Sviluppo urbano e pluralismo

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“If planning is everything, maybe is nothing” raccontava nel lontano 1973 Aaron Wildasky, proponendo una radicale critica alla pianificazione economica, nel periodo di massima di produzione di letteratura a riguardo, in un’epoca di sconfinamenti verso qualsiasi ambito, in particolare rispetto allo sviluppo economico da una prospettiva urbana e territoriale. Wildasky si interrogava sul ruolo del planner rispetto alla posizione che potesse assumere nella società: entrare nella politica o esserne avulso, ignorare aspetti culturali o mirare ad obiettivi di sviluppo urbano combattendo le forze “irrazionali” del mercato. Considerare la realtà territoriale come un unicum stilizzato, ignorando le specifiche caratteristiche dei singoli individui, della dimensione dei gruppi, delle complesse problematiche locali. Interrogandosi sull’effettiva possibilità di ricondurre qualsiasi problema urbano a soluzioni esperte, affinché il planner potesse agire in maniera efficace e condivisa. Un articolo appassionante, che ha rotto il vaso di pandora in cui pianificazione top-down si è per alcuni anni rifugiata, sottraendosi ad una messa in discussione sull’effettiva capacità di valorizzare la specificità dei territori, la partecipazione e l’azione diretta dei cittadini nel determinare ed influenzare il cambiamento delle città. Perché di cambiamento si parla: di quell’eccitante e dinamico fenomeno che, per buona pace dei conservatori, è dietro il successo delle città globali. Grazie alla crescita del valore delle funzioni e degli usi dello spazio urbano, grazie alla spinta competitiva nell’accumulazione di capitale umano e finanziario. Fenomeno che, in Italia, dipende più da politiche pubbliche che da fenomeni di organizzazione spontanea, sia essa società civile o generalmente il mercato. A partire da questa riflessione, vorrei rispondere al recente articolo di Giovanni Semi “ Gentrification, fermiamo il Manovratore”, (in cui si fa una critica appassionata ad un mio precedente articolo “ Libera Gentrification in Libero Stato”) proponendo nuovi spunti di discussione e di riflessione critica ad una certa letteratura mainstream che ha affrontato il tema dello sviluppo urbano. È forse opportuno aiutare il “manovratore” (il mercato a cui fa riferimento Semi), in suggerimenti costruttivi che abbandonino la raccolta di “pensieri” troppo ottimisti o pessimisti sul fenomeno dello sviluppo urbano. Cercherei quindi nuove riflessioni, che aiutino a sviscerare meglio la questione ed evitino la solita battaglia ideologica: parliamo di metodologia e parliamo di pluralismo nello sviluppo urbano Sulla metodologia, converrebbe meditare sulla visione olistica della gentrification intesa come fenomeno globale. Potrebbe forse rappresentare una categoria interpretativa troppo semplice, che considera un complesso e multiforme fatto sociale (come la gentrification) come forma di entità organica, un agente con un proprio destino di sviluppo, e con propri diritti, interessi e pretese. Forse la causa determinante della gentrification non può essere sempre cercata tra fatti sociali antecedenti ma negli stati della coscienza individuale; specialmente quando si pretende di utilizzare la categoria interpretativa come fenomeno a scala globale. Come spiega Rosamaria Bitetti (Bitetti, 2016) in un recente saggio sull’individualismo metodologico, questo argomento è pericoloso (e fuorviante) perché ha la presunzione di “spiegare scientificamente i fenomeni sociali” solo perché pretendiamo di generalizzare su punti di vista diversi, senza un accesso diretto agli individui e alle loro locali conoscenze. Forse bisognerebbe fare molta attenzione quando si definiscono concetti universali come “gentrificatori”, “gentrificati”, ma anche “modelli culturali” o “tradizioni”, dovremmo tenere a mente che questi sono termini convenzionali per definire l’azione di un gruppo di individui svolta in base a determinate idee e ruoli sociali (Hayek, 1948). Sullo stessa tema, applicato allo sviluppo urbano, può essere interessante guardare all’opera dell’urbanista americana Jane Jacobs. Citando Giovanni Laino (“Se tutto è gentrification, comprendiamo poco”) vorrei mutuare l’esortazione a “fare attenzione a cosa viene messo in ombra dall’adozione di determinate categorie interpretative che promettono o realmente consentono di far emergere fatti importanti”.

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Perché quando parliamo di sviluppo urbano, di questioni importanti ce ne sono diverse. Diverse come la pluralità di legittime visioni e configurazioni dello spazio urbano. Una città dove la pluralità di funzioni ed attività accumulate, garantisce ai cittadini la capacità di rendere la propria vita come ricca di iniziative e significati. Individui e gruppi che seguono diverse e articolate concezioni di vita, influenzate da diversi moti di intendere culture, linguaggi e religioni. Plurali concezioni di “vita buona” come diverse forme di felicità ( Dolan,2015), frutto della dimensione soggettiva degli individui, tra obiettivi specifici (come ad esempio priorità di carriera e di vita) e libera espressione di preferenze nelle scelte di tutti i giorni (su come ad esempio spendere tempo e denaro). Da questo punto di vista, quali complesse (e promettenti) questioni urbane vengono messe in ombra quando pretendiamo di etichettare lo sviluppo urbano sotto il grande contenitore della gentrification? Potremmo approfondire il funzionamento delle dinamiche migratorie di generazioni di avventurosi “millenials” (Crescenzi, Holman, Orru, 2016) e della forsennata ricerca di nuove formule di valorizzazione delle competenze cosmopolite, come ad esempio le “ibridazioni organizzative” per innovare il mercato dei servizi (Miller, 2016). In Italia, le Benefit Corporation rappresentano uno dei dibattiti caldi sull’innovazione organizzativa capace di promuovere trasformazioni urbane a partire da investimenti collettivi: dal commercio all’energia passando per il social housing. Alcuni esempi: in Italia società come NWG per l’energia e Newcoh srl per i servizi relativi all’abitare collaborativo. Parliamo quindi della ricerca sull’innovazione finanziaria verso formule socialmente responsabili ( social impact bond, ad esempio), anche se ci “riempiono soluzioni smart ed altri balocchi” (come sostiene Semi). Dibattito che ha aperto orizzonti di confronto tra il mondo dell’impresa con le politiche per l’innovazione sociale (che talaltro vede in Milano degna protagonista, suggerisco a proposito di seguire il programma di Innovare per Includere). Parliamo della ricca e riconosciuta letteratura su argomenti di mercato come gli FDI (Foreign Direct Investment)Perché gli FDI generano posti di lavoro e arricchiscono le competenze urbane, ma soprattutto producono gettito fiscale utile al mantenimento dei servizi pubblici, come una certa letteratura sostiene (rimandiamo ad esempio Alfaro, 2004; Majocchi e Presutti, 2009). Gli stessi investimenti esteri che supportano cultura e ricerca, come quelli promossi da Rockfeller Foundation. Tra le 100 città globali selezionate dal programma Resilient Cities, il comune di Roma era riuscito ad aggiudicarsi il supporto per le attività di ricerca ed analisi utili allo sviluppo del piano per la resilienza di Roma Capitale. Attività che si sono interrotte con la caduta della giunta Marino e del supporto politico-burocratico all’iniziativa. Parliamo poi dell’analisi delle politiche urbane come complessa interpretazione di problematiche ed opportunità locali. Un ecosistema di competenze e lavoro sul campo che da anni lavora per superare approcci top-down alla rigenerazione urbana delle periferie, dal meridione al nord Italia (come ad esempio racconta per Napoli, Laino; per Milano, Calvaresi e Cossa). Argomento tornato di moda nel recente dibattito politico, anche in seguito al bando con cui il Governo ha stanziato 500 milioni di euro per la “riqualificazione urbana” delle periferie delle città metropolitane e capoluoghi di provincia italiani. Concludendo, la ridefinizione e la riscoperta del valore del pluralismo sembra di particolare interesse anche guardando anche al corrente (e drammatico) dibattito politico internazionale. La pretesa di interpretare cosa sia “buono e giusto” per categorie di “popolazioni” ricorda un po’alcune delle riflessioni a caldo (tra l’anti-democratico e l’elitista) venute fuori nel dibattito sulla Brexit, come riporta da Domenico Starnone su internazionale: “il pensierino che va diffondendo a macchia d’olio tra i sinceri democratici […]” quello che il pluralismo può essere d’impaccio, quello che “quando la materia è complessa, devono essere i saggi rappresentati del popolo a decidere, non il popolo”.

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Occorre quindi allargare gli orizzonti con cui si guarda la realtà e l’interpretazione dello sviluppo urbano: sfuggire alle posizioni conservatrici che generalizzano su fenomeni come la gentrification, proponendo uno sguardo libero, aperto e plurale sulle città globali. Una rassegna completa sul tema viene trattata dal recente libro di Stefano Moroni e David Weberman “Space and Pluralism Can Contemporary Cities Be Places of Tolerance?” (CEU Press, 2016) in cui si compie uno sforzo cognitivo nel suggerire “complesse” a questioni di ricerca e pensiero sul pluralismo e la tolleranza nello spazio urbano, mettendo insieme lo sguardo di filosofi, scienziati politici, geografi ed urban designer.

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