Tra “Philosophia naturalis” e “Resistentia solidorum”

June 25, 2017 | Autor: Massimo Corradi | Categoria: Civil Engineering, Mechanics, Structural Engineering, Resistencia De Materiales
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Tra “Philosophia naturalis” e “Resistentia solidorum” Massimo CORRADI

Il “bollettino” presenta ai Lettori, per una meditata e puntuale acquisizione, il testo della lectio magistralis che il Professor Massimo Corradi dell’Università di Genova, architetto, allievo e collaboratore del compianto Professor Edoardo Benvenuto, ha pronunciato nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio il 25 giugno 2003 in occasione della cerimonia di festeggiamento dei Colleghi Ingegneri toscani che hanno compiuto cinquanta anni di laurea. La scelta del tema della lettura e il conseguente incarico a Corradi, uno dei massimi cultori della Storia dell’Ingegneria, in occasione della cerimonia che promuove l’incontro di Ingegneri appartenenti a più generazioni, è stata intenzionalmente effettuata per allargare l’orizzonte temporale e permettere agli ingegneri di rileggere le proprie radici culturali e disciplinari, riannodare i nessi storici richiamando la memoria delle speculazioni teoriche e applicative più importanti per il progresso dei nostri studi. La lettura verte su una tematica che si rivela fondamentale per tutti i campi dell’Ingegneria, la Resistenza dei solidi e, più in generale la Meccanica dell’Ingegneria nelle ricerche dal XVII al XVIII secolo, un periodo che è da considerare tra i più fervidi e ricchi di risultati, fondante; l’argomento è studiato e visto però non solo nella sostanza applicativa così come si è sedimentato nelle conoscenze attuali che fanno parte del bagaglio culturale e scientifico degli Ingegneri e degli Architetti ma soprattutto, come si è detto, nell’analisi dei meccanismi, delle incentivazioni, degli intenti ora ideali o speculativi, ora pratici, che hanno determinato le linee di sviluppo dell’ingegneria, della ricerca, della formazione degli ingegneri, al fine di ricostituire la continuità degli sviluppi disciplinari soprattutto per un segmento significativo della storia dell’ingegneria. È da rilevare, a questo proposito, che Corradi pone opportunamente in evidenza, tra l’altro, quanto complesse e profonde siano le basi teoriche e le stesse motivazioni umane oltre che applicative sulle quali si fonda l’ingegneria e quanto estese siano le specializzazioni che questa comprende sino a raggiungere portata per molti versi globalizzante. La lezione è quindi, in sostanza, un vero trattato di fondamenti della “scienza dell’ingegnere”, perché sono presi in considerazione gli aspetti filosofici, matematici, geometrici, fisici, teorici e applicativi e perfino, per quanto concerne le relazioni tra i vari ricercatori, sociali e umani, restituendo l’attività dell’ingegnere al più vasto ambito di attento studioso della natura, interprete delle leggi naturali secondo le esigenze ideali, filosofiche e civili oltre che tecniche e scientifiche, della società. Le sue argomentazioni inducono la fondata convinzione che le ricerche sui temi della costruzione, cioè di un settore modesto, neppure prioritario o centrale, basato sull’empirismo, abbiano assunto carattere paradigmatico ed anzi che esse si siano incentrate sulla conoscenza della realtà; ciò che dava il senso, dell’ingegneria del mondo esperibile, nella più vasta accezione di tale espressione, e in fondo, modificabile oltre che acquisibile con l’intelletto, assegnando all’Ingegnere e all’Architetto il compito di ideatore e costruttore del modello della natura. La conoscenza della storia dell’Ingegneria è dunque uno dei fondamenti del progresso scientifico e tecnologico. Gennaro Tampone

1. INTRODUZIONE. A cavallo dei secoli XVII e XVIII, prima della “rivoluzione scientifica” seguita alla formalizzazione del calcolo differenziale da parte di Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), la matematica viveva ancora la grande stagione del ‘calcolo geometrico’. In alcune discipline più specialistiche, come ad esempio la meccanica il formalismo algebrico era ancora vincolato ad una sua traslitterazione in termini geometrici. Infatti, la geometria era lo strumento che dava senso alle formule impiegate nei diversi campi del sapere meccanico; essa era in grado di dominare l’immaginario degli scienziati e a condurli per mano lungo le complesse vie del ragionamento fisico.

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Quando Galileo Galilei (1564-1642) pubblica a Leida presso gli Elzevirii il suo celebre trattato – Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno à due nuove Scienze Attenenti alla mecanica & i movimenti locali [Galilei, 1638], aprendo l’orizzonte delle scienze meccaniche verso un nuovo mondo e inaugurando, di fatto, una nuova disciplina la “Scienza delle costruzioni” – lo strumento che guida Salviati, uno dei tre personaggi dei dialoghi galileiani, nel disvelare ai suoi interlocutori (Sagredo e Simplicio) la “nuova scienza” è ancora la geometria. Questa disciplina che Galileo sa impiegare con grande sapienza e perizia, nonostante la complessità e la difficoltà dei suoi ragionamenti che, in alcuni casi, appaiono a prima vista alquanto contorti, la geometria è il linguaggio at-

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traverso il quale lo scienziato pisano spiega le sue argute e innovative intuizioni sulla resistenza dei materiali, le sue considerazioni sulla “Scientia nuova altra, de i movimenti locali”, quelle sul moto dei proietti ed altro ancora. Dalle origini (Aristotele, Archimede, i meccanici alessandrini, ecc.), fino a tutto il medioevo prima e il Rinascimento dopo, i fondamenti della meccanica si rifacevano alle intuizioni, ai principi, alle ricerche di Simon Stevin (1548-1620), Giordano Nemorario (XIII sec.) e Gilles Personne de Roberval (1602-1675). In quegli anni si era così potuto assistere e si era visto convivere, in un ingarbugliato intreccio, princìpi meccanici e regole empiriche, numeri e grandezze, algebra e geometria. Le ‘scienze meccaniche’, sempre più orientate alla costruzione di macchine da cantiere e macchine idrauliche piuttosto che ad un approfondimento dei princìpi teoretici della disciplina, così come era avvenuto per i ‘precetti’ dell’Arte e della Scienza del costruire propri della tradizione costruttiva antica e medievale, si erano dipanate come una matassa in un labirinto, senza un percorso predefinito, ordinato e chiaro. Gli strumenti interpretativi dei princìpi meccanici, che via via erano messi in campo e utilizzati dagli scienziati, fondavano la loro confirmatione nelle macchine semplici: la leva, la bilancia e la stadèra, il piano inclinato, la carrucola, il cuneo, la vite. Strumenti semplici, che, tuttavia, avevano aperto uno spiraglio sui fondamenti della statica (la scienza dei pesi) e più in generale su quelli della meccanica, sulla gravità (“gravitas secundum situm”), sul moto e così via. L’autorità della geometria euclidea e la sensatezza della statica archimedea erano al tempo stesso garanzia e sicurezza dei princìpi impiegati nelle arti meccaniche. In questo modo si è assistito ad un lento incedere dei progressi scientifici in Meccanica, fino a quando, agli inizi del XVII secolo, gli studi di Kepler e Wallis – nell’ambito della meccanica celeste - stimolarono gli studiosi ad elaborare nuovi ed autonomi percorsi teoretici di ricerca, svincolati finalmente da quella attenta ed ossequiosa osservanza delle opere degli antichi, che era stata il paradigma di riferimento di tutti gli studi precedenti. Un’accelerazione via via sempre più intensa, vieppiù sospinta dalla sempre maggior diffusione dei nuovi strumenti formali del calcolo differenziale e integrale, e del calcolo delle variazioni. Questi innovativi strumenti matematici configurarono così nuovi percorsi scientifici di ricerca, usufruendo di nuovi strumenti linguistici, oltre la teoria delle proporzioni e la geometria euclidea, il calcolo isoperimetrico e il calcolo differenziale, giungendo a rivoluzionare, nel breve arco di un secolo e mezzo circa, i metodi d’interpretazione dei princìpi statici e meccanici. L’orizzonte della ricerca era dunque cambiato: esso non abbracciava più lo studio degli autori antichi in quanto visto come strumento di confronto delle nuove scoperte con un insieme di conoscenze consolidate e accettate da secoli di tradizione, ma mutava perché cambiavano gli scenari e l’obiettivo diventava quello di andare oltre in ogni campo del sapere con nuovi strumenti, nuovi metodi di calcolo, nuovi linguaggi. In quest’ottica René Descartes

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(1596-1650) aprì la via ad una radicale riforma concettuale del rapporto vivo fino ad allora tra algebra e geometria, inaugurando di fatto una nuova stagione per la matematica che avrà non poca influenza sugli sviluppi della meccanica. L’invenzione del calcolo differenziale da parte di Leibniz e Newton, finalizzata, in senso leibiniziano, ad una matematizzazione della scienza o ad una “mathesis universalis”, aveva mutato scenari e prospettive di ricerca. L’ambizioso progetto di Leibniz era stato, infatti, quello di ridurre a pura geometria tutta la meccanica per mezzo di un solo assioma di tipo metafisico. Il calcolo delle quadrature, lo studio di una grande varietà di curve (cicloidi generalizzate, ovali di Descartes, curve logaritmiche ed esponenziali, ellissi, iperboli, ecc.), la rettificazione di un arco di curva o la determinazione della sua lunghezza, la ricerca delle tangenti, il calcolo del volume di un solido, la determinazione del baricentro di figure piane o tridimensionale. Tutti questi soggetti erano temi che richiedevano “nuovi” strumenti matematici. E tali strumenti dovevano essere in grado di rappresentare, nell’ottica newtoniana, le linee in quanto generate “per moto continuo di punti”, le superfici generate “per moto continuo di linee” e i volumi “per moto continuo di superfici”, cosa peraltro osservabile in natura – com’egli stesso aveva fatto notare – “ogni giorno nel movimento dei corpi”. Si trattava dunque di una rivoluzione in senso fisico delle grandezze matematiche motivata dalle nuove idee di Isaac Newton (1642-1728) sulle fluenti e sulle flussioni esposte nel Methodus fluxionum [Newton, 1671], in cui egli aveva anticipato quello che diventerà il tema del nuovo calcolo infinitesimale [Newton, 1676]. Grande veicolo di trasmissione dei saperi fu soprattutto il grande scambio epistolare che era in uso tra i matematici del Seicento, uno dei veicoli di maggior diffusione dei nuovi metodi di calcolo, e l’occasione per far emergere nuove questioni attraverso anche l’intrecciarsi di differenti soluzioni per uno stesso problema, non raramente accompagnate da vivaci querelles, polemiche e discussioni sulla correttezza o meno dei risultati conseguiti. Inoltre, questa diffusione delle nuove idee e delle nuove scoperte tra gli scienziati aveva allargato il campo d’azione soprattutto dei matematici che uscivano dai loro ambiti strettamente disciplinari interessandosi di problemi meccanici come di resistenza dei materiali, di curve elastiche come di statica e stabilità dell’equilibrio delle strutture, dimostrando vieppiù l’affermazione di quella “geometria più sublime” che era stata evocata da Leibniz già nel 1684. Per rimanere in ambito strettamente meccanico è dunque opportuno riassumere alcuni momenti significativi di questo turbinoso e travagliato periodo successivo alla pubblicazione dei Discorsi di Galileo. Nel 1678 Robert Hooke (1635-1703) pubblica a Londra la sua opera fondamentale Lectures de potentia restitutiva sul tema dell’elasticità. Nei fascicoli degli Acta Eruditorum, pubblicati a Lipsia a partire dal 1684, compaiono importanti scritti di Leibniz, Jacob e Johann Bernoulli, e del marchese de L’Hospital sullo studio delle curve algebri-

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che piane. Jacob Bernoulli (1654-1705) studia la spirale logaritmica e trova l’equazione della curva isocrona e della brachistòcrona (la “linea celerrimi descensus” che corrisponde ad una cicloide); lo stesso Jacob, con l’aiuto del fratello Johann, risolve il problema della catenaria e determina l’equazione della lemniscata; Leibniz affronta il problema dell’integrazione di un’equazione alle derivate parziali per descrivere il comportamento di una famiglia di curve date. Ancora Johann Bernoulli (1667-1748) propone di determinare a quale specie di curva deve appartenere la curva di egual pressione o curva centrifuga. In tutti questi scritti viene alla luce la fecondità e l’efficienza apportata dal nuovo calcolo leibniziano nella risoluzione di delicati problemi di matematica e di meccanica, anche se tra alcuni studiosi, e tra questi ricordiamo Philippe de La Hire (1640-1718), era ancora vivamente raccomandato l’uso della geometria ordinaria come strumento di verifica a garanzia dei risultati ottenuti con l’ausilio dei nuovi strumenti matematici. Beninteso, questa posizione metodologica non fu esente da critiche da parte dello stesso Leibniz, in quanto prevedeva l’impiego di strumenti di calcolo “à la façon des Anciens”. Nel 1736 Leonhard Euler (1707-1783) pubblica la Mechanica sive motus scientia analytice exposita, dove espone un insieme di risposte a numerosi quesiti posti dallo studio di problemi meccanici. Nel 1744 lo stesso Euler dà alle stampe il suo Methodus inveniendi lineas curvas [Euler, 1744] importante compendio di studi sul calcolo delle variazioni e sulle curve elastiche [Truesdell, 1960]. Trent’anni dopo, nel 1773, Charles-Augustin Coulomb (1736-1806) scrive il suo Essai [Coulomb, 1776] in cui chiarisce numerosi e importanti problemi attinenti la Scienza delle costruzioni e relativi alla flessione dei prismi, alla rottura dei solidi, alla statica degli archi e delle volte, alla teoria dei muri di sostegno, ed altro ancora. Quest’insieme di scritti, compreso quelli che, per brevità, non abbiamo citato, sono il preludio alla rivoluzione scientifica, in senso ‘elasticista’, che avverrà, nelle scienze meccaniche ed in particolare in Meccanica dei solidi e delle strutture, nel secolo XIX ad opera di Louis Navier (1785-1836), Siméon-Denis Poisson (1781-1840), AugustinLouis Cauchy (1789-1857), Adhémar-Jean-Claude Barré de Saint-Venant (1797-1886), Alberto Castigliano (1847-1884), ed altri ancora, e al repentino risveglio di questo secolo su nuove complessità, nuovi strumenti, nuove tecniche d’indagine tese però più alla conoscenza “assoluta” e completa di un particolare microcosmo scientifico, che alla comprensione del macrocosmo dei saperi meccanici. 2. IL CAMBIAMENTO DI PARADIGMA INTRODOTTO DAL CALCOLO DIFFERENZIALE ED INTEGRALE NELLE SCIENZE MECCANICHE. Questo grande mutamento di scenario dovuto all’introduzione di nuovi strumenti matematici, cambia gli obiettivi delle indagini speculative e lascia intravedere nuovi e sterminati campi di ricer-

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ca. Da un lato si osserva come le questioni più strettamente legate alla costruzione delle macchine sono lasciate alla pratica costruttiva e alla tecnica, dove quest’ultima indugia più sulle applicazioni pratiche che sulle questioni teoriche, sostituendo infinite indagini minute su questioni di particolari e sulla costruzione rinunciando, di fatto, ad una visione più generale dei problemi. D’altro lato, le speculazioni teoretiche e il sapere scientifico cambiano palcoscenico e si esercitano nei circoli scientifici e nelle Accademie, cominciando ad occuparsi di questioni più strettamente matematiche, dove la visione astratta del problema supera la questione più squisitamente ‘meccanicistica’ e dove ogni concezione che prende in esame l’accadere, sia quello fisico che quello più ‘spirituale’, non è più governata dalla presenza di un ente superiore, e diventa così il prodotto di una pura causalità meccanica e dunque non preordinato ad una superiore finalità. La scienza meccanica diventa così una disciplina che fa uso del calcolo matematico per descrivere i suoi complessi fenomeni, e auspica la ricerca di nuovi strumenti d’analisi di validità generale, in grado di illustrare sia i fondamenti meccanici dei fenomeni fisici, sia le regole dei sistemi costruttivi. Non si tratta più di dedurre le regole e i princìpi, attraverso una semplice reductio all’uso di macchine semplici, per le quali è sufficiente conoscere alcuni strumenti matematici cosiddetti “elementari”: l’algebra e la geometria. La meccanica richiede nuovi strumenti d’indagine decisamente più raffinati, che consentano di abbracciare la generalità dei problemi per poi passare, attraverso le applicazioni, alla soluzione e all’esame delle numerose questioni meccaniche sollevate dalla matematica stessa. In questo modo si viene a configurare un percorso più ‘razionale’ e più ‘scientifico’ che va oltre la “sapienza dell’antico costruttore” che con il solo impiego dell’algebra e della geometria euclidea era stata, fino a tutto il Seicento, e forse in parte anche per quello successivo, la guida e l’anima, la ratio e la logica per costruire “macchine a vastità immensa” e per “ fabbricar navilii, palazzi o templi vastissimi” [Galilei, 1638]. L’incontro tra la matematica e l’esperienza empirica avrebbe così messo in luce, nello sviluppo del pensiero scientifico, il ruolo svolto dalla meccanica, dedita allo studio del moto e dell’equilibrio, grazie al rigore e alla potenza astratta della matematica, ma sapendo anche aprirsi al riconoscimento e alla spiegazione dei fenomeni fisici. Dunque la tradizione aristotelica della scienza del moto, il progetto di Archimede orientato alla fondazione assiomatico-deduttiva della statica e tutti i successivi tentativi degli scienziati rinascimentali di erigere la meccanica quale scienza subalterna alla sola geometria contenevano già le ipotesi meccanicistiche per spiegare il “sistema del mondo”; il dibattito settecentesco sulla natura razionale e non solamente empirica dei princìpi meccanici, fino al maturo disegno di JosephLouis Lagrange (1736-1813) di includere la meccanica nell’analisi matematica, e nelle cui mani la meccanica era venuta a “raccogliersi in una sola formula” [Franceschinis, 1808, p. 73], rappresen-

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tano una suprema sintesi impreziosita da una sconfinata ricchezza di applicazioni. Tuttavia, per comprendere il senso di questa importante rivoluzione scientifica in meccanica occorre soffermarsi e fare alcune riflessioni sulla nascita dei princìpi e sugli sviluppi degli strumenti matematici che, a partire dal XVII secolo, hanno mutato paradigma e linguaggio alle scienze meccaniche. Già Galileo nei Discorsi, e ancor prima nel Saggiatore, aveva messo in luce la possibilità di affrontare i problemi meccanici attraverso la sostituzione delle speculazioni metafisico-materialistiche con quelle più matematiche, rivedendo il principio secondo cui tutto quello che fino allora era stato scoperto in Statica o in Meccanica non poteva essere conseguenza della sola esperienza. Non è vero – aveva fatto notare Galileo - che si deve assegnare all’esperienza il primato sulla conoscenza e sulla speculazione scientifica, perché l’esperienza mostra che qualcosa accade, ma non basta ad indicare che cosa accade e in che modo accade. D’altro canto lo stesso Galileo, aveva più volte sottolineato come una teoria che si scontra con i dati dell’esperienza deve essere rifiutata perché “anche un sol contrasto con l’esperienza è decisiva prova di falsità della teoria”, e di questo era talmente convinto che ciò che dà sensatezza all’esperienza è la sua immediata traduzione matematica. Ecco il primo passo di una rivoluzione dal piano più meccanicistico proprio della “sensata esperienza”, ad una visione più meccanica della realtà resa aderente al linguaggio matematico della natura, prova reale, anzi verità di ogni discorso. Non l’esperienza in sé, ma la “sensata esperienza” che contribuisce a disvelare la realtà delle cose, aprendo così la via all’incedere di una “nuova scienza”. Nel Settecento, sulla strada tracciata da Galileo, si è così assistito in modo esplicito ed inconfutabile alla preminenza assegnata alla matematica nella speculazione scientifica, facendone uno strumento indispensabile ed esclusivo: la matematica, così come per Galileo la geometria, soddisfa perfettamente alle esigenze prospettate dalla ricerca scientifica ed è il vero ed unico strumento che può aprire il pensiero alla conoscenza del mondo. Cambia così la visione epistemologica della realtà in cui il dato dell’esperienza non è più reso sensato dall’antica logica che lo immergeva in un grande sistema metafisico e fisico della realtà, ma riceve la sua sensatezza dalla formulazione di ipotesi matematiche che l’esperienza stessa è chiamata a convalidare. Ogni “postulato” deve essere matematicamente fruibile, in modo tale che le nuove proposizioni possono essere sottoporre al controllo dell’esperienza. L’hypothetice diventa allora il paradigma fondativo della scienza che possiede in sé stessa il criterio per decidere sulla validità dei princìpi da essa stessa enunciati. La conseguenza di questa nuova impostazione teoretica dello studio dei fenomeni meccanici assegna ora alla matematica, così come era avvenuto nei secoli passati alla geometria, il primato sulla logica, superando l’uso delle regole, diventate a questo punto solo passaggi intermedi di una grandiosa dimostrazione matematica orientata a stabilire la meccanica come rigorosa scienza ra-

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zionale, e formalmente distinta dalla geometria stessa. Il modello matematico non si deve dunque arrendere di fronte alla complessità dei fenomeni studiati, ma deve sempre tentare di rendere ragione dei princìpi, dei teoremi, degli scolii enunciati mediante l’introduzione di opportuni assiomi d’ordine generale che siano in grado di esprimere la natura del problema, soprattutto quelli meccanici. La scelta di un modello semplice per rappresentare un problema, dotato del minor numero possibile di connotati o proprietà fenomenologiche dell’oggetto fisico, garantisce allora geometrica esattezza alle proporzioni delle diverse parti che lo compongono. In questo modo tale modello può condurre alla definizione di un limite inferiore che ne caratterizza, ad esempio, la sua resistenza (come nel caso dei solidi galileiani, che pur appartenendo ai solidi della geometria euclidea sono caratterizzati dalla proprietà di essere dotati di peso) o ne descrive la curva ottimale in funzione di taluni parametri – ad esempio l’essere pesante, flessibile, estensibile o inestensibile - che condizionano il problema, ad esempio, del suo comportamento flessionale. Le proprietà dell’esser materiale diventano le qualità che caratterizzano i problemi meccanici rispetto a quelli strettamente matematici e consentono di differenziarsi da quest’ultimi negli scopi e nelle finalità della ricerca delle soluzioni. L’obiettivo della speculazione scientifica è allora quello di limitare i campi d’indagine e, nel contempo, liberarli dall’insieme di quelle inconcludenti diatribe metafisiche che ne avevano offuscato l’orizzonte nei secoli passati, sospendendo di fatto il giudizio su quelle questioni che sono epistemologicamente incerte perché eccedono i limiti della conoscenza umana o necessitano di nuovi strumenti interpretativi. Questa visione puramente matematica del mondo, ebbe grande sviluppo a partire dalla fine del Seicento, ma non fu esente da feroci critiche espresse su di essa dallo stesso Leibniz che, peraltro, molto contribuì al suo sviluppo. “Les simples Mathématiciens (Philosophes à notions incomplettes) qui ne s’occupent que des jeux de l’Imagination, sont capables de se forger de telles notions; mais elles sont détruites par des Raisons supérieurs” [Recueil, 1740, p. 99]. Ma proprio le “notions incomplettes”, che caratterizzano – secondo Leibniz – la figura di taluni matematici, sono in grado molte volte di descrivere problemi scientificamente fecondi e capaci di interpretare un vasto insieme di fenomeni sotto leggi matematiche uniformi e complete e addirittura, in taluni casi, suggestive per la loro formulazione. Alla vera causa fisica, forse destinata a rimanere per sempre nascosta nei segreti della Natura – vedi ad esempio la disquisitio intorno all’esistenza del vuoto [Benvenuto e Corradi, 1988] – si sostituisce un modello matematico il cui scopo non è la spiegazione del fatto reale, ma la sua rappresentazione attraverso un nuovo linguaggio dalle molteplici possibilità interpretative. In questo senso l’atto del rappresentare e in taluni casi prevedere sul modello aspetti ancora ignoti della realtà, può diventare in senso causale la spiegazione del fenomeno stesso. Allora, “la causa deve appartenere al reale, altrimenti è inganno, mentre il

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modello si accontenta di appartenere al più vago orizzonte del possibile, ed anzi a quello della sua limpida regione che è governata soltanto da prefissati princìpi matematici” [Benvenuto, 1995, p. 255]. Si assiste così ad un rovesciamento dei termini del problema: all’esigenza dell’esplicazione causale, il modello non disvela il ‘perché’, ma può essere accolto come se lo facesse. In questo senso, alle “notions incomplettes” richiamate da Leibniz resta il compito della chiarezza e della coerenza, requisiti che consentono la traduzione di queste “notions” in una veste matematica rigorosa. In questo modo il rigore del modello matematico sarà il mezzo per individuare il principio altrimenti cercato a partire dalle “Raisons supérieurs” impigliate nella metafisica e sarà uno dei temi ricorrenti nella ricerca matematica sulla scienza del moto a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo [Blay, 1992] o ancora, nel XIX secolo, perno attorno al quale ruoterà la diatriba sulla teoria matematica dell’elasticità tra de Saint-Venant e Castigliano da una parte, contro Green e Thomson dall’altra [Benvenuto, 1981]. A titolo di esempio ricordiamo che l’attrazione intermolecolare descritta da Newton, derivante da una azione a distanza tra le particelle e che serve a spiegare la forza o coesione che le tiene unite tra loro, è come l’ha definita de Saint-Venant “une loi assez général, assez grandiose, c’est-à-dire simple pour que nous puissons … la regarder comme pouvant etre celle à laquelle le souverain Législateur a soumis les phénomènes intimes” [de SaintVenant, 1883, p. 41]. Il progetto di fondare la meccanica come una scienza razionale e rigorosa, distinta dalla geometria, si svilupperà alla fine del XVIII secolo, anche con l’intento di risolvere la questione, ancora aperta, se è lecito associare i princìpi matematici ai princìpi della Natura. Verso la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, infatti, gli sviluppi del dibattito scientifico sulla resistenza dei materiali, sulle curve elastiche e flessibili, sul comportamento materiale che caratterizza la meccanica dei solidi e delle strutture, nonché il successivo ingresso della teoria assiomatica dell’elasticità, hanno mostrato vieppiù l’attualità degli obiettivi della ricerca Galileiana. L’analisi delle cause attraverso le quali è possibile spiegare i fenomeni legati alla resistenza dei materiali e consentire altresì una descrizione generale della deformazione dei corpi sotto sforzo, la definizione di modelli fisico-matematici che consentano di rappresentare in modo semplice e chiaro le modalità secondo le quali un solido o una struttura si deforma e si rompe sotto l’azione delle forze esterne, la necessità di chiarire le modalità secondo le quali un corpo si muove in un mezzo resistente o in un fluido, l’insieme di questi obiettivi evidenzia quel grande progetto scientifico che va sotto il nome di “scienza degli ingegneri” e racchiude in sé l’insieme delle scienze meccaniche: la meccanica dei solidi e delle strutture, la meccanica dei materiali, l’architettura statica e idraulica, la scienza del moto e la balistica, ed altro ancora. Un insieme di ‘saperi’ finalmente liberato dalle diatribe metafisiche e in questa nuova veste più orientato alla conoscenza del mondo fisico reale.

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3. BREVE COMPENDIO STORICO SUI PRINCIPALI TEMI DI MECCANICA SVILUPPATI NEL SETTECENTO. Nel 1716 Jacques Hermann (1678-1733) pubblica ad Amsterdam un importante trattato sulla statica dei corpi rigidi, che comprende anche lo studio del moto isocrono dei corpi e la teoria dell’urto, nonché il tema dell’equilibrio e del moto dei fluidi, in cui fa largo impiego del calcolo differenziale [Hermann, 1716] e anticipa i temi che saranno oggetto della rivoluzione matematica in Meccanica. Alcuni anni dopo Euler [Euler, 1736 e 1744], a cui peraltro Lagrange darà scarso peso nei suoi Abrégé historique esposti nella Mechanique Analytique e che invece vedremo assumere il ruolo di protagonista – personaggio cardine e fondamentale – per lo sviluppo della Meccanica, affronta la dinamica del punto materiale con l’intento di fondare una scienza razionale a partire dalla definizione di ‘enti’ primitivi: il punto materiale, la forza, distinguendo tra quella assoluta, come la gravità che agisce sul corpo a prescindere dalle sue condizioni di moto, e quella relativa, il cui effetto dipende invece dalla velocità del corpo stesso. Euler introduce la legge fondamentale della dinamica secondo la quale l’incremento della velocità (dv) di un corpo è proporzionale alla quantità pdt dove p è la forza che agisce nell’intervallo di tempo dt. In questo modo egli è in grado di studiare numerosi problemi relativi al moto di un punto materiale prescindendo dalla sua traiettoria (punto libero che si muove lungo una curva qualsiasi) e dal mezzo (un qualsiasi mezzo resistente o addirittura il vuoto). Negli stessi anni – 1733 – Daniel Bernoulli (1700-1782) fraterno amico di Euler, stabilisce l’equazione differenziale che descrive l’oscillazione di un insieme di pesi sostenuti da un filo flessibile, problema in seguito generalizzato da Euler stesso al caso di una catena di pesi, associando a questo tema la teoria delle corde vibranti già affrontata da suo padre Johann e da Brook Taylor (1685-1731). L’argomento, di per sé stimolante, era stato preso in esame da Euler nel 1731 [Euler, 1739] e i suoi studi lo avevano condotto alla definizione dell’equazione dell’oscillatore armonico. Nel 1740 Alexis-Claude Clairaut (1713-1765) propone a Euler di risolvere il problema dell’oscillazione di una massa fluida, riallacciandosi alla questione sorta intorno alla definizione della forma della terra [Clairaut, 1743]. Il problema si poteva ricondurre – a parere del matematico francese – alla soluzione di un’equazione differenziale che doveva descrivere la condizione d’equilibrio di una generica forza, agente su di una particella del fluido. La condizione d’equilibrio cercata è quella che assegna alla massa fluida la forma di uno sferoide ellittico (tesi peraltro già sostenuta da Newton). Il fatto poi che la terra fosse appiattita ai poli, come dimostrato dalle ricerche sperimentali condotte in Lapponia per conto dell’Académie di Parigi, era una conseguenza – secondo Clairaut – della variazione di densità del nostro pianeta, variazione che si ha avvicinandosi dal centro della terra alla superficie del globo.

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La prima metà del diciottesimo secolo è veramente una stagione ricca di contributi per lo sviluppo delle scienze meccaniche nel senso anzidetto: nel 1736 appare il già citato trattato di Euler sulla Mechanica e, su un versante più specifico, quello sul moto dei liquidi e, due anni dopo (1738), è dato alle stampe il trattato di Daniel Bernoulli (1700-1782) sull’idrodinamica [D. Bernoulli, 1738]. Nel 1743 Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert (1717-1783) pubblica il celeberrimo Traité de dynamique in cui espone il suo programma scientifico relativo alla scienza della meccanica, della quale si occuperà diffusamente negli anni seguenti. Ma a d’Alembert si deve il merito di aver chiarito il ruolo delle equazioni cardinali dell’equilibrio di un corpo rigido, gli studi sul moto dei fluidi, sulla resistenza incontrata da un solido che si muove in un fluido (paradosso di d’Alembert), quelli relativi al problema del moto di un grave, e infine quelli tesi alla ricerca dell’equazione che descrive le vibrazioni trasversali di una corda elastica (equazione di d’Alembert per le corde vibranti, nella forma di un’equazione alle derivate parziali del secondo ordine) [d’Alembert, 176180]. La tesi sostenuta dallo scienziato francese, che sottintende questo suo vasto progetto scientifico, è la seguente: la meccanica è una scienza razionale, come la geometria e l’algebra, ed è fondata su princìpi necessariamente veri ed evidenti per sé stessi e non su ipotesi conseguenti a prove di carattere empirico. Una rivoluzione metodologica che impone alla meccanica di espellere dal suo seno princìpi oscuri o non definiti, ipotesi inutili o sovrabbondanti. L’imperativo di d’Alembert era estendere i princìpi riducendoli [d’Alembert, 1758]. Per meglio comprendere questa tesi dello scienziato francese riportiamo il seguente esempio che meglio ne chiarisce il suo pensiero. In quegli anni era ormai consolidato presso i geometri l’assioma secondo il quale la forza acceleratrice deve essere proporzionale alla causa che la genera, cioè alla velocità. D’Alembert aveva rimarcato che tale principio è inaccettabile come verità contingente perché ciò “rovinerebbe la certezza della meccanica e la ridurrebbe a non essere nulla più che una scienza sperimentale”; dunque tale principio, vero o falso che sia, “è inutile alla meccanica” e da essa deve essere bandito. Lo scienziato francese era però altrettanto critico nei confronti dei filosofi (nel caso specifico dei cartesiani) accusandoli di perdersi in sottigliezze di carattere metafisico e liquidò in modo altrettanto deciso la famosa querelle sulle forze vive da lui giudicata “di perfetta inutilità per la meccanica”. Altre strade e altri princìpi dovevano essere cercati per fondare la meccanica su basi certe e razionali. Il principio dell’equilibrio, la definizione della forza d’inerzia e la composizione dei movimenti sono gli oggetti su cui – a parere del matematico francese - era necessario accentrare l’attenzione degli studiosi. Secondo il programma di ricerca di d’Alembert, assegnato un sistema qualsiasi di corpi, ognuno dotato di un moto che non deve dipendere da quello agente sugli altri, il problema generale della dinamica si doveva necessariamente ridurre alla ricerca della legge che

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descrive il moto di ciascun corpo. Ciò lo condusse a formulare il principio della dinamica (noto come principio di d’Alembert) secondo il quale “durante un qualsiasi moto di un qualsiasi sistema materiale le forze perdute e le reazioni vincolari si fanno a ogni istante equilibrio”. L’importanza di questo principio risiede nel fatto che ogni problema di dinamica può essere ricondotto ad un corrispondente problema di statica, nel cui ambito si ha semplicemente l’equilibrio tra le reazioni vincolari e le forze attive. Il successivo intervento di Lagrange, che ha saputo individuare la stretta connessione che esiste tra il principio di d’Alembert e il principio dei lavori virtuali, ha condotto nel modo più felice alla traduzione del principio di d’Alembert nelle equazioni di Lagrange, il più efficace strumento formale della dinamica. Il programma di ricerca formulato da d’Alembert aveva sollevato anche la seguente importante questione: se le leggi della statica e della meccanica siano leggi di verità necessaria o contingente [Benvenuto, 1978]. A questo proposito ricordiamo che in merito alla definizione di forza acceleratrice (ϕ) - che secondo d’Alembert si può esprimere nella forma ϕdt=dv dove dt è la variazione del tempo e dv quella della velocità - erano state date diverse interpretazioni, orientate sempre e comunque ad individuare nella definizione anzidetta un principio fondamentale della meccanica. Daniel Bernoulli aveva assegnato a questa definizione il principio di verità contingente, mentre Euler nella sua Mechanica aveva tentato di dimostrare che era invece una verità necessaria. D’Alembert supera la questione assegnando alla forza acceleratrice il ruolo di quantità proporzionale all’incremento di velocità: dunque è possibile ricondurre l’espressione della forza acceleratrice ad una semplice definizione che come tale deve essere trattata [d’Alembert, 1758 p. 22 e segg.]. Una prima conseguenza di questo suo diverso modo di affrontare le questioni lo portò ad affermare che anche il principio di conservazione delle forze vive non è altro che una conseguenza delle leggi della dinamica e di quelle relative all’urto elastico dei corpi. Un’impostazione metodologica di questo tipo diede luogo a diverse diatribe sui princìpi della meccanica che videro scontrarsi tra loro personaggi del valore di Euler, Voltaire d’Alembert e Maupertuis. In merito al problema della rifrazione della luce attraverso mezzi eterogenei, o a quello relativo all’urto elastico tra due corpi, Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759), aspramente critico della metafisica cartesiana, introdusse il principio della minima azione secondo cui la Natura segue sempre la via più breve (o di “minor resistenza”), sottolineando però che questo “principio” era, a suo parere, solo la conseguenza di un fatto puramente meccanico. Il principio di minima azione diventava allora per l’audace filosofo francese un principio di carattere generale “regola e fondamento della sua concezione finalista dell’universo e prova suprema dell’esistenza di un Etre tout puissant et tout sage” [Bottazzini, 1990, p. 41]. Euler invece, più convinto che il principio di minima azione non fosse altro che un enunciato del calcolo delle variazioni, s’impegnò a darne una formulazione corretta dal punto di vista mate-

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Fig. 2 - Mariotte: il criterio della dilatazione massima.

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matico, seppure limitata al caso di un punto materiale che si muove lungo una curva piana. La questione del minimo (o del massimo) della funzione da studiare era ininfluente, secondo Euler, in quanto il problema si poteva ricondurre a quello di minimizzare o massimizzare una certa funzione; ciò gli dava modo di dare meno importanza alla questione “metafisica” e ricondurre invece i problemi nell’ambito della meccanica razionale. 3.1 Gli sviluppi settecenteschi del problema di Galileo: ai primordi della teoria elastica della trave.

Fig. 3 - Leibniz (1684).

Fig. 4 - Parent: distribuzione dello stato di tensione in una trave a mensola.

Il modello del solido galileiano non trova più nel Settecento sufficiente autorità per restare al centro dell’attenzione degli studiosi. Nuovi oggetti e nuovi strumenti di indagine richiedono un ulteriore approfondimento del problema della “resistenza dei corpi all’essere spezzati”. Il modello del solido euclideo pesante non è più sufficiente per descrivere la ‘realtà’ materiale dei corpi e dunque si introducono nuovi parametri utili per meglio caratterizzare tale comportamento materiale. Nel 1678 Robert Hooke pubblica il suo testo fondamentale sull’elasticità [v. Hooke, 1678] in cui espone i risultati delle sue ricerche sul comportamento elastico della trave e, seppure sottoforma di anagramma (ceiiinosssttuu), esprime la legge di proporzionalità (legge di Hooke) tra la forza (F) e lo spostamento elastico (u) nella forma F=ku dove k è una costante di proporzionalità. Johann Bernoulli nel 1705 [v. Bernoulli, 1705] definisce la costante di proporzionalità k=EA/L in funzione di un nuovo parametro il modulo di elasticità (E) e delle caratteristiche geometriche del solido (la lunghezza L e l’area A della sua sezione trasversale). Il passaggio alla legge generalizzata di Hooke-Bernoulli in termini di tensioni σ=F/A e di deformazioni ε=∆L/L è allora immediata e si compendia nella relazione σ=Eε. L’introduzione dei concetti relativi all’elasticità e l’attenzione per il comportamento deformativo della trave, piuttosto che lo studio del suo comportamento a

rottura, attrae l’attenzione degli studiosi ed amplia lo studio del problema di Galileo. Edmé Mariotte (1620-1684) estende il criterio di rottura di Galileo, basato sul concetto che la resistenza della trave dipende dal raggiungimento di una tensione limite (σ=σlim), osservando che esiste anche un limite all’elongazione delle fibre di cui è composta la trave e, tra queste, ne individua una neutra che rimane indeformata; in questo modo introduce un criterio di rottura basato sulla deformazione limite (ε=εlim) [v. Mariotte, 1686], ripreso nell’Ottocento da Barré de Saint-Venant con il nome di criterio della dilatazione massima. Leibniz [v. Leibniz, 1684] estende ulteriormente il modello galileiano, e pur individuando in maniera erronea la posizione della fibra neutra, da lui ipotizzata all’intradosso della trave semplicemente inflessa, determina la relazione che esiste tra la sollecitazione esterna (il momento flettente M) e lo stato di tensione interno nella forma seguente: σ=(M/Ja)y, dove Ja è il momento d’inerzia calcolato rispetto alla posizione della fibra neutra e y è la posizione della generica fibra della trave. Occorre tuttavia sottolineare che a questa formula era già pervenuto Varignon nel 1702 [v. Varignon, 1702]. Antoine Parent (1666-1716) consegue finalmente l’equazione corretta, cercata ormai da tanto tempo, nella forma M=σmaxBH 2/6. Si dovrà tuttavia attendere la fine del secolo per giungere ad una chiarificazione del problema e alla sua soluzione definitiva, nella forma a noi oggi nota. Artefice di questo risultato è stato Coulomb [v. Coulomb, 1776 e Heyman, 1972]. Chiariti i dubbi sulla posizione della fibra neutra e indivi-

Fig. 5 - Coulomb: la soluzione al problema della flessione dei prismi (1773).

duato l’insieme delle componenti dello stato di tensione agenti sulla sezione trasversale della trave (una tensione normale σ e una tensione tangenziale τ ) egli afferma che la soluzione si ottiene risolvendo un sistema di tre equazioni relative all’equilibrio del corpo, note come equazioni cardinali della statica, e che esprimono l’equilibrio delle forze agenti secondo le direzioni normale e tangente al piano della sezione trasversale, e l’equazione di equilibrio alla rotazione; tali equazioni sono espr;esse nella forma A∫τdA=Q, A1∫ σdA= A2∫ σdA e A∫σydA=M dove A individua l’area della sezione trasversale, A1 e A2 sono rispettivamente la por-

Fig. 1 - Il modello galileiano della trave a mensola.

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zione di area soggetta a trazione e quella soggetta a compressione, Q individua il peso esterno che agisce all’estremo libero della trave galileiana (nel caso specifico una trave a mensola) e M è il momento flettente generato dal peso Q e valutato rispetto alla generica sezione in corrispondenza della quale è calcolato l’equilibrio tra le forze esterne e le sollecitazioni interne. 3.2 Curve flessibili ed elastiche: il dibattito sull’equilibrio funicolare e l’equazione della catenaria Uno tra i tanti temi aperti dalla trattazione galileiana sulla resistenza della trave fu anche quello di determinare quale configurazione assume l’asse della trave nella sua configurazione variata di equilibrio (o configurazione inflessa) sotto l’azione di un certo sistema di forze (carichi), ovvero di determinarne la sua linea elastica. Era esperienza comune osservare che una verga o una lamina elastica sotto l’azione di un certo carico concentrato o distribuito si incurva – o come si dice si inflette –, anche se l’esempio della mensola galileiana, date le generose dimensioni della trave, poco consentiva di osservare il fenomeno, ma qualunque altro oggetto dove una delle dimensioni del solido geometrico che lo rappresentava era preponderante sulle altre dimostrava l’assunto di quanto anzidetto. Se in Architettura tale problema interessava poco i costruttori e i maestri fabbricieri a causa delle cospicue dimensioni assegnate alle strutture portanti, ed anche perché, con riferimento ai problemi di ordine statico, l’interesse era più orientato ad osservare la formazione delle lesioni e dunque la rottura dei corpi anziché lo stato di deformazione elastico, dal punto di vista matematico il problema assumeva invece un’importanza particolare che attrasse l’interesse di molti studiosi, soprattutto matematici, dalla fine del Seicento e per tutto il Settecento. I nuovi strumenti del calcolo infinitesimale e del calcolo variazionale trovarono in questo ambito un’adeguata palestra per cimentarsi ed esercitarsi giungendo con Euler alla comprensione di un importante capitolo della Meccanica, quello relativo alle curve flessibili ed elastiche. Progenitore degli studi in questo contesto disciplinare fu il problema dell’equilibrio funicolare, cioè lo studio della configurazione assunta da una fune pesante fissata alle sue estremità: la catenaria. Tale equazione era già nota agli artisti rinascimentali: infatti, l’architetto Bartolomeo Ammannati (1511-1592) aveva tracciato la forma dell’arco del ponte di Santa Trinità (1567) a Firenze proprio utilizzando l’equazione della catenaria. Il problema, che in origine era già stato messo in luce da Galileo, il quale aveva espresso l’opinione che la catenaria coincide con l’equazione di una parabola, attirò l’attenzione di numerosi studiosi. Isaac Beeckman (1570-1637), alcuni anni prima di Galileo (1614-15), aveva risolto un problema simile, quello di una fune priva di peso è soggetta ad un sistema di carichi uniformemente distribuito ottenendo l’equazione di una parabola e trovando la soluzione al problema del ponte sospeso. Questa stessa soluzione si trova in uno scritto di Christiaan Huygens (1629-1695) del 1646 che ribadì la differenza tra il problema

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del ponte sospeso e quello della catenaria giungendo a conclusione che, per quest’ultimo, la curva di equilibrio non poteva essere una parabola. Huygens formula un principio di estremo secondo il quale la fune pesante assume quella posizione particolare per cui il centro di gravità della fune nella configurazione di equilibrio è il più basso possibile. La soluzione non era ancora conseguita, ma ciò sicuramente escludeva tra le possibili soluzioni proprio la parabola. Nel 1673 il gesuita Ignace-Gaston Pardies (1638-1673) enuncia il suo teorema fondamentale per la catenaria secondo il quale qualunque sia la curva, il punto di intersezione tra due tangenti in due punti A e B appartenenti alla curva giace sulla verticale passante per il centro di gravità della porzione di fune sottostante la corda AB. Intuizione geniale perché coincide con l’ipotesi che la fune può esprimere solo forza normale e dunque tale assunto verifica l’equazione di equilibrio delle forze in gioco: il peso della fune sottostante la corda AB e gli sforzi agenti secondo le direzioni tangenti nei punti A e B. La conclusione alla quale giunse Pardies è la seguente: se la fune è omogenea e pesante la curva cercata non può essere una parabola ed è pertanto la catenaria. Se invece la fune è priva di peso, e su di essa agiscono un’infinità di linee pesanti parallele ed egualmente distanti tra loro, allora la fune assume un andamento parabolico. Infatti, il baricentro del sistema di linee pesanti comprese tra il punto A e il punto medio C della corda AB passa a sua volta per il punto medio (D) del segmento AC; a sostegno della sua tesi Pardies ribadisce che la parabola è l’unica curva per la quale le tangenti in A e nel punto di massimo (o minimo) della porzione di fune compresa nell’intervallo AC si incontrano in un punto passante per la verticale tracciata per D. La discussione divampò quando Jacob Bernoulli propose il tema all’attenzione degli scienziati del tempo con una memoria pubblicata negli Acta Eruditorum. Huygens, Leibniz, Johann Bernoulli si mettono al lavoro e nel 1691 appare un numero memorabile degli Acta Eruditorum, in cui compaiono gli scritti che contengono le soluzioni proposte dai tre matematici. Huygens giunge alla soluzione del problema utilizzando con perizia il metodo geometrico; Leibniz dà la formula analitica corretta della catenaria in un piano cartesiano di riferimento, anche se nella sua trattazione sono assenti giustificazioni di carattere meccanico; Johann Bernoulli offre due soluzioni corrette al problema della catenaria e ne enumera ben tredici proprietà. Una richezza di soluzioni che ha fatto notare Truesdell mostrano nell’ordine la matematica del passato (Huygens), quella del presente (Leibniz) e quella del futuro (Bernoulli) [v. Truesdell, 1960, p. 50].

Fig. 6 - Teorema di Pardies (1673). Fig. 7 - Pardies: la catenaria e il ponte sospeso.

Fig. 8 - Jacob Bernoulli: il teorema di Pardies. Fig. 9 - Leibniz: soluzione del problema della catenaria.

3.3 La ricerca della curva elastica

Un altro importante problema strettamente legato a quello della fune flessibile e, a parere di Johann Bernoulli, egualmente interessante riguarda l’inflessione o meglio la determinazione della curva elastica di elementi strutturali monodimensionali (travi) sollecitati dal proprio peso o da un sistema di carichi ad essi applicati o comunque da qualsivoglia altro genere di azioni (forze)

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Fig. 10 - Jacob Bernoulli e l’elastica (1691).

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Fig. 11 - Jacob Bernoulli: 1 soluzione dell’elastica (1694).

Fig. 12 – Euler: l’elastica.

Fig. 13 - Euler: curva di 2a specie. Fig. 14 - Euler: la stabilità dell’equilibrio.

esterne. La palestra dove si esercitano gli studiosi sono ancora gli Acta Eruditorum di Lipsia che nel volgere di pochi anni vedono la pubblicazione di numerose e importanti memorie. Jacob Bernoulli (1694) mette in relazione tra loro il raggio di curvatura - per il quale scrive l’equazione in un sistema cartesiano di riferimento 2 2 2 3/2 (O:y,z) nella forma 1/r=-d y/dz /(1+y’ ) , dove le y=y(z) sono funzioni della variabile z – con una funzione dipendente dalla sollecitazione esterna (nel caso specifico il momento flettente M): in formula 1/r=F(M). Le sue ipotesi tengono conto dell’ipotesi di conservazione delle sezioni piane (le sezioni trasversali della trave si mantengono piane dopo la deformazione), e della legge di Hooke-Bernoulli (equazione di legame σ-ε) che lega lo stato di sollecitazione (le tensioni σ) a quello di deformazione (ε) attraverso un coefficiente di proporzionalità che coincide con il modulo elastico E del materiale (modulo di Young). Sebbene la soluzione matematica conseguita da Bernoulli è corretta da un punto di vista formale, e pertanto il problema poteva dirsi risolto (ovvero ricondotto alle quadrature), la formula ottenuta non era incoraggiante e le applicazioni difficili e complesse. L’impulso decisivo alla soluzione fu dato da Euler che formulò una rigorosa giustificazione dell’equazione di Bernoulli e determinò l’equazione della linea deformata di una verga o di una trave elastica nella forma Mx =EJx/r, dove Mx è il momento flettente che agisce nel piano (y,z), Jx è il momento d’inerzia della sezione trasversale della trave ed è riferito all’asse x baricentrico e ortogonale al piano di riferimento (y,z), E è il modulo di elasticità del materiale e r è il raggio di curvatura. Questa equazione stabilisce un legame tra la sollecitazione esterna prodotta dalle forze e dai pesi agenti sulla struttura e la curvatura della linea d’asse della trave inizialmente rettilinea. Nel 1735 Euler risolve l’equazione proposta da Bernoulli calcolando, inoltre, lo spostamento indotto da un carico concentrato applicato sull’estremo libero di una trave a mensola (il problema di Galileo). Allo stesso risultato perviene nel 1741 Daniel Bernoulli partendo però dall’equazione di Euler prima menzionata, e conseguendo la soluzione nel caso della teoria linearizzata della trave elastica. L’anno seguente Daniel Bernoulli propone ad Eu-

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ler di risolvere il seguente problema: “Vostra Signoria potrebbe riflettere un poco se uno non potesse dedurre la curvatura direttamente dai principi della meccanica (…). In ogni caso, per una verga elastica inizialmente rettilinea, io esprimo l’energia potenziale della configurazione inflessa con d∫ s/r2 (…). Poiché nessuno come Voi conosce perfettamente il metodo isoperimetrico, Voi facilmente risolverete questo problema di rendere d∫ s/r2=minimo”. L’idea di Bernoulli è quella di ottenere le equazioni dell’equilibrio elastico risolvendo un problema di minimo, imponendo cioè che l’energia potenziale elastica del sistema assuma un valore estremo compatibile con un sistema di vincoli assegnati sullo stato di spostamento. Euler si mette subito al lavoro e nel 1744 pubblica il già citato Methodus inveniendi lineas curvas maximi minimive proprietate gaudentes al quale è annesso l’Additamentum I de curvis elasticis in cui è ampiamente trattato il tema delle curve elastiche. L’importante contributo di Euler nell’ambito della meccanica, al di là della sua attenzione alla disputa tra i sostenitori di una visione deterministica della realtà fisica fondata sul concetto di causa efficiente, e i sostenitori di una visione teleonomica della realtà fondata invece sul concetto di finalità [v. Benvenuto, 1981], si compendia nella soluzione del problema di minimo propostogli da Daniel Bernoulli; tale risultato lo condurrà all’enumerazione delle curve elastiche in numero di nove e alla scoperta del carico critico euleriano (da cui il nome) che individua quel particolare valore del carico in corrispondenza del quale un’asta, una trave o una lamina elastica, soggetta ad un carico assiale s’inflette in una configurazione variata di equilibrio distinta da quella iniziale rettilinea, ma ad essa infinitamente prossima. 2 2 La soluzione di Euler nella forma P=π EJmin/4L – e relativa al caso della trave incastrata-libera (o meglio della colonna come suggerirà nel titolo del paragrafo 37 dell’Additamentum: Sulla forza delle Colonne), dove i termini indicati hanno il significato già noto, e Jminrappresenta il valore minimo del momento d’inerzia della sezione trasversale della trave – apre un nuovo capitolo della Scienza delle costruzioni che va oltre il tema della resistenza dei materiali per occuparsi di quello relativo alla stabilità dell’equilibrio, anche se è doveroso sottolineare che i suoi risultati non trovarono molto interesse tra i matematici e gli ingegneri suoi contemporanei. Euler non abbandonerà il tema ritornando suc-

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cessivamente sull’argomento con una memoria dal titolo Sur la force des colonnes, pubblicata nel 1759, in cui discuterà il problema degli effetti prodotti da un carico di punta sull’equilibrio di una colonna e introducendo la teoria linearizzata per determinare il valore del carico critico in funzione dei diversi parametri in gioco: l’elasticità del materiale e le dimensioni della colonna. Solamente Lagrange opererà una discussione formale delle conseguenze teoriche e astratte che derivano dalla discussione del problema per valori del peso P superiori a quelli del carico critico in una nota dal titolo Sur la figure des colonnes, pubblicata nel 1770. Euler si occuperà anche della definizione delle equazioni indefinite di equilibrio per la trave risolvendo il problema di determinare la posizione assunta, nella sua configurazione di equilibrio, da un filo perfettamente flessibile o elastico, sollecitato nei suoi singoli punti da un sistema di forze e di ricercare successivamente lo stato di sollecitazione o di inflessione di ogni suo elemento. Euler determina le relazioni che legano tra loro le caratteristiche di sollecitazione di una trave – individuate dalla forza normale N(z), dalla forza tangenziale T(z) e dal momento flettente M(z) valutate in corrispondenza di una generica sezione trasversale della trave – con i carichi esterni p(z) e q(z), rispettivamente agenti in direzione assiale e tangente rispetto alla sezione trasversale della linea d’asse della trave, nella seguente formulazione: dN(z)/dz+p(z)=0, dT(z)/dz+q(z)=0 e d 2M(z)/dz 2=T(z) (dette anche “equazioni indefinite di equilibrio per la trave”). 3.4 La polemica sulle corde vibranti. Nel 1749 d’Alembert aveva pubblicato una memoria il cui argomento aveva suscitato grande interesse tra i meccanici suoi contemporanei; essa riguardava il modo di rappresentare la vibrazione nel piano di una corda fissata ai suoi estremi [v. d’Alembert, 1749]. Il problema era già stato affrontato da Johann Bernoulli nel 1727 seppure nel caso particolare di un sistema di n masse equidistanti tra loro e collegate da una fune flessibile, inestensibile e priva di peso. D’Alembert risolse il problema generale attraverso un’equazione differenziale alle derivate parziali, detta anche “equazione delle onde” (∂2y/∂t2=a2∂2y/∂x2), per la quale riuscì ad ottenere l’integrazione in un caso particolare. L’anno successivo Euler intervenne sul tema con un breve saggio dal titolo Sur la vibration des cordes, formulando alcune precisazioni in merito all’equazione di d’Alembert, soprattutto per quanto riguarda il tracciamento della figura iniziale della corda che deve poter essere arbitrario, ed espose una costruzione geometrica della soluzione. In un secolo ricco di polemiche e querelles sui princìpi della Meccanica non poteva sfuggire all’interesse e alla vena polemica di alcuni scienziati anche il tema della vibrazione delle corde elastiche. Non è questa la sede per addentrarsi nello specifico della questione, per il quale rimandiamo il lettore ai testi citati in bibliografia, quanto riassumere in breve le conclusioni. La divergenza tra Euler e d’Alembert risiedeva, com’e-

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ra prevedibile, nella forma da assegnare all’equazione risolutiva del problema, soluzione che doveva comunque consentire di rappresentare le diverse figure assunte dalla corda vibrante. Chi alimentò ulteriormente il fuoco della polemica fu nel 1753 Daniel Bernoulli che suggerì la possibilità di rappresentare la vibrazione di una corda elastica attraverso una serie trigonometrica: tale equazione compendiava sia la soluzione di Euler che quella di d’Alembert. La questione andò oltre il problema strettamente meccanico investendo il concetto stesso di funzione, alla definizione della quale si doveva comunque ricondurre la soluzione del problema [v. Truesdell, 1960]. Su questo tema interverrà alcuni anni dopo (1759) Louis Lagrange trattando il problema della natura e della propagazione del suono operando tuttavia per una via diversa da quella percorsa da Euler, d’Alembert e Daniel Bernoulli, ed elaborando una tecnica nuova (metodo dei moltiplicatori di Lagrange) per integrare l’equazione differenziale che descrive l’equazione della corda vibrante. 4. ULTERIORI CENNI SUI PRINCÌPI DELLA MECCANICA Intorno alla metà del XVIII secolo tre differenti visioni della realtà materiale si dividevano i consensi, e accentuavano i contrasti, tra gli scienziati e i filosofi. Il plenum universale cartesiano, prodotto dal concetto di res extensa, che non ammetteva il vuoto per la sua intrinseca contradditorietà e dunque era perpetuamente agitato da un complesso sistema di vortici; le azioni a distanza di Newton che operano, al contrario, attraverso lo spazio vuoto nel quale risiedono tutti i corpi vincolati dalle forze d’attrazione; infine, il sistema delle monadi di Leibniz, elementi costitutivi della realtà materiale e non, e pertanto privi di parti e dunque in estensione, puri punti matematici dotati di specifica identità che distingue ognuno da tutti gli altri. Queste distinte visioni del mondo e della realtà materiale animavano, anche in ambito strettamente meccanico, un intenso dibattito e proponevano diverse impostazioni dei princìpi disciplinari. Tutto ciò aveva come conseguenza immediata l’orientamento della ricerca su diversi sentieri interpretativi dei medesimi fenomeni conosciuti. La “filosofia sperimentale” coltivata da Newton – come lui stesso scrisse nella sua Recensio libri del 1712 [v. Newton (1712), 1958, p. 79] – aveva il compito di “spiegare le cause dei fenomeni che possono venir confermate dall’esperienza” e dunque “non la si deve riempire di opinioni impossibili a spiegare per mezzo dei fenomeni”. Tale impostazione concettuale sollevava però alcune importanti questioni. Le leggi della natura, che a parere di Newton dovevano essere “eterne e universali”, erano solo verità contingenti, sottomesse alla sola evidenza della verifica sperimentale, e dunque non più verità necessarie? E come si poteva affrontare il problema del vuoto che Descartes aveva mostrato essere una contradictio in adiecto e Leibniz aveva negato in ragione di un ‘superiore’ principio di ragion sufficiente che aveva la sua giustificazione nella volontà di Dio?

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In questo ambito, al fine di portare un esempio chiarificatore della tesi più sopra enunciata e tentare una risposta ai quesiti sollevati, occorre fare alcune considerazioni sull’enigmatico concetto di forza [v. Jammer, 1958; Maltese, 1992; Benvenuto, 1985] e sul problema della sua corretta misura che diede ampio spazio alla famosa querelle sulle forze vive, apertasi nel 1724 a seguito di un concorso promosso dall’Académie des Sciences di Parigi sul tema della “communication du mouvement”. A partire da un problema a prima vista semplice come, ad esempio, quello dell’urto elastico, l’oggetto del contendere risiedeva, come è noto, nel decidere se la forza dovesse essere misurata in base al tempo durante il quale essa agisce (tesi sostenuta dalla scuola cartesiana che assegnava il primato al concetto di quantità di moto), ovvero se la misura della forza dovesse invece dipendere dallo spazio lungo il quale essa (vis viva) sposta il proprio punto di applicazione (tesi sostenuta dalla scuola di Leibniz che assegnava il primato all’equazione di bilancio tra forze morte e vive). La questione era indubbiamente accattivante; essa coinvolgeva aspetti controversi come quello sulla natura del movimento e d’altro canto indubbiamente enigmatici come quello dell’impenetrabilità tra i corpi. La questione – come scrisse Newton nella sua Recensio libri più sopra citata – era certamente degna di venire seriamente ed accuratamente esaminata. Le idee di Newton avevano trionfato in Inghilterra, viceversa la cosmologia cartesiana dell’ideale di una scienza puramente meccanica dominava nel continente, influenzando sicuramente un anticartesiano quale si professava Leibniz [v. Koyré, 1972]. Le dispute passavano facilmente dal piano filosofico a quello metafisico, interessando problemi come la definizione della forma della Terra e coinvolgendo, oltre ai matematici, gli astronomi, i geografi e anche i filosofi, come ad esempio Maupertuis, alcuni sul versante cartesiano della querelle, altri su quello newtoniano. Si passava dunque da disquisizioni raffinate su problemi squisitamente meccanici come la gravitazione universale [v. Maupertuis, 1732] a pubblicazioni divulgative come quelle sull’opera di Newton [v. Voltaire, 1734 e 1738; v. Algarotti, 1737] utilizzate per meglio diffondere le idee di una scuola nei confronti dell’altra. La tesi della necessità di un experimentum crucis, peraltro sostenuta da Maupertuis, doveva essere la chiave che avrebbe aperto la nuova scienza ad una visione cartesiana o ad una visione newtoniana del mondo, stabilendo così la validità dell’una piuttosto che dell’altra teoria. Non è questa la sede per approfondire il tema oggetto della controversia, quanto sottolineare come le verifiche sperimentali promosse dall’Académie confermarono – come abbiamo già avuto modo di ricordare – la teoria newtoniana secondo la quale la Terra è appiattita ai poli. Una prima conseguenza di questa vittoria della scuola di pensiero inglese su quella francese fu la pubblicazione, nel 1759, della traduzione in francese dei Principia di Newton ad opera di Madame du Châtelet. Fu l’affermazione della fisica di Newton sulla metafisica di Leibniz o sulla fisica di Cartesio definita “una fisica matematica senza matematica” [v. Koyré, p.

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87]. L’applicazione del calcolo ai problemi e alle questioni poste dalla meccanica, grazie anche all’ausilio dei nuovi strumenti del calcolo differenziale ed integrale, aveva aperto la strada ad un nuovo universo matematico fino ad allora sconosciuto, dove la fisica e i suoi princìpi, dedotti sperimentalmente, potevano essere meglio descritti attraverso un insieme di equazioni differenziali. Nell’ambito di queste differenti scuole di pensiero, nel XVIII secolo Jacopo Riccati (1676-1754) era dedito a studi [v. Riccati, 1761] il cui oggetto era la ricerca di una legge generale d’ordine matematico, ma fondata su princìpi certi della meccanica, che consentisse di caratterizzare l’elasticità dei corpi, senza dover immaginare arbitrarie rappresentazioni mentali della loro intima costituzione fisica. Tale legge che, sempre secondo Riccati, doveva prevedere un “perpetuo e non interrotto passaggio delle forze vive in morte, e di morte in vive” può tradursi, nel linguaggio odierno, nel principio di conservazione dell’energia. In altri termini, ciò significa che il corpo perfettamente elastico gode della proprietà di conservare in sé l’energia ricevuta dall’esterno convertendola in forza morta (energia potenziale) e restituendola integralmente nella forma di forza viva, qualora sia liberato dai vincoli che lo trattengono. L’elasticità dunque, secondo Riccati, deriva dall’energia potenziale acquisita e trattenuta dal corpo a seguito della sollecitazione esterna. Su tutt’altro versante filosofico e scientifico, seppure su temi analoghi, si poneva la ricerca di Giuseppe Ruggiero Boscovich (1711-1787). Nella teoria di Boscovich è ben presente il sistema newtoniano e l’insegnamento di Leibniz. Mentre Riccati era stato capace di trovare un punto di equidistanza tra le scuole di Newton e di Leibniz respingendo comunque di ambedue la dimensione metafisica dei loro assunti, in favore dei loro fecondi principi matematici che consentivano di coordinare tra loro un gran numero di fenomeni, Boscovich coniugava insieme l’esistenza obbiettiva di una legge delle forze attrattive e repulsive, cui resta associata la definizione dell’ente materiale e l’inestensione degli elementi primi, simili ai punti matematici o alle monadi leibniziane. Sulla falsariga e in analogia alla contrapposizione tra queste due differenti scuole di pensiero si colloca anche la contrapposizione tra Mécanique analytique e Mécanique physique che bene fu messa in luce nel secolo successivo da S.-D. Poisson, uno dei fondatori della teoria molecolare dell’elasticità. La posizione di Poisson era opposta al discorso programmatico di Lagrange pubblicato nell’Avvertissement della Méchanique Analytique del 1788. In esso Lagrange aveva proposto di “ridurre la teoria della meccanica e l’arte di risolvere i problemi ad essa connessi a delle formule generali, il cui semplice sviluppo fornisce tutte le equazioni necessarie per la risoluzione di ogni problema”. Dunque il suo obiettivo era riunire e presentare sotto uno stesso punto di vista i diversi princìpi fino ad allora trovati per facilitare la soluzione delle questioni di meccanica, mostrandone la dipendenza reciproca e porre in grado gli studiosi di emettere giudizi sulla loro correttezza e sulla portata di tali princìpi. Lagrange conclude

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che “non si troveranno affatto delle figure in quest’opera. I metodi che espongo non richiedono né costruzioni né ragionamenti geometrici o meccanici, ma soltanto operazioni algebriche assoggettate ad un andamento regolare e uniforme. Coloro che amano l’analisi vedranno con piacere la meccanica divenire una nuova branca e mi saranno grati di averne esteso così il dominio” [v. Lagrange, 1788, p. VI]. Con la sua Méchanique Analytique, Lagrange aveva mutato paradigma e obiettivi alle scienze meccaniche e, di fatto, aveva rivoluzionato lo studio della meccanica. La meccanica – scrive Lagrange – si divide nella statica (e nell’idrostatica) e nella dinamica (e nell’idrodinamica). La statica si fonda sul principio della leva di Archimede, su quello della composizione dei movimenti e sul principio dei lavori virtuali (vitesses virtuelles nella terminologia lagrangiana), da lui considerato una specie di assioma della meccanica anche se, nella seconda edizione del suo trattato (1811), avverte che tale principio “non era di per sé stesso abbastanza evidente da poter essere assunto come principio primitivo”. A parere di Lagrange il principio delle velocità virtuali rappresenta il cardine di tutta la meccanica, lo strumento che “conduce ad un metodo analitico semplicissimo per risolvere tutte le questioni di statica” e che, combinato col principio di d’Alembert, “fornisce inoltre un metodo analogo per i problemi di dinamica”. Tale metodo aveva consentito di ricavare i princìpi della conservazione delle forze vive, del movimento, il principio delle aree e quello di minima azione, “risultati generali delle leggi della dinamica” e non princìpi primitivi di questa scienza. A questa impostazione teoretica Poisson contrapporrà nel secolo successivo la seguente posizione metodologica e relativa ad una sua visione dei fondamenti generali della meccanica: “… il serait à désirer que les géomètres reprissent sous ce point de vue physique et conforme à la nature les principales question de la mécanique. Il a fallu les traiter d’une manière tout-à-fait abstraite, pour découvrir les lois générales de l’équilibre et du mouvement; et en ce genre de généralité et d’abstraction, Lagrange est allé aussi loin qu’on puisse le conçevoir, lorqu’il a remplacé les liens physiques des corps par des équations entre les coordonnées de leur différents points: c’est là ce qui constitue la Mécanique analytique: mais à côté de cette admirable conception, on pourrait maintenant élever la Mécanique physique, dont le principe unique serait a ramener tout aux actions moléculaires, qui trasmettent d’un point à un autre l’action des forces données, et sont l’intermédiaire de leur équilibre. De cette manière, on n’aurait plus d’hypothèses spéciales à faire lorsqu’on voudra appliquer les règles générales de la mécanique à des questions particulières” [v. Poisson, 1828, p. 361]. Come è già stato sottolineato [v. Benvenuto et al., 1996], il sistema di Boscovich fu successivamente ripreso da Barré de Saint-Venant [v. Benvenuto, 1997] per il quale la tesi sull’inestensione degli atomi appariva l’unica conclusione coerente e ineccepibile sotto il profilo fisico-matematico, nonostante le obiezioni a lui mosse sulla natura puramente metafisica dell’assunto.

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Questa “nuova visione del mondo” che prenderà campo nel XVIII secolo e forse ancora di più in quello successivo, tanto da suscitare la vibrante esternazione di Poisson sopracitata e la già menzionata diatriba tra Mécanique physique (proposta da Poisson) e Mécanique analytique (proposta da Lagrange e ripresa, in questo secolo, dai sostenitori dell’assiomatica) si configura come un importante e vasto progetto scientifico che va oltre i princìpi generali della Meccanica, per investire anche settori e discipline più specialistiche e particolari come la balistica e l’idraulica, di cui faremo un breve cenno nel seguito. Si tratta di una rivisitazione di quella “filosofia della natura” che oltrepassa la metafisica – per secoli rimasta all’ombra del pensiero scolastico post-medievale – per diventare una scienza della realtà assoluta. Dunque non più un’assoluta giustificazione filosofica della realtà ma l’assiomatizzazione della realtà fisica in termini matematici. Ciò darà il via ad una tendenza nuova nello sviluppo matematico del pensiero meccanico indirizzata al formalismo puro, dove la scienza è concepita come un sistema ipotetico-deduttivo basato esclusivamente su un insieme di definizioni implicite e formali degli enti fondamentali o primitivi, scelti ad arbitrio, seppure appartenenti e compatibili con la realtà naturale. Già Leibniz, introducendo le sue “monadi” come “unità reali”, enti o punti materiali che possiedono sia la “realtà” della particella che l’esattezza del punto matematico (e dunque l’immaterialità dell’ente stesso), aveva aperto il campo a questa nuova “concezione” del mondo. La ricerca di un “qualcosa” che potesse essere considerato primo, supremo, universale, assoluto, necessario, eterno, infinito, in contrapposizione al fatto e all’oggetto particolare relativo, contingente, derivato, essendo soggetto al divenire e pertanto destinato a finire, dunque finito, o ancora ciò che è, o si può considerare, immateriale, soprasensibile, metempirico, trascendente in contrapposizione a ciò che è, o si considera, fisico, naturale, materiale, empirico, diede luogo a numerose ricerche e motivo di studio a parecchi scienziati per cercare o meglio tentare di formulare questa nuova visione “matematica” della realtà della natura. La ricerca di un sistema di assiomi in quanto nozioni generali evidenti per sé e non dimostrabili, che stiano a fondamento della meccanica e che dunque diano una definizione implicita dei concetti e degli enti fondamentali era la sfida lanciata da Lagrange alla “meccanica pratica” figlia della “nuova scienza” di origine galileiana. Come ha scritto J. Merleau-Ponty (v. Blay, 1992, p. 3) “l’un des éléments les plus importants de la révolution scientifique du Grand Siècle fut l’inauguration du projet d’une science mathématique de la nature substituant à la physique qualitative héritée d’Aristote”. Il sistema di Boscovich e con esso i principi della Mécanique Physique saranno avvertiti, nell’Ottocento, come la più compiuta espressione di quella “filosofia della natura” cui abbiamo fatto cenno. Finalmente tale filosofia poteva animare un grande progetto scientifico, stimolato dalla grande perizia matematica di personaggi come Cauchy e Barré de Saint-Venant. Tale progetto e

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la successiva verifica sperimentale con l’ingresso della Mécanique physique, auspicata da Poisson e anticipata dalla teoria di Boscovich, necessitava della conferma dell’esistenza di forze attrattive e repulsive tra le particelle materiali. Inoltre essa richiedeva di verificare se la pretesa unificazione tra “microcosmo” e “macrocosmo”, ovvero dalle azioni molecolari alla gravitazione universale, corrispondesse effettivamente alla natura delle cose o non fosse altro che un’affascinante immagine del pensiero “sempre proteso all’unità e alla semplificazione dei suoi costrutti”. Infine era necessario, oltre che opportuno, indagare sull’esistenza o meno di modelli interpretativi più convincenti che, pur rinunciando all’obiettivo di una totale riunificazione formale dei costrutti teorici, fosse tale da consentire di esprimere in forma semplificata la legge che mette in relazione tra loro le forze attrattive e repulsive tra le particelle. Questo sarà il cammino che verrà intrapreso, dopo la fondazione della teoria matematica dell’elasticità avvenuta nel XIX secolo, da numerosi meccanici e fisici italiani alle soglie del XX secolo. BIBLIOGRAFIA. Elenco delle fonti: Francesco Algarotti, Il newtonianismo per le dame, 1737. Bernard Forest de Belidor, La science des ingénieurs dans la conduit des travaux des fortifications et d’architecture civile, C. Jombert, Paris, 1729. Alexis-Claude Clairaut, Théorie de la figure de la terre tirée des principes de l’hydrodynamique, Paris, 1743. Charles Augustin. Coulomb, Essai sur une application des Règles de Maximis & Minimis à quelques Problèmes de Statique, relatifs à l’Architecture, “Mémoires de Mathématique et de Physique, présentés à l’Académie Royale des Sciences, par divers Savans, Année 1773”, VII (1773), Paris 1776, pp. 343-382. Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert, Traité de l’équilibre et du mouvement des fluides, Paris, 1744; idem, Nouvelle edition, chez Briasson, Paris, 1770. Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert, Recherches sur la courbe que forme une corde tendue mise en vibration, “Histoire Académie Sciences de Berlin”, 3 (1747), pp. 214-219, 1749; Suite des recherches sur la courbe que forme une corde tendue, mise in vibration, idem, pp. 220-249, 1749. Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert, Traité de Dynamique, Paris, 1743, 2a ediz.: 1758. Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert, Opuscoles mathématiques, 8 voll., Paris, 1761-80. Leonhard Euler, Mechanica sive Motus Scientia analytice exposita, T. I & II, Petropoli, 1736. Leonhard Euler, Methodus inveniendi lineas curvas Maximi Minimive proprietate gaudentes, sive solutio problematis isoperimetrici latissimo sensu accepti, Additamentum I: De curvis elasticis, Lausanne et Genève, 1744. Leonhard Euler, Tentamen novae theorie musicae ex certissimis harmoniae principiis dilucide expositae, Petropoli, 1739; anche in Opera Omnia, III, 1, pp. 197-427. Gregorio Fontana, Saggio sulla storia generale delle matematiche di Carlo Bossut, prima edizione italiana con riflessioni ed aggiunte di Gregorio Fontana, Nobile e Tosi, Milano, 1802-1803. Francesco Maria Franceschinis, Delle Matematiche Applicate, Padova, 1808. Paolo Frisi, Instituzioni di meccanica, d’idrostatica, d’idrometria e dell’architettura statica, e idraulica …, Milano, 1777. Paolo Frisi, Operum tomus secundus, mechanicam universam et mechanicae applicationem ad aquarum fluentium theoriam continens, Mediolani, 1783. Galileo Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla mecanica ed i movimenti

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Massimo CORRADI, nato nel ’54 a Genova, si è laureato in Architettura nel 1978, è Professore associato di Storia della Scienza presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Genova, si occupa di progettazione architettonica e strutturale, restauro statico e consolidamento degli edifici. È autore di numerose pubblicazioni e consulente e membro di numerosi Enti nazionali ed europei come esperto di Storia dell’Architettura e di Meccanica delle Costruzioni.

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