Tra presenza e assenza, esempi di fotografia \'sociale\' contemporanea

August 5, 2017 | Autor: Nicola Zito | Categoria: Photography, Contemporary Art, Arte Contemporanea, Fotografia
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Tra presenza e assenza: esempi di fotografia “sociale” contemporanea. di Nicola Zito Anno I. n. 1/ Maggio-Settembre 2014 La macchina fotografica, in quanto mezzo meccanico apparentemente distaccato e oggettivo, è per definizione un riproduttore della realtà. Utilizzata dalle origini come “referente” del dato reale, caratteristica ritenuta specifica da Roland Barthes[1], la fotografia si è sin da subito dovuta confrontare con scetticismi, malcontenti e ostruzionismi, generati dalla vaga e ormai superata accusa di non rappresentare una forma d’arte, pregiudizio che in parte rimane ancora oggi: «Malcompresa da un pubblico di amatori e curiosi che per lo più vi cercano ciò che essi non sanno fare o non hanno visto di persona, è maldifesa dalla gran parte dei suoi professionisti che ne parlano ancora con argomenti quasi esclusivamente tecnici o criteri estetici del tutto compassati»[2]. Destinata per diversi decenni a un limbo di indeterminatezza – più lessicale che effettiva – la fotografia, con il decisivo contributo delle Avanguardie Storiche, si è gradualmente emancipata dal ruolo di “supporto” per la creazione artistica, raggiungendo una propria dignità culturale; un processo di autodeterminazione che è culminato con le sperimentazioni della seconda metà del Novecento e che ha ottenuto una definitiva consacrazione nei primi anni del XXI secolo. Il mezzo fotografico è diventato nel corso del tempo canale privilegiato per raccontare storie, descrivere situazioni, svelare dinamiche non facilmente esprimibili con il solo utilizzo della parola. La caratteristica documentaria della fotografia, che si sostanzia nelle pratiche del reportage e del fotogiornalismo, recentemente ha assunto una connotazione più legata all’aspetto artistico; accade sovente di vedere esposte nelle gallerie opere nelle quali convergono cronaca ed estetica, narrazione e stile personale. Le fotografie in cui confluiscono cronaca e fare artistico hanno avuto una più ampia visibilità solo negli ultimi decenni del XX secolo, entrando di fatto nel circuito ufficiale delle mostre e modificandone le dinamiche, allargando di fatto la definizione di “esperienza da galleria” della fotografia stessa[3]. L’ingresso trionfale della fotografia artistica di matrice “sociale”, che ha avuto anch’essa un suo periodo “eroico” rintracciabile nella produzione di specialisti del settore – Tina Modotti e Robert Capa tanto per scomodare due nomi importanti – ha però portato a una sua inevitabile modifica strutturale. Generata anche da altre cause contingenti, come la diminuzione di finanziamenti per progetti documentari, o come la preponderante presenza di media e network di più immediata fruizione, la “fotografia sociale” ha assunto una nuova veste, rinunciando quasi del tutto alla forma del reportage, «rallentando i tempi di realizzazione delle immagini, tenendosi al di fuori del cuore dell’azione e arrivando dopo il momento cruciale di un evento»[4]. Questa scelta, condivisa dalla maggior parte degli operatori, ha portato a una divisione degli approcci e, di conseguenza, degli esiti ultimi. Si può parlare quindi di due tipi di “fotografia

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sociale”, la prima basata sulla presenza della figura umana, e la seconda sulla sua assenza; in entrambi i casi, comunque, sono gli uomini e le loro azioni a rimanere al centro dell’attenzione.

Del primo filone fanno parte una serie di artisti che si sono concentrati in particolare sul ritratto, solitamente ambientato in scenari da cui si evince la storia delle persone immortalate; quasi sempre impassibili, i soggetti fotografati trasmettono comunque una forte carica emotiva legata a «cosa hanno dovuto sopportare [e] a cosa sono scampati»[5]. Questa particolare indagine, a cavallo tra narrazione cronachistica e descrizione, ha avuto una rilevante diffusione dagli anni Ottanta e, soprattutto, Novanta del XX secolo; questi decenni vedono una maggiore partecipazione del fotografo per la realizzazione di una “pratica artistica” che «scaturisca da una dimensione di esperienza diretta»[6], che a sua volta presuppone una più convinta presenza sul campo. Di questa tendenza si rintracciano, però, interessanti precedenti principalmente nella produzione di fotografi “extra-europei”. Due artisti in particolare risultano essere gli antesignani di questa corrente: il malieno Seydou Keïta e il sudafricano David Glodblatt. Seppur con intenti differenti, entrambi hanno raccontato la storia della loro terra; Keïta, partendo dall’idea di unire a un preciso contenuto biografico un certo minimalismo compositivo, realizza dagli anni Quaranta agli anni Novanta del Novecento una galleria di ritratti degli abitanti di Bamako, che si è può considerare come un felice intreccio tra storia personale di chi è stato fotografato e intervento diretto dell’artista nella composizione stilistica[7]. Più “impegnate” sono invece le motivazioni che spingono David Goldblatt[8] a fotografare la sua terra, il Sudafrica, nello stesso periodo in cui Keïta si cimentava (su commissione) a ritrarre i suoi compatrioti; gli scatti, pensati per essere inseriti come corredo di reportage giornalistici, descrivono la violenza dell’apartheid e il «razzismo endemico nella quotidianità sudafricana»[9]. Statiche e solo a prima vista edulcorate, le fotografie hanno invece una forte carica emotiva che si rintraccia nei particolari che circondano le figure.

L’esempio di Keïta e Goldblatt si è rivelato decisivo per la maturazione di un’intera generazione di fotografi non europei, cronisti di storie non più legate al Vecchio Continente. In Africa operano artisti come Pascale Marthine Tayou, originario del Camerun, Zwelethu Mthethwa, sudafricano come Goldblatt, e Fazal Sheikh. Nelle loro foto, autentici scatti o fermoimmagine, si ritrova tutta la tragicità e, insieme, la bellezza del continente africano, con le sue guerre, la fame, la povertà, ma anche con l’incanto dei suoi paesaggi e il fascino del suo ancestrale passato[10]. Storie di ingiustizia sociale e di efferatezze commesse da uomini su altri uomini, vengono raccontate anche dai fotografi asiatici; tra questi molto interessante è l’opera del birmano Chan Chao[11] che alla fine del secolo scorso ha descritto, nella serie Something Went Wrong, il triste destino dei profughi costretti ad abbandonare la Birmania, divenuta ormai Myanmar, dopo la presa del potere da parte del Consiglio di restaurazione della legge e dell’ordine nel 1988. Stoicamente isolate, le persone vengono strappate alla loro routine per divenire moderne icone di una contemporanea tragedia sociale e umanitaria.

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Le stesse dinamiche di vita e sofferenza attraversano l’Asia intera, arrivando sino alle regioni più vicine all’Europa; nell’Iran post Rivoluzione islamica, per esempio, che viene descritto da Shirana Shahbazi attraverso una galleria di ritratti della quotidianità a Teheran, dove osservanza della legge coranica e desiderio della modernità occidentale coesistono e, in certi casi, si sovrappongono compenetrandosi. O nell’Afghanistan e nell’Iraq devastati da sanguinose guerre civili, rappresentati nelle grandi fotografie (due metri e mezzo di lunghezza) realizzate da Luc Delahaye, dove gli orrori del conflitto vengono elevati ad autentici “tableau vivant”. I teatri di guerra a noi coevi sono anche l’oggetto preferito dai rappresentanti del secondo filone della fotografia sociale contemporanea. Ai giorni nostri, però, i fotografi preferiscono rappresentare i campi di battaglia appena un attimo dopo il cessare delle ostilità, per documentarle attraverso un reportage dallo spiccato valore artistico.

La descrizione dell’assenza “rumorosa” dell’uomo da questi scenari è resa con minuziosa sensibilità dalla francese Sophie Ristelhueber[12] che, dagli inizi degli anni Ottanta del XX secolo, ha portato avanti campagne fotografiche legate ai più importanti – e cruenti – conflitti, dal Libano alla prima guerra del Golfo, dove la Ristelhueber lavora dapprima nel 1991 con il progetto Fait, e successivamente agli inizi del nuovo Millennio. La devastazione di interi paesaggi, la desolazione dei luoghi dopo il passaggio fatale della guerra sono al centro dell’attenzione anche di Simon Norfolk. Nigeriano d’origine, nel 2001 ha seguito da vicino la guerra scoppiata in Afghanistan all’indomani dell’attentato del 11 settembre al World Trade Center di New York; interessato anche all’aspetto “pittorico” dei paesaggi fotografati, Norfolk ci presenta una visione singolare del conflitto, quasi romantica: «Le immagini […] descrivono il paesaggio con uno spirito simile a quello degli artisti europei dell’epoca romantica, che dipinsero il declino delle grandi civiltà»[13]. Al medesimo filone fotografico si possono ricondurre anche le opere realizzate dalla folta schiera di fotografi irlandesi e nordirlandesi – Willie Doherty, Anthony Haughey, Paul Seawright su tutti – impegnati, con stili e approcci differenti, a tracciare la storia di un conflitto, sia esso in Irlanda del Nord o nel “lontano” Afghanistan, con un uso allegorico e pittorico delle immagini, che pone questi artisti al di fuori del contesto documentario del fotogiornalismo[14]. A questi si possono aggiungere altri esempi; da Zarina Bhimji all’israeliano Ori Gersht, sino a Dinu Li, nativo di Hong Kong ma operante in Inghilterra, tutti hanno scelto di usare la macchina fotografica per immortalare l’assenza dell’uomo come allegoria dei tempi moderni[15].

Un approccio questo che non è sconosciuto ai fotografi italiani; due pugliesi in particolare sembrano preferirlo, Nicola Vinci e Aldo Grittani. Per entrambi, al di là di un’evidente originalità stilistica, il “luogo deserto” è la rappresentazione di qualcos’altro. In Vinci, che nella serie del 2010 Transfert si concentra sul ambienti e stanze abbandonate o svuotate, «i soggetti sono visioni trasposte, Transfert che raccontano, nell’assenza del soggetto, un ritratto dello stesso svolto attraverso luoghi dislocati nel tempo e nello spazio, ma il cui immaginario ci rimanda per metafora al protagonista»[16]; sono, dunque, la manifestazione eterea della

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personalità storica cui rimandano i titoli delle fotografia e, insieme, la descrizione metaforica della vacuità della società. Un’assenza – sinonimo del degrado culturale odierno – che si ritrova nella serie Il ritmo di un luogo qualunque, presentata nel 2013 da Aldo Grittani. Nella rappresentazione, concettuale e narrative, di un’abbandonata area “periurbana ai margini della città” di Bari c’è tutta l’intenzione di rendere tangibile la trasformazione ormai incontrollata della società contemporanea «che travolge e fa sparire le tracce […] del suo passato ignorando l’assunto secondo il quale non ci può essere futuro senza storia»[17], un cambiamento deleterio ormai evidente nella fotografia di un’assenza.

[1] Cfr. R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2003. [2] E. Grazioli, Prefazione, in R. Krauss, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 1996, p. VII. [3] Cfr. C. Cotton, Introduzione, in La fotografia come arte contemporanea, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2010, p. 15. [4] C. Cotton, Momenti della storia, in La fotografia come arte contemporanea, cit., p. 195. [5] Ivi, p. 201. [6] C. Marra, Scenari di fine secolo, in Fotografia e pittura nel Novecento (e oltre), Bruno Mondadori, Milano 2012, p. 257. [7] Sul fotografo malieno cfr. S. Keïta, Photographs, Bamako, Mali 1949–1970 by Seydou Keïta, Gerhard Steidl GmbH & Co. OHG, Göttingen 2011, e Seydou Keïta, a cura di André Magnin, Scalo, Zurigo 1997. Cfr. anche il sito www.seydoukeitaphotographer.com. [8] Su Goldblatt si veda il suo sito: www.davidgoldblatt.com. [9] C. Cotton, Introduzione, cit., p. 16. [10] Su Tayou cfr. la scheda di André Magnin, in Africa? Una nuova storia, cat. della mostra, a cura di id. e Olivier Souchard, Gangemi Editore, Roma 2009, p. 114; su Sheikh cfr. www.fazalsheikh.org. [11] Per maggiori informazioni sulla produzione fotografica di Chao si veda il sito www.chanchao.net. [12] Sulla fotografa francese cfr. Sophie Ristelhueber, a cura di Ann Hindry e Sophie Ristelhueber, Hazan Editeur, Parigi 1998. [13] C. Cotton, Momenti nella storia, cit. p. 200. Cfr. anche S. Norfolk, Afghanistan zero, Peliti Associati, Roma 2002, e il sito www.simonnorfolk.com. [14] Sul “gruppo” nordirlandese cfr. i siti internet: http://anthonyhaughey.com e www.paulseawright.com. Su Willie Doherty cfr. Willie Doherty: False Memory, cat. della mostra, a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, Caoimhín Mac Giolla Léith e id., Merrell Publishers Ltd, Londra 2002.

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[15] Sui questi fotografi si consiglia di visitare i loro siti, come www.zarinabhimji.com, o come www.dinuli.com. Su Ori Gersht cfr. invece Ori Gersht: History Repeating, cat. della mostra, a cura di Al Miner e Yoav Rinon, MFA Publications, Boston 2012. [16] S. A., Nicola Vinci. Transfert, in http://www.arte.go.it/eventi/2010/e_3342.htm. Cfr. anche il sito dell’artista, www.nicolavinci.it. [17] N. Zito, L’elogio ritmato di un luogo qualunque, in www.artsob.it. Nicola Zito è Dottore di Ricerca (Ph.D.) presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. Cultore della materia, collabora presso la Cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea. Nel 2013 ha pubblicato la monografia Il Ritorno all’Ordine. Pittura tra recupero e antimodernismo (Wip Edizioni, Bari), e il contributo Nascita di un’idea, storia di un percorso contenuto in Lino Sivilli. Classico-Agreste (Argonavis, Modugno). Ha contribuito con due saggi alla realizzazione del volume Centrosei. Storia di una Galleria (Adda, Bari 2012), a cura di Christine Farese Sperken. Nel 2010 è stato autore di Tina Laudati. Pittura e sentimento tra Parigi, Napoli e Altamura (in L’arte di Raffaele e Tina Laudati, A.B.M.C., Altamura), e Il futurismo di Ardengo Soffici (in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, Cacucci, Bari). Come curatore indipendente, nel 2012 ha collaborato all’allestimento di Ouverture. La Festa dell’Arte, al Museo Pino Pascali di Polignano a Mare, e, nel 2013, della retrospettiva La Collezione De Nittis: un dono alla Città, alla Pinacoteca “De Nittis” di Barletta. Sempre nello stesso anno ha curato la personale di Maria Grazia Carriero At home 1578, inserita nella rassegna Il Museo e il suo territorio - L’idea e la materia, project room a cura di Isabella Battista e Luna Pastore.

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