle campagne di scavo nei notiziari della Soprintendenza: F. D’Andria, Poggiardo (Lecce), Vaste. Fondo Giuliano, in Taras XIV, 1994, pp. 134-135; F. D’Andria, Poggiardo (Lecce), Vaste. Fondo Giuliano, in Taras XVIII, 1, 1998, pp. 109-110; G. Mastronuzzi, V. Melissano, Poggiardo (Lecce), Vaste, Fondo Giuliano, in Taras XXII, 1-2, 2002, pp. 159-161. Si segnala, infine, che il complesso è inserito nell'opera: G. Otranto, I. Aulisa (a cura di), Santuari cristiani d'Italia. Puglia, vol. 1, Roma 2012, pp. 300-301. Ai confronti già proposti negli articoli citati, ai quali si rimanda per le osservazioni ivi espresse, si possono aggiungere due riferimenti utili ad arricchire il quadro delle conoscenze sulla Puglia meridionale in età paleocristiana. Per quanto riguarda la necropoli, nel corso di indagini archeologiche urbane a Taranto è stato scoperto un cimitero ipogeo con tombe ad arcosolio simili a quelle di Vaste per tipologia e cronologia (S. De Vitis, Taranto: Palazzo Delli Ponti, in Taras XI, 1991, pp. 229-230). Sempre nel capoluogo ionico, inoltre, gli scavi all’interno della Cattedrale di San Cataldo hanno consentito di intercettare, al di sotto delle fasi medievali della fabbrica, un edificio di culto risalente alla seconda metà del VI sec. d.C. che, nell’impianto a tre navate con abside semicircolare, ricalca la seconda chiesa di Vaste, pur nelle minori dimensioni (A. Biffino, Taranto. Cattedrale di San Cataldo, in Taras XXIII, 2002-2003, pp. 221-227, 223, fig. 217). Per una recente presentazione sulle origini della civiltà cristiana si rimanda all’interessante opera di F. Bisconti, Primi cristiani. Le storie, i monumenti, le figure, Roma 2013. A proposito delle libagioni che venivano praticate per alimentare il defunto S. Agostino racconta un episodio accaduto alla madre Monica durante il suo soggiorno a Milano: «…Un giorno mia madre, secondo un’abitudine che aveva in Africa, si recò a portare sulle tombe dei santi una farinata, del pane e del vino. Respinta dal custode, appena seppe che c’era un divieto del vescovo, lo accettò con tale devozione e ubbidienza, da stupire me stesso al vedere la facilità con cui condannava la propria consuetudine anziché discutere la proibizione del vescovo…» (Confessioni, VI, 2). Il rito del refrigerium, ossia dei banchetti funebri, agli esordi del Cristianesimo fu visto come un retaggio delle usanze pagane e per questo giudicato immorale e superstizioso dalla Chiesa ufficiale. Tertulliano testimonia infatti che in Africa agli inizi del III secolo venne vietata ai cristiani la partecipazione a tali banchetti. Lo stesso Agostino fu tra i primi a stigmatizzarli definendoli «in coemeteriis ebrietates et luxuriosa convivia», ubriachezze e dissoluti conviti nei cimiteri (Epistulae, XX, 6). Quanto alla mensa potrebbe anche trattarsi di una cattedra, ossia di una sorta di sedile dove si riteneva sedesse il defunto che partecipava idealmente al refrigerium.

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La chiesa rupestre dei Santi Stefani Nel ricco e articolato quadro relativo alle chiese rupestri di Terra d’Otranto e alla loro decorazione non v’è dubbio che la chiesa rupestre detta dei Ss. Stefani occupi un posto di significativa rilevanza per la sua configurazione architettonica, e l’interesse, e la qualità stessa, dei suoi dipinti murali, distinti in varie fasi, dal tardo X alla fine del XIV secolo. Le continue stagioni pittoriche che hanno rinnovato, e aggiornato, il programma, attestano la lunga frequentazione del sito almeno per tutto il periodo medievale, se non oltre. V’é subito da sottolineare che, seppure segnalato più volte, manca uno studio esaustivo sull’invaso e la sua decorazione, che meriterebbero studi più approfonditi. La chiesa presenta un impianto basilicale a tre navate divise da grossi pilastri quadrangolari, desinente in tre absidi, mentre le pareti laterali sono scandite da nicchie di disegno irregolare non particolarmente profonde. Presso l’ingresso, a sinistra, interventi probabilmente da legarsi alla stagione pittorica del 1379-80 hanno portato alla chiusura dell’intercolumnio ricavandone un ambiente per custodire attrezzi agricoli, distruggendo in tal modo i dipinti originari, mentre il piano di calpestio è stato abbassato di 60 cm ca.: quest’ultimo intervento ha modificato, io credo, la spazialità primitiva, e la stessa percezione degli spazi e della decorazione pittorica stessa. Essa ricopre anche le facce dei pilastri, dove sono campite numerose immagini di santi e della Vergine con Bambino. In linea generale, come ho spesso ribadito, le chiese rupestri presentano, rispetto a quelle subdiali, programmi iconografici semplificati, privi di cicli cristologici polarizzati sulla rappresentazione di figure di santi: all’interno del programma talvolta l’intitolazione della chiesa rupestre è indicata dalla reiterazione del ritratto del santo titolare. Altro aspetto peculiare è la presenza, all’interno e immediatamente all’esterno della chiesa rupestre, di una o più tombe, a segnarne la vocazione eminentemente funeraria, e la sua dimensione privata come indicano, per esempio, in aggiunta alle iscrizioni funerarie, anche i ritratti dei donatori effigiati ai piedi delle immagini dei santi. Inoltre, va accantonata l’idea romantica, che ha avuto largo seguito, del monaco bizantino perseguitato dagli 48

empi iconoclasti, che si rifugia nel Mezzogiorno e mena vita eremitica negli invasi rupestri: in Puglia, al contrario della Calabria, della Sicilia, e della Costiera amalfitana, non sono noti eremiti, i monaci sono cenobiti – hanno, cioè, adottato la formula comunitaria sperimentata da S. Pacomio fra III e IV secolo nell’Egitto copto – e vivono nei monasteri costruiti. Questo luogo comune fu probabilmente condizionato dal celebre lavoro di Alba Medea, “Gli affreschi delle cripte eremitiche pugliesi”, pubblicato a Roma nel 1939. Tornando a Vaste, innanzitutto, con molte probabilità, la chiesa era veramente intitolata a S. Stefano, come emerge dalla lettura di una delle numerose iscrizioni votive dipinte presso le immagini dei donatori, raffigurati ai piedi dei santi; si tratta di un esponente del clero, Giorgio, inginocchiato ai piedi dell’immagine della Vergine con Bambino campita su una faccia del terzo pilastro a sinistra, entrando nella cripta: nell’iscrizione egli è indicato come “servitore di S. Stefano”, consacrato cioè al servizio del santo, probabilmente quale custode dell’invaso sacro. La decorazione pittorica, parzialmente conservata, come si è anticipato, presenta varie fasi, dal tardo X - inizi dell’XI secolo al 1379/80, e ricopre le pareti, le nicchie e le facce dei pilastri: a quest’ultimo periodo appartengono innanzitutto l’abside centrale, e poi la maggior parte dei dipinti che, in più punti, si sovrappongono alla decorazione precedente, nell’abside centrale, innanzitutto, sulle pareti e sui pilastri. I dipinti più antichi sono da riconoscere, io credo, nelle figure degli apostoli Andrea e Filippo, accompagnati dal loro nome in greco, entrambi con un rotulo chiuso stretto nella mano sinistra, benedicenti con la destra: le figure sono monumentali, avviluppate, come è tradizione per gli apostoli, in tunica e ampio pallio, le cui pieghe sono ottenute con pennellate nere parallele accostate a pennellate di colore più chiaro ad evidenziare coni di luce e ombra. I volti sono ottenuti con un colore chiaro, cremoso, e spiccano i grandi occhi nocciola sottolineati da una linea scura che, con un movimento sinuoso, si unisce alla palpebra. Non credo che la decorazione delle absidi laterali appartenga alla medesima stagione, probabilmente è da collocarsi nel corso dell’XI secolo, pur condividendo numerosi dettagli con i ritratti dei due apostoli, dalla tavolozza, al fondo bicromo su cui risaltano le figure, al modo di rendere i tratti del viso e le pieghe. Nell’absidiola destra, le immagini raffigurate – Cristo fra due angeli in adorazione – sono segnate da silhouettes snelle ed eleganti e non hanno la monumentalità di quelle dei due apostoli: in particolare gli angeli sono figure quasi evanescenti, incorporee – e così spesso sono indicati nelle fonti greche: asomatoi. Cosimo De Giorgi segnalò che Charles Diehl aveva letto le date 1032 nell’absidiola destra, e 1093 in quella sinistra, di cui peraltro, a dire di André Jacob, non v’è 49

traccia. In ogni caso, circa la presunta iscrizione del 1032, questa datazione si confà allo stile del dipinto, vicino, per esempio, al Cristo del Giudizio Universale del nartece della chiesa della Panaghia ton Chalkéon a Tessalonica, eretta nel 1028. Nell’abside settentrionale sono campite le immagini di tre noti santi vescovi: S. Nicola al centro, fra S. Giovanni Crisostomo, identificato da Medea, erroneamente, con Gregorio di Nazanzio, a destra di chi guarda, e S. Basilio a sinistra: la liturgia bizantina, come è noto, si basa sui testi di Basilio e Crisostomo. La presenza di S. Nicola, al centro, figura con una taglia lievemente più grande delle altre, sottolinea l’importanza sempre più crescente, a Bisanzio, di questo santo di epoca costantiniana, il cui profilo storico è sfocato: il dipinto, in ragione della sua presenza, potrebbe datarsi dopo il 1087, ma tengo a ricordare che già prima dell’arrivo delle sue reliquie a Bari dalla Licia, nel 1087, appunto, documenti e immagini di S. Nicola attestano la fortuna di questo culto nella regione. Anche queste immagini, stagliate contro un fondo tripartito giallo-oro e blu, sono di estrema eleganza, vicine, sul piano formale, a numerosi affreschi bizantini di XI secolo, innanzitutto quelli di S. Sofia di Ohrid, in Macedonia, la cattedrale dei Bulgari (1037-56), e ai coevi dipinti dell’oratorio di S. Martino a Bari Vecchia. Probabilmente a questa fase di XI secolo – fra la metà e la fine del secolo stesso – si legano alcune figure di santi che si trovano sui pilastri, come l’immagine di S. Antonio con un cartiglio iscritto, e nelle nicchie che si aprono nella parete destra. Immagini dello stesso santo, appartenenti allo strato di fine XIV secolo, se ne rintracciano ancora due, attestando un culto profondo per il fondatore dell’eremitismo in questo spazio sacro, e altrove nel territorio. A questo riguardo, va sottolineato che, in linea generale, proprio in ragione del fatto che in Terra d’Otranto le chiese rupestri non svolsero funzione eremitica, i ritratti di santi monaci ed eremiti sono assai rari, e Antonio è il più rappresentato. Al contrario, in alcune chiese monastiche italo-greche del Salento, come per esempio S. Maria a Cerrate, presso Squinzano (LE), la funzione appare strettamente associata alla scelta di un programma rigorosamente monastico. Nella faccia interna del pilastro destro presso l’abside, v’è la bella immagine del santo medico Pantaleone, che regge una sorta di bisturi nella mano sinistra, e nella destra una cassettina per contenere gli unguentari, elemento peculiare dell’iconografia dei santi medici. Gran parte dei dipinti sui pilastri sono appena visibili, specie i più antichi. Di fronte all’immagine di S. Pantaleone ci si sarebbe aspettati di veder raffigurato un altro santo medico, nella funzione di santi dell’intercessione, esaltata dalla posizione di fronte all’abside: vi si trova, invece, un santo monaco, figura non ben leggibile. Non lontano da Pantaleone, in50

vero, nei sottarchi della nicchia che si apre sulla parete destra della cripta, presso l’attacco della parete absidale, dove è stata aperta una finestra, si leggono, con difficoltà, i resti delle immagini della più nota coppia di santi Medici, i Ss. Cosma e Damiano, venerati in Puglia fin dal tempo del conflitto greco-gotico (535-55): gli Anargiri per eccellenza, infatti, erano i protettori di Giustiniano, e sono raffigurati anche a Poggiardo, nella cripta di S. Maria degli Angeli, sulla parete absidale. Alla fase di pieno XI, o prima metà del XII, appartiene la splendida figura di un santo militare, probabilmente S. Giorgio, non ben conservata, di cui si percepisce soprattutto la corazza sulla quale spicca un bel nodo “macedone”, dettaglio iconografico che segna il costume dei santi militari a Bisanzio. Ulteriori tracce di dipinti da legare a questa fase sono su due delle nicchie che si aprono sulla parete settentrionale, le più vicine alla parete absidale, cioè un grande arcangelo, S. Michele, le cui ali spiegate assecondano il movimento dell’arco della nicchia: come di consueto nei ritratti degli arcangeli a Bisanzio, Michele indossa il costume imperiale, con un pesante loros gemmato – una fascia di solito lunga 5 m che si incrociava a X sul petto. Altre figure da assegnare alle fasi di tardo X e XI-XII secolo si intravedono soprattutto sulle facce dei pilastri, ma sono di difficile lettura, mentre nell’abside centrale, sotto la scena tratta dall’Apocalisse, si staglia l’immagine di un santo rivolto verso la parte centrale del catino mentre, sulla destra, si conservano pochi brani della figura di un santo con un cartiglio, mai segnalati finora. Un momento significativo per la vita della “cripta” si lega alla importante campagna decorativa che ricoprì tutte le pareti, l’abside centrale e le facce dei pilastri. Essa si riconosce nell’affresco absidale, abbastanza ben conservato, ovvero una scena di contenuto apocalittico, un unicum nel territorio, e altrove, datato da un’iscrizione ancora in greco al 1379-80: fa eccezione il celebre ciclo dell’Apocalisse di S. Giovanni che si conserva nel cosiddetto tempietto di Seppannibale presso Fasano (BR), del tardo VIII secolo. La scelta del raro tema, e soprattutto la sua ubicazione nell’abside, lo spazio ove si annidano le immagini più significative di un ciclo, non sembrano casuali. Solitamente, infatti, la produzione di testi apocalittici si lega ad eventi storici drammatici. La data trasmessa dall’iscrizione votiva in greco presso le immagini del donatore e della sua famiglia – moglie e due figlie – evoca la temperie storica drammatica che l’Europa, e il papato, stavano vivendo con lo scisma d’Occidente, in parte provocato dalla fazione francese che si opponeva al rientro dei papi da Avignone a Roma deciso da Gregorio XI. Alla luce di queste 51

osservazioni, mi sembra chiaro che si è di fronte ad un concepteur colto e audace, che non andrebbe identificato, io credo, con il committente, moglie e figlie del quale sembrano del tutto inconsapevoli del momento drammatico in cui vivono, sgranando serenamente il rosario – una delle più antiche raffigurazioni di questo oggetto di devozione, come ricorda Jacob. La scelta del tema e la sua ubicazione, giocano a favore di questa interpretazione, di questa lectio difficilior. Tengo anche a sottolineare che il territorio della regione, del resto, appare direttamente coinvolto in questa temperie: il legittimo papa Urbano VI e l’antipapa Clemente VII si contesero la nomina del nuovo arcivescovo di Brindisi. Alla luce di questi documenti, non mi sembra un caso che la data – inizi del 1379 – della nomina del nuovo arcivescovo di Brindisi e Oria, sostenuta dall’antipapa, coincida con quella dell’iscrizione di Vaste: mi sembra, inoltre, chiaro che l’eco di questo episodio fosse giunta anche nelle contrade più meridionali del Salento, dove venne recepito in tutta la sua drammatica attualità, sì da condizionare il programma absidale di una chiesa rupestre. Si tratta, dunque, di un unicum iconografico-iconologico di significativa rilevanza. A questa campagna pittorica tardotrecentesca si collegano numerosi pannelli campiti sulle pareti laterali e su alcuni pilastri. La monumentale figura di S. Nicola, che occupa una nicchia sulla parete meridionale della cripta, raffigurato a mezzo busto, benedicente, e accompagnato dal suo nome in lettere greche, evoca, proprio in virtù di questo particolare taglio, e per le sue ampie dimensioni, le icone dispotiche sospese sulle pareti dell’iconostasi, le icone, cioè, più significative, innanzitutto quelle di Cristo e la Vergine, poste ai lati delle “porte regali”: si tratta, dunque, per quanto riguarda le immagini a mezzo busto di Vaste, e non solo, di vere e proprie icone dipinte sulle pareti. L’iconostasi è un setto murario che separa l’area del bema – il presbiterio delle chiese occidentali – dal naos. L’originaria recinzione presbiteriale, costituita da plutei serrati fra loro da pilastri che sostenevano colonnette che, a loro volta, reggevano un architrave, è il cosiddetto templon, attestato a partire dal tardo VI secolo. Nel corso dei secoli, essa si trasformò in un vero e proprio setto murario separando nettamente le due parti principali dell’edificio di culto, quella più sacra, il bema, dall’area delle navate; inoltre divenne uno dei luoghi riservati alle icone, solitamente su tavola, e, nella maggior parte dei casi, a mezzo busto; è proprio il taglio a mezzo busto che distingue, nelle chiese, le semplici immagini dalle icone dipinte sul supporto murario. Nella tarda pittura bizantineggiante della Terra d’Otranto, a partire dalla fine del XIII secolo si registrano numerosi casi analoghi, come nelle chiese rupestri della Celimanna presso Supersano (LE), in quella del Crocifisso presso 52

Ugento (LE); o ancora nella cripta della chiesa di S. Lucia a Brindisi. Fra le immagini che fanno capo a questa stagione decorativa, in aggiunta a S. Nicola, vi sono S. Stefano, S. Antonio, S. Caterina, la Vergine con Bambino e via enumerando, distribuite sulle pareti laterali e sulle facce dei pilastri; in alcuni casi ai loro piedi compaiono i ritratti dei donatori, menzionati anche nelle iscrizioni votive, sempre in greco: vi si trovano sia uomini sia donne, come Donata, effigiata per ben due volte ai piedi di altrettante immagini di S. Caterina, cui doveva essere particolarmente devota, una sulla parete di fondo, entrando, a sinistra, l’altra sulla parete laterale destra. Le iscrizioni greche che accompagnano gli affreschi che appartengono a questa campagna pittorica, pur essendo di epoca tardomedievale, attestano ancora l’uso di questa lingua nel Salento, e contemporaneamente prefigurano la sua progressiva decadenza. Marina Falla Castelfranchi Nota Si riporta di seguito una selezione dei riferimenti bibliografici fondamentali per l’analisi della chiesa rupestre dei Ss. Stefani: C. De Giorgi, La provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, Lecce 1888; C. Diehl, L’art byzantin dans l’Italie méridionale, Paris 1894; A. Medea, Gli affreschi delle cripte eremitiche pugliesi, Roma 1939; F. Babudri, Oria e lo Scisma d’Occidente, in Archivio Storico Pugliese 1-4, 1956, pp. 1-11; C.D. Fonseca, A.R. Bruno, V. Ingrosso, A. Marotta, Gli insediamenti rupestri medievali nel Basso Salento, Galatina 1979; V. Pace, La pittura delle origini in Puglia, in P. Belli D’Elia et alii, La Puglia fra Bisanzio e l’Occidente, Milano 1980, pp. 317-400; M. Falla Castelfranchi, Pittura monumentale bizantina in Puglia, Milano 1991; H.J.W Drijvers, Christian, Jews and Muslim in Northern Mesopotamia in Early Islamic Times, in P. Canivet, J.P. Rey Coquais (a cura di), La Syrie entre Byzance et l’Islam, VIIe-VIIIe siècle, Actes du Congrès International, Lyon-Paris 1992, pp. 167-74; Y. Christe, L’Apocalypse de Jean, Paris 1996; A. Jacob, Vaste en Terre d’Otrante et ses inscriptions, in Aevum LXXI, maggio-agosto 1997, pp. 243-62; F. Dell’Aquila, A. Messina, Le chiese rupestri di Puglia e Basilicata, Bari 1998; M. Falla Castelfranchi, Culto e immagini dei Santi medici nell’Italia meridionale bizantina e normanna, in A.M. Ieraci Bio, F. Burgarella (a cura di), La cultura scientifica e tecnica nell’Italia meridionale bizantina, Soveria Mannelli 2006, pp. 59-81; P. Arthur, B. Bruno (a cura di), Il complesso tardo-antico ed altomedievale dei Ss. Cosma e Damiano detto Le Centoporte. Giurdignano (LE). Scavi 1993-1996, Galatina 2006; L. Safran, The Medieval Salento. Art and Identity in Southern Italy, Philadelphia 2014.

Santo Stefano

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La cripta di Santa Maria degli Angeli e il Museo degli Affreschi È storia recente – ma forse neanche troppo – quella di un monumento simbolo di Poggiardo con cui molti dei suoi abitanti, orgogliosamente, ancora oggi s’identificano. Un luogo di culto a lungo dimenticato in passato perché sopraffatto, dal tardo ‘600 e nel corso del ‘700, da una nuova e florida fase edilizia che ridisegnò l’urbanistica del borgo salentino, cancellando la sua più importante memoria medievale. Oggi letteralmente occultato alla vista del visitatore per la sua stessa natura di chiesa scavata nella roccia; riscoperto in seguito al fortuito ritrovamento, nel 1929, dell’antica cripta di S. Maria degli Angeli; replicato e finalmente portato a nuova vita nel Museo degli Affreschi, ove trovarono posto le preziose pitture murali; atto conclusivo di questa vicenda fu l’inaugurazione della nuova sede espositiva nell’attuale Piazza Episcopo, nel 1975, alla presenza dell'allora Presidente del Consiglio Aldo Moro. L’architettura Le radici storiche e culturali di S. Maria degli Angeli vanno recuperate molto indietro nel tempo, nel pieno Medioevo, certamente prima della fine del XII secolo (epoca cui va ascritta la sua decorazione pittorica), in una tornata d’anni che coincise con l’escavazione dell’invaso, probabilmente verso la fine dell’anno Mille. L’impianto planimetrico (lungh. max 9,25 m; largh. max 7 m; alt. max 2,20 m) ricalca, adattandolo alle difficoltà di escavazione e correggendone l’andamento in corso d’opera, lo schema medio-bizantino più diffuso: una pianta a croce greca su quattro pilastri inscritta in un quadrato, con le tre absidi orientate. Davanti all’abside principale si conserva integro il cippo dell’altare originale, oggi visibile solo nel sito della cripta sotto la chiesa matrice, lungo la fiancata su Via Don Minzoni. Le nove campate disegnavano fin dall’impianto la separazione tra naos (il luogo riservato ai fedeli, il corrispettivo delle navate nell’architettura ecclesiastica occidentale) e bema (corrispondente alla zona presbiteriale ove il clero officiava la liturgia). A S. Maria degli Angeli il bema era separato dal naos da un templon, un setto litoide trasversale 54

con tre fornici che permetteva al clero di spostarsi dal santuario verso i fedeli e viceversa, secondo i tempi scanditi dalla liturgia bizantina. Si tratta di un triforio, detto a volte, e, impropriamente, iconostasi andato quasi totalmente perduto, ma di cui restano tracce in fondazione e, in alzato, a tratti, lungo i muri laterali. L’escavazione della cripta fu piuttosto sommaria nella prima fase progettuale, tanto che non si riuscì a evitare il fuori asse tra naos e bema, giacché quest’ultimo vira decisamente verso nord; fu invece più accurata nel mettere in rilievo le nicchie orientali e, soprattutto, il sedile in pietra che corre lungo i lati meridionale e settentrionale, quest’ultimo funzionale alla seduta dei fedeli durante le funzioni. L’unico ingresso era posto sull’angolo nordovest, in corrispondenza di una breve serie di scalini, anch’essi scavati nella roccia, come è visibile anche nella sede sotto Piazza Episcopo. Sono quasi del tutto assenti elementi di decorazione scultorea, prassi comune a gran parte delle cripte pugliesi con poche eccezioni (come nel S. Salvatore a Giurdignano); Molajoli nel ’34, Alba Medea nel ’39 e Venditti nel ’67 segnalavano però due blocchi pertinenti all’originaria suppellettile, rinvenuti (ma oggi perduti) nelle operazioni di scavo degli anni ‘30: un pilastrino e un piccolo capitello a canestro in pietra. Il modello centrico della scatola architettonica non è nuovo al panorama salentino, giacché fu replicato in molti altri siti, sia subdiali, sia rupestri: alla prima categoria appartiene sicuramente la celebre chiesetta idruntina di S. Pietro, l’unica in Puglia che, nel costruito sopra terra, presenta quest’articolazione, cui fanno eco due altri celebri casi calabresi: la Cattolica di Stilo e la chiesa di S. Marco a Rossano; tra le chiese rupestri invece, il riferimento più vicino resta la cripta di Giurdignano da cui S. Maria degli Angeli potrebbe derivare direttamente. È in ogni caso pacifica la strettissima familiarità che accomuna gli edifici appena citati in rapporto, diretto e indiretto, con l’Oriente bizantino. La decorazione pittorica Le pitture murali sono state più volte oggetto di studio, per il loro interesse sul piano storico-artistico e per gli aspetti epigrafici. Il programma iconografico si adegua alla rigida tradizione rupestre della decorazione delle cripte di Puglia, caratterizzate da un susseguirsi di pannelli con figure di santi, intervallati da immagini della Vergine, con o senza il Bambino, e di Cristo. L’impianto decorativo di S. Maria degli Angeli presenta un andamento lineare che si risolve in una sequenza paratattica di santi che, sui due lati lunghi dell’invaso, accompagnava il fedele in un percorso ideale verso l’abside centrale, ove è collocato il gruppo della Vergine col Bambino tra i due angeli adoranti, immagine questa dalla spiccata vocazione liturgica. La perdita di numerosi pannelli non permette né di ricostruire in toto la teoria dei santi, né di ipotizzare una qualche chiave di lettura alternativa all’asse ovest-est culminante nella trilogia dell’abside centrale. Lungo il lato meridionale, in prossimità dell’ingresso, si incontra quasi subito la raffigurazione di un santo militare a cavallo – S. Giorgio –, immagine forte, rassicurante e forse da intendersi in chiave profilattica; seguiva una serie di santi vescovi e Padri della Chiesa di Oriente che coi loro scritti, idealmente, guidavano il fedele durante il servizio liturgico; 55

affatto casuale risulta poi l’ubicazione di due martiri “di peso” (Lorenzo e Stefano) sui pilastri che fiancheggiano la grande immagine della Vergine nell’abside, campioni nella fede per la scelta del martirio e che dovevano funzionare come monito figurato rivolto a chi si avvicinava al banchetto eucaristico. Anche la reiterata immagine della Vergine con Bambino, replicata altre due volte nella cripta, in luoghi gerarchicamente differenti nell’economia dell’edificio, suggella e certifica la dedicazione mariana della cripta, dichiarata non su base documentaria, ma suggerita, al momento della scoperta, dalla decorazione dell’abside centrale e confermata dalla fortuna del tema nel piccolo vano. Procedendo con ordine e partendo dall’ingresso originario, il primo pannello presenta una monumentale figura di S. Nicola, vescovo di Myra: il santo è inquadrato entro una cornice rossa contornata da un listello bianco che ai lati e superiormente raddoppia con una banda giallo-ocra, anch’essa chiusa dal listello bianco; il vescovo si staglia su uno sfondo pentapartito articolato in bande di colore blu, rosso e giallo, separate da linea a zig-zag bianca. Nicola è raffigurato benedicente con la mano destra, mentre nella sinistra regge un libro chiuso con la coperta decorata e arricchita con doppio filare di perle. Una doppia perlinatura contorna anche l’aureola che incornicia il volto, disegnato con tratti fisionomici essenziali e incastonato nella consueta barba corta e nella capigliatura bianca che lascia scoperta la fronte alta. Un gusto quasi miniaturistico caratterizza la decorazione delle vesti di Nicola: tra la tunica blu e la casula rosa spuntano un polsino e un lembo di stoffa gialloocra, decorati con ricami. Sono ben in evidenza anche la stola a Y (omophorion) bianca e crucisignata sulle spalle, e l’epitrachelion il cui lembo verticale che ricade in basso, al centro della figura, presenta anch’esso una serie di tre ordini di motivi decorativi geometrici neri su fondo bianco. Dell’originaria iscrizione che accompagnava il santo, oggi resta leggibile solo  AGIOC (il santo) a sinistra dell’aureola, mentre il nome è andato perduto. Il pannello successivo ospita un S. Giorgio a cavallo che uccide il drago. Le figure appiattite sembrano quasi galleggiare sullo sfondo pentapartito: il cavallo è sospeso nel vuoto, apparentemente rampante ma disarticolato nei movimenti, ingessato in un disegno schematico che ingabbia le membra dell’animale in un susseguirsi di bianche lumeggiature che solcano il vello rosso-bruno in maniera del tutto innaturale. In groppa sta S. Giorgio, 56

vestito da militare con una corta tunica rossa e decorata con minuti ornamenti bianchi; il busto è protetto da una lucente armatura gialla, la cui consistenza metallica è resa anche attraverso il decoro a squame del pettorale e il motivo a piume sul braccio; un ampio mantello completa la “divisa” del soldato, di colore bruno e decorato con una fittissima doppia perlinatura che disegna una serie di losanghe, svolazzante dietro le spalle. La lunga lancia che il santo regge nella mano destra infilza il drago-serpente ai piedi del cavallo: il corpo strisciante si annoda e le ampie fauci rispondono con una smorfia di dolore all’abbattimento. Nella raffigurazione di S. Giorgio il decorativismo minuzioso è amplificato rispetto a S. Nicola, andando a impreziosire non solo le vesti, ma la sella, le staffe e il morso del cavallo. La posizione apotropaica del santo militare nel programma di Poggiardo è chiara e ricalca la sua diffusa fortuna nella pittura bizantina dell’Italia meridionale, le cui figurazioni si moltiplicano soprattutto a partire dal tardo XI e XII secolo, in coincidenza con la dominazione normanna. Il riquadro seguente funge da dittico con la raffigurazione di una coppia di santi: Giovanni Teologo (identificato dall’iscrizione O AGIOC IWANNHC QEOLOGOC, a destra) che regge il libro nella mano sinistra; e un altro santo, benedicente, già riconosciuto come S. Gregorio Nazianzeno, a sinistra, identificazione tuttavia oggi non più verificabile per la totale perdita dell’iscrizione, e anche in considerazione del tipo iconografico molto comune, con solo un rotulo chiuso stretto nella mano sinistra come attributo. Entrambi sono vestiti con tunica e pallio. Purtroppo il pannello versa in uno stato di conservazione molto precario. I due pannelli successivi, staccati separatamente durante lo strappo dello scorso secolo, erano in origine pertinenti ad un unico riquadro: a sinistra un Cristo benedicente su un trono gemmato e ai suoi piedi una piccola figura femminile inginocchiata, in adorazione (proskynesis); a destra un santo martire così connotato dalla piccola croce astile bianca e dal palmo della mano destra aperto: la sua identificazione con S. Anastasio riposa sulla lettura dell’iscrizione ancora presente alla fine degli anni ‘30 e oggi appena intuibile nel sigma finale a destra. L’immagine appare piuttosto desueta nel catalogo bizantino e ancor più in Italia meridionale, e ciò rende il riconoscimento di Alba Medea piuttosto dubbio, anche per il tipo iconografico: nelle poche immagini note del santo persiano, infatti, egli è raffigurato giovane, con barba e capelli scuri e vestito solitamente in abiti militari; altre volte da monaco. A Poggiardo invece è abbigliato con ricche vesti, lunga tunica rossa, con larga banda ricamata e perlinata in fondo, e manto blu, con bordura ricamata di perle lungo gli orli e decorato con rote. Del volto, oggi perduto, restano visibili alcune campiture di colore che indurrebbero a pensare che originariamente la figura avesse una capigliatura bianca, in contrasto dunque con la tipologia più comune. A lato sta Cristo il quale, nonostante sia seduto, appare della stessa altezza dei restanti componenti la “parata” di santi della parete meridionale, a segnare anche a livello dimensionale una gerarchia interna delle immagini. Veste una tunica blu cupo e un himation marrone; la mano destra benedice alla greca, mentre la sinistra regge il consueto libro aperto ove si legge parzialmente, in greco, il versetto giovanneo “Io sono la luce del mondo; chi mi seguirà non camminerà nelle tenebre” (Gv. VIII, 12). Il volto, deturpato dalle lacune, è pallido e ombreggiato con leggere campiture verdastre, gli occhi sgranati guardano fissi il fedele; la capigliatura come le linee 57

di contorno sono rosse e non nere come nelle figure che lo precedono. L’aureola perlinata è crucisignata e nel braccio destro resta un’omega. Il trono è riccamente decorato con perle, sia sui montanti della spalliera coperta da un drappo rosso con rote e fiori a otto punte, sia sui piedi dello stesso, che imitano un intaglio a volute; sulla seduta v’è un cuscino tubolare blu e alla base un suppedaneo trapezoidale, a destra del quale si vede una goffa figurina adorante dai folti capelli rossi. Essa è spesso identificata dall’iscrizione a lato con la Maddalena evangelica, per quanto le proporzioni ridotte portano a condividere l’ipotesi di Marina Falla Castelfranchi che si tratti piuttosto di una committente, omonima, che della Maddalena assume postura, gestualità e fattezze. Anche il pannello successivo, piuttosto guasto, funziona come un dittico: vi sono una figura con vesti sontuose a destra e un’altra immagine di S. Nicola a sinistra. Se per il secondo non v’è dubbio nell'identificazione giacché ricalca il tipo iconografico del secondo pannello dall’ingresso, per quella del primo santo resta utile la sola indicazione delle poche lettere del nome che ancora si leggevano nel ‘900 e che riconducevano a S. Demetrio (oggi resta visibile solo una ro a destra del capo). Demetrio, martire tessalonicese, è tuttavia più spesso raffigurato in abiti militari, ma può anche essere ritratto con tunica e pallio e recante il vessillo del martirio. L’immagine a S. Maria degli Angeli non rispecchia alcuna delle due varianti: qui il santo è riccamente vestito e tiene il braccio sinistro in posizione orante, mentre il destro è accostato al busto col palmo aperto, senza alcuna croce. La parte del viso è totalmente perduta e non aiuta a confermare l’identificazione. A chiusura della parete sud, sul breve setto del templon, v’è una seconda immagine di S. Giovanni Teologo, en pendant, sul lato nord, con un altro Giovanni, il Battista. Rispetto alla precedente raffigurazione, l’Evangelista qui si distingue per piccoli dettagli: il colore delle vesti (il pallio è blu invece che bianco), la mancanza della cerniera sul libro, e la mano destra benedicente invece che indicante il Vangelo. Tranne la piccola nicchia meridionale, perduta totalmente, la decorazione del bema si conserva sostanzialmente integra. Il fulcro è costituito dalla trilogia nella grande abside 58

centrale con la Vergine in trono col Bambino tra i due angeli adoranti; ai lati due diaconi (Lorenzo a destra, Stefano a sinistra dell’osservatore), e a chiudere l’Arcangelo Michele nella nicchia settentrionale, cui poteva forse corrispondere un altro Arcangelo in quella di destra. Il carattere liturgico del santuario è qui sottolineato dalla presenza dei due diaconi: nella tradizione salentina Stefano è sicuramente più popolare di Lorenzo; l’impaginazione accoppiata, come a Poggiardo, sembra essere stata ripetuta solo nel caso della chiesa di S. Giovanni Evangelista a San Cesario di Lecce. Tornando all’abside centrale, la scelta del tema iconografico si discosta decisamente dalla tradizione bizantina del Salento, che vede più spesso qui raffigurata la Deesis, inserendosi invece nel solco della più pura tradizione dell’ecumene bizantina (S. Giorgio a Kurbinovo, in Macedonia, 1191; chiesa degli Anargiri a Kastoria, in Grecia, fine del XII secolo). La diversa natura degli spazi è segnata anche da un cambio degli sfondi che da pentapartiti, qui divengono tripartiti, blu-giallo-blu, con bande di diverse altezze; gli spazi di risulta dell’architettura sono decorati con motivi ornamentali e girali fogliati. Un ricco trono ospita Madre e Figlio, raffigurati in posizione perfettamente frontale, il secondo in asse con la prima. La Vergine Kyriotissa veste la tunica blu e il maphorion bruno, decorato con una stella a quattro punte sulla fronte, e porta scarpette rosse; la figura di Maria è allungata ed elegante, quasi incorporea; entro la grande aureola, il volto diafano è segnato solo dalle linee che disegnano il naso, la bocca e i grandi occhi fissi e da due lievi ombre ai lati del naso e sotto il mento; all’altezza delle spalle il monogramma mariano MHR QY (MHTHR QEOY, Madre di Dio). Stilisticamente gemello alla Vergine è il Cristo Bambino, frontale anch’esso, con i grandi occhi che dominano il pallore del viso, l’himation rosa, la mano destra benedicente mentre la sinistra appare sospesa nel vuoto; il monogramma che l’identifica, IC XC, è collocato al di sotto di quello materno. Di particolare interesse sono le lettere che accompagnano i bracci della croce all’interno dell’aureola: NOW che nel Cristo Bambino – come nella figura in trono già vista – sostituisce il più consueto C (luce) (come a S. Cristina a Carpignano); la sigla è oscura nella sua interpretazione, giacché può essere intesa sia come un’abbreviazione di O NAZWRAIOC (il Nazareno), o come O WN, colui che è: in un caso o nell’altro si tratterebbe dell’unica attestazione ad oggi nota. Ai lati della coppia principale stanno le due figure gemelle degli Arcangeli, entrambi identificati con l’abbreviazione O AX (O ARCAGGELOC, l’arcangelo), Gabriele a destra, Michele a sinistra, forse eseguiti ricorrendo allo stesso cartone preparatorio del disegno perché specularmente sovrapponibili. A destra dell’abside v’è S. Lorenzo, giovane e imberbe, oggi deturpato da una lacuna orizzontale all’altezza delle ginocchia. Il santo, diacono di papa Sisto II, martirizzato a Roma nel 258, conserva ancora l’iscrizione che lo identifica come C THOC, il santo fuoco del Signore. Gli fa eco, tra l’abside centrale e la nicchia settentrionale, l’altro diacono, S. Stefano. Ai piedi del santo si apre un’altra piccola nicchia ove è raffigurato, su fondo bianco, un personaggio in abiti militari di dimensioni ridotte e non identificato. Nella superstite nicchia settentrionale campeggia un busto monumentale dell’Arcangelo Michele, a guardia del bema: la figura è in posizione frontale con le ali spiegate, una tunica rossa decorata con perline in motivi circolari e veste il loros, la lunga stola ricamata che, 59

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passando intorno al collo, cinge la vita e ricade sul braccio destro: si tratta di un attributo specifico della gerarchia degli Arcangeli che deriva dall’abbigliamento imperiale a Bisanzio. Nella mano destra stringe una lancia, mentre con la sinistra tiene il globo entro cui campeggia una croce su monte affiancata dalle lettere e : secondo una recente e convincente ipotesi, esse si potrebbero interpretare come una versione abbreviata di C (Michele, il primo del Signore). Completa il programma iconografico del bema la coppia dei santi medici Cosma e Damiano, raffigurati a mezzo busto sul lato settentrionale. Entrambi vestono tuniche con mantelli riccamente decorati rosso e blu e sono raffigurati giovani con capelli e corte barbe brune. Anche se i nomi sono perduti, la loro identificazione è indubbia per la peculiarità degli attributi che hanno tra le mani: un rotulo e un bisturi Cosma, una cassettina unguentario Damiano. La categoria degli Anargiri ha sempre goduto di una grande fortuna iconografica a Bisanzio e, di conseguenza, in Puglia e più in generale in Italia meridionale; basti citare il vicinissimo caso della “cripta” dei Ss. Stefani a Vaste ove vi sono ben tre immagini di santi medici, due giovani e uno più anziano da identificare con Ciro di Alessandria. Oltrepassato il bema, si rientra nel naos, ove subito si trova la già menzionata figura del Battista seguita, spostandosi verso ovest, da un altro S. Michele Arcangelo a figura intera e da S. Giuliano. L’impaginato dello sfondo torna nuovamente diviso in cinque sezioni orizzontali; la differenza dello sfondo non sembra accidentale, così come non è casuale il corrispondente ricorso a due differenti varianti di perlinatura delle aureole: a doppio filare nel naos in associazione con le cinque bande; con un unico filare di perle bianche intervallate da grandi perle rosse nel santuario, unitamente allo sfondo tripartito. Questa considerazione, unita al fatto che stilisticamente i santi del bema si presentano meglio curati, potrebbe indurre a ritenere che almeno due artisti diversi abbiano atteso alla decorazione dell’invaso, contemporaneamente. Tornando a S. Giovanni, il Prodromo porta una folta capigliatura appena arruffata e barba brune ed è raffigurato scalzo, con tunica e mantello. Nel successivo pannello, S. Michele è simile all’Arcangelo già nella nicchia settentrionale, ma è a piena figura, in piedi su un suppedaneo. S. Giuliano, a figura intera, martire come denuncia la croce nella mano sinistra, è riccamente abbigliato con tunica rossa bordata con bande gialle decorate a volute, polsini ricamati e mantello marrone con losanghe di perle. Il volto giovane del santo è sapientemente ombreggiato e incorniciato da una capigliatura bruna folta e appena riccioluta. L’iscrizione che l’identifica si conserva quasi per intero. Resta un ultimo ma interessantissimo pannello da considerare: una seconda Vergine con Bambino affiancata da S. Nicola sul lato occidentale, nei pressi dell’attuale ingresso. Il santo vescovo è riconoscibile dagli attributi episcopali e dall’inconfondibile tipologia facciale, replica del pannello della parete meridionale, ma di mano diversa e assimilabile alle immagini di qualità più alta (il gruppo del bema e S. Giuliano); alla destra di Nicola trova posto Maria che regge sul braccio destro il Bambino. Il tempo ha cancellato una preziosa testimonianza epigrafica, la più significativa dell’intera cripta, letta a suo tempo da Alba Medea e il cui testo trasmette un’invocazione: “Ricorda, Signore, il tuo servo Leone e sua moglie. Amen”. 61

Poche pitture, alcune leggibili, altre in lacerti, decorano infine il pilastro nord-ovest. Delle quattro facce, quella meridionale preserva poche tracce di pigmento; ad ovest è raffigurato un santo con grandi occhi e una capigliatura scura, vesti riccamente decorate con perle e gemme, elementi tuttavia non sufficienti per identificarlo. Le immagini sulle restanti due facce del pilastro sono invece meglio conservate. Sul lato settentrionale, compare per la terza volta la Vergine con Bambino: la Madre è raffigurata di tre quarti, con un bel carnato rosato; con la mano sinistra indica la “via” della salvezza, il Figlio, in una variante anomala dell’Hodegetria, col Bambino seduto sul braccio destro; il Figlio, il cui volto è trattato sommariamente, benedice con la destra e nella mano sinistra regge il rotulo chiuso. Come già rilevato per il Bambino dell’abside, anche la croce nel nimbo del Cristo sul pilastro reca le lettere . Sull’ultima faccia, verso le absidi, resta la figura di un santo giovane imberbe a mezzo busto in abiti militari. La somiglianza del volto col S. Giorgio a cavallo della parete meridionale rafforza la lettura delle poche lettere ancora superstiti del nome, C, Giorgio. L’apparente monotonia del programma iconografico rispecchia in realtà una consuetudine consolidata delle chiese rupestri salentine, fondazioni perlopiù private e a carattere funerario, in cui dominano la “scena” i santi più popolari per culto e/o per fama: Nicola tra i vescovi; la Vergine con Bambino; l’Arcangelo Michele; e – a Poggiardo – S. Giorgio, la cui doppia raffigurazione, in due atteggiamenti distinti, è probabile spia di una devozione personale. Sul piano della cronologia, la letteratura è ancora divisa tra una datazione alla fine dell’XI - inizio del XII secolo e, più verosimilmente, la fine del XII se non già intorno al 1200.

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La musealizzazione e le nuove frontiere della diagnostica e del digitale

Non si conoscono le ragioni che portarono il vescovo di Castro, Giorgio Rosa, a «suffocare» l’originario sito di «S. Maria de la Grotta» tra il 1521 e il 1530, ma certamente le testimonianze, soprattutto di epoca ottocentesca, di illustri abitanti del borgo salentino testimoniano dell’insofferenza per la perdita alla pubblica vista del sito originario di S. Maria degli Angeli. Bisognerà attendere il 1929 per la definitiva ri-scoperta della cripta e della sua decorazione pittorica che fin da subito denunciò la devastante precarietà dello stato di conservazione in cui versava, segnata inesorabilmente dai numerosi danni causati soprattutto dalle forti infiltrazioni di acqua e umidità. Nonostante alcuni interventi-tampone effettuati nel corso dei successivi venticinque anni, nel 1955 Cesare Brandi, Direttore dell’Istituto Centrale del Restauro di Roma, decise per la definitiva asportazione a massello delle pitture murali, pena la loro definitiva perdita per le incipienti incrostazioni di carbonato e muffe. I pannelli recuperati dallo stacco furono restaurati presso i laboratori romani ed esposti prima ai Mercati Traianei nel ‘58 e a Torino nel ‘61. La sede di Poggiardo ne reclamava però il ritorno. Brandi in più occasioni aveva escluso che gli affreschi potessero tornare nella loro sede originaria, rendendosi necessaria la predisposizione di un nuovo luogo espositivo adatto ad accoglierli; l’Amministrazione Comunale commissionò, nel 1969, a Franco Minissi la «progettazione di un padiglione per allocare gli affreschi bizantini di S. Maria degli Angeli». I lavori per il Museo degli Affreschi procedettero rapidamente e nel settembre del ‘72, a lavori quasi ultimati, i dipinti furono trasferiti nella nuova sede. Chi oggi visita Poggiardo recupera in due tappe la memoria bizantina di S. Maria degli Angeli: nel sito originario della cripta, visitabile su richiesta, e nelle pitture nella sede in Piazza Episcopo. Il sito e gli affreschi saranno però a breve visitabili anche in remoto, nel quadro di 63

una collaborazione italo-giapponese che ha visto come protagonisti l’Opificio delle Pietre Dure (Firenze), la Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici della Puglia (Bari) e l’Università di Kanazawa (Centro di Ricerca sulla Pittura Murale Italiana). La cripta di Poggiardo rientra, infatti, in un ampio progetto di ricerca diagnostica e di documentazione sulla tecnica esecutiva e sullo stato di conservazione delle pitture murali altomedievali e bizantine di Puglia: una équipe ha lavorato in situ alla fine del settembre del 2012, verificando le condizioni ambientali attuali degli affreschi e del sito e gli effetti del massello, procedendo ad una serie di analisi diagnostiche non distruttive i cui risultati sono in pubblicazione. La fase ultima del progetto italo-giapponese prevedeva in origine la realizzazione e la messa in rete di un modello virtuale 3D interattivo della cripta e della sua decorazione, modello non ancora realizzato ma che dovrebbe consentire una visita virtuale “avanzata”, in cui il fruitore “lontano” potrà non solo vedere il “contenitore” originale, il museo attuale e le sacre immagini delle pitture murali, ma anche verificare gli sforzi, in termini di studio e di buona prassi conservativa, messi in atto negli ultimi anni dal mondo scientifico e dal Comune per una rinascita di S. Maria degli Angeli. Manuela De Giorgi Nota Si riporta di seguito una selezione dei riferimenti bibliografici fondamentali per l’analisi della cripta di S. Maria degli Angeli: G. Robinson, Some Cave Chapels of Southern Italy, in Journal of Hellenic Studies, L, 1930, pp. 189-209; M. Luceri, La cripta di S. Maria in Poggiardo, in Japigia, IV, 1933, pp. 1736; E. Molajoli, La cripta di Poggiardo, in Atti e memorie della Società Magna Grecia, I, 1934, pp. 9-23; A. Medea, Mural Paintings in Some Cave Chapels of Southern Italy, in American Journal of Archaeology, XLII, 1938, pp. 17-29; A. Medea, Gli affreschi delle cripte eremitiche pugliesi, 2 voll., Roma 1939; A. Venditti, Architettura bizantina dell’Italia meridionale, 2 voll., Napoli 1967; A. Prandi, Elementi bizantini e non bizantini nei Santuari rupestri della Puglia e della Basilicata, in La Chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI secolo, atti del Convegno interecclesiale (Bari, 30 aprile - 4 maggio 1969), 3 voll., Padova 1972-1973, qui vol. III, 1973, pp. 1363-1375; C.D. Fonseca, A.R. Bruno, V. Ingrosso, A. Marotta, Gli insediamenti rupestri medioevali del Basso Salento, Galatina 1979; A. Jacob, Un nouvel Amen isopséphique en Terre d’Otrante, in Rivista di Studi bizantini e neoellenici, N.S. XXVI, 1989, pp. 187195; M. Falla Castelfranchi, Pittura monumentale bizantina in Puglia, Milano 1991; F. Dell’Aquila, A. Messina, Le chiese rupestri di Puglia e Basilicata, Bari 1998; M. Falla Castelfranchi, La chiesa di San Marco a Rossano, in Daidalos, III.2, 2003, pp. 22-31; M. Falla Castelfranchi, La chiesa di San Pietro a Otranto, in G. Bertelli (a cura di), Puglia preromanica. Dal V agli inizi dell’XI secolo, Milano 2004, pp. 181-192; M. Falla Castelfranchi, Culto e immagini dei Santi Medici nell’Italia meridionale bizantina e normanna, in F. Burgarella, A.M. Ieraci Bio (a cura di), La cultura scientifica e tecnica nell’Italia meridionale e bizantina, Soveria Mannelli 2006, pp. 59-96; L. Safran, The Medieval Salento. Art and Identity in Southern Italy, Philadelphia 2014; A. Vilei, Poggiardo. Santa Maria degli Angeli. Storia e restauri, Poggiardo 2014. Sugli interventi a Poggiardo dell’équipe dell’Università di Kanazawa, si vedano gli articoli pubblicati a partire del 2012 sulla rivista del Centro di Ricerca sulla Pittura Murale Italiana consultabile on-line all’indirizzo http://dspace.lib.kanazawa-u.ac.jp/dspace/.

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L'arboreto didattico L’arboreto didattico è un’area naturalistico-ambientale istituita all’interno del Sistema Museale di Vaste e Poggiardo. E’ ubicata sulle pendici della Serra di Poggiardo, lungo la vicinale Ss. Stefani, a breve distanza dalla omonima chiesa rupestre e dal complesso archeologico paleocristiano di Fondo Giuliano, e si estende su una superficie di poco meno di un ettaro. La particolare concentrazione nella zona di una molteplicità di specie vegetali, che caratterizzano l’intero habitat delle Serre Salentine, ha offerto lo spunto per la creazione di un parco finalizzato da un lato alla conservazione dell’ecosistema della macchia mediterranea, dall’altro alla realizzazione di un percorso didattico attrezzato per la fruizione dell’ambiente da parte del pubblico, con particolare attenzione a scolaresche, studiosi, turisti e amanti della natura. L’area comprende ampi spazi per godere in tranquillità di un ricco complesso di forme, profumi e colori proposti dal contesto naturale. Lungo i sentieri per la visita sono stati posizionati panchine e pannelli didattico-illustrativi che descrivono le varie specie erbacee, arboree ed arbustive. Tra esse spiccano il cisto, il corbezzolo, il mirto, il rosmarino, il timo, il lentisco. Grazie alla presenza di vere e proprie aule all’aperto l’Arboreto è anche sede di importanti iniziative che hanno come obiettivo l’educazione ambientale e la salvaguardia delle biodiversità. Redazione Nota L’Arboreto didattico è stato realizzato dall’Amministrazione Comunale di Poggiardo con il contributo del programma di Iniziativa Comunitaria LEADER II (Azione 6.1) del Gruppo di Azione Locale “Capo S. Maria di Leuca” s.r.l.

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Indice Il palazzo baronale e il Museo Archeologico Il Parco dei Guerrieri Il Portale del Parco L'ipogeo delle Cariatidi Il complesso paleocristiano di Fondo Giuliano La chiesa rupestre dei Santi Stefani La cripta di Santa Maria degli Angeli e il Museo degli Affreschi L'arboreto didattico

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17 27 34 37 42 48 54 66

Referenze iconografiche: Archivio G. Carluccio: pp. 26-27, 53. Archivio Lab. Archeologia Classica - Università del Salento: pp. 19, 21, 22, 23, 24 in basso, 25, 28, 29, 31, 35, 44, 45, 65, 66, 67. Coordinamento SIBA - Università del Salento: pp. 37, 38-39, 41 (Modello 3D, ipotesi di ricostruzione: F. D’Andria, K. Mannino - pannello esposto presso il Portale del Parco dei Guerrieri). InkLink - Firenze: pp. 24 in alto, 32-33, (ideazione F. D’Andria). M. De Giorgi: pp. 56, 58, 60, 62-63. M. Falla Castelfranchi: pp. 49, 50, 51, 52. F. Gabellone - CNR IBAM - Lecce: pp. 18-19. F. Ghio: pp. 14-15, 16-17, 30, 43. F. Malinconico (rielaborazione): pp. 48, 54.

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2015

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