Teicopolitica e ultramodernità

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Forthcoming in “Memorie della Società di studi geografici” (2017) Ernesto C. Sferrazza Papa (Postdoctoral Researcher, Collège d’études mondiales, FMSH-Paris)

Teicopolitica e ultramodernità

1. INTRODUZIONE

Questo breve saggio presenta, in forma assai schematica, le coordinate principali della ricerca che l’autore sta sviluppando sul tema dell’articolazione materiale dello spazio. Il progetto è di delineare una filosofia del muro, ossia una teoria che interpreta il muro come uno degli strumenti privilegiati dell’attuale logica politica, in netto contrasto con una immagine postmoderna che vede nell’epoca post 1989 la scomparsa delle barriere e l’emergere di un borderless world. Gli assi della ricerca che verranno in questa sede presentati hanno perlopiù carattere metodologico. Non verrà fornita una trattazione esauriente delle teicopolitiche contemporanee, ma si cercherà piuttosto di mostrare quali debbano essere gli assi fondamentali di un’analisi filosofica del muro. Essi rappresentano la struttura argomentativa di una teoria critica del muro, dove critica deve essere inteso nel suo senso etimologico di definizione e delimitazione. La critica è kantianamente l’istituzione di un tribunale, la messa in stato d’accusa del suo oggetto d’analisi. Fare una critica dei muri significa, dunque, sottoporli a un’indagine filosofica che ne misuri la funzione politica a partire dalla disamina del loro essere strumenti. Gli strumenti sono oggetti che servono a fare qualcosa, oggetti progettati per un determinato fine. Bisogna dunque sottoporre ad analisi filosofica i muri in quanto strumenti per poter cogliere le implicazioni del loro uso. La materialità del muro implica la necessità di analizzarlo nella sua dimensione artefattuale, sfruttando dunque gli strumenti offerti dalla riflessione ontologica sul tema degli artefatti; la sua evidente politicità, nel senso che esso produce e traduce rapporti di potere, comporta un’analisi rivolta alla filosofia politica, mentre la sua proprietà per eccellenza, ossia produrre una differenziazione spaziale favorendo la radicalizzazione di meccanismi identitari, suggerisce la possibilità di una sua interpretazione in chiave fenomenologica. Questi punti verranno, per ragione di spazio, solamente accennati. Nella parte finale del saggio si illustreranno alcuni possibili sviluppi dell’attuale ricerca filosofica sulla teicopolitica, la politica di articolare lo spazio mediante la costruzione di muri, confini, barriere. 1

2. LO SPAZIO ULTRAMODERNO

2.1 Fine della modernità. – La razionalità propria dell’epoca contemporanea non sembra essere coerente con quell’idea di spazio fluido, virtuale, immateriale, che la postmodernità aveva annunciato. Le fantasie della mondializzazione e della globalizzazione – per quanto globalizzazione sia oramai un termine dotato di un tale spettro semantico da risultare pressoché inservibile – non hanno un vero e proprio referente reale. Sono un parto linguistico, nient’altro che un’invenzione con lo scopo di mantenere la coerenza interna di una certa visione del mondo che il pensiero postmoderno ha proposto. Dopotutto, se la lana grossa della postmodernità è l’idea che sia finito il tempo delle grandi categorie e delle strutture proprie della modernità, e che con essa siano venute meno non solo le grandi narrazioni, ma anche la funzione concreta di strutture proprie del Moderno come lo Stato, la sovranità politica, il territorio, allora evidentemente tutto ciò che mantiene una logica moderna di articolazione dello spazio globale deve necessariamente venire meno. E, infatti, viene detto in continuazione che viviamo in un’epoca post-sovrana, in un’epoca di fine dei territori, in un tempo in cui lo Stato come nomos della terra ha perso la sua pregnanza. Secondo questo discorso la modernità sarebbe, per richiamare un celebre saggio di Appadurai (2001), oramai in polvere. Disgregato l’impianto del Moderno, si aprirebbe dunque l’epoca della postmodernità. A confermare questa Weltanschauung postmoderna ha ovviamente contribuito la spinta di quelli che Carl Schmitt definiva poteri indiretti – in contrapposizione alla potestas directa di matrice hobbesiana, ossia nella sovranità politica esclusiva, non mediata e, dunque, pienamente “responsabile” –, istanze proprie della dimensione economica, religiosa, sociale. Istanze, cioè, in grado di andare oltre i confini statali, di sfondare i limiti territoriali in un movimento continuamente sconfinante. Tuttavia, che l’emergere di tali flussi abbia realmente disgregato le strutture del Moderno che definiscono lo spazio globale, è un’ipotesi la cui verifica risulta tutt’altro che immediata.

2.2 Ultramodernità. – Per quanto affascinante, e invero internamente coerente, il discorso postmoderno sulla fine della modernità viene contraddetto dalla realtà dei fatti. Il mondo che viviamo non è affatto il mondo che i teorici del postmoderno hanno dipinto. Nonostante queste spinte a cui da un decennio applichiamo senza eccessive remore l’etichetta “globalizzazione” – dimenticando spesso che i processi di globalizzazione, se con essi intendiamo la possibilità di ricondurre a unità l’intero globo, hanno origine almeno con l’epoca dei grandi viaggi di scoperta, e 2

dunque con il XV secolo (Sloterdijk, 2006) – si siano senza dubbio realizzate, esse hanno dato forma a movimenti reattivi che, viceversa, presentano forme propriamente moderne. Al movimento dinamico della postmodernità si è opposta la capacità di “cesura” del moderno – ossia di articolazione dello spazio mediante rigide linee di separazione: banalmente, gli Stati e, dunque, il potere che classicamente può esercitarsi in essi, la sovranità politica. L’impianto proprio della modernità dunque, nel suo costante tentativo di superarsi, di andare oltre se stesso, non ha fatto altro che radicalizzarsi ulteriormente. Non è quindi un’epoca postmoderna quella con la quale ci confrontiamo. Tuttavia, è bene ricordarlo, non è nemmeno un’epoca nella quale il moderno si impone nella sua purezza, bensì come movimento reattivo, come risposta a una sollecitazione che ne vorrebbe sancire la consumazione storica e lo sfaldamento dei suoi presupposti spaziali. L’epoca contemporanea sembra piuttosto avere i tratti di quella che potremmo definire ultramodernità. In questo termine risuona l’anfibologia del prefisso ultra-, il quale significa contemporaneamente l’andare oltre, il superamento, l’oltrepassamento, e il radicalizzarsi, l’istanziarsi, il rinforzarsi. Il termine ultramodernità tenta di catturare questa specie di dialettica non sintetica, dunque non hegeliana (al più benjaminiana, una dialettica in stato d’arresto in cui il movimento tetico e quello antitetico si scontrano senza risolversi in una sintesi ulteriore). Di questa ultramodernità e dei dispositivi che la regolano e ne organizzano i processi bisognerà tentare di rendere conto non solo per sottrarsi alle fantasie postmoderne, ma anche per allontanare i “nuovi fantasmi del sangue e del suolo” (l’espressione è di Jacques Derrida) che la rinascita e la rivincita dei nazionalismi moderni incitano e organizzano.

3. FILOSOFIA DEL MURO

3.1 Ultramodernità e movimento. – “Una società fugge dappertutto” scrive Gilles Deleuze (2000, p. 226). In effetti, se vi è una nozione in grado di definire lo spazio ultramoderno, essa è il movimento. Nell’ultramodernità ci si muove in continuazione, senza sosta. Flussi di ogni genere – corpi, merci, capitali, soldi, informazioni – segnano lo spazio ultramoderno. La tecnica è il primo motore che permette tale ostentazione della facoltà di movimento, a tal punto da poter leggere lo sviluppo tecnologico contemporaneo (treni ad alta velocità, aerei supersonici etc.) come un tentativo di aumentare esponenzialmente la velocità e la facilità di movimento. Martin Heidegger l’aveva predetto nelle Conferenze di Brema, quando affermava che “tutte le distanze nel tempo e nello spazio si accorciano” (Heidegger, 2002, p. 19). Tale dinamica ha raggiunto livelli parossistici, al punto 3

di investire ingenti somme di denaro per realizzare un sogno antico quanto l’uomo, ossia la possibilità di annullare la distanza, portando a 0 il tempo impiegato per percorrerla. Alcuni scienziati dell’Università di Innsbruck, in Austria, sono riusciti a trasportare le proprietà di un atomo di berillio A su una particella C grazie alla mediazione di una particella B. Il processo è freddamente definito “intermediazione microscopica”. Per quanto questo processo non sia in punta di principio applicabile alla materia, ma solamente alle proprietà di una determinata particella, entriamo in un’epoca in cui il teletrasporto (l’annullamento del tempo di percorrenza di uno spazio qualunque) ha smesso di essere appannaggio della fantascienza, per entrare negli austeri laboratori di un’università austriaca. Stando così le cose, non vi è nulla di stupefacente nel fatto che l’epoca ultramoderna sia l’epoca delle grandi migrazioni, ossia dei grandi spostamenti di masse umane. Come ha sintetizzato efficacemente Thomas Nail, “il XXI secolo sarà il secolo del migrante” (2015, p. 1). La dimensione globale assunta dalla violenza, la crisi economica che investe in maniera carsica lo spazio europeo ed extra-europeo, il regime concorrenziale fra stati, il progressivo aumento del gap sociale ed economico fra fasce della popolazione, la crisi del Medioriente, la guerra al terrorismo che con sempre meno attenzione si sforza di distinguere fra militanti e civili: questo è solamente un breve elenco, per nulla esaustivo, delle cause delle migrazioni di massa. Fra le varie strategie di gestione di questa mobilità di massa, lo strumento del muro sembrare essere oggigiorno particolarmente privilegiata. Ovunque vi sia una massa intenta a spostarsi da uno Stato a un altro, è possibile vedere intervenire muri deputati a organizzare la mobilità dei soggetti. Questa moltiplicazione ossessiva di confini materiali e simbolici (Wilson, Donnan, 2011) non solo frantuma l’immagine postmoderna dello spazio globale, ma permette anche di collocare spazialmente la posta in gioco delle attuali logiche politiche. In un’epoca presuntamente postmoderna, del flusso, della permeabilità del confine, i muri riattivano antiche logiche di organizzazione materiale dello spazio. Difendere il confine dello Stato, come già sosteneva Aristotele nella Politica (1983, pp. 243-247) a proposito della fortificazione della polis, è diventato l’imperativo delle democrazie moderne.

3.2 Estetizzazioni. A cosa serve realmente un muro? La lectio facilior dell’inibizione dell’immigrazione clandestina non è una risposta esaustiva, giacché sembra semplificare eccessivamente una logica globale complessa, spiegandola con una motivazione immediata che si limita a cogliere la mera superficie della questione. 4

In primo luogo, il muro è un oggetto materiale. Esso dunque è visibile, ed essendo posto al confine dello Stato, rende visibile lo Stato stesso. Il muro ribadisce visivamente l’esistenza della sovranità statale. Ma non è semplicemente questione di visibilità, quanto di una vera e propria spettacolarizzazione del potere statale. I muri rappresentano oggi una vera e propria performance: esibiscono il potere per eccellenza dello Stato moderno, quello di proteggere i cittadini “contro i nemici di fuori” (Hobbes, 2011, p. 143). I muri, come ha sostenuto la filosofa e politologa Wendy Brown, rappresentano una vera e propria teatralizzazione della sovranità (Brown, 2013, pp. 91-107), validando così un’ipotesi che Walter Benjamin esplicitava nel saggio sul Dramma barocco tedesco. Secondo Benjamin la legittimazione del potere del sovrano barocco deriva niente di meno che dalla sua spettacolarizzazione. Non dunque dal suo esercizio effettivo, bensì dalla sua esibizione continua. La concezione barocca del sovrano mira alla “rappresentazione dell’eccesso regale”, a mostrare in continuazione “la pompa, la corona e lo scettro”, in una specie di “glorificazione” pagana del rex (Benjamin, 1999, pp. 41-45). I muri, traslando la teoria benjaminiana del barocco alle attuali teicopolitiche, rappresenterebbero allora un momento di pura glorificazione del potere statale, una “estetizzazione della politica” (Benjamin, 2000, p. 48). Tale spettacolarizzazione è, tuttavia, farsesca. Dietro agli strali e alle cerimonie, si cela pur sempre l’essenza del tiranno barocco, ovvero la sua persistente “incapacità decisionale” (Benjamin, 1999, p. 45). Il manierismo barocco copre il nichilismo che sta al cuore della concezione benjaminiana del potere. È questa una teoria da tenere nella più alta considerazione quando si analizzano le configurazioni maestose che il potere assume. Che la gloria non sia, proprio come i sipari nei palcoscenici barocchi, nient’altro che il tentativo di mascherare il nulla che si cela dietro ogni tentativo di legittimare il potere e l’uso della forza, come ha sostenuto anche Giorgio Agamben (2009), è un’ipotesi che in questa sede possiamo unicamente accennare, e rimandare altrove la sua discussione.

3.2 Regimi di mobilità. – I muri rappresentano la materializzazione di quella che due studiosi francesi, Florine Ballif e Stéphane Rosière (2009), hanno definito teicopolitica. Il termine deriva dal greco teichos, ed indica il muro di cinta della polis. Il conio è suggestivo, giacché mostra, senza semplicemente retrodatare questa logica di articolazione materiale dello spazio, come essa in realtà rappresenti uno dei momenti fondamentali di qualunque organizzazione dello spazio. La prima difesa contro le invasioni, lo strumento elementare di immunizzazione dello spazio urbano, è da sempre stato il muro. La storia politica dell’umanità è segnata da muri di ogni genere: muri di 5

contenimento, muri strategici, muri militari (Quétel, 2013). Nella maggior parte dei casi – pensiamo a muri che hanno segnato l’immaginario collettivo europeo e non solo: il vallo di Adriano, la grande muraglia cinese, il muro di Berlino – il muro ha rappresentato l’istituzione di uno spazio differenziale, la creazione di una linea netta, visibile, che dividesse l’interno e l’esterno, segnando materialmente lo spazio dell’io e lo spazio dell’altro. La posta in gioco di questo tema è squisitamente metafisica, e concerne il rapporto fra gli enti e su come sia possibile separare gli enti nel molteplice. Si potrebbe certamente sostenere, non senza buone ragioni, che qualunque confine implichi una determinata individuazione: esso separa e isola un ente dal resto degli enti, in modo da permettere che qualcosa possa identificarsi con precisione. Il principium individuationis, operatore ontologico della singolarità dell’ente, ciò che permette di riconoscere e individuare un ente, opera situando ogni ente in un tempo e, soprattutto, in uno spazio, ossia separandolo dagli altri enti e permettendone in questo modo il riconoscimento. Tuttavia, il muro è un confine particolarissimo. Mentre le proprietà del confine sono la porosità, la permeabilità, e dunque la possibile che enti differenti entrino in comunicazione pur nella loro separazione ontologica poiché le sue proprietà materiali permettono che l’uno possa muoversi verso l’altro, le proprietà del muro sanciscono viceversa l’impermeabilità del confine sul quale esso viene pur sempre a inscriversi. In questo modo, la materializzazione della differenza spaziale che il muro implica impedisce che il rapporto con l’alterità, con ciò che sta beyond the wall, venga esperito se non nei termini di una radicale negatività. Costruire un muro significa impedire che l’altro irrompa, negargli l’accesso, impedire a priori che penetri nel territorio. Significa altresì impedire il dialogo, rendere impossibile la comunicazione, rendere ostile il rapporto con lo straniero. Ostile a tal punto da rifiutare a priori che chi sta al di là del muro possa pretendere un trattamento dignitoso, un’assegnazione di diritti umani e politici, in misura eguale a chi sta al di qua del muro. La differenziazione spaziale operata dal muro è, dunque, immediatamente tradotta in una differenziazione ontologica, in una sorta di gerarchia delle vite umane. Il punto fondamentale del processo di erosione della sovranità territoriale, radicato nella tendenza sconfinante e deterritorializzante dei flussi economici, che gli studi sulla globalizzazione hanno tentato di inquadrare, è proprio questo. La globalizzazione, intesa come circolazione continua su uno spazio, appunto, globale, interessa perlopiù merci, capitali, flussi di denaro. Il problema irrisolto è la circolazione dei corpi umani. I muri intervengono non solamente introducendo una distinzione binaria dentro-fuori, ma organizzando in maniera poliedrica e differente questa mobilità, istituendo

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regimi di mobilità che mirano a creare una gerarchia interna alla massa dei migranti e a capitalizzare la loro forza lavoro (Mezzandra, Neilson, 2014). Con l’espressione regime di mobilità (mobility regime) si intende propriamente “un complesso insieme di principi, norme e regole che strutturano i modi in cui gli individui rimangono in contatto con altri individui, luoghi, organizzazioni, istituzioni e così via” (Kesselring, 2014, p. 1). La categoria di regime mobilità è particolarmente feconda in quanto problematizza l’idea stessa di migrazione, intesa astrattamente come un semplice spostarsi da un luogo a un altro, e polemizza per lo stesso motivo con la più generica nozione di international migration (Koslowski, 2011). Migrare non significa unicamente spostarsi da un punto A a un punto B, così come non tutti i movimenti migratori sono identici e riconducibili alle medesime cause. Ogni migrante, infatti, nel momento in cui si muove, è preso all’interno di uno specifico regime di mobilità che ne determina la possibilità stessa di movimento. Un manager di una grande multinazionale, ad esempio, sarà soggetto a un regime di mobilità molto più blando rispetto al regime di mobilità di un profugo o di un individuo che fugge da uno Stato a maggioranza musulmana. I primi provvedimenti della presidenza Trump sono in questo senso particolarmente e tristemente significativi. L’interesse che la nozione di regime di mobilità riveste all’interno di una filosofia del muro è evidente. Un regime di mobilità infatti è costituito non solo dalle leggi internazionali che regolano lo spostamento da uno Stato a un altro o dalle motivazioni economiche e politiche che inducono un soggetto a muoversi (un esempio classico è la mobilità accademica dei giovani ricercatori, che non può essere comparata con la mobilità dei rifugiati siriani; entrambe, tuttavia, appartengono a specifici regimi di mobilità che le organizzano, le facilitano, le inibiscono etc.), ma anche dagli strumenti che organizzano il movimento. I muri, da questo punto di vista, rappresentano lo strumento privilegiato dei contemporanei regimi di mobilità, e l’analisi dei regimi di mobilità deve incrociare l’analisi degli strumenti materiali che li rendono possibili e che li organizzano nello spazio.

3.3 Movimento e libertà. – Vi è una profonda ragione teorica che invita ad analizzare i regimi di mobilità e gli strumenti che li strutturano. È la questione del rapporto fra movimento e libertà. Non il movimento in sé, ma più in generale la possibilità di muovere il proprio corpo, è il cuore della libertà umana. Davvero libero è solo chi può muoversi. Il nucleo teorico della logica teicopolitica va ricercato nelle categorie metafisiche che essa presuppone. L’interesse filosofico per la nozione di regime di mobilità è dato dal fatto che esso mostra il nesso profondo che tiene insieme movimento e libertà. Aristotele con molta chiarezza nel 7

III libro della Fisica afferma che “il movimento è nel mobile” (Aristotele, 1955, p. 189), ossia che il movimento appartiene sempre in potenza a ciò che può essere mosso dal primo motore. Se ne deduce che dalla possibilità o meno di muoversi dipende la libertà del soggetto di attualizzare le potenzialità insite nel proprio corpo. Ogni passaggio da potenza ad atto è infatti un movimento che si realizza in un certo luogo e in un determinato tempo, e Aristotele è nuovamente chiarissimo su questo punto: “l’atto di ciò che è in potenza, quando, essendo in atto, sia in atto non in quanto tale, bensì in quanto mobile, è movimento” (ibid., p. 187). Thomas Hobbes nel Leviatano ribadisce questo nesso, affermando che la privazione della libertà non è nient’altro che la “restrizione di movimento causata da un ostacolo esterno” (Hobbes, 2011, p. 258), ossia nuovamente l’impedimento della potenza di muoversi. Ciò che ne consegue è che qualunque strumento deputato a organizzare una mobilità, ossia l’attualizzarsi di una potenza (aristotelicamente il corpo ha la potenza di muoversi che, nel momento in cui effettivamente si muove, mette in atto), investe anche la libertà dell’individuo. Un regime di mobilità è dunque in profonda connessione con la libertà del soggetto. Un regime di mobilità è sempre allo stesso tempo un regime di libertà. Esso, inoltre, istituisce come già accennato una gerarchia interna alla massa migrante, giacché vi saranno soggetti che potranno attualizzare secondo gradi, intensità differenti, la potenziale mobilità del loro corpo. Esercitando dunque una forma di potere sul movimento stesso, ossia su una potenza del corpo, la teicopolitica, l’arte di organizzare materialmente lo spazio, deve essere interpretata come una complessa biopolitica, sia nel senso che appartiene alla logica politica utilizzata dagli Stati per governare (Foucault, 1978), sia perché agisce direttamente sul corpo dei soggetti presi all’interno di questo regime di mobilità.

4. CONCLUSIONI

Il muro non è semplicemente uno strumento. È uno strumento prodotto all’interno di un determinato sistema socio-tecnologico. Il suo emergere deve dunque essere messo in relazione con i discorsi e le retoriche che ne legittimano l’uso. Da questa prospettiva, emerge la necessità di analizzarlo nella sua forma di dispositivo. La nozione di dispositivo cattura “un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche […]”; esso si presenta come una “formazione che in un certo momento storico ha avuto come funzione essenziale di rispondere a un’urgenza”; inoltre il dispositivo è “una certa 8

manipolazione di rapporti di forza, un intervento razionale e concertato nei rapporti di forza, sia per orientarli in una certa direzione, sia per bloccarli o per fissarli e utilizzarli” (Foucault, 1994, pp. 299300). La nozione di dispositivo, dunque, è in grado di restituire non solo l’artefattualità degli strumenti del potere, ma anche l’ambiente culturale nel quale essi vengono prodotti, e dunque i rapporti di forza che implicano, producono e consolidano. Il presente saggio si è proposto sin dal principio come una specie di diario di lavoro per una filosofia del muro. Le considerazioni svolte hanno mostrato come un tale lavoro intersechi prospettive differenti come la filosofia, la geografia, la politologia. Solamente un approccio interdisciplinare sarà in grado di corrispondere ai problemi che le teicopolitiche contemporanee impongono. Solamente un approccio interdisciplinare volto all’analisi del muro in quanto dispositivo di potere sarà in grado di esplicitare le conseguenze etiche e politiche implicite nelle attuali logiche di articolazione materiale dello spazio.

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RIASSUNTO Questo articolo mostra le principali linee di ricerca di un’analisi filosofica del muro come strumento di potere. La tesi principale del saggio è che l’epoca contemporanea riattivi logiche pienamente moderne di articolazione materiale dello spazio, in particolare mediante la costruzione di muri statali. L’autore interpreta il muro come lo strumento privilegiato di articolazione dello spazio globale, analizzandolo in connessione con i regimi di mobilità che regolano e organizzano gli attuali flussi migratori. Il tema del muro viene affrontato da una prospettiva interdisciplinare, intersecando temi metafisici, politologici e geografici. Nell’ultima parte del saggio emerge la necessità di analizzare il muro in quanto “dispositivo” di potere.

Parole chiave: muro, teicopolitica, mobilità

ABSTRACT TEICHOPOLITICS AND ULTRAMODERNITY. NOTES FOR A PHILOSOPHY OF THE WALL. This paper shows the main lines of research of a philosophical analysis of the wall as an instrument of power. The main argument of the paper is that contemporary age re-activates fully modern logics of material articulation of the space, especially through the building of statal walls. The author interprets the wall as a privileged instrument of the articulation of the global space, and he analyzes it in connection with the mobility regimes that govern and organize contemporary migratory flows. The author deals with the issue of the wall from an interdisciplinary perspective, intersecting metaphysical, political and geographical themes. In the last part of the paper the author suggests an analysis of the wall as an “apparatus” of power.

Keywords: wall, teichopolitics, mobility RÉSUMÉ TEICHOPOLITIQUE ET ULTRAMODERNITÉ: NOTES A PROPOS D’UNE PHILOSOPHIE DU MUR. Cet article propose des chemins généraux pour analyser philosophiquement le mur comme un instrument du pouvoir. L’argument principal de l’article consiste à dire que la logique pleinement moderne de l’articulation de l’espace est réactivée à l’èpoque contemporaine, surtout en cas de construction des murs entre des états. Le mur est interprété comme un instrument privilégié pour articuler l’espace globale et il est analysé en connexion avec les régimes de mobilité qui gouvernent et organisent les flux migratoires. La question du mur est traitée depuis une perspective interdisciplinaire, en croisant des éléments métaphysiques, politiques et géographiques. À la fin de l’article, l’auteur suggère une analyse du mur comme un “dispositif” du pouvoir. Mots-clé: mur, teichopolitique, mobilité 10

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