Tesi Parte prima

June 28, 2017 | Autor: Sara Autorino | Categoria: Political Philosophy
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[Digitare il nome della società]





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CAPITOLO 1
IL DIRITTO DI PROPRIETÀ NELL'OPERA DI
HOBBES
1.1 HOBBES GIUSNATURALISTA
Prima di passare all'analisi della filosofia politica hobbesiana, ci sembra opportuno fare alcune considerazioni sul rapporto che intercorre tra la sua teoria e il pensiero politico del suo tempo. In particolare, sarà interessante analizzare il rapporto che lega il filosofo alla scuola del diritto naturale, cercando di evidenziare le motivazioni che hanno spinto molti studiosi a ritenere Hobbes, invece di Grozio, il capostipite del giusnaturalismo moderno1. Cominciamo innanzitutto col dire che il
modello giusnaturalistico, adottato da tutti i maggiori filosofi dell'età moderna, rappresenta l'alternativa al modello comunemente accettato dalla filosofia politica medievale, cioè quello aristotelico. Nella Politica, Aristotele spiega l'origine dello Stato, della polis, partendo dalla famiglia: molte famiglie formano poi il villaggio, ed infine molti villaggi formano la polis2. Il modello aristotelico si presenta dunque
come una ricostruzione storica, che, partendo dalla prima società umana, la famiglia, arriva in maniera graduale alla formazione della società ultima e perfetta: lo Stato. C'è dunque un rapporto di continuità tra la società originaria e lo Stato. L'uomo, infatti, attraverso forme d'aggregazione sempre più complesse, che rappresentano delle fasi intermedie, giunge in maniera naturale al suo stato ideale, quello di membro della società civile. Quest'evoluzione, ha per soggetto un uomo
che è sempre membro di una società più o meno complessa, regolata da rapporti gerarchici di vario tipo. La formazione dello Stato avviene così per forza di cose, per effetto di cause naturali e sociali, come l'aumento della popolazione, la necessità della difesa, ecc. Il modello giusnaturalistico, che s'imporrà nella filosofia politica dell'età moderna, ponendo fine alla supremazia dell'aristotelismo, presenta delle caratteristiche completamente diverse. Innanzitutto, esso è costruito sulla grande dicotomia stato di natura–società civile. Il punto di partenza dell'analisi dell'origine e del fondamento dello Stato, è lo stato di natura, nel quale già vige il diritto naturale. Lo stato di natura, che a volte non ha pretese di storicità, ma è una semplice ipotesi razionale, rappresenta uno stato pre-politico, costituito da individui liberi ed uguali tra loro. Esso, a prescindere dalle diverse caratterizzazioni presentate dai diversi autori, è sempre uno stato imperfetto, che richiede dunque la costituzione dello
stato civile, che ne elimini i difetti. A questo punto possiamo facilmente delineare le differenze tra i due modelli, che rappresentano una delle grandi dicotomie della filosofia politica sino a Hegel. Mentre il modello aristotelico dà una spiegazione storico-sociologica dell'origine dello Stato, e vede quest'ultimo come il fine naturale dell'uomo, il modello giusnaturalistico propone una concezione razionalistica, che vede lo stato di natura come antitesi della società civile. Mentre dunque Aristotele ha una concezione sociale ed organica della polis, e vede gli
uomini vivere sempre in uno stato di disuguaglianza, il giusnaturalismo ha una concezione individualistica dello Stato, e teorizza uno stato di natura in cui gli uomini sono tutti liberi e dotati di uguali diritti. Abbiamo dunque una teoria naturalistica del fondamento del potere statale, contro una teoria contrattualistica, e una teoria della legittimazione attraverso la forza degli eventi, contro una teoria della legittimazione attraverso il c onsenso.Prima di andare avanti, è necessario fare alcune osservazioni sul legame tra modello giusnaturalistico e società borghese. Si tratta di uno dei temi fondamentali della storiografia marxista 3 , che vede il giusnaturalismo come il referente ideologico della società borghese. L'interpretazione che Hill dà della teoria di Hobbes, e quella ormai classica di Macpherson, che tratteremo in seguito, sono
tipiche espressioni di questa corrente. Secondo queste teorie, esiste senza dubbio un forte legame tra modello giusnaturalistico e società borghese4 . Innanzitutto, la scoperta di uno stato pre-politico, lo stato di natura appunto, come luogo dei rapporti più semplici e immediati, come quelli economici, rappresenta la scoperta di una sfera economica distinta da quella politica, in opposizione alla confusione tra potere economico e potere politico tipica dell'età feudale5 . È questo un punto importante ai fini del nostro discorso, in quanto l'individuazione di una sfera
economica pre-statale sembrerebbe dare per scontato che gli individui che vi fanno parte sono già possessori di una serie di diritti, tra cui quello alla proprietà privata. Si può dire, infatti, che, nel modello giusnaturalistico, lo Stato sorge per volontà dei possessori di beni, per la protezione delle loro proprietà. Il discorso non è però così
semplice, poiché ogni autore utilizza questo modello in maniera differente, e vedremo infatti, che quello che abbiamo appena detto, sembra non valere per Hobbes. Parleremo poi in maniera più accurata del diritto di proprietà nello stato di natura del filosofo di Malmesbury; per adesso è importante tenere presente l'importanza del concetto di proprietà privata, e della figura del proprietario nella
teoria del diritto naturale. Gli ideali di libertà ed eguaglianza, e soprattutto l'idea del contratto, sembrano così riflettere le rivendicazioni di una precisa classe politica, la borghesia, che, già economicamente potente, lotta per conquistare anche il potere politico. Detto questo, cerchiamo di capire qual è la posizione di Hobbes all'interno di questa «scuola». Quello che abbiamo descritto come giusnaturalismo, andrebbe in realtà definito in maniera più precisa come giusnaturalismo moderno, distinto da quello classico e medievale. Ogni dottrina morale che presuppone l'esistenza di una legge naturale precedente quella civile, sia cronologicamente, sia assiologicamente, è infatti una
dottrina giusnaturalistica. Da questo punto di vista, lo stesso Aristotele rientrerebbe in questa categoria. Il giusnaturalismo che abbiamo descritto, seppur in maniera sommaria, è invece il giusnaturalismo moderno. Ora, una tradizione che risale a Pufendorf, che solo da poco è stata rimessa in discussione, vede in Ugo Grozio il capostipite del giusnaturalismo moderno. Grozio sarebbe stato dunque il primo a
spezzare il dominio incontrastato dell'aristotelismo nella filosofia morale, e a fondare così una nuova teoria del diritto naturale. Da alcuni anni, però, si è diffusa la convinzione che il giusnaturalismo moderno cominci non da Grozio, ma da Hobbes 6 . Nuovi studi hanno infatti posto in rilievo la portata innovatrice del pensiero politico di Hobbes, che farebbe di lui il vero capostipite della filosofia
politica moderna. Egli è infatti il primo ad elaborare una serie di prescrizioni «more geometrico». In questo modo, «il diritto naturale cessa di essere la via attraverso la quale le comunità umane possono partecipare all'ordine cosmico o contribuire ad esso, per diventare una tecnica razionale della coesistenza»7. Prendendo le mosse
non più dalla natura sociale dell'uomo, ma dalla sua natura egoistica, Hobbes sarà il primo ad elaborare una compiuta teoria dello stato di natura, nel quale gli uomini posseggono non già doveri, ma diritti naturali .Abbiamo fatto questi brevi accenni al rapporto tra Hobbes e il giusnaturalismo, permettere in rilievo un aspetto importante ai fini del nostro discorso sulla proprietà: il
carattere innovativo del pensiero hobbesiano, che dunque rappresenta un punto di svolta nell'ambito della filosofia politica, in linea con i profondi mutamenti culturali, sociali, politici ed economici propri dell'inizio dell'evo moderno. Il rapporto tra Hobbes e il giusnaturalismo, tra il pensiero liberale e autori come Locke, è da alcuni anni divenuto il tema dominante di numerosi studi. Lo scopo di questo lavoro è di analizzare il concetto di proprietà privata nelle opere di Hobbes e Locke, di conseguenza ci sembra indispensabile cercare di inquadrare le due teorie
nel contesto storico e storico-filosofico cui appartengono. Le due dottrine sono state
spesso considerate antitetiche, così come sono la teoria di uno Stato assoluto e quella di uno Stato liberale. Nondimeno, la critica filosofica del secolo scorso ha molto spesso posto in rilievo i punti in comune, arrivando addirittura a tesi paradossali secondo cui non ci sarebbero divergenze sostanziali tra le due teorie8. Ecco perché ci sembra indispensabile fare qualche breve accenno ai rapporti che i due autori hanno con il modello giusnaturalistico, che entrambi utilizzano per
giungere poi a conclusioni opposte, e con il contesto storico che alcuni critici hanno ritenuto determinante nell'elaborazione delle loro dottrine e nell'evoluzione del loro pensiero. In conclusione, possiamo dunque dire che Hobbes fu un giusnaturalista, o meglio, il
primo dei giusnaturalisti moderni. Gli elementi innovatori del suo modello rappresentano una rivoluzione nell'ambito della filosofia politica, ed è dunque sotto questo punto di vista che vanno analizzate le affinità con pensatori posteriori, apparentemente molto diversi, come Locke. Entrambi si pongono su un piano diverso rispetto a filosofi come Grozio, per certi aspetti ancora legati al pensiero medievale.



1.2 LO STATO DI NATURA E LA PROPRIETÀ
PRIVATA: LO IUS IN OMNIA
Cercheremo adesso di esporre il pensiero di Hobbes in relazione allo stato di natura
e alla proprietà privata. Possiamo innanzitutto dire che lo stato di natura ipotizzato da Hobbes è una pura ipotesi della ragione. Il suo studio sulla nascita e sullo sviluppo dello Stato non è una ricerca di cause storiche, ma di ipotetiche cause efficienti9. Lo stato di natura, in realtà, si può verificare storicamente, in tre situazioni particolari: nelle società
primitive, nel caso della guerra civile, e nella società internazionale, cioè
rispettivamente in una situazione pre-statale, antistatale, e inter-statale10: «Infatti, in molti luoghi d'America, i selvaggi, se si esclude il governo di piccole famiglie la cui concordia dipende dalla concupiscenza naturale, non hanno affatto un governo e vivono attualmente in quella maniera animalesca di cui ho prima parlato. Ad ogni modo, si può intuire quale genere di vita ci sarebbe se non ci fosse un potere comune da temere, dal genere di vita in cui, durante una guerra civile, precipitano abitualmente gli uomini che fino a quel momento sono vissuti sotto un governo pacifico. Ma qualora non fosse mai esistito un tempo in cui gli uomini isolati fossero in uno stato di guerra gli uni contro gli altri, tuttavia in tutti i tempi, i re e le persone dotate di autorità sovrana sono, a causa della loro indipendenza, in una situazione di continua rivalità e nella situazione e nella postura propria dei gladiatori, le armi puntate e gli occhi fissi gli uni su gli altri: vale a dire fortezze guarnigioni e cannoni alle frontiere dei loro regni e spie che controllano incessantemente i Paesi vicini; questo è un atteggiamento di guerra»11.
Questi referenti storici però, hanno più lo scopo di rendere chiare le caratteristiche di tale stato, che di convalidare la teoria. Hobbes tenta di stabilire i principi razionali dalla filosofia politica, nell'ambito di una costruzione logica12. La sua teoria nasce dall'obiettivo, tipico del razionalismo seicentesco, di elaborare un sistema politico applicando il metodo matematico13. Il suo scopo era quello di porre
fine alle interminabili dispute dei filosofi sulla morale, cercando di raggiungere in questa disciplina gli stessi risultati che l'uomo aveva già conseguito nelle scienze matematiche: «Se infatti la ragione delle azioni umane fosse conosciuta con la stessa certezza con cui conosciamo la ragione delle grandezze nelle figure, l'ambizione e l'avidità, la cui potenza si sostiene sulle false opinioni del volgo circa il diritto e il torto, sarebbero disarmate, e la gente umana godrebbe di una pace
tanto costante, che non sembra si dovrebbe più combattere»14. Occorre dunque applicare il metodo geometrico alla filosofia morale, soprattutto perché le conseguenze di questa mancanza sono più dannose che nelle altre discipline15. Per superare il relativismo morale, egli tenta dunque di procedere ad un'elaborazione della filosofia politica more geometrico. Secondo Hobbes dunque «la ragione non è altro che il calcolo (cioè l'addizionare e il sottrarre) delle conseguenze dei nomi
generali che sono stati stabiliti di comune accordo, per notare e significare i nostri pensieri»16. Ecco perché lo stato di natura non può essere considerato la base di un'analisi storico – politica, ma piuttosto il punto di partenza indispensabile per la deduzione razionale dei principi morali che saranno la base della sua teoria politica. Si tratta dunque di delineare lo stato degli uomini fuori della società civile, in assenza di un potere sovrano che garantisca il rispetto delle leggi.
Analizzando sia le condizioni obiettive in cui gli uomini si verrebbero a trovare in questo stato, sia le passioni e i sentimenti umani, Hobbes giunge alla conclusione che lo stato di natura è una stato di guerra. La prima condizione obiettiva è che gli uomini sono per natura uguali tra loro. Questa affermazione non è da prendersi alla lettera: Hobbes sa benissimo che gli uomini sono molto diversi tra loro, sia per le
caratteristiche fisiche, che per quelle intellettuali. Nel De cive leggiamo: «Sono uguali coloro che possono fare cose uguali l'uno contro l'altro. Ma coloro che possono fare la cosa suprema, cioè uccidere, possono fare cose uguali». 17 L'uguaglianza degli uomini si fonda dunque sulla comune capacità di procurarsi l'un l'altro il massimo dei mali: la morte. L'uguaglianza naturale di tutti gli uomini è un elemento importante, anche perché da ciò deriva che tutti hanno lo stesso interesse a voler uscire da questo stato. Le rinunce che gli individui decideranno di
fare tramite il patto che legittimerà il sovrano, saranno così uguali per tutti, poiché tutti sono minacciati nella stessa misura.
La seconda condizione obiettiva che caratterizza lo stato di natura, la più
importante ai fini del nostro discorso, è il cosiddetto ius in omnia. Per il filosofo di Malmesbury, fuori della società civile non esiste proprietà privata, ma al contrario tutti hanno un uguale diritto a tutte le cose.
Egli opera innanzitutto una precisa distinzione tra diritto e legge. Per Hobbes «il nome di diritto non significa altro che la libertà, che ciascuno ha, di usare delle facoltà naturali secondo la retta ragione»18. Dunque, «il diritto consiste nella libertà di fare o di astenersi dal fare, mentre la legge determina e obbliga a una delle due cose. Perciò la legge e il diritto differiscono tra loro come l'obbligazione e la libertà, che sono incompatibili nella stessa situazione»19. L'esplicita distinzione tra ius e lex rivela il carattere innovativo della teoria hobbesiana, che è la prima vera teoria dei diritti naturali20.
Lo stato di natura, in quanto antitetico alla società civile, non è caratterizzato dall'esistenza di doveri, come quest'ultima, ma di diritti.
Bobbio osserva giustamente che «Hobbes elabora per la prima volta una compiuta teoria dello stato di natura, cioè di quello stato che diventerà il principale espediente per fondare la teoria dei limiti della sovranità, non tanto sul dovere imperfetto del principe, quanto sui diritti perfetti del cittadino»21. Ma quali sono i diritti dell'uomo nello stato di natura? Per Hobbes la questione è molto semplice poiché, essendo l'uomo per natura «portato a desiderare ciò che per lui è bene, e a fuggire ciò che per lui è male»22, ne consegue che «il fondamento ultimo del dirittonaturale è che ciascuno difenda la sua vita e le sue membra per quanto è in suo potere»23. A qu esto punto è necessario fare alcune considerazioni sul diritto all'autoconservazione. L'obiettivo di Hobbes era di rifondare la filosofia politica, di porre fine alle dispute dei filosofi morali, attraverso la costruzione di una teoria basata su principi logici, razionali. Al pari di Descartes, Galilei e Bacone, egli credeva nell'infallibilità del metodo matematico, ed era convinto che la sua applicazione alla filosofia morale avrebbe dato i risultati sperati. Il primo problema da affrontare dunque, nella ricerca di principi morali universali su cui costruire la vera scienza politica, era il confronto con lo scetticismo24. Si trattava di ricercare
l'esistenza di principi universali su cui fondare la filosofia morale, ed era dunque necessario confrontarsi con la teoria secondo cui non esiste una norma etica oggettiva. Al pari di Grozio, Hobbes doveva confutare gli argomenti scettici, ritornati in auge nel XVI secolo, che affermavano la relatività dei principi morali. Il problema da risolvere nella terza sezione della sua opera, quella dedicata alla morale, era il problema del diritto naturale, «the existence or non- existence of common ethical standards by which men should live their lives»25. La soluzione era
nel diritto all'autoconservazione. Richard Tuck, dopo aver avere riassunto gli argomenti principali dello scetticismo morale, afferma: «One universal principle of human conduct remained intact after this skeptical onslaught, however. It was that men both do and must seek their own self-preservation»26. La scoperta del diritto
all'autoconservazione è una delle innovazioni del giusnaturalismo moderno. L'istinto di autoconservazione si presenta come l'unica realtà oggettiva ed universale capace di regolare la condotta umana, a dispetto dell'eterogeneità delle norme morali. Seppur popoli diversi hanno costumi e idee profondamente differenti, la volontà di proteggere e favorire la propria esistenza il più a lungo possibile è propria di qualsiasi essere umano. Solo su questo istinto si può sperare di costruire un insieme di norme che possano in qualche modo ritenersi universali.
Il diritto alla conservazione della propria persona è dunque il fondamento del diritto naturale. Ma avere il diritto di conservare la propria vita e le proprie membra senza avere il diritto ai mezzi necessari è inutile, dunque ciascuno ha diritto a tutte le cose. Riassumendo, possiamo dire, come fa lo stesso Hobbes, che «nello stato di natura
la misura del diritto è l'utilità» 27 , e di conseguenza ognuno ha il diritto di appropriarsi di tutto ciò che ritiene utile.
A questo punto lo ius in omnia sembrerebbe equivalere a quell'originaria comunità di possessi che avrebbe caratterizzato l'età dell'oro del genere umano. Lungi dall'essere una condizione negativa, una primitiva società comunistica sarebbe stata una condizione ideale per gli uomini, che sarebbero vissuti in perfetta armonia, senza sapere cos'è la povertà. Ma per Hobbes, lo ius in omnia è una delle principali
cause di discordia, una delle principali motivazioni che spingono l'uomo ad uscire
dallo stato di natura. Occorre dunque cercare di capire bene cosa comporti in realtà il diritto a tutte le cose. Per far ciò è necessario distinguere tra le due modalità attraverso cui si può esprimere la comunità dei possessi. La comunità dei beni può infatti essere negativa o positiva. Una comunità positiva non differisce dalla normale proprietà privata se non per il numero dei soggetti che coinvolge28. Una comunità intesa in termini positivi è una comunità in cui tutti sono proprietari. Questo tipo di possesso comporta due importanti conseguenze. Innanzitutto una comunità positiva non può essere modificata senza un accordo comune, e a maggior ragione essere abbandonata senza il consenso di tutti29. In secondo luogo, una comunità di questo tipo presuppone l'esclusione di tutti i non proprietari. In definitiva, questo tipo di proprietà è un diritto condiviso da un gruppo di persone che è solo una parte dell'intera popolazione. Perciò, una comunità positiva è per forza di cose un tipo di possesso originatosi da una precedente comunità negativa30. Quest'ultima può essere definita come lo stato in cui è lecito l'uso e l'appropriazione di tutte le cose. Molti autori spiegano questa situazione con l'esempio dei posti in un teatro, o del buffet durante un banchetto31.
In quest'ultima occasione il cibo è a disposizione di tutti gli invitati, ma di nessuno in particolare. Il cibo è lì per essere preso: ogni invitato può prenderne, e può farlo senza far torto a nessuno. In una comunità negativa non occorre perciò il consenso esplicito per l'appropriazione. Riassumendo, possiamo dire che, mentre in una comunità positiva esiste un proprietario (una molteplicità di individui), che ha un diritto esclusivo, in una comunità negativa non esiste nessun proprietario, nessuno
che abbia un diritto esclusivo. È chiaro dunque che lo ius in omnia di Hobbes caratterizza un tipo di comunità di possessi in termini negativi, in cui nessuno è proprietario. Nel Leviatano leggiamo: «A questa medesima condizione consegue anche che non esiste proprietà, né
dominio, né distinzione tra mio e tuo, ma appartiene ad ogni uomo tutto ciò che riesce a prendersi e per tutto il tempo che riesce a tenerselo»32.
Su questo punto Hobbes anticipa gli sviluppi ulteriori delle teorie
giusnaturalistiche, interpretando la comunità di possessi originaria in termini negativi. Per il filosofo inglese, quel che comunemente si dice: «la natura ha dato tutto a tutti», non vuol dire altro se non la legittimità, nello stato di natura, di usare e di appropriarsi di tutto ciò che si ritiene utile per se stessi33. Alla fine però, possedere questo diritto non è affatto utile per gli uomini. Se tutti hanno lo stesso diritto, infatti, è come se non ce l'avesse nessuno: «Sebbene infatti ciascuno potesse dire di ogni cosa, questo è mio, non ne poteva godere a causa del vicino, che con uguale diritto e uguale forza pretendeva che la stessa cosa fosse sua»34. Hobbes esclude dunque che dalla comunità primitiva dei possessi possa
sorgere naturalmente la proprietà privata. Egli dà per scontato che gli uomini abbiano la necessità di appropriarsi di ciò che è comune, ma esclude la possibilità che ciò avvenga in maniera pacifica. Una comunità negativa rende indispensabile l'appropriazione privata. Gli uomini infatti, non possono godere dei frutti della
terra, se prima non si sono appropriati di qualcosa che è sì a disposizione di tutti, ma in realtà non è ancora di nessuno. La proprietà privata diventa così una necessità. Possiamo dunque dire che «There is a minimal level of private property, at least of a kind, in the state of nature»35. Si tratta di quei beni materiali che sono indispensabili alla sopravvivenza36. Ma la possibilità di godere di questi beni non è garantita da nessuna legge, di conseguenza non esiste una vera proprietà privata. Nessuna appropriazione è sicura nello stato di natura.
Una comunità negativa dei beni sarà il punto di forza delle teorie giusnaturalistiche che dovranno dimostrare come la proprietà privata possa sorgere già nello stato di natura, come farà Locke. Come abbiamo visto, infatti, una comunità di questo tipo
non richiede un consenso esplicito da parte degli altri individui per
l'appropriazione. Nella prospettiva di Hobbes, invece, l'uguale diritto di tutti su tutto non può non generare conflitto. L'uguaglianza di fatto e di diritto non può che portare alla guerra.
Secondo Warrender, per capire il vero significato dello ius in omnia, occorre capire cosa Hobbes intenda con la parola diritto. Nel senso corrente che il termine assume in filosofia politica e morale indica qualcosa a cui un individuo può legittimamente pretendere37. Hobbes usa il termine in questo senso quando discute dei diritti del
sovrano38. In questo senso il diritto di un uomo corrisponde ad una serie di doveri da parte degli altri uomini: «Qualunque cosa possa venire espressa dalla formula "diritti" può altrettanto e con maggiore precisione venire espressa dalla formula
"doveri" (altrui)»39. Da questo punto di vista, il diritto alla proprietà privata di un individuo può essere espresso, o meglio, è espresso in maniera più precisa, in termini di doveri che gli altri uomini devono rispettare. Avere il diritto al possesso
di un terreno per esempio, si traduce nel dovere che gli altri uomini hanno di nonoccupare tale terreno, di indennizzare il proprietario in caso di danni, ecc Ma non è questo, secondo Warrender, il diritto che intende Hobbes quando parla diius in omnia. Hobbes dà un significato diverso a questo termine: il dirittorappresenta ciò a cui un individuo non può essere costretto a rinunciare Dunque: «Mentre nella prima accezione i diritti rappresentano l'ombra dei doveri,ora vengono a rappresentarne l'antitesi: in questo senso, il diritto si identifica con la libertà o con l'esenzione dall'obbligazione»40.
Così, il diritto all'autoconservazione di un individuo, non può essere tradotto in una serie di doveri che obbligano gli altri uomini, ma significa semplicemente che detto individuo non può essere costretto a rinunciare alla propria vita. Ecco perché
la proprietà privata non può sorgere nello stato di natura di Hobbes, perché al diritto di uno non corrispondono doveri di altri. Ecco perché lo ius in omnia è una delle principali cause di conflitto.
Sembrerebbe però una contraddizione il fatto che, da un diritto dedotto dall'istinto di autoconservazione, derivi poi quello stato di guerra che rende precaria la vita dell'uomo: a differenza di quanto avviene in Locke, dove da una comunità negativa ha origine la proprietà privata, nello stato di natura di Hobbes non è possibile una pacifica appropriazione e spartizione delle risorse. Nel De cive leggiamo: «Ciascuno per diritto naturale giudica se i mezzi a cui ricorre o le azioni che sta per compiere siano o no necessari alla conservazione della sua vita e delle sue membra»41. A rigore dunque, gli uomini nello stato di
natura non cercano sempre le cose che possono condurre alla loro conservazione, ma tutte le cose che possono «sembrare di condurvi»42. Se ognuno avesse un'idea esatta di ciò che è necessario alla propria vita, avverrebbe infatti una spartizione
consenziente delle risorse, essendo lo stato di guerra il pericolo più grande da
scongiurare, poiché «nessuno pensa che sia il suo bene la guerra di tutti contro tutti»43. Sembra dunque che il problema sia l'incapacità che gli uomini (o alcuni di loro) hanno di giudicare in maniera razionale. Abbiamo visto infatti che lo ius in omnia, inteso come comunità negativa delle risorse, non è una caratteristica esclusiva della teoria hobbesiana. Anche per Locke il mondo è stato dato da Dio a tutti gli uomini, ed è lì per essere diviso. Per Locke, come vedremo, l'appropriazione sarà possibile poiché naturalmente regolata e limitata dal proprio
lavoro e dal dovere di rispettare gli stessi diritti degli altri. Per Hobbes invece, non esistono regole e limiti oggettivi all'appropriazione, poiché paradossalmente ogni uomo potrebbe pretendere per sé tutta la terra del mondo, ritenendola necessaria alla sua conservazione. Possiamo dire che il diritto di Hobbes non corrisponde ad una serie di doveri poiché non esiste un metro oggettivo per giudicare la legittimità di tale diritto. Giudicare ciò che è necessario alla propria conservazione vuol dire
giudicare a che cosa si ha diritto. Di conseguenza, nello stato di natura «uno con diritto attacca, e l'altro con diritto gli tiene testa»44. I diritti opposti, nello stato di natura, sono tutti legittimi, poiché la validità di ognuno è data da ognuno dei diversi giudizi. Se esistesse una legge generale, ogni diritto potrebbe essere giudicato giusto o meno confrontandolo con tale legge, ma nello stato di natura di Hobbes
non esiste una norma generale. Vi è certo la legge naturale, ma essa non è altro che un «dettame della retta ragione riguardo ciò che si deve fare o non fare per conservare, quanto più a lungo possibile, la vita e le membra»45. Agire con diritto vuol dire semplicemente agire secondo la retta ragione, ma ogni uomo ha un concetto diverso di retta ragione.
Riassumendo, possiamo dire che nello stato di natura di Hobbes non può sorgere la proprietà privata poiché il diritto a tutte le cose non può essere trasformato in un diritto particolare, che comporti una serie di doveri per gli altri. Questo perché non esiste una legge generale, una norma oggettiva che regoli l'appropriazione. Se, per
esempio, tutti gli uomini fossero d'accordo sulla legittima appropriazione di un terreno tramite l'occupazione o il lavoro, potrebbero naturalmente sorgere diritti
esclusivi alla proprietà. Ma lo stato di natura è il regno del giudizio soggettivo, in
virtù del quale ognuno può pretendere, in maniera legittima, tutto ciò che ritiene 1.3 LA SOCIETÀ CIVILE E LA PROPRIETÀ
PRIVATA
Lo stato di natura è una condizione estremamente triste: «Si giudicherà facilmente
quanto poco una guerra perpetua sia idonea alla conservazione del genere umano, e
di ciascun individuo. Ma questa guerra è per sua natura perpetua, perché non può
concludersi con nessuna vittoria, a causa dell'uguaglianza dei contendenti: infatti,
anche sui vincitori incombe sempre il pericolo, e si deve considerare un miracolo se
qualcuno, per quanto forte, muore di vecchiaia»47. Ma l'uomo ha la possibilità di
uscire da questo stato. Questa possibilità risiede non solo nelle sue capacità
razionali, ma anche nelle sue passioni48. Nel Leviatano leggiamo: «Le passioni che
inducono gli uomini alla pace sono la paura della morte, il desiderio di quelle cose
che sono necessarie a una vita piacevole e la speranza di ottenerle con la propria
operosità ingegnosa»49.
Oltre dunque al timore reciproco, uno dei moventi principali che spingono l'uomo
ad uscire dallo stato di natura è il bisogno di godere con sicurezza dei beni
materiali, del frutto del proprio lavoro. L'istituzione di un potere sovrano, in grado
di far rispettare le leggi, garantirà la sicurezza necessaria. Gli uomini dunque,
attraverso un contratto, costituiscono lo Stato civile. Sulla natura di questo contratto, Hobbes dà delle indicazioni molto precise. Esso deve essere un accordo di molti e non di pochi, e soprattutto deve essere permanente50. Lo scopo di questo contratto non deve essere quello di costituire una semplice associazione di persone che seguono un fine comune, poiché la società civile non è una semplice società di mutuo soccorso: «Segue da ciò che il consenso di molti (che consiste solo in
questo, che tutti dirigono le loro azioni ad uno stesso fine, e al bene comune), cioè
una società soltanto di aiuto reciproco, non procura a coloro che consentono, o soci,
la sicurezza nell'esercitare fra di loro le leggi di natura, che stiamo ricercando.
Invece, si deve fare qualcosa di più, affinché a coloro che hanno acconsentito per
una volta alla pace e all'aiuto reciproco, in vista del bene comune, sia proibito con
la paura di cadere nuovamente nel dissenso, quando un loro bene privato divergerà
dal bene comune»51. Il contenuto di questo accordo è facilmente deducibile dalle
caratteristiche dello stato di natura. Poiché lo stato di natura è uno stato di
insicurezza, lo scopo principale sarà quello di rimuovere la causa dell'insicurezza,
costituendo un potere comune. L'unico modo per costituire un potere comune è che
tutti acconsentano a «trasferire tutto il loro potere e tutta la loro forza a un solo
uomo o a una sola assemblea di uomini»52. Ogni uomo si impegna a trasferire il
proprio potere al sovrano, a patto che anche gli altri facciano lo stesso: «Dò
autorizzazione e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest'uomo, o a
quest'assemblea di uomini, a questa condizione, che tu, nella stessa maniera, gli
ceda il tuo diritto e ne autorizzi tutte le azioni»53. Con questa formula, gli uomini
stipulano quello che Hobbes definisce unione54.
Bobbio nota come nel patto di unione vengano a coincidere il pactum societatis, e il
pactum subiectionis: «A differenza del pactum societatis, il patto di unione
hobbesiano è un patto di sottomissione; ma a differenza del pactum subiectionis, i
cui contraenti sono, da un lato, il populus nel suo complesso e, dall'altro, il sovrano,
è, come il pactum societatis, un patto i cui contraenti sono i singoli soci tra loro che
s'impegnano reciprocamente a sottomettersi a un terzo non contraente. Con una
contaminazione probabilmente inconsapevole dei due contratti che stanno a
fondamento dello stato secondo una dottrina tramandata, Hobbes ha fatto dell'unico patto di unione un contratto di società rispetto ai soggetti e di sottomissione rispetto
al contenuto»55.
In definitiva, lo Stato è «una persona unica, dei cui atti [i membri di] una grande
moltitudine si sono fatti autore, mediante patti reciproci, di ciascuno con ogni altro,
affinché essa possa usare la forza e i mezzi di tutti loro nel modo che riterrà utile
per la loro pace e per la difesa comune»56. La prima cosa da notare è che il sovrano
è un semplice beneficiario del contratto: egli non ha nessun obbligo nei confronti
dei suoi sudditi. Tutta la costruzione politica di Hobbes mira alla giustificazione di
un potere sovrano unico e assoluto, e alla confutazione di tutte le teorie che in
qualche modo possano limitare la sua autorità. Egli è convinto che i danni che un
sovrano assoluto potrebbe provocare non sarebbero mai tanto numerosi e gravi
quanto quelli che verrebbero da un'assenza di sovranità . La descrizione dello stato
di natura serve proprio a dimostrare la necessità di un potere irresistibile. Tutti
coloro che criticano un governo assoluto «non considerano che lo stato dell'uomo
non può mai essere del tutto esente da qualche molestia, e che la più grande che
possa per avventura capitare al popolo in generale, in qualsiasi forma di governo, è
pressoché impercettibile in confronto alla miseria e alle spaventose calamità che
sono retaggio di una guerra civile»57.
Il patto di unione è strutturato in modo tale da garantire tre indispensabili attributi
della sovranità: l'irrevocabilità, l'assolutezza, e l'indivisibilità. Essendo il patto,
infatti, stipulato tra i singoli, e non tra il popolo e il sovrano, è impossibile, secondo
Hobbes, revocare il potere così trasferito: «Dal momento che il potere supremo in
forza di patti che ciascun singolo cittadino o suddito ha stretto con ciascuno degli
altri, e tutti i patti, poiché derivano la loro forza dalla volontà dei contraenti,
possono perderla per il loro consenso, e venire sciolti, qualcuno potrebbe inferire
che il potere supremo possa venire soppresso per consenso di tutti insieme i sudditi. Anche se questo fosse vero, non vedo però che pericolo potrebbe derivarne, sul
piano del diritto, a chi ha il potere supremo. Poiché infatti si suppone che ciascuno
si sia obbligato verso ciascuno degli altri, se anche uno solo dei cittadini non
acconsente, tutti gli altri, per quanto consentano fra di loro, restano obbligati:
nessuno di loro può senza torto fare quello che, con patto concluso con me, si è
obbligato a non fare. Ma non si può credere che capiti che tutti insieme i cittadini,
nessuno escluso, consentano contro il potere supremo. Dunque chi ha il potere
supremo non corre il rischio di potere essere legittimamente privato della sua
autorità»58. Il potere sovrano è inoltre, come abbiamo già detto, assoluto, poiché i
cittadini hanno attribuito a un terzo al di sopra delle parti tutto il potere che
ciascuno aveva nello stato di natura. Il potere comune così costituito può essere
considerato come la somma di due poteri: il supremo potere economico (o
dominium) e il supremo potere coattivo (o imperium)59. Sostenendo l'irrevocabilità
del potere sovrano, Hobbes si opponeva alla teoria del mandato, così adesso,
sostenendo che il potere sovrano è assoluto, nel senso di legibus solutus, egli si
oppone alle teorie del potere statale limitato 60 . Infine, il potere sovrano è
indivisibile, poiché il potere dei cittadini è stato trasferito ad un'unica persona civile,
sia essa un uomo o un'assemblea. Hobbes pone tra le teorie sediziose quella
secondo cui il potere sovrano può essere diviso: «Infatti, dato che i poteri separati si
distruggono reciprocamente l'un l'altro, che cos'altro è dividere il potere dello
Stato se non dissolverlo?»61.
Tra i diritti del sovrano, Hobbes riconosce quello di regolare la proprietà privata.
Nel Leviatano leggiamo: «inerisce interamente alla sovranità il diritto di prescrivere
le regole mediante le quali ognuno possa sapere di quali beni può disporre e quali
azioni può compiere senza essere molestato da alcuno degli altri sudditi. È questo
che gli uomini chiamano proprietà. Infatti (come si è già dimostrato), prima della costituzione del potere sovrano tutti gli uomini avevano diritto a tutte le cose, il che
necessariamente causava la guerra. Perciò questa proprietà, essendo necessaria alla
pace, e dipendendo dal potere sovrano, è posta in atto da questo potere in vista della
pace pubblica»62. Queste regole della proprietà, che sono poi anche le regole della
giustizia, sono le leggi civili. Bisogna innanzitutto precisare che Hobbes dà al
termine proprietà un significato molto ampio, come molti altri autori del XVII
secolo63: «Fra le cose che un uomo possiede, quelle a lui più care sono innanzitutto
la vita e le membra; seguono (per la maggior parte degli uomini) quelle che
riguardano l'affetto coniugale e, dopo queste, le ricchezze e i mezzi di
sussistenza»64. Questo concetto, tipico del secolo di Hobbes, sarà molto spesso
chiamato in causa per dimostrare il carattere borghese della teoria hobbesiana, che
riduce anche i rapporti familiari a rapporti di proprietà.
In realtà, secondo il filosofo, nessun possesso è sicuro prima dell'istituzione dello
Stato, e di conseguenza non si può parlare di vera e propria proprietà privata in uno
stato in cui non esiste nessuna sicurezza. Esistono varie teorie secondo cui nello
stato di natura di Hobbes esiste una qualche forma di proprietà65, ma, alla luce di
quanto si legge nel due testi fondamentali, sembra difficile dare credito a queste
interpretazioni. Nel De cive infatti, Hobbes non solo afferma che la proprietà ha
avuto inizio con gli stessi Stati, ma risponde anche all'obiezione secondo cui nello
stato di natura i padri di famiglia sarebbero già stati detentori di proprietà: «quello
che è stato obiettato da alcuni, che anche prima della costituzione degli Stati i padri
di famiglia avevano proprietà di beni, non ha valore, perché, come ho detto, la
famiglia è un piccolo Stato. Ai figli viene concessa dal padre una proprietà sulle
loro cose, distinta da quella degli altri figli, ma non dalla proprietà del padre stesso.
Ma i padri di diverse famiglie, che non sono sottoposti a un padre o a un signore comune, hanno un diritto comune su tutte le cose»66. Nello stato di natura non
esiste dunque proprietà privata.
È il sovrano, una volta istituito lo Stato, a distribuire le risorse, instaurando così la
proprietà. Nel far ciò egli svolge la sua funzione di giudice supremo, essendo la
giustizia «la volontà costante di dare a ciascuno il suo»67. Proprietà e giustizia
risultano così essere profondamente legate: la giustizia non è altro che una giusta
distribuzione della proprietà. Nello stato di natura, in assenza di una legge
universale, e soprattutto di un potere irresistibile che la renda efficace, non solo non
esiste la proprietà, ma nemmeno i concetti di giusto e ingiusto: «Perciò dove non
esiste suo, ossia dove non esiste proprietà, non esiste ingiustizia; e proprietà non
esiste dove non esiste un potere coercitivo istituito, cioè dove non esiste Stato,
giacché [in questo caso] tutti gli uomini hanno diritto a tutte le cose: quindi, dove
non esiste Stato nulla è ingiusto. Cosicché la natura della giustizia consiste nel
rispettare i patti validi, ma la validità dei patti non ha principio se non con la
costituzione di un potere civile sufficiente a costringere gli uomini a mantenerli; ed
è allora che ha pure principio la proprietà»68.
Gli uomini hanno rinunciato allo ius in omnia, trasferendolo al sovrano, in modo
tale da ottenere un diritto alla proprietà sicuro all'interno dello Stato. Ma cosa
comporta il diritto alla proprietà privata nello stato civile?
Possiamo analizzare i diritti relativi alla proprietà prendendo in esame due tipi di
rapporto: quello che i cittadini hanno tra di loro, e quello che essi hanno con il
sovrano.
Abbiamo visto come ogni cittadino sia tutelato dallo Stato contro gli abusi da parte
degli altri cittadini. Le leggi civili regolano il meum e il tuum, e sono così le regole
costitutive della proprietà. Il sovrano ha il diritto di giudicare in caso di
controversie, stabilendo di quali beni il suddito può disporre, e quali azioni possa compiere senza essere danneggiato dagli altri. Da questo punto di vista, le
condizioni degli uomini sono sicuramente migliorate rispetto allo stato di natura.
I cittadini non hanno più lo ius in omnia, ma ognuno è portatore di diritti di
proprietà esclusivi, che si limitano a vicenda.
Diversa è la situazione per quanto riguarda il rapporto tra i sudditi e il sovrano.
Nel De cive, dopo aver spiegato che la proprietà ha origine con lo Stato, Hobbes
afferma: «Da ciò si comprende che i singoli cittadini possiedono qualcosa di
proprio, su cui nessuno dei loro concittadini ha alcun diritto, perché sono tenuti alle
stesse leggi; ma non possono avere alcunché di proprio, su cui non abbia diritto chi
detiene il potere supremo, i cui comandi sono le leggi stesse, nella cui volontà è
contenuta la volontà dei singoli, e che è dai singoli costituito come giudice
supremo»69. Mediante il patto di unione infatti, i cittadini si fanno autori delle
azioni del sovrano70. Ciò che rende il sovrano assoluto, è il fatto che tutti i cittadini
si sono deliberatamente fatti autori delle sue azioni, in modo tale che, qualsiasi cosa
egli faccia, non può in alcun modo commettere ingiustizia nei loro confronti71.
La situazione del suddito rispetto al sovrano è la stessa del servo rispetto al
padrone, con l'unica differenza che «il libero serve solo lo Stato, il servo anche un
concittadino. Ogni altra libertà è esenzione dalle leggi dello Stato, ed è riservata a
chi ha il potere»72. Di conseguenza, vale per il suddito lo stesso discorso sul diritto
di proprietà del servo: «Dunque non vi è nulla che il servo possa considerare come
proprio, nei confronti del signore. Ma per concessione del signore, gode di
proprietà e dominio sulle sue cose»73. La giustificazione principale di ciò è data dal
fatto che gli individui non possedevano niente prima di entrare nella società civile.
Le risorse di uno Stato sono costituite dai prodotti del mare e della terra. Ma non
sono queste risorse da sole a costituire l'abbondanza di beni, bensì il lavoro e l'industria degli uomini. Ora, in assenza di un potere che garantisca il rispetto delle
leggi, non vi è la sicurezza necessaria perché queste attività si sviluppino. La
ricchezza e l'abbondanza sono il frutto dell'attività umana, ma non ci sarebbe modo
di goderne in assenza di un potere assoluto. Nello stato di natura, infatti, non «vi è
posto per l'operosità ingegnosa, essendone incerto il frutto: e di conseguenza, non
vi è coltivazione della terra, né navigazione, né uso dei prodotti importati via mare,
né costruzioni adeguate»74, etc.
Andrew Reeve nota come «Before Bentham and Mill, Hobbes had held that
security was necessary before a man had an incentive to be industrious; but he
argued that security was available only in a civil society governed by a powerful
sovereign, and that although such a society allowed individuals property against
each other, they could not assert a claim to exclude the sovereign»75. Nello stato di
natura «ogni cosa appartiene a chi la prende e la conserva con la forza; il che non è
né proprietà né comunanza ma incertezza»76. È la distribuzione dei beni da parte
del sovrano che crea la proprietà, di conseguenza è assurdo ritenere che un
individuo possa avere un diritto che escluda oltre agli altri sudditi anche lo stesso
sovrano, «Pertanto la proprietà, poiché la sua introduzione è una conseguenza dello
Stato che nulla può fare se non attraverso la persona che lo rappresenta, è esclusivo
decreto del sovrano ed è basata sulle leggi che solo il detentore del potere sovrano
può fare»77.
Hobbes spiega come la distribuzione della proprietà operata dal sovrano rientri
nella sua attività legislativa. Egli cita Cicerone:
«Si tolga la legge civile e nessuno saprà cosa sia suo, e cosa sia di un altro»78. E
ancora, fa notare come il termine nomos, che i Greci usavano per indicare la legge, vuol dire distribuzione, e che essi definivano la giustizia come il distribuire a
ciascuno il suo79.
Secondo Hobbes la prima legge relativa alla distribuzione concerne la proprietà per
eccellenza: la terra. Al sovrano spetta dunque la ripartizione delle terre, ma non
solo. È suo compito anche stabilire in quali luoghi e quali prodotti il suddito possa
commerciare all'estero, e soprattutto è una sua prerogativa legiferare sul
trasferimento della proprietà80. Il commercio è una delle attività vitali di un paese,
«Spetta quindi allo Stato (vale a dire al sovrano) fissare il modo in cui va fatto ogni
tipo di contratto fra sudditi (come l'acquistare, il vendere, lo scambiare, il dare o
prendere a prestito o in affitto) e le parole e i segni da cui debba intendersi la loro
validità»81. Come risulta dunque dal patto che gli individui stipulano per istituire la
società civile, il sovrano ha il controllo assoluto della proprietà.
Bisogna anche tenere presente un altro argomento. Secondo Hobbes, il sovrano
non può assolvere la sua funzione, che è quella di garantire la sicurezza e la pace,
senza avere la piena disponibilità delle risorse. Egli respinge dunque l'idea di
riservare allo Stato, nella distribuzione della terra, una porzione che «possa essere
sufficiente a sostenere la spesa globale necessaria per la salvaguardia della pace e
della difesa comune»82. Un provvedimento del genere porterebbe alla dissoluzione
del governo: «Gli Stati non tollerano alcuna dieta: infatti, poiché la loro spesa non è
determinata dal loro proprio appetito ma da accidenti esterni e dall'appetito dei loro
vicini, le ricchezze pubbliche non possono ricevere altri limiti che quelli richiesti
dalle necessità che si presentano»83. Di conseguenza, i sudditi hanno il dovere di
pagare le imposte, anche se non le hanno approvate.
Nel De cive, Hobbes elenca le opinioni sediziose che portano alla dissoluzione
dello Stato: la settima di esse sostiene che «ai singoli spetti un dominio assoluto sulle cose che possiedono, cioè, una proprietà che esclude il diritto di tutti gli altri,
non solo dei concittadini, ma dello stesso Stato, sulla stessa cosa»84. Ancora una
volta il filosofo ribadisce la sua argomentazione:
«Prima di accollarsi il giogo dello Stato, nessuno aveva qualcosa per proprio diritto,
ma tutte le cose erano comuni a tutti. Dì allora: da dove ti viene questa proprietà, se
non dallo Stato? E da dove deriva allo Stato, se non dal fatto che ciascuno ha
trasferito allo Stato il suo diritto? Anche tu, perciò, hai ceduto allo Stato il tuo
diritto. Quindi il tuo dominio e la tua proprietà hanno l'estensione e la durata che lo
Stato stesso vuole»85.








1.4 IL PROBLEMA DELLE IMPOSTE E
L'INTANGIBILITÀ DEL DIRITTO DI
PROPRIETÀ
Il problema delle imposte era molto sentito da Hobbes. Il caso della Ship Money
(1635) fu determinante per lo scoppio della guerra civile86. Nella battaglia tra re e Parlamento, Hobbes si schiera a favore del sovrano, sostenendo appunto la teoria
secondo cui quest'ultimo ha il diritto di tassare i sudditi secondo il proprio arbitrio,
senza aver bisogno di alcuna approvazione da parte del Parlamento. Tuck scrive
che, secondo Hobbes, «the sovereign must have the right to tax people to the level
he thinks fit in order to protect commonwealth: no "right to private property" can
be pleaded against his actions, as had been argued during the Ship Money
controversy»87. Nella sua analisi sulla guerra civile, Hobbes osserva come «il
popolo in generale era così ignorante del suo dovere, che forse non uno su
diecimila sapeva quale diritto un uomo avesse di comandare, o quale necessità vi
fosse d'un re o d'una repubblica [commonwealth], per cui separarsi dal proprio
denaro contro la propria volontà; anzi, ciascuno si riteneva padrone di tutto ciò che
possedeva, tanto che niente potesse essergli tolto, senza il suo consenso, per un
qualsiasi motivo di sicurezza comune»88.
Nel Leviatano, dopo aver ancora una volta inserito il diritto all'intangibilità della
proprietà privata tra le dottrine sediziose, Hobbes paragona i mali dello Stato alle
malattie dell'uomo. La stessa metafora usata nell'introduzione viene adesso ripresa:
lo Stato, in quanto uomo artificiale, può al pari dell'uomo naturale, ammalarsi,
soffrire, e anche morire. Tra i mali dello Stato, ve ne sono alcuni che, pur non
essendo tra i più gravi e pericolosi, vanno in ogni modo presi in considerazione.
Uno di questi, è costituito dalla difficoltà che lo Stato può avere nel raccogliere
denaro per le proprie necessità, specialmente in periodo di guerra89. Secondo il
filosofo, ancora una volta «Questa difficoltà ha origine dall'opinione che ogni
suddito abbia sulle proprie terre e sui propri beni una proprietà che ne esclude il
diritto del sovrano all'uso. Quello che succede in conseguenza di ciò è che il potere
sovrano, che prevede le necessità e i rischi dello Stato, quando trova interrotto l'afflusso di denaro al pubblico tesoro a causa della tenace opposizione della
popolazione, invece di estendersi per contrastare e prevenire questi pericoli fin dal
loro sorgere, si restringe finché può e, quando non può più, lotta col popolo a colpi
di stratagemmi legali per ottenere piccole somme; ma, essendo queste insufficienti,
è infine costretto o ad aprire con la violenza la via all'urgente rifornimento [di
denaro] o a perire»90. Hobbes paragona questo male a una febbre malarica, a causa
della quale «le vene, che nel loro corso normalmente si svuotano nel cuore, non
vengono rifornite (come dovrebbe essere) dalle arterie»91. Ancora una volta dunque
il problema discusso è lo stesso. Hobbes non ammette che all'interno dello Stato
possa esistere una sfera privata di diritti, come quello alla proprietà, che escluda il
sovrano. Gli individui acquistano i loro diritti nella società civile, con l'istituzione
di un potere sovrano. Nello Stato è possibile avere così un diritto esclusivo alla
proprietà, che comporti una serie di doveri per gli altri, solo grazie all'attività del
sovrano che garantisce il rispetto delle leggi. Lo ius in omnia era un diritto inutile,
perché ciò di cui qualcuno si poteva legittimamente appropriare era esposto
all'arbitrio degli altri, che potevano usurpare il possesso con eguale diritto. La
cessione di un diritto incerto (lo ius in omnia ), in cambio di un diritto sicuro (la
proprietà privata nello Stato), avviene grazie al sovrano, ed è dunque assurdo
pretendere di possedere qualcosa che escluda il suo dominio. Risulta così
irragionevole pensare che il sovrano necessiti di un'approvazione dei sudditi per
intaccare le loro proprietà. L'ultimo passo riportato, inoltre, ci mostra ancora una
volta la stretta connessione tra il diritto di proprietà e la guerra civile inglese.
Le parole di Hobbes, infatti, si riferiscono chiaramente agli scontri fra re e
parlamento. Abbiamo visto come la bancarotta (1640) costrinse la Corona ad
aumentare le tasse e a ricorrere a prestiti forzosi. Il sovrano si servì dunque di
stratagemmi ai limiti della legalità per risanare le finanze. La resistenza della
gentry, fu per Hobbes la principale causa della guerra civile. Il filosofo di Malmesbury teorizza un potere unico e assoluto poiché si rende conto che qualsiasi
limitazione del potere sovrano è una potenziale causa di discordia, di guerra. La
guerra civile rappresenta la fine di qualsiasi diritto alla proprietà, della pace e della
sicurezza. Di conseguenza, il fine della filosofia politica doveva essere quello di
teorizzare uno Stato che scongiurasse l'avvento di una condizione di anarchia. Ecco
dunque perché il suddito non può avere un diritto alla proprietà privata che escluda
il sovrano.
Possiamo riassumere tutta l'argomentazione tenendo presente le due motivazioni
che Hobbes offre: la prima è che è il sovrano a creare la proprietà, e di
conseguenza è lui il solo a poterne determinare le caratteristiche e l'estensione; in
secondo luogo, dare al suddito un diritto assoluto alla proprietà, che escluda il
sovrano stesso, porterebbe alla dissoluzione dello Stato, poiché così il potere
supremo dipenderebbe dall'arbitrio dei singoli per il suo sostentamento.
Hobbes precisa comunque che la volontà dello Stato è espressa nella legge civile, e
di conseguenza il cittadino può anche intraprendere un'azione legale contro il
governo per un'imposta non approvata dalla legge civile. Non si tratta però di
mettere in discussione se lo Stato possa legittimamente possedere una determinata
cosa, «ma se in base alle leggi fatte in precedenza abbia voluto possederla. La legge
è infatti la volontà dichiarata di chi ha il potere supremo. Lo Stato può chiedere
denaro al cittadino sotto due titoli: come tributo, o come debito. Nel primo caso non
è consentita azione legale, perché non si può porre in questione se lo Stato abbia
diritto a esigere tributi. Nel secondo caso è consentito, perché lo Stato non vuole
togliere nulla al cittadino con l'astuzia, anche se, qualora ve ne fosse bisogno, gli
potrebbe togliere apertamente tutto quello che ha»92.
Tutto ciò non vuol dire però che il sovrano non abbia nessun dovere nei confronti
dei sudditi. Per Hobbes la funzione del sovrano consiste nel procurare la sicurezza
del popolo, che è poi il fine per il quale gli è stato affidato il potere93. Nel De cive viene chiamato in causa Cicerone, che a sua volta cita un passo delle XII tavole:
«la salute del popolo è la legge suprema»94.
Il compito dello Stato non è comunque quello di garantire solo la mera
sopravvivenza, «ma anche tutte le altre soddisfazioni della vita che ognuno possa
procacciarsi con lecita industria senza pericolo o danno per lo Stato»95.
Per raggiungere questo obiettivo, il sovrano è tenuto ad amministrare la giustizia in
modo imparziale, e di conseguenza è suo dovere applicare una tassazione uguale
per tutti96. Hobbes è a favore di una tassazione indiretta, non dunque sui patrimoni,
ma sui consumi 97 . Benché dunque il sovrano abbia un diritto assoluto sulle
proprietà dei sudditi, giustizia vuole che egli imponga ai cittadini un'imposta
uguale per tutti, che non tenga conto della ricchezza patrimoniale, bensì di ciò che
ciascuno effettivamente consuma. Su questo argomento, Hobbes sostiene un tipico
punto di vista borghese, teso a favorire l'accumulo di capitali. Per capire la sua
posizione, è necessario capire quale sia secondo lui lo scopo e la funzione delle
tasse. A suo parere infatti, «le tasse imposte dal potere sovrano, altro non sono che i
salari dovuti a coloro che portano la spada pubblica per difendere i privati
impegnati nelle loro svariate attività e professioni»98. Ecco dunque spiegata la sua
conclusione: «per quale ragione, infatti, uno che lavora molto e, risparmiando il
frutto del proprio lavoro, consuma poco, dovrebbe essere più tassato di uno che
vivendo nell'ozio, guadagna poco e spande tutto quello che guadagna – stante che
uno non riceve più protezione dell'altro dallo Stato? Mentre, quando le imposte
gravano sui consumi, ognuno paga ugualmente rispetto a quello che usa e lo Stato
non è impoverito dallo spreco e dal lusso dei privati»99.
Affermazioni come questa, dimostrano come, pur teorizzando un potere assoluto,
Hobbes si preoccupi di tutelare i proprietari. Pur essendo assurdo parlare di un diritto alla proprietà che escluda il sovrano, nondimeno quest'ultimo ha il dovere di
rispettare la proprietà dei sudditi, applicando un sistema di imposte che non
penalizzi l'accumulo di capitali.
L'interesse per la produzione e l'accumulo delle ricchezze emerge chiaramente
nelle sue considerazioni su quella che è la fonte di tutti i beni materiali: il lavoro.
Mentre egli ritiene infatti sia compito dello Stato provvedere a coloro che «per
eventi inevitabili divengono incapaci di sostentarsi col proprio lavoro» 100 ,
nondimeno ritiene giusto obbligare a lavorare chi potrebbe farlo, ma invece si
dedica all'ozio101. Il sovrano non deve dunque limitarsi a garantire la sussistenza,
ma deve anche favorire la produttività. In questo senso, egli deve proteggere i
proprietari, con un sistema di imposte che non li penalizzi, e favorire le attività
produttive. Il lavoro deve essere incoraggiato, e quando è necessario imposto,
poiché esso è la fonte di ogni proprietà e ricchezza. Pur non sostenendo una tesi
come quella di Locke, Hobbes si rende conto del profondo legame tra proprietà e
lavoro. Jeremy Waldron nota come «Even positivistic philosophers like Hobbes
and Bentham, who maintain that property rights are entirely a matter of convention
justifies if at all by their utility, drop their guard from time to time and say that
natural function of positive law is to secure to every men the fruits of its labour»102.
Hobbes condivide l'idea di uno Stato che garantisca i diritti di proprietà, ma nello
stesso tempo non crede possibile che lo Stato possa assolvere questo compito con
un potere limitato. Secondo il filosofo poi, il sovrano, pur avendone il diritto, non
attenterà alla proprietà dei sudditi, se non per quanto è necessario al bene comune.
Egli crede che dare ai cittadini un diritto assoluto ed esclusivo alla proprietà possa
creare una situazione simile allo stato di natura, dove non esiste un potere
abbastanza forte da garantire il rispetto delle leggi. In definitiva, il discorso di Hobbes si può riassumere così. L'unico sistema per
garantire ai cittadini il godimento delle loro proprietà in assoluta sicurezza, è quello
di creare un potere irresistibile. Tale potere non può avere limitazioni di sorta,
proprio perché, se le avesse, non sarebbe più in grado di assolvere la sua funzione.
Per Hobbes dunque, la posizione dei proprietari nello Stato da lui teorizzato, è la
più sicura in assoluto. Un governo, infatti, che rispettasse un diritto assoluto alla
proprietà dei cittadini, non sarebbe altrettanto sicuro, poiché non avrebbe altrettanto
potere nel garantire il godimento di tale diritto. L'esperienza storica dell'Inghilterra
ne è la prova. Limitare la sovranità vuol dire esporre lo Stato al pericolo della
guerra civile, cioè del ripristino dello stato di natura. Di conseguenza, limitare la
sovranità per difendere la proprietà è un'assurdità, in quanto così si rischia di
ritornare in quello stato in cui non esiste proprietà privata.
Michael Levin ritiene che la teoria di Hobbes, tutto sommato, non sia poi così
lontana da una teoria dello Stato minimo, come per esempio quella di Nozick103. Il
sovrano di Hobbes, detiene un potere assoluto solo in vista del fine per il quale è
stato istituito, che è quello di mantenere la pace. Dal punto di vista del fine,
dunque, lo stato di Hobbes si può considerare minimo: «The sovereign has the right
to keep the peace and, as Hobbes reiterates, "whosoever has the right to the End,
has the right to the Means". Since the sovereign thus has the right to use whatever
means he think necessary to secure peace, he may without injustice seize your plow
should he deem it "expedient". Nor does he lose this right if he errs about what is
necessary for peace: if we reserved the liberty to contest his judgment, we would
remain in the state of nature. There is, in spite of all this, a clear sense in which the
hobbesian state is minimal. It is first, minimal in intent»104. Nello stato di natura
hobbesiano gli individui stipulano un accordo per istituire il sovrano unicamente
per creare un potere irresistibile che possa assicurare la pace. Il Governo che sorge da questo patto, dunque, non interferirà nella vita dei sudditi se non nella misura in
cui è necessario per garantire la comune sicurezza. In definitiva, l'unico diritto che
gli uomini hanno trasferito al sovrano è quello di garantire la pace: tutti gli altri
diritti derivano da questo. Così, l'unica differenza fra la teoria di Hobbes e una
teoria minimalista, è che Hobbes non crede che il sovrano possa avere limiti di
sorta, poiché se così fosse, non sarebbe in grado di svolgere la sua funzione, che è
quella di garantire la pace: «The only apparent discrepancy between Hobbes's and
Nozick's minimalism lies in Hobbes sanctioning unlimited interference to keep
peace»105.
Certo l'argomentazione di Hobbes dà per scontato che il sovrano abbia una buona
predisposizione nei confronti dei suoi sudditi. Non esiste niente che assomigli a un
diritto di resistenza nella teoria politica hobbesiana, anche nel caso in cui il sovrano
difetti in maniera palese nello svolgimento della sua attività. Tuck, dopo aver citato
il passo del Leviatano in cui Hobbes afferma che il sovrano è tenuto a distribuire le
risorse in vista della pace e della sicurezza comune, osserva: «So if the distribution
of property works in such a way that people are physically endangered by it, and
members of the commonwealth do not have access to the material necessities of
life, then the sovereign is required to intervene and redistribute it; he must always
ensure that everyone has at least the minimum necessary for survival»106. Ma chi è
che decide quando la distribuzione del sovrano è dannosa per i cittadini? Hobbes
riconosce che molte volte il sovrano, sia esso un monarca o un'assemblea, può
agire in maniera irrazionale, e tradire così la legge di natura, ma subito dopo precisa che «ciò tuttavia non è sufficiente ad autorizzare alcun suddito a prendere le armi
contro il sovrano e neppure soltanto accusarlo di ingiustizia, o comunque parlare
male di lui; i sudditi infatti hanno autorizzato tutte le sue azioni e conferendogli il
potere sovrano le hanno fatte tutte proprie»107.
In conclusione, il fine dello Stato è quello di garantire la pace e la sicurezza, e
dunque di istituire e proteggere la proprietà privata, ma l'unico modo attraverso cui
un sovrano possa garantire tutto ciò, è disporre di un potere assoluto. Tutti gli
inconvenienti legati a un governo di questo tipo sono purtroppo inevitabili, poiché,
come abbiamo già detto, la condizione dell'uomo non è mai priva di inconvenienti
CAPITOLO 2 HOBBES: INTERPRETAZIONI
2.1 HOBBES NEL SUO TEMPO:
L'INTERPRETAZIONE DI HILL
Le interpretazioni marxiste del pensiero hobbesiano, di cui analizzeremo due
famosi esempi, tendono a mettere in rilievo il rapporto fra la teoria di Hobbes e
l'ambito storico nel quale il filosofo visse e operò. La prima in particolare, quella di
Christopher Hill, cui abbiamo già accennato, sembra ridurre gli interessi politici e
morali del filosofo a un riflesso di esigenze più profonde, di carattere socioeconomico.
Non per niente Hill è uno storico, e il suo discorso su Hobbes sembra
fare della sua teoria un risultato inevitabile degli eccezionali eventi del '600
inglese. Nella sua lettura, Hobbes appare come il difensore degli interessi dei
capitalisti sfruttatori. La difesa del diritto di proprietà, ai suoi occhi, rappresenta
uno degli obiettivi principali della teoria politica hobbesiana. La situazione
particolare in cui Hobbes visse, non gli avrebbe però permesso di elaborare una
teoria schiettamente borghese, come sarà poi quella di Locke. Il filosofo di
Malmesbury rappresenterebbe così una fase intermedia nell'evoluzione del
pensiero politico, tra quello medievale e quello moderno. La sua teoria sulla
proprietà dunque, non è priva di contraddizioni, in quanto combinazione di
elementi antichi e moderni.
Hill fa suo il concetto di sovrastruttura ideologica, e analizza la filosofia
hobbesiana cercando la causa e la radice dei suoi principi nei rapporti sociali ed economici che caratterizzano il periodo storico in generale e la vita del filosofo di
Malmesbury in particolare.
Egli vede nella situazione di Hobbes un'evidente contraddizione: «Hobbes, il
piccolo borghese, il ragazzo intelligente che si faceva onore a Oxford, è al servizio
presso una delle più conservatrici fra le grandi famiglie feudali che ancora
dominavano su larghe zone dell'arretrato nord dell'Inghilterra»108.
Nondimeno, scorge nell'atteggiamento di Hobbes nei confronti della politica, un
modo di analizzare la realtà che è tipicamente borghese. L'essere appunto un
piccolo borghese al servizio di una delle più importanti famiglie aristocratiche del
paese rendeva il filosofo cosciente del conflitto che investiva la società109, un
conflitto di classe che vedeva la borghesia in lotta per il riconoscimento dei propri
diritti (della proprietà in particolare), contro le vecchie prerogative feudali
dell'aristocrazia.
Hill riconosce comunque il carattere rivoluzionario della filosofia hobbesiana110.
Il filosofo di Malmesbury, sospeso fra due realtà sociali differenti, le criticherebbe
entrambe. Con Hobbes infatti, non sarà più la moralità il movente dell'obbedienza
politica, ma l'utilità111. L'elemento basilare della politica non sarà più il diritto, ma
la forza. Il carattere rivoluzionario della sua dottrina consiste nella razionalità del
metodo, nella freddezza e nella lucidità con cui analizza l'uomo borghese. Egli si
sarebbe spinto oltre tutti gli altri «teorici della borghesia», poiché il suo pensiero
non è viziato da nessuna ipocrisia. Le sue conclusioni sono immorali, terribili,
poiché sono dedotte da una fredda e obiettiva analisi della società civile. Non si
tratta dell'uomo così come dovrebbe essere, ma dell'uomo così com'è.
Hobbes descrive lo spietato mondo della concorrenza in cui egli stesso vive.
L'uomo allo stato naturale, da lui analizzato, non è altri che l'uomo borghese. Egli descrive chiaramente la nuova realtà, formatasi nel momento in cui gli statici
rapporti feudali e gerarchici si sono ormai spezzati112. Si tratta di una nuova realtà
sociale, costituita da individui autonomi ed eguali. È un mondo che però ha perso la
sua stabilità nel momento in cui le vecchie gerarchie garantite dall'ordine esistente
sono scomparse. Acquista sempre più importanza il problema di chi debba detenere
il potere, e di quali debbano essere i limiti alla sua autorità. L'elemento
fondamentale, il garante dell'ordine è dunque il potere sovrano. È quest'ultimo che
salva gli uomini dallo stato di guerra, che è nello stesso tempo lo stato di natura e la
condizione della «anarchia feudale». Garantire la pace era stato il compito della
monarchia dei Tudor, che aveva assicurato l'ordine in Inghilterra proprio contro
l'anarchia feudale113. Secondo Hill, la dottrina di Hobbes guarda indietro, proprio
verso la monarchia dei Tudor, idealizzandola. Essa fu infatti «l'età dell'oro sia per
la piccola borghesia che per l'aristocrazia terriera che si stava adattando al
capitalismo»114. Hobbes vive a cavallo fra due mondi. La soluzione dei problemi
della nuova società capitalistica sarà ricercata nel vecchio istituto della monarchia
assoluta. La contraddizione insita nel suo pensiero rifletterebbe dunque la sua
posizione. In particolare, le sue idee sulla proprietà e sulla sovranità, in quanto
combinazioni di elementi vecchi e nuovi, testimonierebbero quanto il difficile
momento storico influisse sul suo pensiero. Hill nota come Hobbes riconosca nella
tutela della proprietà la causa e la giustificazione dello Stato115. A suo parere,
proprietà e sovranità, inscindibilmente legate, diventano la massima espressione
della società civile, in opposizione all'anarchia dello stato di natura. Così come
teorizza un potere sovrano unico, assoluto e inattaccabile sotto qualsiasi punto di
vista, Hobbes elabora anche un diritto alla proprietà che la rende intangibile. Ma
l'argomentazione del filosofo di Malmesbury non è priva di contraddizioni. Hill
osserva che, «Come accade per la proprietà che viene ereditata, sì che noi non possiamo fare eccezioni sul possesso (santificato dal sovrano) mettendo in
discussione il diritto, così la sovranità stessa trapassa per eredità e noi non abbiamo
diritto di mettere in discussione le decisioni prese dai nostri antenati. La sovranità e
la proprietà resistono o cadono insieme e sono mantenute in virtù delle stesse leggi
di eredità»116. Hobbes dunque, pur basando tutta la sua teoria politica sul contratto,
usa ancora come principio di legittimazione un concetto medievale come
l'ereditarietà. Secondo Hill, per intendere questa «debolezza» dell'argomentazione,
bisogna tener presente quando e per chi Hobbes scrisse: «La sua combinazione fra
contratto ed eredità riflette la posizione del proprietario terriero, per il quale è
troppo importante assicurare l'intangibilità del diritto di successione alla proprietà.
È solo dopo la vittoria della borghesia che anche la terra finisce per perdere la sua
condizione feudale, e diviene una merce che può essere comprata, venduta e
trasmessa, e la sua proprietà viene assicurata per contratto. Tale sviluppo è riflesso
nella dottrina politica del passaggio dalla ereditarietà per diritto divino alla
monarchia limitata per contratto, delineata da Locke»117.
A parere di Hill, lo scopo di Hobbes è quello di teorizzare uno Stato in cui gli
interessi dei grandi proprietari siano tutelati. Nella lotta fra i grandi proprietari che
cercano di avviare uno sfruttamento della terra di tipo capitalistico, e i piccoli
contadini espropriati dalle recinzioni, Hobbes si schiera a favore dei primi. La
questione scottante è dunque la posizione dei copyholder, «i cui piccoli
appezzamenti di terra erano di frequente un ostacolo al consolidarsi di grandi
proprietà, alle recinzioni, all'aumento degli affitti, a tutti quei metodi con i quali
parte della borghesia terriera si stava arricchendo, approfittando di quel periodo di
prosperità commerciale ed industriale che durò per tutto il secolo precedente il
1640»118 . La teoria di Hobbes legittimerebbe le attività dei grandi proprietari.
Secondo il filosofo infatti, la giustizia non è altro che l'adempiere a un patto, il rispettare un contratto. Questa concezione, che poneva il contratto alla base della
giustizia, si opponeva alla concezione medievale secondo cui è la consuetudine, lo
status a regolare i rapporti economici. Porre il contratto alla base dei rapporti
economici giocava a favore dei proprietari terrieri, il cui scopo «era quello di
sostituire l'affittanza a "copyhold" o consuetudinaria, con quella a breve termine di
anni "leasehold", ed i "copyholds" perpetui con altri a termini prefissati; di
sostituire con precise, circostanziate e determinabili clausole, i diritti
consuetudinari tradizionali ed indeterminati dei contadini medioevali; di passare
dallo status al contratto»119.
Hill, però, sembra non dare molto peso al fatto che, la teoria di Hobbes non si
preoccupa tanto di teorizzare un diritto assoluto alla proprietà, quanto di
scongiurare il pericolo della guerra civile. Abbiamo visto, infatti, come il filosofo
non esiti a definire sediziosa la dottrina secondo cui gli individui hanno un diritto
assoluto alla proprietà privata, che escluda lo stesso sovrano. Non bisogna
dimenticare come nel caso della Ship money, Hobbes si sia schierato dalla parte
della Corona120. L'opposizione al re, sulla questione delle imposte, veniva proprio
da quella classe sociale (i proprietari capitalisti) che la teoria di Hobbes, secondo
Hill, avrebbe dovuto difendere.
Le conclusioni di Hill, a un riscontro dei testi hobbesiani, sembrano troppo radicali:
voler ridurre la filosofia politica di Hobbes ad una difesa dei diritti dei grandi
proprietari, e in particolare del diritto assoluto alla proprietà privata, porta a
fraintendere il suo pensiero. La sfortuna che ebbe la sua opera maggiore è la prova
evidente di come la sua teoria non fosse bene accetta a quella classe politica che ora
si trovava al potere121. Nel 1651, l'anno di pubblicazione del Leviatano, il potere
dei grandi proprietari terrieri era ormai consolidato, essendo stata praticamente eliminata l'opposizione dei gruppi di estrema sinistra. La rivoluzione vide il trionfo
della grande borghesia, la stessa borghesia che lottava per il riconoscimento di un
diritto assoluto alla proprietà privata. Ma sarà proprio questa classe sociale a
condannare violentemente l'opera di Hobbes, le cui tesi gli valsero l'appellativo di
mostro di Malmesbury. 2.2 STATO DI NATURA E SOCIETA' BORGHESE:
L'INTERPRETAZIONE DI MACPHERSON E LA
TESI DI BENJAMIN LOPATA
Il nesso tra modello giusnaturalistico e società borghese è stato evidenziato molto
spesso. È un tema caratteristico della storiografia, non solo di quella marxista.
L'interpretazione marxista non è dunque l'unica a vedere nella teoria di Hobbes il
referente ideologico di un particolare momento dello sviluppo della società
borghese. Ad ogni modo, è un dato di fatto che lo Stato borghese, nelle sue diverse
espressioni, s'ispira ai principi fondamentali della scuola del diritto naturale.
Innanzitutto il concetto stesso di stato di natura, in quanto sfera pre-politica, retta
da proprie leggi, rappresenta la scoperta di una sfera economica distinta da quella
politica122. Nella società feudale, potere economico e potere politico si confondono,
così come sfera privata e sfera pubblica. La nuova società capitalistica, invece,
scopre che al di fuori dello Stato, gli individui, seppur indipendenti gli uni dagli
altri, intrattengono una serie di rapporti economici che caratterizzano ciò che Hegel
definirà società civile. Questa società si regge secondo regole proprie, e gli
individui all'interno di essa hanno già diritti e doveri. La forma più perfetta di
aggregazione, lo Stato, nascerà dunque per tutelare gli interessi degli individui che
nella società pre-politica hanno già proprietà e diritti. Da qui l'idea che lo Stato
legittimo nasca tramite un contratto, stipulato tra individui liberi ed eguali123. I nuovi proprietari borghesi mirano ad acquisire un maggior controllo sulla sfera
politica, proporzionale al potere già acquisito sulla sfera economica. Si tratta di far
seguire l'emancipazione politica alla già avvenuta emancipazione economica.
Analizzare le teorie giusnaturalistiche secondo quest'ottica vuol dire svalutare le
pretese di oggettività dei loro autori, i quali avrebbero, inconsapevolmente o meno,
spacciato per principi universali le caratteristiche di una società storicamente
determinata, e degli individui che ne fanno parte. Nel Discorso sull'origine e il
fondamento dell'ineguaglianza tra gli uomini, Rousseau scrive: «Guardiamoci bene
dal confondere l'uomo selvaggio con gli uomini che abbiamo sotto gli occhi»124.
L'ammonimento del Ginevrino è chiaramente rivolto a Hobbes. Nello stesso lavoro
infatti, egli dichiara esplicitamente che l'errore di Hobbes è stato l'attribuire
all'uomo selvaggio una quantità di passioni e bisogni propri dell'uomo civile125.
Sempre nel Discorso citato, troviamo la nota distinzione tra amor proprio e amor di
sé. Una distinzione chiaramente polemica, poiché mira a dimostrare come l'onore,
una delle principali cause di conflitto secondo Hobbes, non sia un sentimento
proprio dell'uomo naturale126. A quest'ultimo infatti, appartiene solo l'amor di sé,
che, lungi dall'essere causa di conflitto, è un sentimento naturale che, temperato
dalla ragione e dalla pietà (che tra l'altro Hobbes non ha considerato), porta
all'umanità e alla virtù127. L'onore invece, è generato dall'amor proprio, che è un
sentimento dell'uomo che vive in società, poiché nasce dal confronto che ognuno fa
tra se stesso e gli altri128. Anche Montesquieu non è convinto dall'uomo naturale di
Hobbes. Quest'ultimo infatti, volendo dimostrare come sia la diffidenza, e non la
benevolenza, a regnare tra gli uomini, adduce come prova tutte le precauzioni che
gli uomini prendono nei confronti dei propri simili, come il girare armati e il chiudere a chiave le porte129. Ma così facendo, «non ci si rende conto di attribuire
loro, prima della formazione della società, qualcosa che può accadere solo dopo che
si è formata, e che li spinge a trovare motivi per aggredirsi e per difendersi»130.
Prima dunque di storici marxisti come Hill, la teoria di Hobbes era già stata più
volte relativizzata e ricondotta ad uno specifico contesto storico – sociale.
Uno dei lavori più importanti di questa corrente interpretativa, è sicuramente quello
di Macpherson, cui abbiamo accennato. Cerchiamo adesso di esporne i punti
essenziali, poiché nella sua teoria, per quanto discutibile, l'atteggiamento di
Hobbes nei confronti della proprietà privata acquista particolare importanza.
Anche secondo Macpherson gli uomini nello stato di natura descritti dal filosofo di
Malmesbury, non sono altri che gli uomini della società in cui egli stesso vive.
Hobbes, infatti, giunge alle sue conclusioni osservando se stesso e gli altri. Per
descrivere le passioni degli uomini allo stato naturale non ha cercato dunque di
capire quale era l'influenza della civiltà sugli individui che analizzava, ma si è
preoccupato unicamente di capire come questi uomini si comporterebbero in
assenza di leggi. Le cause di conflitto, così come le cause che spingono gli
individui a uscire da questo stato, non possono considerarsi «naturali». Lo stato di
guerra, è infatti generato da concorrenza, diffidenza e gloria, che sono sentimenti
propri degli uomini che vivono in una società civile131 . Secondo Macpherson,
Hobbes si rende conto di ciò. Il termine stato di natura è infatti utilizzato raramente
(solo nel De cive). Resta comunque più esatto parlare della condizione degli uomini
fuori della società civile. Lo stato di guerra non è altro che lo stato in cui gli uomini
si verrebbero a trovare nel momento in cui venisse a mancare il potere sovrano. Lo
stato di natura, in definitiva, viene a coincidere con la guerra civile.
Lo stesso discorso vale se prendiamo in considerazione le ragioni che spingono gli
uomini ad abbandonare questo stato. Parlando dello stato di guerra, Hobbes afferma che in esso «non vi è coltivazione della terra, né navigazione, né uso dei prodotti
che si possono importare via mare, né costruzioni adeguate, né strumenti per
spostare e rimuovere le cose che richiedono molta forza, né conoscenza della
superficie terrestre, né misurazione del tempo, né arti né lettere né società, e, ciò
che è peggio, vi è il continuo timore e pericolo di una morte violenta; e la vita
dell'uomo è solitaria, misera, ostile, animalesca e breve»132. Nello stato di natura
mancano dunque tutti i vantaggi del vivere civile. A questo punto, l'osservazione di
Macpherson sembra quanto mai giusta: «…l'uomo naturale è l'uomo civile con una
sola limitazione: la soppressione della legge»133. L'uomo che vuole abbandonare lo
stato di natura è il proprietario che lotta per vedersi riconosciuto il proprio status.
Hobbes, nel Leviatano, riassumendo le cause psicologiche che mettono gli uomini
in conflitto tra loro, sembra ricondurre tutte le passioni antisociali al desiderio di
potere. Bobbio, esponendo la teoria hobbesiana, afferma: «In realtà, ciò che spinge
l'uomo contro l'uomo è il desiderio inesausto di potere»134. Ora, il potere di un
uomo è ciò che ne determina il valore: ciò che gli altri sarebbero disposti a dare per
acquistare l'uso del suo potere, è precisamente il valore di un uomo. Così «Dare
una valutazione alta di una persona significa onorarla e darne una bassa equivale a
disonorarla»135. Nello stato di natura dunque, un uomo è valutato così come per una
merce si stabilisce il suo prezzo di mercato136. Così come aumenta il valore di una
merce molto richiesta, allo stesso modo aumenta il valore di un uomo il cui potere è
molto ambito. L'onore corrisponde così alla stima del mercato. Il potere di un
uomo è dunque una grandezza relativa, non assoluta.
Nello stato di natura avviene una lotta senza fine per il potere. Secondo
Macpherson, Hobbes è partito dalla definizione di potere come mezzo attuale per
ottenere un bene futuro, per poi arrivare all'assunto secondo cui il potere acquisito consiste nel poter disporre dei servizi altrui, «e, sulla base del desiderio generale di
acquisire potere e della possibilità generale di trasferirlo, ha dedotto la formazione
di un mercato del potere in espansione, in cui si definisce il valore di ognuno»137.
Il passaggio fondamentale è costituito dal postulato secondo cui i mezzi che ognuno
ha a disposizione entrano in conflitto con quelli di tutti gli altri138. Hobbes, nella
sua discussione sulle qualità umane, scrive: «Considero perciò al primo posto,
come un'inclinazione generale di tutta l'umanità, un desiderio perpetuo e
ininterrotto di acquistare un potere dopo l'altro che cessa soltanto con la morte. La
causa di ciò non sta sempre nel fatto che si speri in una soddisfazione più intensa di
quella che si è già raggiunta, o che non si riesca ad accontentarsi di un potere
moderato, ma nel fatto che non è possibile assicurarsi il potere e i mezzi per vivere
bene che si hanno al momento presente, senza acquisirne di maggiori»139. Essendo
tutti interessati ad acquisire quanto più potere possibile, ed essendo possibile
trasferirlo, si deduce la formazione di un vero e proprio mercato del potere, che,
senza un potere sovrano, porta allo stato di guerra. Secondo Macpherson, questa
deduzione dà per scontati degli assunti validi solo per un certo tipo di società. La
conclusione di Hobbes «implica che l'organizzazione sociale è tale da permettere
che i poteri naturali di ognuno siano usurpati dagli altri»140. Per dimostrare ciò,
Macpherson prende in considerazione vari modelli di società. L'unico di questi che
sia sovrapponibile allo stato di natura di Hobbes è la cosiddetta «società mercantile
possessiva», che possiamo dire caratterizzi l'Inghilterra del '600. In questo tipo di
società, «dove il lavoro è alienabile e dove ci sono diversi livelli di aspirazioni, di
capacità, o di possesso, avviene che un mercato concorrenziale dei prodotti dia
luogo a una generalizzazione del mercato regolato dalla concorrenza. Lavoro, terra
e capitale, proprio come i prodotti vengono a cadere sotto la determinazione delmercato»141. È una società «possessiva» poiché tutti possiedono qualcosa, anche la
sola capacità lavorativa.
Hobbes si rese conto che la guerra civile era scoppiata perché una nuova realtà
sociale si stava imponendo. Egli capì che le rivendicazioni delle nuove forze sociali
erano tutte riconducibili ad una difesa del diritto assoluto di proprietà142. Il concetto
feudale di proprietà, in cui ognuno ha ciò che gli viene assegnato, stava ormai
scomparendo. La nuova idea era che ognuno fosse tanto padrone dei propri
possedimenti, da non essere lecito togliergli qualcosa senza il suo consenso. Questa
concezione era stata la causa della guerra civile. Hobbes si era reso conto della
pericolosità di questa dottrina, ed aveva dimostrato come in realtà non può esistere
proprietà privata senza un potere sovrano. Lo stato di natura rispecchia la nascente
società capitalistica. È il regno della comune diffidenza e della lotta per il potere;
una lotta in cui tutti sono coinvolti, volenti o nolenti, poiché una società
concorrenziale di questo tipo non dà sicurezza a chi decide di accontentarsi di
quanto ha. È un mondo in cui tutti possono aspirare a possedere tutto, ma in cui,
nello stesso tempo, nessun possesso è sicuro. È negli interessi di tutti i proprietari,
anche di coloro che possiedono la sola forza lavoro, unirsi per costituire un potere
irresistibile, che renda legittima e sicura la proprietà. L'analisi di Hobbes riflette
effettivamente le caratteristiche della nuova società borghese, e, per quanto si
possano contestare le sue conclusioni, resta il fatto che egli colse con estrema
lucidità gli elementi fondamentali della rivoluzione socio-politica che egli stesso
viveva. La sua teoria perde però la sua efficacia se sradicata dal contesto storico in
cui è stata elaborata e proposta, a dispetto delle sue pretese di universalità. Secondo
Macpherson, Hobbes non riuscì ad elaborare una teoria politica che potesse risolvere i problemi dell'intera umanità: le sue analisi e le sue proposte rimasero
circoscritte nell'ambito della realtà del suo tempo.143
Un'altra interpretazione borghese, sicuramente meno celebre delle precedenti, ma
interessante ai fini del nostro discorso, è quella esposta da Benjamin Lopata, in un
breve articolo intitolato Property Theory in Hobbes. La sua tesi deve molto
sicuramente al lavoro di Macpherson, e a quella oramai cospicua storiografia
filosofica che tende ad avvicinare Hobbes a Locke e al liberalismo144; Lopata arriva
infatti a sostenere che Hobbes, invece di Locke, è il vero padre del liberalismo
inglese.
Lopata osserva che nei lavori di Hobbes, oltre alla teoria predominante secondo cui
la proprietà privata sorge con lo Stato, ne esiste una seconda, in contraddizione con
la prima, che vuole i diritti di proprietà precedenti la società civile145. A suo parere,
il rapporto padre-figli, e quello padrone-servo, rappresentano la prova
dell'esistenza di un diritto alla proprietà privata nello stato di natura: «Servants
who, to spare their lives, have contracted with a lord, become the lord's personal
property; analogously, children, as Hobbes notes, while originally under the
dominion of their parents, succeed to the paternal estate, a property right which is
apparently inconsistent with Hobbes's contention that it is the sovereign who
determines meum and tuum»146.
Hobbes distingue due tipi di Stato: quello naturale, e quello istitutivo147. Mentre lo
Stato istitutivo nasce dall'intento di chi si unisce, lo Stato naturale nasce dalla
forza, dalla potenza naturale. Esistono poi due tipi di governo naturale: quello del
signore sopra i suoi servi, e quello del padre sopra i suoi figli. Secondo Hobbes, nello stato di natura può crearsi un rapporto di servaggio «se qualcuno preso
prigioniero in guerra, o vinto, o privo di fiducia nelle proprie forze, promette al
vincitore, o al più forte (per evitare la morte) di servirlo, cioè di fare tutto quello
che comanderà»148. Il diritto del signore sul suo servo è assoluto, tanto che questo
può dire di possedere il suo servo, allo stesso modo, come abbiamo già visto, di un
sovrano in uno Stato. Molto simile è il rapporto padre-figli. Secondo Hobbes
infatti, «è evidente che i figli sono soggetti a chi li nutre e li alleva, non meno di
quanto i servi lo siano ai signori, e i sudditi, a chi detiene il potere supremo nello
Stato»149. Lopata, ritiene che entrambe questi casi dimostrino l'esistenza di diritti di
proprietà all'interno dello stato di natura. Già Keith Thomas aveva notato la
contraddizione insita nella teoria della proprietà di Hobbes150. Benché infatti il
filosofo di Malmesbury sostenga che la proprietà privata ha origine con lo Stato,
nondimeno sembra egli ritenga che alcuni diritti di proprietà siano già acquisiti
nello stato di natura, e mantenuti con l'ingresso nella società civile. Anche
Goldsmith, come Thomas, nota che «Hobbes did not achieve his radical position in
regard to property rights easily» 151 , ma entrambe questi autori si limitano a
segnalare la contraddizione. Lopata cerca invece di trovare la soluzione in un
approccio che tenga conto del contesto storico in cui la filosofia hobbesiana è
maturata: «Hobbes wrote during the seventeenth century, "the century of
revolution"; is to the event of this period that one must turn for the insight
necessary to grapple with the apparent inconsistencies of hobbesian property
theory» 152 . Secondo Lopata, il concetto di proprietà subisce un'importante
evoluzione nell'ambito dell'opera politica hobbesiana. Detta evoluzione consiste
nel passaggio dalla teoria secondo cui alcuni diritti di proprietà esistono nello stato
di natura, a quella secondo cui la proprietà privata sorge con lo Stato civile. Nelle sue prime due opere politiche, gli Elements e il De cive, Hobbes sostiene ancora
che i diritti di proprietà sono determinati indipendentemente dallo Stato, mentre
solo nel Leviatano sosterrà il legame inscindibile tra proprietà privata e sovrano. La
spiegazione, secondo Lopata, sta nel fatto che gli Elements sono stati pubblicati nel
1640, e il De cive nel 1642, l'anno della guerra civile, ma prima che essa sia
scoppiata. Il Leviatano esce invece nel 1651, dopo la guerra civile, e dopo
l'esecuzione di Carlo I (1649). La guerra civile avrebbe influenzato in maniera così
determinante Hobbes, da indurlo a rivedere la sua teoria. L'idea che il diritto di
proprietà preceda l'istituzione dello Stato ha infatti due importanti risvolti.
Innanzitutto, ammettere l'esistenza di rapporti di proprietà nello stato di natura,
vuol dire, in un certo senso, mitigare le caratteristiche negative di tale condizione.
Uno stato di natura in cui esiste la proprietà privata, non può considerarsi uno stato
di pura anarchia: la guerra di tutti contro tutti non caratterizzerebbe dunque uno
stato di pura negatività. In secondo luogo, l'idea di un diritto di proprietà anteriore
allo Stato, pone le basi del diritto di resistenza: «If men have property rights prior
to the State, it is possible for them to be led to the conclusion that, should the sovereign interfere with their private property, which does not depend on him for its justification, then they are justified in rebelling against him»153.In conclusione, Hobbes, prima della guerra civile, sosteneva che il diritto di proprietà precede lo Stato, ma «Once civil war, with its concomitant terror, had begun, Hobbes comes to the realization that a belief in property rights without sovereignty has indeed been one of the chief spurs of revolution; consequently, the doctrine disappears from his writings with the publication of Leviathan»154. La teoria del diritto di proprietà si evolve dunque attraverso le tre opere principali del filosofo, che rappresentano così posizioni più o meno differenti: «It is apparent, then, that Hobbes originally thought that men could enter in society retaining the rights which they have previously acquired by contract in the state of nature; he maintains in this position in De cive along with the contradictory view that sovereign determines all property relations. In Leviathan, as a result of the civil war, Hobbes changed his earlier view and now consistently maintains that property is created by the State". Nel De cive, infatti, Hobbes ricorda che i rapporti padrone-servo, e padre-figli, avvengono già nello stato di natura, mentre non lo fa nell'opera maggiore. Questo perché nel Leviatano «appears that the master-servant and the family relationships are adduced not in terms of property theory per se, but rather to show that commonwealth by acquisition, be it by foreign conqueror or by the gradual development of hereditary monarchy from within a familial relationship, is as valid as commonwealth by institution»155. È il De cive dunque l'opera in cui appare chiaramente la contraddizione sul diritto di proprietà. Si tratta di una contraddizione che nel Leviatano sarà poi completamente eliminata, trattandosi quest'ultima di un opera più matura, concepita dopo lo scoppio della guerra civile. Nel De cive invece, Hobbes sosterrebbe entrambe le posizioni. La tesi di Lopata, in realtà, sembra poco convincente. Hobbes parla della famiglia, e del rapporto padrone-servo, come fossero delle vere e proprie società naturali. Abbiamo già visto infatti, come il filosofo risponda all'obiezione secondo cui il padre di famiglia ha già una proprietà prima dello Stato, sostenendo che la famiglia è in realtà un piccolo Stato. È ovvio dunque che questi rapporti rappresentano degli Stati naturali, non istitutivi, ma pur sempre degli Stati, in cui il capofamiglia o il padrone sono sovrani. Questi «sovrani naturali» infatti, continuano a vivere in uno stato di guerra tra di loro, così come i sovrani degli Stati per istituzione. In realtà, dunque, non si può parlare di proprietà privata nello stato di natura. Lopata tiene conto di quest'obiezione, ma non la ritiene convincente. Egli si rende conto che
stato di natura e Stato civile non sono situazioni storicamente distinte, e che si potrebbe giustamente affermare che «since by virtue of their power father and lord establish relation of civil society with their dependants, the property rights of servitude and inheritance are determinated by the fact of sovereignty and do not, for Hobbes, precede the foundation of the commonwealth»156. A suo parere comunque, la contraddizione resta: «While one has attempted to indicate possible resolution to the apparent contradictions in hobbesian property theory, these resolution are nonetheless highly tentative; the possibility of blatant contradiction remain feasible»157. Una lettura del genere è sicuramente discutibile. La risposta di Hobbes, a un'obiezione che già gli era stata fatta ai suoi tempi, ci sembra quanto mai esauriente. Ad ogni modo l'inconsistenza della posizione di Lopata risulta evidente dalla sua conclusione. È indubbio che nella seconda metà del '900 numerose interpretazioni abbiano effettivamente messo in luce numerose affinità tra Hobbes e Locke, mostrando come in realtà le due dottrine non possono considerarsi completamente antitetiche sotto tutti i punti di vista. Nondimeno però, Hobbes resta il teorico
dell'assolutismo, mentre Locke il teorico del diritto di resistenza. Per quanto le loro teorie possano avere spesso gli stessi presupposti, le conclusioni a cui i due autori giungono sono inequivocabilmente opposte. Ciononostante, Lopata conclude il suo articolo affermando che «to the extent that Hobbes' views on property are multifaced, positing the existence of certain property rights priors to sovereignty, it
is Hobbes rather than Locke, who should properly be recognized as the father of British liberalism»158.




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