SOGLIE: UMANO/DIS-UMANO

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Iª bozza 3-12-2013

EMANUELA FORNARI SOGLIE: UMANO/DIS-UMANO TRA LINGUAGGIO E RAPPRESENTAZIONE 29. Non ci fu altro che il Grido, uno solo e furono spenti. 65. In quel Giorno sigilleremo le loro bocche, parleranno invece le loro mani e le loro gambe daranno testimonianza di quello che avranno fatto. AL-QUR’AˆN, Sura XXXVI. Yaˆ Sıˆn Terremoto / cocci, vulcano / cenere, marea / paura, il fuoco / purificano, il vento / le parole svaniscono. CLIFTON JOSEPH, Crisi. La Torre di parole Ma parlare a chi e` distrutto dal dolore, o a chi e` morto, e` impresa troppo ardua quando si ha la bocca piena di sangue. E` un gesto troppo sacro per chi ha pensieri impuri. Perche´ i morti sono liberi, assoluti... TONI MORRISON, I morti dell’11 settembre Soprattutto un corpo non dovrebbe essere visto morire. Corpi che sfioriscono [fail] e cadono. J. ROSE, The Body of Evil

Il mio contributo reca un titolo impegnativo: Soglie: umano/dis-umano tra linguaggio e rappresentazione. Cerchero`, attraverso alcune notazioni e alcuni spunti che fanno parte di una ricerca tutt’ora in corso, di articolare quella che e` per me la posta in gioco implicata da questa breve locuzione, che affianca quattro termini le cui relazioni forse domandano di essere approfondite. Dico subito che si trattera` per me di accostare, attraverso un’angolatura insieme teoretica e genealogica, la questione della differenza: della sua semantica concettuale e della sua messa in opera socio-politica. La differenza, dunque, non solo e non tanto come questione logica o ontologica, quanto invece come operatore storico-politico o, ancor di piu`, geo-politico. Ma qui devo precisare meglio il mio assunto di partenza. La posta in gioco implicata dall’endiadi — 47 —

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umano/disumano (colta nel punto di congiunzione tra parola e immagine, linguaggio e rappresentazione) non puo` essere piu` oggetto di riflessione filosofica senza il rimando a un evento-spartiacque del nostro presente reso unico e traumatico nella sua risonanza globale e nell’universale inconfondibilita` della sua denominazione: ‘l’11 settembre’. Difficile trovare, nella storia degli ultimi decenni, un accadimento suscettibile di rivestire pleno jure lo statuto filosofico di Evento, come la tragedia delle Twin Towers e di riattualizzare dunque quella vocazione tipicamente moderna della filosofia che – a partire da Kant e Hegel – pone ad oggetto della propria analisi il presente. Per questa ragione quella data – come Derrida, tra molti altri, ha sostenuto – non rappresenta solo un limite o uno spartiacque cronologico all’interno di una supposta storicita` lineare, ma forse – o anzi soprattutto – un’interrogazione (tanto piu` radicale quanto piu` coincidente con un ‘evento’ dalla materialita` a dir poco bruciante) sullo statuto stesso della Storia.1 E dunque dell’Occidente e della sua percezione della temporalita`, dello Stato e forse, come tentero` di argomentare, della vita e della morte. O ancora, di cio` che oggi vale come umano e come disumano. O meglio: di cosa ne e` al giorno d’oggi di una categoria quale quella, tanto carica di storia quanto imbevuta di ambivalenza, di ‘umanita`’. Dichiaro subito che il mio contributo prende consapevolmente le mosse da un’interrogazione su due notazioni grafiche: una barra, quella che separa le parole ‘umano’ e ‘disumano’, e un trattino, che scompone invece il lemma dis-umano, restituendo un dis-, un Due, l’immanenza di un conflitto, o di un antagonismo, che rende a mio parere instabile lo stesso concetto di ‘uomo’. L’interrogazione sulla grafia, e sul silenzio che essa introduce all’interno di una verbalizzazione puramente fonica o fonetica, non e` forse tanto distante da quanto, nell’ormai lontano 1968, Derrida intese sostenere nella nota e abusata conferenza su La diffe´rance: vale a dire l’irriducibilita` del silenzio, della spaziatura, del grafismo, perche´ si dia articolazione significante o semantizzazione.2 O, in questo caso, l’irriducibilita` della vita a una dimensione di pura immanenza, di vitalita` incontestata, di autoposizione di un se´ presuntivamente sovrano, a fronte del suo costante rimando a una sfera silenziosa e piramidale che Derrida stesso, in quella conferenza come lungo l’intero arco del suo tracciato intellettuale, ha riportato e riporta alla morte. La morte non come un 1 Cfr. GIOVANNA BORRADORI, Filosofia del terrore. Dialoghi con Ju ¨rgen Habermas e Jacques Derrida, Roma-Bari, Laterza 2003. 2 Cfr. JACQUES DERRIDA, La diffe ´rance, in ID., Marges – de la philosophie, Paris, Minuit 1972; trad. it., La diffe´rance, in Margini – della filosofia, Torino, Einaudi 1997.

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altrove o un altro dalla vita, ma come la sua condizione rimossa e imprescindibile. La vita-morte, come scrive spesso Derrida. In questo senso, se la barra che ho deciso di porre tra i due lemmi umano e disumano ha a che vedere con un dispositivo di esclusione, o di cancellazione, il trattino che scinde il termine dis-umano e` invece indice di una scomposizione, di una separazione, segnalando come forse non esista ‘dis-umanita`’ se non come effetto di una proiezione: o, detto piu` semplicemente, come effetto di procedure storiche e materiali di disumanizzazione. Una proiezione dunque che dis-umanizza alcune vite (le scompone, le scinde, ne spezza l’integrita`), rendendole in questo modo ‘menoche-umane’ o, piu` radicalmente ancora, ‘non-umane’. Per rendere in sintesi quanto fa parte di un progetto di ricerca tutt’ora in corso – e dunque ancora provvisorio e interrogativo – desidero muovere in prima istanza da alcuni testi sulla questione del terrore e del terrorismo: sulle sue implicazioni epistemologiche e sulla necessita` di un’indagine che non si fermi ad anatemi o giudizi morali, ma indaghi piuttosto connessioni materiali e concettuali. Si trattera` infatti di domandare che ne e` dell’umanita` quando la morte viene spartita in modo asimmetrico: quando si assiste a un ‘mercato globale della morte’ di cui occorre forse comprendere le logiche profonde, connesse con la genesi stessa dell’ordine politico moderno e della sua assiomatica (fondata, a partire da Hobbes e fino a Carl Schmitt, sulla primazia della paura come affetto fondamentale della legge e dunque come nucleo dell’antropologia politica europea). Da qui intendo muovermi su due traiettorie distinte: una prima traiettoria che reinterroga, una volta di nuovo, il nucleo teologico-politico di cui e` sin dall’origine impregnato il lessico politico europeo (che esso dichiari ‘guerre giuste’ o ‘appelli umanitari’ in difesa di una vita a-specifica: una zoe´ non qualificata che fa tutt’uno con un’ideologia, o un’iconografia, del «corpo vittimario», un corpo ridotto a spettacolo, o – come scrive Alain Badiou – ad «animale che fa pieta`»). E una seconda traiettoria che invece interpella il linguaggio: o meglio, torna al linguaggio come ‘interpellazione’, come atto performativo la cui agency (secondo il lessico corrente negli Stati Uniti) e` inscindibile da una riflessione sul corpo, sulla vulnerabilita` del corpo, e sulla dipendenza originaria – o sull’attaccamento appassionato – che lega l’animaleuomo al proprio simile. Di qui, in chiusura, un interrogativo: vale a dire quanto e cosa puo` ancora o forse proprio oggi offrirci una riflessione sull’animalita`, sullo statuto del cosiddetto animale, e sulla supposta differenza che l’animale-uomo ha stabilito tra se stesso e le altre specie viventi. O tra se stesso e la vita in generale. Si trattera` dunque di procedere, in maniera tentativa, su un terreno che mette in questione la stessa stabilita` (o fondatezza) epistemologica della categoria di ‘umanita`’ come cardine della retorica internazionale sul diritto, sui diritti, sui diritti cosiddetti umani e sulla giustizia, muovendo dal carat— 49 —

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tere originario (se si vuole sorgivo) dei dispositivi di dis-umanizzazione. O, ancora, dalla retroazione che il lemma stesso, o meglio, la pratica della dis-umanizzazione produce sui concetti di ‘uomo’ e di ‘umanita`’. Da questo punto di vista, desidero prendere le mosse da un testo edito negli Stati Uniti nel 2007 e il cui autore e` un noto antropologo islamico, Talal Asad, docente a New York e autore di volumi e saggi dedicati al rapporto tra cristianesimo, Islam e modernita`, e alle genealogie delle religioni.3 Si tratta di un testo, dal titolo On Suicide Bombing,4 il cui carattere se si vuole controverso fa tutt’uno con la potenza di interrogazione lı` depositata. Asad si interroga infatti, sin dalle prime pagine, su cosa possa significare l’atto di stabilire «differenze» nella crudelta`: rimandando con cio`, forse, a una questione, quale quella del ‘male’, che tentero` in seguito di avvicinare attraverso una psicoanalista lacaniana come Jacqueline Rose. La domanda che Asad pone nel testo, discutendo con teorici della politica come Micheal Walzer, autore di un noto volume sulla «guerra giusta»,5 e` tanto semplice quanto forse disturbante: «Cosa c’e` di cosı` unico nell’ attentato suicida?».6 Perche´ esso colpisce e frammenta le nostre sensibilita`, le destabilizza in modo tanto potente? Perche´ esso suscita in noi non terrore, bensı` orrore, a differenza delle tante morti invisibili e anonime che le ‘guerre intelligenti’ distribuiscono sulla superficie del globo? Interrogarsi sugli attentati suicidi, sostiene Asad, nella loro banalita` e nel loro orrore, nel loro essere fatti di corpi smembrati, macellati, dispersi, in ristoranti, strade, piazze, bar, discoteche, non e` altro che una possibile via per mettere a fuoco cio` che la modernita` europea ha tacitamente pensato su cosa e` morire e su cosa e` uccidere. E cio` a partire dalla lucida presa di consapevolezza di quanto – e fino a che punto – proprio la morte (la violenza mortale) riposi nel cuore stesso della soggettivita` liberale e della sua figura concettuale. Asad muove da una constatazione tanto semplice quanto, credo, incontestabile: «la violenza dei marxisti e dei nazionalisti – scrive – era comprensibile nei termini della storia progressiva e secolare. La violenza dei gruppi islamici, per altro verso, e` incomprensibile a molti proprio perche´ non e` incastonata in una nar3 Cfr., tra gli altri, TALAL ASAD, Formations of the Secular. Christianity, Islam, Modernity, Stanford, Stanford University Press 2003. 4 Cfr. TALAL ASAD , On Suicide Bombing, New York, Columbia University Press 2007. Per una storia, incentrata sulle dinamiche del secondo dopoguerra, dell’utilizzo dell’autobomba e della guerriglia in sostituzioni alle guerre convenzionali, cfr. MIKE DAVIS, Buda’s Wagon. A Brief History of the Car Bomb, London, Verso 2007; trad. it., Breve storia dell’autobomba. Dal 1920 all’Iraq di oggi. Un secolo di esplosioni, Torino, Einaudi 2007. 5 MICHAEL WALZER , Just and Unjust Wars, New York, Basic 1992. 6 TALAL ASAD , On Suicide Bombing, cit, p. 59 (trad. mia).

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rativa storica – una storia nel senso ‘‘proprio’’ del termine».7 Se e` vero che termini come jihad, dar ul-harb o dar ul-Islam non costituiscono il ‘cuore’ del testo coranico, non ne rappresentano le parole-chiave, ma sono oggi inseriti nel quadro di un vocabolario teologico-politico ad uso e consumo dei paradossi della cosiddetta globalizzazione (delle sue ricadute violente, del suo essere il precipitato, o forse la prosecuzione, di un passato fatto di colonizzazioni ed espropriazioni violente), allora interrogarsi sul terrorismo come «oggetto epistemologico» riporta forse ad un nucleo che non solo mette in questione il discorso giuridico europeo e le sue distinzioni concettuali, o la sua concezione della temporalita`, ma anche quanto l’Occidente ha pensato della ‘vita’, e della sua relazione alla morte. Seguo ancora l’argomentazione di Asad. Le categorie di «guerra» e di «terrorismo» – scrive – sono costruite secondo due criteri logici differenti: il primo criterio ha a che vedere con la questione della legalita` (e con la convivenza paradossale di crudelta` e compassione, di violenza organizzata e desiderio umanitario di salvare vite umane), il secondo invece ci interroga sul nostro sentimento di vulnerabilita`. E sulla paura del disordine sociale. Di qui il ricorso a una nozione (religiosa e teologica) quale quella di ‘male’: una nozione che si ritiene non domandare un’analisi concettuale, un ‘nome’, forse, che rimanda non a un’esigenza di comprensione bensı` a una diretta, ininterrogata, condanna morale. Asad sposta cosı` il proprio discorso dal terrore come «oggetto epistemologico» all’«orrore» come passione primordiale. «Perche´ le persone in Occidente reagiscono alle rappresentazioni verbali e visive degli attentati suicidi con una professione di orrore?».8 Qui gli e` di aiuto, in prima istanza, un filosofo come Stanley Cavell che, in The Claim of Reason, scrive: «L’orrore e` il titolo che do alla percezione della precarieta` dell’identita` umana, alla percezione che essa possa essere perduta o invasa, che noi possiamo essere, o possiamo diventare, qualcosa di diverso da quello che siamo, o riteniamo di essere; che le nostre origini come esseri umani necessitino di essere raccontate, prese in conto, e tuttavia non possano esserlo».9 L’orrore ha dunque ha che vedere con qualcosa come il collasso dell’identita` personale e sociale, e dunque con la ‘dissoluzione della forma’: con la confusione della forma e dei confini corporei. Un’antropologa come Mary Douglas, nel suo classico Purezza e pericolo, aveva affermato questo: che quando i confini sono in pericolo, quando la forma si trova minacciata, allora l’uomo va alla Ivi, p. 8 (trad. mia). Ivi, p. 65 (trad. mia). 9 STANLEY CAVELL, The Claim of Reason: Wittgenstein, Skepticism, Morality, and Tragedy, New York-Oxford, Oxford University Press 1999, pp. 418-419 (trad. mia). 7 8

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ricerca di rituali di evitamento, di punizione, di purificazione. Poiche´ non e` il ‘disordine’ in se´ – il fatto che le cose siano ‘fuori posto’ – a generare l’orrore, bensı` l’assenza di rituali per gestire la trasgressione.10 Passo cosı` a quanto Jacqueline Rose, psicoanalista lacaniana, ha scritto su tali questioni.11 Rifacendosi a Freud, e in particolare a quanto Freud scrive il Lutto e melanconia la` dove afferma che il soggetto melanconico – o suicidario – non fa che rivolgere contro se stesso un odio diretto verso l’oggetto, in una sorta di introversione o retroversione che dirotta le pulsioni all’interno piuttosto che dispiegarle in uno spazio vitale, Rose ricorda che il suicidio non e` mai un atto che si possa compiere in solitudine. Il suicidio non avviene mai in solitudine, e per questo esso e` sempre o spesso accompagnato da parole, missive, lettere, oggetti lasciati a testimoniare un abbandono. Il piu` radicale. Come se la morte stessa, al pari della vita, non potesse mai essere vissuta al singolare, neanche nella sua propaggine piu` estrema, piu` disperata: il suicidio, appunto. Come Asad, anche Jacqueline Rose nota come gli attentati suicidi uccidano molte meno persone che le guerre convenzionali. E dunque come la reazione che essi provocano debba risiedere altrove che nel numero dei morti. E di nuovo Rose parla di «forma», di un’«etica della forma», come cio` che interroga le nostre identita` attraverso quei gesti. Da dove scaturisce infatti l’orrore provocato dall’attentato suicida? Dal fatto che anche l’attentatore muore. Cosı`, se le morti anonime provocate dalle «cluster bombs» appaiono – per la politica internazionale – «moralmente superiori», perche´ tecnologiche, invisibili, senza nome, la repulsione provata di fronte all’attentato suicida deriva in parte dalla «insostenibile intimita` dell’attentatore suicida e della sua vittima nel loro istante finale». L’attentato suicida e` cosı`, argomenta Rose, nient’altro che un «atto di identificazione appassionata»: morire con il nemico in un «abbraccio mortale». Qui forse Rose riconosce, al pari di Asad, qualcosa come la neces10 Cfr. MARY DOUGLAS, Purity and Danger. An Analysis of Concepts of Pollution and Taboo, Harmondsworth, Penguin Books 1970; trad. it., Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabu`, Bologna, Il Mulino 1975. Se e` vero che «lo sporco non e` mai un evento unico, isolato, [che lo] sporco e` il sottoprodotto di un’ordinazione e di una classificazione sistematica delle cose, cosı` come l’ordine comprende il rifiuto di elementi estranei, [allora questa] idea dello sporco conduce direttamente nel campo del simbolismo e anticipa un collegamento con piu` ovvi sistemi simbolici di purezza». (p. 77) Tanto piu`, pertanto, come scrive Mary Douglas, «piu` diretto e` il simbolismo che si esercita sul corpo umano. Il corpo umano e` un modello che puo` valere per qualsiasi sistema circoscritto: i suoi confini possono servire a raffigurare tutti i confini minacciati e precari. Il corpo e` una struttura complessa: le funzioni delle sue diverse parti e le relazioni tra esse forniscono una gamma di simboli per altre strutture complesse. Noi non possiamo interpretare i rituali che riguardano gli escrementi, il latte materno, la saliva e cosı` via, se non siamo preparati a guardare al corpo come a un simbolo della societa` e a vedere i poteri e i pericoli su cui si fonda la struttura sociale riprodotti in miniatura nel corpo umano»; ivi, p. 186. 11 JACQUELINE ROSE , Deadly Embrace, «London Review of Books», XXVI, 2004, pp. 21-24.

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sita` di una forma la` dove la forma e` perduta: una domanda, mortale e appassionata, una passione mortale, per una nuova «etica della forma». «Come puoi credere nella tua umanita` se non credi nell’umanita` del nemico?», e` la questione che viene sollevata. La` dove parte della risposta riposa nell’affermazione che «dietro l’argomento che gli attentatori suicidi non debbano, o non possano, essere compresi risiede un sottotesto di disumanizzazione». E` chiaro che ne´ Rose ne´ Asad, nei loro scritti, hanno inteso non dico difendere ma anche solo giustificare gesti omicidi che annientano in modo brutale vite umane innocenti. Tuttavia, l’interrogativo che essi sollevano ha forse a che vedere con qualcosa che potrebbe definirsi come ‘l’inconscio dell’Europa’. Prima di accennare brevemente – sulla scorta di un breve e fulminante testo di Carlo Ginzburg – all’ancora insuperata radice teologico-politica della sovranita` occidentale, vorrei soffermarmi brevemente su un altro testo di Jacqueline Rose, intitolato The Body of Evil (Il corpo del male).12 Qui Rose affaccia una tesi radicale: vale a dire che il male, prima di essere una categoria teologica e religiosa, sia insieme «un assoluto e qualcosa di vicino a cio` che la linguistica chiama uno shifter»: 13 un deittico (come il pronome io) che si riferisce al contesto della sua enunciazione e il cui significato risiede unicamente nella sua capacita` di muoversi. Il male – forse il deittico piu` radicale – puo` cosı` essere ogni cosa: esso e` un vuoto che si apre aspettando di essere riempito.14 JACQUELINE ROSE, The Body of Evil, «Anglistica», VII, 2003, pp. 13-32. Ivi, p. 13 (trad. mia). 14 Ivi, p. 14. Significativamente, nel testo, Rose fa riferimento a un breve testo, dedicato ‘all’eterno problema del male’, contenuto nella raccolta Elizabeth Costello di JOHN MAXWELL COETZEE, Elizabeth Costello, New York, Secker & Warbur 2003; trad. it., Elizabeth Costello, Torino, Einaudi 2004. L’anziana scrittrice australiana – alter ego di Coetzee in diversi dei suoi saggi e romanzi – si trova infatti costretta nell’impossibilita` di sciogliere la questione della ‘scrittura’, a partire dall’interrogativo sul male, sul quotidiano «massacro degli inermi», di cui il teorico o lo scrittore non possono rendere conto senza cadere in una rete, seppur tacita e involontaria, di complicita`. Elizabeth Costello riflette sull’esecuzione feroce e disumana dei congiurati che avevano tentato di sconfiggere Hitler. E riflettendo su questo – sull’uccisione, sull’eccidio, sul massacro di uomini o animali («a un certo punto la mente crolla davanti ai numeri», ivi, p. 112) – si chiede: «Quella dura parola calvinista, male, possiede ancora un potere tra questi ragionevoli, pragmatici e ben inseriti cittadini della nuova Europa?» (ibid.). No. La parola che le si impone come un urlo o un grido e` ‘osceno’, «scene che non possono reggere la luce del sole» (ibid): «Ha deciso di credere che osceno significhi fuori dalla scena. Per salvare la nostra umanita`, alcune cose che potremmo voler vedere (che potremmo voler vedere perche´ siamo umani!) devono rimanere fuori dalla scena», ivi, p. 122. Il male, l’anziana scrittrice si trova obbligata a concedere, «ha perso odore e colore», ivi, p. 123: e se le e` sempre piu` difficile comprendere «cosa possa voler dire credere in Dio, sul diavolo non ha dubbi. Il diavolo e` dappertutto sotto la pelle delle cose, e cerca il modo di venire alla luce», ivi, p. 121. Ma sul «massacro degli inermi» – sulla violazione della vita nella forma dell’uccisione sistematica e industriale degli animali – si veda in particolare JOHN MAXWELL COETZEE, The Lives of Animals, Princeton, Princeton University Press 1999; trad. it., La vita degli animali, Milano, Adelphi 2000 (con un’introduzione di A MY GUTMANN e riflessioni, tra gli altri, di PETER SINGER). 12 13

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Jacqueline Rose cita, come e` facile immaginare, Hannah Arendt, e i dubbi che ella stessa espresse in una lettera a Gershom Scholem rispetto al suo libro su Eichmann: E` adesso mia opinione che il male non sia mai ‘‘radicale’’, che sia solo estremo, e che esso non possieda ne´ profondita` ne´ alcuna dimensione demoniaca. Esso puo` proliferare e rendere tutto il mondo un deserto proprio perche´ cresce come un fungo sulla superficie. Esso ‘‘sconfigge-il-pensiero’’, come si dice, perche´ il pensiero cerca di raggiungere qualche profondita`, di andare alla radice, e nel momento in cui si occupa del male, si trova frustrato perche´ non c’e` niente.15

Si deve allora parlare non tanto di «banalita` del male», quanto di una radicale instabilita`, o vacuita`, del male: soprattutto quando, come oggi, il male viene invocato ignorando l’ineguale distribuzione del potere; quando il male, la sua semplice «invocazione», diviene l’equalizzatore supremo, e supremamente ingiusto, tra gli uomini. «Quando accusi qualcuno del male – scrive giustamente Rose – la storia scompare».16 Il linguaggio e` una «cosa viva», dichiara Toni Morrison nel suo discorso di accettazione del premio Nobel per la letteratura del 1993, parlando di «violenza della rappresentazione»; e aggiungendo: «Il linguaggio oppressivo non si limita a rappresentare la violenza; e` la violenza». Commentando queste parole Judith Butler, in Excitable Speech (Parole che provocano),17 conduce la propria riflessione sulla performativita` del linguaggio, sul potere di offendere delle parole, sulla ‘forza linguistica’ e sulla vulnerabilita`: vale a dire su quella sorta di ‘potere anteriore’ del linguaggio che lo rende una forza che uccide o abilita, che e` luogo di morte (‘morte linguistica’ e morte reale), o di sopravvivenza. La riflessione di Butler sulle «parole che feriscono» incrocia e ha incrociato, nel corso degli anni, autori come Kripke, Austin, Derrida, Althusser: sempre attorno alla questione del ‘nome’, della ‘nominazione’, del potere del linguaggio di attribuire o privare di una ‘posizione’, di un ‘posto’, all’interno di una comunita` di parlanti. Cio` che e` qui in gioco – argomenta Butler in questo testo come in altri, piu` esplicitamente dedicati alle «morti invisibili» e alla «gerarchia del dolore» che costituisce il nerbo dell’attuale ordine globale 15 HANNAH ARENDT, The Jew as Pariah: Jewish Identity and Politics in Modern Age, New York, Grove Press 1978, p. 251 (trad. mia). 16 JACQUELINE ROSE , The Body of Evil, cit., p. 15 (trad. mia). 17 Cfr. JUDITH BUTLER, Excitable Speech: A Politics of Performative, Stanford, Stanford Unversity Press 1997; trad. it., Parole che provocano: per una politica del performativo, Milano, Raffaello Cortina 2010.

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– e` il circuito del riconoscimento e dell’abiezione, la dimensione ‘somatica’ del dolore linguistico, le differenti modalita` di attribuzione di un nome e le conseguenze che questa attribuzione produce sulla nostra ‘sopravvivenza’ in quanto esseri dipendenti dal riconoscimento dell’altro. Se e` vero che si tratta qui di prendere in considerazione il nesso (non banale, non riducibile a un esercizio giornalistico deteriore) tra retorica e politica, cio` accade perche´ – sostiene Butler – le parole sono sempre «fuori controllo», il loro tempo non e` mai il tempo del soggetto. «Essere offesi dalle parole – leggiamo in Parole che provocano – significa subire una perdita di contesto, cioe` non sapere dove si e`».18 O ancora: Lo hate speech mette in evidenza una precedente vulnerabilita` al linguaggio, quella che abbiamo per il solo fatto di essere tipi di esseri che vengono interpellati, che dipendono dall’appello dell’Altro per poter essere. Il fatto che si arrivi a ‘‘essere’’ attraverso una dipendenza dall’‘‘Altro’’ – postulato hegeliano e, di fatto, freudiano – deve essere rimodellato in termini linguistici nella misura in cui i termini attraverso i quali il riconoscimento viene regolato, assegnato e rifiutato sono parte di piu` ampi rituali sociali di interpellazione. Non c’e` modo di proteggersi da quella primaria vulnerabilita` e suscettibilita` all’appello del riconoscimento che sollecita l’esistenza, a quella dipendenza primaria da un linguaggio che non abbiamo mai creato per acquisire uno status ontologico provvisorio. Cosı`, a volte, ci aggrappiamo a termini che ci fanno male perche´, come minimo, ci offrono una qualche forma di esistenza sociale e discorsiva. L’appello che inaugura la possibilita` di agire preclude, in un solo colpo, la possibilita` di un’autonomia radicale.19

Lo «status ontologico provvisorio» conferito a esseri che sono costituiti nella «struttura di eccesso» del linguaggio – un linguaggio il cui tempo per struttura non coincide mai con il tempo dell’io («la vulnerabilita` all’imposizione di un nome costituisce una condizione costante del soggetto che parla. E se una persona dovesse fare la lista di tutti i nomi con cui e` stata chiamata? Questa lista non costituirebbe un dilemma identitario?») – esseri costituiti nel e dal misconoscimento o dall’abiezione, interroga dunque nientemeno che la ‘sovranita`’. Se il soggetto e` «fondato sull’altro», obbligato nella posizione di colui che deve rivolgere e ricevere un appello, esso si trova con cio` stesso «costretto a orientarsi nel segno barrato del potere».20 Non e` piu` allora solo questione, se si segue l’argomentazione di Butler, del potere del nome (di offen18 19 20

Ivi, p. 4. Ivi, pp. 38-39. Ivi, p. 44.

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dere, di legittimare, di riconoscere, di ferire o di uccidere), ma anche del «nome del potere», dei presupposti nominalistici che accompagnano la costruzione del potere come se fosse un ‘nome’. Non e` un caso, allora, se Butler nel suo testo faccia di passaggio riferimento all’archetipo della «voce divina», come voce del potere o, meglio, come falso nome del potere: [...] forse la cosa piu` importante da tenere in considerazione e` che la voce e` implicata in una nozione del potere sovrano, potere che si rappresenta come qualcosa che emana da un soggetto ed e` attivato in una voce, i cui effetti sembrano essere gli effetti magici di quella voce. In altre parole, il potere viene inteso sulla base del modello del potere divino di dare un nome, laddove proferire un’enunciazione significa creare l’effetto enunciato. Il parlare umano raramente mima quell’effetto divino: solo nei casi in cui il parlare e` sostenuto dal potere statale, come quello di un giudice, dell’autorita` deputata a regolare l’immigrazione o della polizia, e anche in questo caso esiste a volte la possibilita` di fare ricorso per rifiutare quel potere. Se ammettiamo che chi parla da una posizione di potere, chi fa accadere cio` che dice, e` autorizzato o autorizzata nel suo parlare dal fatto che ci si sia rivolte a lui o a lei precedentemente, e che dunque sia stato iniziato o iniziata alla competenza linguistica attraverso quel rivolgersi, allora ne consegue che il potere del soggetto che parla sara` sempre, in qualche misura, derivativo, che non avra` la sua origine nel soggetto stesso che parla.21

Da queste parole, tuttavia, da questo nesso tra assoggettamento, voce divina e de-propriazione del soggetto vorrei fare un passo indietro: provando a chiedere cosa ne e` oggi della cosiddetta teologia politica, a partire dalla sua origine hobbesiana. Che sin dall’inizio, in modo inaugurale, si e` notoriamente rivolta alla vita e alla morte, alla relazione tra simili, alla guerra e alle sue figure: vale a dire, una volta di nuovo, all’assoggettamento e alla soggezione. E, forse, alla parola. Intendo fare riferimento a pochi passaggi del testo hobbesiano, e in particolare del Leviatano, non dimenticando tuttavia che il ‘fondatore’ dello Stato moderno, della figura della ‘sovranita`’ nelle vesti nel mostro biblico Leviathan, e` anche un filosofo del linguaggio: il filosofo del nominalismo, del nome, e della ragione come «calcolo dei nomi». Per fare questo desidero seguire alcune suggestioni contenute in un breve testo di Carlo Ginzburg, Paura, reverenza, terrore: rileggere Hobbes oggi,22 che sin dall’inizio dichiara l’esigenza (affinche´ si possa riflettere non gia` sul cosiddetto ‘terrorismo’, bensı` sul ‘terrore’) di Ivi, pp. 47-48. Cfr. CARLO GINZBURG, Paura, reverenza, terrore: rileggere Hobbes oggi, Parma, Monte Universita` Parma 2008. 21 22

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«sottrarsi al rumore dell’attualita`», di «guardare il presente a distanza», perche´ l’attualita` riemerga di nuovo, in un contesto inaspettato. Ginzburg e` molto chiaro sulla sua tesi di fondo: Hobbes non e` colui che inaugura la filosofia politica moderna proponendo per la prima volta un’interpretazione secolarizzata dell’origine dello Stato. Egli e` piuttosto colui che apre, per la prima volta in maniera sistematica, il nesso teologico-politico che vuole che lo Stato si presenti quale «autorita` legittima» servendosi delle armi della religione. L’argomentazione di Ginzburg, in effetti, ruota interamente attorno a una parola, a un verbo, il verbo inglese to awe, la cui ricorrenza in Hobbes e` tanto frequente quanto forse inesplorata. Non e` difficile immaginare come tale verbo, e cio` che esso significa, si imponga a Hobbes in relazione alla nota traduzione che egli stese del testo di Tucidide sulla peste di Atene. La` dove in quel testo Tucidide scriveva: Anche per altri aspetti la peste segno` per la citta` l’inizio del dilagare dell’assenza di leggi. Cio` che prima si faceva, ma solo di nascosto, per proprio piacere, ora lo si osava piu` liberamente ... Nessuno era piu` disposto a perseverare in quello che giudicava fosse il bene, perche´ – pensava – non poteva sapere se non sarebbe morto prima di arrivarci; invece, il piacere immediato e il guadagno che potesse procurarlo, quale che fosse la sua provenienza, ecco cio` che divenne bello e utile. La paura degli dei o delle leggi umane non rappresentavano piu` un freno, da un lato perche´ ai loro occhi il rispetto degli de`i o l’irriverenza erano ormai la stessa cosa, dal momento che vedevano morire tutti allo stesso modo, dall’altro perche´, commesse delle mancanze, nessuno sperava di rimanere in vita fino al momento della celebrazione del processo e della resa dei conti.23

Ginzburg nota come Hobbes traduca, forzando il linguaggio, il termine greco apeirgein (tenere a freno) con il verbo inglese to awe: vicino a cio` che in italiano si intende con la locuzione ‘incutere soggezione’. Proprio questo verbo, to awe, ricorre nei passi cruciali attraverso i quali Hobbes descrive la formazione del «dio mortale», nonche´ – sia detto per inciso – nei passi in cui egli tratta di religione. Ne scelgo unicamente due, uno contenuto nel cap. XVII, Delle cause, della generazione e della definizione di uno Stato. Qui Hobbes scrive, dopo aver gia` fatto ricorso all’inizio del capitolo al termine awe (o «soggezione») che «l’accordo tra queste creature [cioe` gli animali] e` naturale, mentre l’accordo tra gli uomini e` solo per patto ed e` artificiale; nessuna meraviglia quindi se 23

TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso, Torino, Einaudi-Gallimard 1996, p. 253.

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(oltre il patto) si richiede qualcosa d’altro per rendere il loro accordo costante e durevole, cioe`, un potere comune che li tenga in soggezione (in awe) e che diriga le loro azioni verso il comune beneficio».24 E ancora, questa volta dal cap. XIII, Della condizione naturale dell’umanita` per quanto concerne la sua felicita` e la sua miseria: «Da cio` e` manifesto che durante il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione (to keep them all in awe), essi si trovano in quella condizione che e` chiamata guerra e tale guerra e` quella di ogni uomo contro ogni altro uomo».25 Lo stato di «guerra di tutti contro tutti» (il noto bellum omnium contra omnia) ha dunque a che vedere con lo statuto di un animale che vive di paura (feare), che teme il proprio simile, che da esso si attende solo «violenza mortale» (mortal violence). Prima di passare a come Derrida, nel suo seminario La Bestia e il sovrano, commenta questi passi hobbesiani sulla paura, sul panico, sul terrore, come «affetto fondamentale» della legge e vincolo che stringe l’animale-uomo in una gabbia di obbedienza e necessita` di protezione, vorrei proseguire ancora brevemente sulla scorta di Ginzburg. Cosa sostiene, infatti, Ginzburg? Che sia nel caso dell’origine della religione sia in quello dell’origine dello Stato, noi ritroviamo questa passione mortale, la paura, e al suo termine, come risultato, la soggezione, il timore, la «reverenza». E tra essi – come passaggio ineluttabile – la «finzione»: la «persona ficta» del sovrano (fatto da coloro che ne sono gli «autori» spossessati). La finzione o, forse, la ‘proiezione’. O, come direbbe Lacan – e sperando di non forzare troppo la mia breve argomentazione sulle tesi hobbesiane – il Nome del Padre (Dio, sovrano o Stato).26 Di nuovo, per l’appunto, il nome. Teologico. O teologico-politico. Cio` che genera «terrore sacro» o «soggezione». Nella chiusura del suo testo, Ginzburg fa significativamente riferimento al nome in codice che l’amministrazione americana diede al bombardamento di Baghdad del 2003: Shock and Awe, che alcuni giornali italiani tradussero – senza pensiero – con «Colpire e terrorizzare». Sulla scorta di Clara Gallini – e delle analisi che Rudolf Otto ha condotto sulla «terribile ambivalenza del sacro» – Ginzburg sottolinea la complessita` di questa locuzione: THOMAS HOBBES, Leviatano (1651), Scandicci (Firenze), La Nuova Italia 1967, pp. 166-167. Ivi, p. 120. 26 JACQUES LACAN , Nota sul padre e l’universalismo, «La psicoanalisi», 33, 2003, p. 9: «Io credo che nella nostra epoca la traccia, la cicatrice dell’evaporazione del padre e` quello che potremo mettere sotto la rubrica e il titolo generale della segregazione. Noi pensiamo che l’universalismo, la comunicazione della nostra civilta` omogeneizzi rapporti tra gli uomini. Al contrario, io penso che cio` che caratterizza la nostra era – non possiamo non accorgercene – e` una segregazione ramificata, rinforzata, che fa intersezione a tutti i livelli e che non fa che complicare le barriere». Al riguardo, si prenda poi ad esempio MASSIMO RECALCATI, Che cosa resta del padre? La paternita` nell’epoca ipermoderna, Milano, Cortina 2011. 24 25

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la sua irriducibilita` a una dimensione di terrore meramente psicologico, e il suo rimando – teologico-politico – a una forma di «terrore sacro». Come se – e cito ancora Ginzburg – i neoconservatori americani si fossero appropriati del nucleo piu` profondo del pensiero hobbesiano (il terrore-soggezione che tiene stretti a doppio filo, e in maniera incongrua, teologia e politica) nel tentativo di diffondere «terrore tecnologico per creare sottomissione».27 Di qui vorrei passare brevemente ad alcune osservazioni che Derrida dedica al testo hobbesiano nel suo seminario sulla sovranita`, per poi tornare – infine – alla questione di cosa e` ‘umano’, se un tale lemma possa ancora possedere una semantica epistemologicamente fondata (e non essere unicamente strumento vuoto di guerra e di conflitto, o di eccidio). In La Bestia e il sovrano, dove di nuovo per Derrida e` questione del rapporto tra forza e diritto, o tra forza e giustizia, egli si interroga sullo statuto della «politicita`» umana, di aristotelica memoria, e lo fa attraverso una messa in contrappunto con il cosiddetto regno animale: La` dove tanto spesso si oppone il regno animale a quello umano come il regno del non politico a quello del politico, dove, inoltre, l’uomo e` stato definito un animale o un essere politico, un essere che, per di piu`, e` anche ‘‘politico’’, l’essenza del politico, in particolare dello Stato e della sovranita` e` stata spesso rappresentata nella forma informe della mostruosita` animale, nella figura senza figura di una mostruosita` mitologica, favolosa o non naturale, di una mostruosita` artificiale dell’animale. 28

Anche Derrida si concentra sulla centralita` di quella paura, di quel panico o di quel terrore che Hobbes nel Leviatano riconosce essere la «passione politica per eccellenza». Affermando al contempo che una «storia del terrore e del terrorismo» non possa che passare attraverso una ricostruzione di tutte quelle teorie politiche «che hanno fatto della paura (quindi del terrore e del terrorismo come saper far regnare la paura) una competenza essenziale e strutturale della soggettita`, della soggezione, dell’esser soggetto, della sottomissione o dell’assoggettamento politico».29 Dove, di nuovo, la «struttura onto-teologico-politica della sovranita`» – il suo essere correlato di una «vita che ha paura» – ha a che vedere primariamente se non esclusivamente se con un meccanismo di proiezione e di identificazione in un Uno: la moltitudine degli uomini che, affetti dal terrore per il loro simile, si rappresentano fittiziamente in un Uno, deputato a risolverne la molteplicita`. CARLO GINZBURG, Paura, reverenza, terrore, cit., p. 41. JACQUES DERRIDA, Se´minaire. La beˆte et le souveraine. Volume I (2001-2002), Paris, Galile´e 2008; trad. it., La Bestia e il Sovrano. Volume I (2001-2002), Milano, Jaca Book 2009, p. 47. 29 Ivi, p. 65. 27 28

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Prima di passare, pero`, a quanto forse puo` dirci una riflessione sull’animalita` (sullo statuto delle specie viventi) in merito a quanto e` depositato nella categoria di umanita`, vorrei citare un altro passo – non breve – che Derrida dedica in quel seminario alla questione del terrore e del terrorismo, e in specie a quanto accaduto l’11 settembre 2001: Questa scomparsa dei corpi, questa morte in generale, con o senza cadaveri, diventera`, nell’indecidibilita` dell’informazione che ci interessa, una struttura essenziale del trauma (newyorkese, americano, mondiale) che porta il lutto impossibile tanto del passato, dell’essere passato del colpo inflitto quanto di cio` che resta a venire, e che, di male in peggio, infiltra la virtualita` della maggiore minaccia al centro di tutto cio` che si puo` attualmente sapere, saper fare e far sapere. [...] Sebbene tutto questo sapere, questo savoir-faire, questa informazione (faire-savoir) passi per la favola, per il simulacro, per il fantasma o la virtualita`, passi per l’inconsistenza irreale e favolosa dei media o del capitale (poiche´ dai due lati i movimenti della violenza passano indissociabilmente attraverso movimenti mediatici e capitalistici, movimenti che sono al contempo strutturalmente favolosi, irreali, virtuali, dipendenti dalla credenza, dalla fede, dal credito – non c’e` capitale senza una favola accreditata –, e tuttavia terribilmente effettivi, efficaci nei loro effetti), questo savoir-faire-savoir, questo fare fatto sapere, non tocca dunque meno effettivamente, affettivamente, concretamente i corpi e le anime. Ed e` la` l’essenza del terrore, del divenire terrorismo del terrore, e del terrore contro lo Stato e del terrore di Stato, che sia reale o virtuale. 30

Qualcosa di simile afferma forse, e nonostante tutte le differenze tra due autori tanto distanti nella genealogia intellettuale e negli obiettivi teorici, un filosofo come Alain Badiou nel suo volume Le sie`cle. In questo testo Badiou tenta di compendiare quel che definisce il «secolo-bestia», il XX secolo – «l’essenza del secolo bestia e` la vita, ma una vita che sputa sangue e morte» – partendo da una categoria, di esplicita eco lacaniana, come quella di «passione del reale». In verita` Badiou prende le mosse dall’odierna convivenza tra una costante inflazione morale – che fa il paio con un «utilizzo senza scrupoli del materiale umano» – e il trionfo del capitalismo e del mercato mondiale. Se e` vero che l’argomentazione filosofica (e militante) di Badiou e` tesa a ricostruire la relazione tra distruzione e fondazione, a partire dalla centralita` del Due, dell’antagonismo, di contro al dilagante discorso sulla fine delle ideologie, quel che mi preme qui evidenziare sono unicamente due aspetti. Da un lato quanto Badiou definisce come l’affermarsi incontestato del «numero cieco», della cecita` del numero che cancella il tempo e la vita nell’equalizzatore supre30

Ivi, pp. 64-65.

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mo del denaro (della sua accumulazione e della sua protezione attraverso recinzioni, prigioni e steccati): Come definire – cito Badiou – gli ultimi vent’anni del secolo, se non come la seconda Restaurazione? Constatiamo, in ogni caso, che questi anni sono ossessionati dal numero. Dato che una restaurazione altro non e` se non un momento della Storia che dichiara impossibili e abominevoli le rivoluzioni, nonche´ naturale quanto eccellente la superiorita` dei ricchi, e` comprensibile che essa adori il numero, che e` anzitutto il numero degli scudi, dei dollari o degli euro. [...] Se il numero (sondaggi, conti, indici d’ascolto, rialzi in borsa, tirature, stipendi dei dirigenti, stock-options ecc.) e` il feticcio dei nostri tempi, e` perche´ dove viene a mandare il reale si insedia il numero cieco. 31

D’altra parte, in chiusura del libro, dichiarando l’inesistenza ‘dell’uomo’ e quindi la vacuita` dei ‘diritti umani’ – in un momento storico in cui «non si parla che di diritti umani e di ritorno del religioso», Badiou procede alla denuncia di quel che definisce l’ultimo, patetico, «grande racconto» su un presunto «combattimento finale tra democrazia umanista e religione barbara». E cio` a partire dalla constatazione di come la costante promozione di significanti razziali, storici, coloniali o vittimari quali ‘arabo’, ‘ebreo’, ‘occidentale’, ‘slavo’, corrispondano a una «rassegnazione all’esistente», a un «cattivo Darwin» corretto con un «tocco etico», nella forma della spettacolarizzazione del «corpo vittimario»: «Da che cosa dipende, in effetti, che oggi si parli pesantemente dell’uomo solo in forma di suppliziato, massacrato, affamato e genocidato, se non dal fatto che l’uomo non e` altro che il dato animale di un corpo la cui attestazione piu` spettacolare e l’unica vendibile (e noi stiamo nel grande mercato) e`, fin dai tempi dei giochi circensi, la sofferenza?».32 Si puo` cosı` parlare di una «opprimente metafisica della pieta`» che fa tutt’uno con «umanismo animale», a cui va contrapposto – scrive Badiou chiudendo il suo viaggio nel «secolo-bestia» – una sorta di ‘in-umanismo formalizzato’. Torno cosı` all’inizio: alla relazione tra i termini ‘umano’ e ‘disumano’. A partire, questa volta, dall’inevasa questione ‘dell’animalita`’, dell’animalita` dell’uomo se si vuole: o, piu` semplicemente, dell’animale. O da quanto una riflessione sullo statuto dell’animale ha da dirci sulla coppia umanita`/disumanita`, e forse – anche – sulla questione del diritto e dei diritti. Sul loro nucleo piu` profondo. Per un verso, infatti, quanto ho cercato di affermare attraverso l’accoppiamento – o la disgiunzione – tra barra e trattino (la barra che separa una 31 ALAIN BADIOU, Le sie `cle, Paris, Editions du Seuil 2006; trad. it., Il secolo, Milano, Feltrinelli 2006, p. 39. 32 Ivi, p. 193.

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presunta ‘umanita`’ da un’altrettanto presunta ‘disumanita`’, e il trattino che scompone il lemma ‘dis-umano’), ha a che vedere con le riflessioni che alcuni ed alcune conducono sul potere perfomativo del linguaggio (che si tratti di hate speech o ‘dell’invisibilita`’ di alcune morti, morti senza nome, morti prive di sepoltura, rispetto ad altre il cui racconto occupa, in un misto di pieta` e senso di colpa, la scena pubblica). Su quel linguaggio che – avendo il potere di ‘ferire’, o meglio, di assegnare o privare di una ‘posizione’ all’interno di una comunita` di parlanti – e`, o puo` essere, veicolo di dis-umanizzazione. Di modo che, alla domanda su «che cos’e` l’umano», si potrebbe rispondere che esso non e` altro che l’effetto di ritorno di gesti performativi di dis-umanizzazione, che forse ne rendono inconsistente lo statuto epistemologico (o addirittura ontologico). L’umano dunque come effetto di ritorno, o forse proiezione. Di qui la seconda linea dell’argomentazione che ho tentato di seguire, e che ha a che vedere esattamente con i dispositivi di ‘proiezione’ (o di identificazione) che rendono l’animale-uomo un animale che proietta o vive di processi di identificazione: un animale che forse si rifiuta, si separa, rifiuta la propria animalita` facendone una proiezione a vuoto (sovrano, Dio o padre), attraverso il dis-, il conflitto, la guerra, la separazione nella specie. L’animale-uomo dunque non come animale a-specifico, l’animale che ha un ‘mondo’ (una Welt) e non un ‘ambiente’ (una Um-welt), secondo quanto vuole una tradizione che arriva fino a Heidegger e oltre. Ma forse come animale dis-specifico: un animale in perenne conflitto con se stesso, vale a dire con il proprio altro, che non riconosce come simile, come proprio simile. Qui soccorrono forse alcune osservazioni che Derrida affaccia nel suo testo dedicato agli Stati canaglia, e dunque di nuovo alla democrazia, alla guerra e al terrore, attorno alla questione dell’eguaglianza (intesa come «corrispondenza asimmetrica») e al valore del simul, del simile e della simultaneita`: «la questione della democrazia a venire potrebbe prendere anche questa forma: che cos’e` ‘‘vivere insieme’’? E soprattutto: ‘‘che cos’e` un simile?’’, ‘‘un simile come uomo, come vicino, come concittadino, come congenere, come prossimo’’, ecc.? O ancora: si deve vivere insieme solo con un simile?».33 Prima di accennare brevemente a un testo, appena edito negli Stati Uniti, su quanto una riflessione sugli animali possa intervenire nel modificare e ripensare i nostri concetti di diritto e felicita`, vorrei richiamare le note parole che Etienne de La Boe´tie spese sı` contro l’Uno, i meccanismi proiettivi che portano l’uomo a identificarsi nell’Uno del potere e della tirannia, la «servitu` volontaria» o, ancor di piu`, l’umana «volut33 JACQUES DERRIDA, Voyous, Paris, Galile ´ e 2003; trad. it., Stati canaglia: due saggi sulla ragione, Milano, Raffaello Cortina 2003, p. 31.

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ta` di servire». Ma anche a favore di quell’amore per la liberta` che fa tutt’uno con il desiderio, o l’«affetto fraterno». E questo a partire da una sorta di «messa in cattedra» degli animali: [...] La liberta` e` naturale, e a mio parere bisogna aggiungere che siamo nati non solo in possesso della nostra liberta`, ma anche con la volonta` di difenderla. Ora, se per caso abbiamo ancora qualche dubbio in proposito, e siamo tanto corrotti da non poter riconoscere i nostri beni ne´ similmente le nostre inclinazioni innate, bisognera` ch’io vi faccia l’onore che meritate, e ch’io metta per cosı` dire in cattedra le bestie selvagge, per insegnarvi la vostra natura e condizione. Le bestie, Dio mi venga in mio aiuto, se gli uomini vogliono intenderle, gridano loro ‘‘viva la liberta`’’. Ve ne sono molte che muoiono non appena vengono messe in cattivita`; come il pesce abbandona la vita non appena abbandona l’acqua, cosı` vi sono animali che si lasciano morire e non vogliono sopravvivere alla loro liberta` naturale. Se tra gli animali esistessero delle gerarchie, la liberta` sarebbe per essi l’equivalente della nobilta`. Vi sono altri animali, dai piu` grandi fino ai piu` piccoli, i quali, quando vengono catturati, oppongono una tale resistenza con le unghie, le corna, il becco e i piedi, che ben manifesta quanto sia loro cara la liberta` che perdono, e poi, una volta catturati, ci trasmettono segnali evidentissimi della consapevolezza che essi hanno della loro infelicita`, sicche´ e` facile dedurne che per essi la vita in cattivita` e` piuttosto un languire che un vivere, e che continuano a vivere nel rimpianto della liberta` perduta, piuttosto che compiacersi della servitu`.34

Da un lato dunque il terrore, la morte, la servitu`, il Nome (Dio, Padre, Sovrano), invocato o evocato a difesa di una vita che ha paura. Che fa la guerra a se stessa e uccide nel timore della «violenza mortale» di cui il simile sarebbe attore e portatore. Il simile come minaccia. Minaccia di morte. Dall’altro l’amore per la liberta`. E il desiderio. E, se mi e` concesso, la «fratellanza»: concepita come amore per il simile, all’interno di una specie. Nel recentissimo The Exultant Ark, edito dalla University of California Press, Jonathan Balcombe,35 nel tentativo di gettare le fondamenta di una «etologia edonistica», che sposti il fuoco dell’indagine etologica dal dolore o dal meccanicismo al piacere, alla felicita`, all’amore, parla di una «lezione morale» che il mondo animale – o quella che egli definisce l’Arca esultante – ci puo` ancora o proprio ora impartire. La diversita`, o la differenza, trans-specifica nella forma dei piaceri, degli amori, dei desideri, ha a che vedere – sostiene Balcombe sulla base di 34

ETIENNE

DE

LA BOE´TIE, Discorso sulla servitu` volontaria, Torino, La Rosa Editrice 1995, pp.

10-11. 35 JONATHAN BALCOMBE, The Exultant Ark: a Pictorial Tour of Animal Pleasure, Berkeley-CA, University of California Press 2011.

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uno studio accurato, e supportato da un apparato fotografico che intende rendere conto in maniera dettagliata della cosiddetta ‘vita animale’ – con una ‘questione morale’. Una questione che ha implicazioni importanti, forse imprescindibili, su cio` che e` e vale come ‘diritto’. E su un ridimensionamento radicale della nostra visione antropocentrica del mondo. E forse anche della felicita`. Chiudo con una citazione, tratta di nuovo da Derrida, filosofo che negli ultimi anni e` stato se cosı` si puo` dire ‘ossessionato’, o meglio radicalmente interrogato, dalla questione dell’animalita` e del suo portato etico-morale: Come ogni sguardo senza fondo, come gli occhi dell’altro, questo sguardo cosiddetto ‘‘animale’’ mi fa vedere il limite abissale dell’umano: l’inumano o l’anumano, le fini dell’uomo, cioe` il passaggio delle frontiere oltre il quale l’uomo osa annunciarsi a se stesso, chiamandosi cosı` con il nome che crede di darsi. E in questi momenti di nudita`, sotto lo sguardo dell’animale, tutto puo` succedermi, sono come un bambino pronto per l’apocalisse, sono l’apocalisse stessa, cioe` l’ultimo e il primo evento della fine, la rivelazione e il verdetto.36

36 JACQUES DERRIDA, L’Animal que donc je suis, Paris, Galile ´ e 2006; trad. it., L’animale che dunque sono, Milano, Jaca Book 2006, p. 49.

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