Trauma Series - Cultura del film e trauma studies nella serialità televisiva

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UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE SEDE DI BRESCIA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN FILOLOGIA MODERNA

TESI DI LAUREA Trauma series: cultura del film e trauma studies nella serialità televisiva

Relatore: Ch.mo Prof. Massimo Locatelli

Candidato: Francesco Ferrazzi Matricola N. 4411693

ANNO ACCADEMICO 2015/2016

SOMMARIO

Introduzione

VI

Parte prima - Il trauma e i trauma studies

1

Capitolo I: Il trauma

2

1. Definizioni di trauma

3

2. Il trauma nella cultura odierna. Tipologie a confronto: trauma primario e secondario, culturale e individuale

5

3. Come funziona? Il trauma sotto la lente delle neuroscienze

8

3.1. Il trauma nei due emisferi cerebrali

8

3.2. Fight, flight or freeze: dissociazione e depersonalizzazione

10

3.3. La teoria del cervello trino

14

3.4. Cortocircuiti cerebrali traumatici

15

4. Le neuroscienze oggi, la psichiatria ieri

17

Capitolo II: I trauma studies

19

1. Prime teorie mediche sul trauma psicologico

19

2. Teoria simulativa di Babinski vs teoria dissociativa di Charcot e Janet 20 3. Il trauma secondo Freud

22

4. Gli studi sul trauma dopo Freud

27

5. Gli anni Settanta e il Vietnam alle origini dei trauma studies

29

6. La scuola di Yale: la trauma theory negli studi umanistici

30

II

7. I problemi della teoria dissociativa e la loro soluzione nella teoria umanistica del trauma

33

8. Testimonianza e trauma theory

36

9. La rivoluzione neuroscientifica

38

10. Trauma & trauma theory: conclusioni

41

Parte seconda - Cinema, mente e trauma Capitolo III: Lo schermo e la mente: teorie del film a confronto

44 45

1. Cinema come shock percettivo

46

2. Cinema, analogia del meccanismo mentale: Bergson e Münsterberg

49

3. Cinema e psicoanalisi

54

4. Cinema e mente: il cognitivismo

58

5. Cinema come fatto percettivo: la fenomenologia

64

6. Lo studio delle emozioni sullo schermo e nello spettatore

69

7. Neuroscienze e neurofilmologia

75

8. Lo schermo e la mente: conclusioni

80

Capitolo IV: Trauma theory come teoria del cinema

83

1. Janet Walker e i primi studi sul trauma nel cinema

84

2. Rappresentabilità del trauma: il dibattito chiave sull’Olocausto

92

3. La ricezione spettatoriale della rappresentazione traumatica

100

4. Trauma theory e cultural studies: la teoria post-coloniale del trauma

105

5. Il trauma come categoria interpretativa del film

108

III

Parte terza - Serialità traumatiche

114

Capitolo V: La serialità televisiva

115

1. Breve storia della serialità, dall’industrializzazione alla televisione

115

2. Television studies, industria culturale e serialità televisiva

119

Capitolo VI: La serialità televisiva e il trauma

136

1. Orso Bianco, distopia traumatica: spunti sul trauma nelle serie tv

137

2. Trauma series vs trauma news: modelli narrativi a confronto

150

3. Narrazioni e rappresentazioni seriali del trauma

157

3.1. Ripetizioni seriali traumatiche: il caso Westworld

157

3.2. Trigger traumatici: il capocollo di Tony Soprano

162

3.3 Personalità traumatiche: Breaking Bad e simpatia per il diavolo

170

3.4 Incipit traumatici

176

3.5 Finali traumatici

183

4. Referenzialità traumatiche, fra disastri aerei e cambiamenti climatici

191

5. Il trauma come categoria interpretativa della serialità

201

Capitolo VII: La violenza sui minori nella serialità televisiva 1. I segreti di Twin Peaks

204 208

1.1 Chi ha ucciso Laura Palmer?

209

1.2 I segreti di Leland e Laura

214

1.3 Una narrazione surreale del trauma infantile

237

2. Broadchurch

239

2.1 Il cadavere sulla spiaggia

241

2.2 Un delitto che smaschera le apparenze

248

2.3 Il trauma come indagine antropologica seriale

260

IV

3. Stranger Things

262

3.1 Cose strane accadono fra le mura domestiche

264

3.2 L’infanzia violata di Undici

272

3.3 Una paranormale elaborazione del trauma infantile

281

Conclusione

285

Riferimenti bibliografici

295

Filmografia

306

V

Introduzione Nel presente lavoro intendiamo fornire un interessante punto di vista ed un innovativo spunto di ricerca per lo studio della serialità televisiva grazie all’ausilio della cosiddetta teoria del trauma. Essendo una teoria focalizzata principalmente su un unico tema, ovvero l’esperienza traumatica, non possiamo aspettarci da essa considerazioni universali, valide per qualsiasi esempio di testo filmico. La nostra tesi, infatti, si focalizzerà su un corpus di serie televisive, relativo alla tematica traumatica, che abbiamo nominato, per comodità espressiva, trauma series. Il nostro obiettivo è dare prova dell’utilità della trauma theory per la lettura non solo della realtà traumatica nella serialità televisiva, ma per l’analisi della serialità televisiva stessa. La teoria del trauma, infatti, anche se incentrata su tematiche relative all’esperienza traumatica, dimostra sia una spiccata multidisciplinarietà, sia la capacità di mettere in contatto dimensioni diverse, come la realtà storica, la memoria e la fantasia, ingaggiando un fertile dialogo fra testo e contesto, finzione ed attualità. Applicare la trauma theory alla serialità televisiva, inoltre, aiuta a nobilitare gli studi di un oggetto che, pur essendo degno di analisi per la sua vasta popolarità e diffusione, solo da poco tempo ha raggiunto una certa dignità accademica.

VI

Il nostro lavoro si articola in tre parti: l’ultima è rivolta esclusivamente allo studio della serialità televisiva e al tema delle trauma series, mentre le prime due parti gettano le fondamenta del discorso sul rapporto fra l’esperienza traumatica e l’audiovisivo. Il primo capitolo definisce il trauma attraverso una prospettiva psicologica e neuroscientifica, per comprendere come funziona l’esperienza traumatica e come essa possa influenzare la vita quotidiana. Nel secondo capitolo, invece, faremo un excursus storico dei trauma studies, dalle prime teorie mediche, passando per gli studi psicoanalitici di Freud, fino ad arrivare alla teoria del trauma applicata agli studi umanistici. Fra gli studi umanistici quello che a noi preme maggiormente indagare è ovviamente la cinematografia, per questo, nella seconda parte, ci dedicheremo al rapporto fra cinema e mente, per poi indagare la trauma theory relativa all’esperienza filmica. Nel terzo capitolo, quindi, approfondiremo in prospettiva storica le teorie del film che si sono susseguite a partire dall’origine del cinema fino ai più recenti indirizzi di studio, legati al cognitivismo, alla fenomenologia e alla neurofilmologia. In questo quadro filmologico inseriamo quindi la teoria del trauma cinematografica, a cui dedichiamo il capitolo centrale della nostra tesi. Esso infatti costituisce la principale base teorica per la nostra successiva analisi del rapporto fra trauma e serialità televisiva, nella terza parte: anche in questo caso avremo un iniziale approfondimento concettuale sul tema della serialità e sulla storia e la struttura delle serie televisive. Gli ultimi due capitoli, i più corposi, saranno quindi interamente dedicati alle trauma series: nel sesto capitolo vedremo le analogie fra la realtà del trauma e la narrazione seriale, osservando anche in che modo e attraverso quali espedienti la serialità televisiva abbia rappresentato e continui a rappresentare l’esperienza traumatica, attraverso numerosi esempi tratti da serie tv che hanno fatto la storia recente del piccolo

VII

schermo. Infine, l’ultimo capitolo, il settimo, offrirà un percorso di studi dal taglio tematico, prendendo in esame tre serie televisive accomunate dal tema della violenza sui minori. Un argomento impegnativo, quest’ultimo, che ci aiuta a capire come la serialità televisiva riesca ad affrontare temi anche assai complessi e traumatici, che costituiscono un tema di studio ottimale per la trauma theory.

VIII

Parte prima

Il trauma e i trauma studies

Capitolo I

Il trauma In questo lavoro intendiamo indagare i rapporti fra l’esperienza traumatica e l’audiovisivo, con particolare riferimento alla serialità televisiva. Per farlo, occorrerà fornire una panoramica sul trauma, le sue caratteristiche, il suo valore storico, i suoi studi e la loro importanza nelle discipline mediche, psicologiche e soprattutto umanistiche. Innanzitutto dobbiamo riconoscere il trauma come fattore caratterizzante della modernità, così come, parallelamente, dobbiamo affermare che il cinema, la forma d’arte di più recente invenzione (1895), ha segnato significativamente l’immaginario moderno. Il fatto che i primi studi psichiatrici sul trauma e la scoperta dei Lumière siano databili nello stesso periodo, inoltre, è una fortunata quanto felice coincidenza, per il nostro studio. La storia moderna è contraddistinta da molteplici traumi, dall’industrializzazione all’avanzata tecnologica, dalla nascita delle metropoli e della società di massa, alle guerre, sempre più spietate e globali, con una conseguente «intensificazione della vita emozionale, dovuta alla velocità e al continuo cambiamento di stimoli interni ed esterni percepiti»1 - così scriveva il filosofo Georg Simmel già nel 1900,

1

G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma 1995, p. 36.

2

riferendosi alle stimolazioni eccessive, e per questo traumatiche, della modernità (e in particolare facendo riferimento all’esperienza della metropoli). L'uomo moderno convive con realtà traumatiche ogni giorno ed in particolare, a partire dal Novecento, la problematica del trauma e l'attenzione posta su di esso si sono fatte sempre più accese. Proprio per questo, a partire a tutti gli effetti dagli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso è sorta un'area di studi umanistici dedicata appositamente al trauma, quella appunto dei trauma studies, che ha le sue radici nelle denunce femministe negli anni Settanta rispetto alle violenze domestiche dei reduci del Vietnam e agli abusi sui minori. Ma le teorie sul trauma possono essere fatte risalire ancor più indietro, nei primi studi psicologici sulle nevrosi e sulle malattie mentali, a partire da quelli di Charcot e Janet fino ai più celebri, quelli del padre della psicanalisi, Sigmund Freud. Prima di addentrarci in un excursus storico dei trauma studies, cerchiamo però di spiegare cos'è un trauma, come funziona e perché sentiamo la necessità di studiarlo sempre più approfonditamente e attraverso prospettive e campi di studio sempre più vari, che non riguardano esclusivamente la mera psicologia ma si rivolgono anche al recente campo di studio delle neuroscienze e alla più ampia metodologia culturalista.

1. Definizioni di trauma L’enciclopedia riporta diverse accezioni del termine trauma. Quelle che più ci interessano fanno riferimento alla sfera psicologica:

a. In psicologia e in psicanalisi, trauma psichico, turbamento dello stato psichico prodotto da un avvenimento dotato di notevole carica emotiva. b. estens. e fig. Grave alterazione del normale stato psichico di un 3

individuo, conseguente a esperienze e fatti tristi, dolorosi, negativi, che turbano e disorientano.2

Vediamo, in questa prima definizione, come il trauma sia una dinamica psichica3, un evento psicologico che mina l'integrità mentale dell'individuo. L’enciclopedia della psicanalisi ci fornisce una definizione ancora più ricca del trauma psichico:

Evento nella vita del soggetto definito attraverso la sua intensità, attraverso l’incapacità del soggetto di rispondere adeguatamente ad esso, e attraverso il turbamento e gli effetti duraturi che esso riporta all’interno della sua organizzazione psichica.4

Prendendo filologicamente spunto dall'origine greca della parola, possiamo visualizzare concretamente il trauma come una vera e propria ferita (questa è la traduzione del termine greco τραῦμα) nella mente, nell'anima e nel corpo dell'individuo. Una ferita dolorosa, che può essere inflitta da accadimenti esterni o rievocata da eventi interiori che alterano il normale stato mentale della persona e che hanno ripercussioni concrete anche sulla pelle, sulle sensazioni fisiche e corporee dell'individuo traumatizzato.5 Importantissimo è quindi il legame del trauma con la memoria: l'episodio traumatico non agisce solo nel momento in cui colpisce direttamente la persona traumatizzata, ma perseguita successivamente il soggetto, che spesso continua così a rivivere la propria esperienza traumatica:

2

Dall'Enciclopedia Treccani Online. Teniamo però presente anche l'uso che la medicina generalista fa del termine, per quanto riguarda, ad esempio, il trauma cranico ecc. 4 J. Laplanche - J.B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 618. 5 Illuminante, in questo senso, è il titolo (e tutto il testo) del recente saggio del noto medico olandese Bessel van der Kolk: The Body Keeps the Score. 3

4

«trauma is not just an event that took place sometime in the past; it is also the imprint left by that experience on mind, brain, and body»6. Il trauma non è dunque solo ferita, ma cicatrice, nel corpo e nella mente, continuamente pronta a riaprirsi.

2. Il trauma nella cultura odierna. Tipologie a confronto: trauma primario e secondario, culturale e individuale Un individuo può subire in prima persona un trauma provocato da un infortunio, da una forte delusione, da un lutto, da una violenza, da un abuso, ecc. In questo caso, parleremo di trauma primario. Esiste però anche una seconda categoria di traumi, legata all'esperienza di tale condizione: è il cosiddetto trauma vicario7 o secondario. Questa tipologia di trauma, studiata in un primo tempo nell’ambito della risposta dei terapisti al racconto dei traumi dei propri pazienti psicanalizzati, consiste in un cambiamento in negativo degli schemi cognitivi in colui che svolge una professione d’aiuto, come quella del terapista, che deriva dal coinvolgimento empatico con le esperienze traumatiche dei pazienti. Questo tipo di trauma, a livello neurologico, coinvolge la corteccia cerebrale, l’area cognitiva del cervello. Una delle principali differenze fra trauma primario e trauma vicario è proprio che mentre il primo potrebbe non avere un’elaborazione cognitiva, il trauma secondario prevede sempre uno stato di coscienza nel soggetto traumatizzato. Il trauma vicario, inoltre, non colpisce solo il terapista, ma anche lo spettatore di storie o film che esibiscono traumi. Anche lo spettatore, come il terapista, (generalmente) rimane cosciente

6

B. van der Kolk, The Body Keeps the Score: Brain, Mind, and Body in the Healing of Trauma, Viking, New York 2014, p. 26. 7 Il trauma secondario è stato concettualizzato nell’ambito della Teoria Costruttivista dello Sviluppo del Sé da I. Lisa McCann e Laurie Ann Pearlmann: cfr. I.L. McCann - L.A. Pearlmann, Vicarious traumatization: A framework for understanding the psychological effects of working with victims, «Journal of Traumatic Stress» v. 3, n. 1, gennaio 1990, pp. 131-149.

5

nella situazione di visione mediata sullo schermo, e si può dire che oggi la maggior parte delle persone incontra proprio attraverso la rappresentazione mediatica i traumi delle catastrofi. Le possibilità di avere a che fare con la condizione traumatica, nella vita quotidiana, sono molto elevate per tutti noi, sia per quanto concerna la possibilità di vivere un trauma primario, sia per quanto sia possibile quotidianamente, oggigiorno, attraverso i media generalisti, assistere alle più diverse realtà traumatiche. La condizione traumatica è condivisa da tutta l'umanità, sia pur con differenze da persona a persona, da luogo a luogo, da Paese a Paese: la civiltà occidentale odierna tende a mascherare e a rimuovere dalla pubblica piazza la dimensione traumatica della vita, anche se i numerosi attentati che in questo periodo stanno insanguinando l'Europa hanno inevitabilmente riportato a galla traumi culturali forse sopiti ma mai veramente superati, a partire dall'attacco alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001, per risalire poi addietro fino al trauma storico delle Guerre Mondiali, dell'Olocausto, e ancora altri terribili eventi storici potremmo citare. Le strategie mediatiche, o almeno, la maggior parte di esse (si notino numerosi esempi nei telegiornali) che ci informano di tali fatti bellici, catastrofici o di sangue, però, con la loro quotidiana raffica di immagini tragiche, corredate spesso da colonne sonore enfatiche e descrizioni iperboliche, intendono, più che informare realmente, suscitare una reazione empatica nello spettatore, proponendo solo frammenti di una grande e complessa situazione di cui il pubblico può conoscere ben poco, senza riuscire a creare una narrazione coerente (e veritiera, per

6

quanto possibile).8 In questo caso parliamo di empty empathy9, empatia vuota: una reazione empatica suscitata nello spettatore da immagini di sofferenza offerte senza alcuna conoscenza di contesto o sfondo culturale-informativo. Tale tipo di empatia difficilmente permette allo spettatore di essere mosso nel profondo da scrupoli caritatevoli o di giustizia sociale. Isolata in riprese di violenza e morte, l’immagine possiede un impatto che provoca una reazione empatica troppo breve, che si perde forzatamente a lungo termine, non essendo supportata da una reale e approfondita conoscenza dei fatti. Quando parliamo di trauma, però, non dobbiamo pensare solo al trauma culturale dovuto alla guerra, a catastrofi naturali o a particolari situazioni storiche di discriminazione (si vedano situazioni come l'Olocausto, così come le lotte per i diritti civili degli afroamericani, così come l'Apartheid sudafricana e molti altri innumerevoli casi). Una condizione traumatica individuale può colpire la persona segnata da accadimenti personali, privati, come l'abbandono, la perdita di una persona cara, la malattia, delusioni amorose o lavorative, la depressione, la violenza, gli abusi, ecc. Il trauma può appartenere infatti ad una sfera più ampia, storica-culturale, ma anche a quella privata-individuale, legata alla microstoria della persona, alle sue emozioni e ai suoi turbamenti. Un trauma dunque legato al rapporto dell'individuo con l'interiorità, con la famiglia o con gli altri. Queste due sfere, storica-culturale da una parte, individuale dall'altra, non sono certo separate e anzi, spesso si

8

A proposito della frammentarietà delle immagini diffuse dai media, nonché dell’indistinzione fra documento e finzione, risulta interessante il confronto con le posizioni di Pietro Montani, in L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Bari 2010. 9 Cfr. E. A. Kaplan, Trauma Culture: The Politics of Terror and Loss in Media and Literature, Rutgers University Press, New Brunswick 2005, pp. 87-101.

7

incontrano e si intrecciano nella dolorosa condizione traumatica dell'individuo, colpito, per esempio, dalla perdita di una persona cara in guerra. Ora che abbiamo visto qualche definizione scientifica e culturale degli eventi traumatici, possiamo addentrarci nell’indagine sul funzionamento del trauma, osservando i relativi meccanismi da un punto di vista scientificamente più complesso e, è proprio il caso di dirlo, cerebrale.

3. Come funziona? Il trauma sotto la lente delle neuroscienze 3.1 Il trauma nei due emisferi cerebrali Negli anni Novanta gli strumenti di imaging del cervello hanno portato a conoscenza di numerose dinamiche cerebrali innescate dal processo traumatico. È noto che il nostro cervello può essere diviso in due grandi aree: l’emisfero destro e quello sinistro. Il primo è «intuitive, emotional, visual, spatial and tactual», mentre il secondo è «linguistic, sequential, and analytical»10. L’emisfero sinistro «remembers facts, statistics, and the vocabulary of events», mentre quello destro «stores memories of sound, touch, smell, and the emotions they evoke. It reacts automatically to voices, facial features, and gestures and places experienced in the past»11. Normalmente, in situazioni ordinarie, le due aree del cervello collaborano senza difficoltà, accendendosi e spegnendosi vicendevolmente. Le scansioni cerebrali di pazienti sottoposti a rievocazione del proprio trauma hanno però rivelato che, durante l’esperienza traumatica, solo l’emisfero destro si illumina (ovvero, è in

10

B. van der Kolk, The Body Keeps the Score, p. 44. Ibidem.

11

8

funzione), mentre l’emisfero sinistro, quello logico-razionale, si disattiva completamente.

Deactivation of the left hemisphere has a direct impact on the capacity to organize experience into logical sequences and to translate our shifting feelings and perceptions into words. [...] Without sequencing we can’t identify cause and effect, grasp the long-term effects of our actions, or create coherent plans for the future. People who are very upset sometimes say they are “losing their minds.” In technical terms they are experiencing the loss of executive functioning.12

L’esperienza traumatica, dunque, seppur passata, è una continua minaccia per il presente e il futuro del soggetto traumatizzato, inscritta com’è nel suo cervello, nella sua mente e nel suo corpo. La normale capacità logica della persona è compromessa, il ricordo non presenta

Trauma is not stored as a narrative with an orderly beginning, middle, and end. [...] memories initially return as [...] as flashbacks that contain fragments of the experience, isolated images, sounds, and body sensations that initially have no context other than fear and panic.13

È come se il ricordo traumatico fosse sempre disponibile, sempre pronto a essere rievocato e rivissuto. Per questo potremmo quasi dire che non è propriamente un ricordo, ma un esperire nuovamente la stessa condizione traumatica:

12

Ibidem. Ivi, p. 118.

13

9

When something reminds traumatized people of the past, their right brain reacts as if the traumatic event were happening in the present. But because their left brain is not working very well, they may not be aware that they are reexperiencing and reenacting the past—they are just furious, terrified, enraged, ashamed, or frozen. After the emotional storm passes, they may look for something or somebody to blame for it.14

3.2 Fight, flight or freeze: dissociazione e depersonalizzazione Dopo un trauma, il sistema nervoso subisce una profonda modificazione: il soggetto traumatizzato appare in un costante stato di allerta, impegnato a reprimere ogni minaccia che gli si possa presentare. Questa nevrotica smania di controllo sulle proprie reazioni fisiologiche causa nell’individuo colpito da trauma un enorme stress emotivo e fisico. Il soggetto traumatizzato, per sottrarsi alle minacce, se non riesce a trovare un luogo sicuro ed un contatto con persone che possano offrirgli il proprio aiuto, utilizza tre possibili reazioni, contraddistinte in lingua inglese dall’iniziale “f”: fight (affrontare); flight (scappare); freeze (bloccarsi). Il compito più importante del nostro cervello è infatti di garantirci la sopravvivenza, in qualsiasi tipo di situazione, e per farlo ha bisogno di:

(1) generate internal signals that register what our bodies need, such as food, rest, protection, sex, and shelter; (2) create a map of the world to point us where to go to satisfy those needs; (3) generate the necessary energy and actions to get us there; (4) warn us of dangers and

14

Ivi, p. 45.

10

opportunities along the way; and (5) adjust our actions based on the requirements of the moment. And since we human beings are mammals, creatures that can only survive and thrive in groups, all of these imperatives require coordination and collaboration.15

I problemi per la nostra integrità psico-fisica avvengono quindi quando il cervello non riesce a segnalare i nostri bisogni, a indicarci come e dove poterli soddisfare, creando uno stato di paralisi che mina anche la nostra capacità di relazione con gli altri, serrandoci in un pericoloso isolamento. Per superare la condizione traumatica sono infatti fondamentali le relazioni. L’uomo è un animale sociale e l’appartenenza ad un gruppo di persone e il contatto con gli altri gli permettono di crearsi un habitat sicuro. Le relazioni sociali, a livello neurologico, dipendono da un fascio di nervi che corre lungo tutto il nostro corpo e che ha origine nel tronco cerebrale, il cosiddetto nervo vago o pneumogastrico. È la principale rete che trasporta gli impulsi cerebrali attraverso il nostro corpo; attiva i muscoli della faccia e della gola, le corde vocali e le orecchie, ci permette di sorridere, annuire, piangere; inoltre invia i segnali nervosi al cuore, allo stomaco, ai polmoni e all’intestino, aiutando a regolare il battito cardiaco, la respirazione e la digestione. Quando il nostro cervello avverte un pericolo, è questo sistema nervoso che trasporta l’informazione istantaneamente in tutto il corpo, preparando il nostro fisico a reagire al trauma attraverso la ricerca di aiuto in un contatto con gli altri, la fuga o il combattimento. La mente del soggetto traumatizzato, in alcuni casi, però, può bloccarsi di fronte al riemergere della situazione traumatica. Tale condizione

15

Ivi, p. 53.

11

viene definita depersonalizzazione: il cervello diventa una tabula rasa e non invia più alcun impulso, quindi anche il corpo subisce un drastico congelamento, essendo inibita la conduzione delle informazioni attraverso il nervo vago. Non tutte le persone reagiscono allo stesso modo: la depersonalizzazione e la dissociazione sono due delle reazioni traumatiche più ricorrenti e significative nei soggetti colpiti fortemente dall’esperienza traumatica.

Dissociation is the essence of trauma. The overwhelming experience is split off and fragmented, so that the emotions, sounds, images, thoughts, and physical sensations related to the trauma take on a life of their own. The sensory fragments of memory intrude into the present, where they are literally relived. As long as the trauma is not resolved, the stress hormones that the body secretes to protect itself keep circulating, and the defensive movements and emotional responses keep getting replayed.16

I ricordi dissociati, tracce frammentate e isolate, non registrate correttamente nell’area cerebrale della memoria, innescano un processo traumatico in cui il soggetto, inconsciamente, rivive e ripete le sensazioni e le emozioni provate nel trauma originario, di cui l’individuo non possiede una memoria consapevole. Le aree cognitive del cervello sono bloccate e il soggetto traumatizzato perde il senso del tempo, rimanendo intrappolato in un istante. Le persone colpite da una reazione dissociativa al trauma

16

Ivi, p. 61.

12

are unable to put the actual event, the source of those memories, behind them. Dissociation prevents the trauma from becoming integrated within the conglomerated, ever-shifting stores of autobiographical memory, in essence creating a dual memory system. Normal memory integrates the elements of each experience into the continuous flow of self-experience by a complex process of association; [...] But [nel caso di una memoria traumatica], the sensations, thoughts, and emotions of the trauma were stored separately as frozen, barely comprehensible fragments.17

Quando la nostra mente attiva inconsciamente un ricordo traumatico, le reazioni del nostro cervello, come abbiamo visto, possono essere la lotta, che si presenta in atteggiamenti aggressivi nei confronti degli altri o di se stessi, la fuga e l’ottundimento della coscienza e delle emozioni. Mentre la lotta e la fuga sono tipici di uno stato dissociato, l’ultimo caso, il più estremo, quello del freezing emotivopercettivo, ci segnala che siamo in presenza della cosiddetta depersonalizzazione. Lo psicanalista tedesco Paul Schilder già nel 1928 descriveva così tale condizione:

To the depersonalized individual the world appears strange, peculiar, foreign, dream-like. Objects appear at times strangely diminished in size, at times flat. Sounds appear to come from a distance. [...] The emotions likewise undergo marked alteration. Patients complain that they are capable of experiencing neither pain nor pleasure. [...] They have become strangers to themselves.18

17

Ivi, p. 152. P. Schilder, Depersonalization in «Introduction to a Psychoanalytic Psychiatry», no. 50, International Universities Press, New York 1928, p. 120, cit. in B. van der Kolk, The Body Keeps the Score, p. 90.

18

13

La persona perde così ogni contatto con le proprie sensazioni corporee e con le proprie emozioni: quasi ogni parte del cervello non mostra alcuna attività, non è sintonizzata, e ovviamente così il soggetto traumatizzato non può pensare, provare emozioni, ricordare, o dare senso a ciò che gli sta accadendo. La depersonalizzazione è un potente e invasivo sistema difensivo del cervello, che in questo modo evita di avere a che fare nuovamente con ricordi e sensazioni spiacevoli e insopportabili, ma così facendo elimina anche ogni percezione e ogni emozione che vive nel presente.

3.3 La teoria del cervello trino Per comprendere più approfonditamente le dinamiche traumatiche, occorre fare un nuovo focus sul nostro cervello: esso è divisibile non soltanto per emisferi, come abbiamo precedentemente inteso, ma anche per livelli, secondo la teoria di Paul MacLean del cervello trino.19 Il livello più profondo, ovvero la nostra parte più primitiva, è il cosiddetto cervello rettiliano, situato nel tronco cerebrale; è lui che dirige i nostri bisogni e istinti fondamentali, fin da quando siamo in fasce. Il cervello rettiliano, inoltre, è responsabile del blocco traumatico, del collasso, dell’incapacità di rispondere al trauma presente nell’individuo depersonalizzato. Sopra al cervello rettiliano troviamo il sistema limbico, conosciuto anche come il cervello mammifero, perché presente in tutti gli animali che vivono in gruppo e allattano la propria prole; è l’area deputata alle emozioni, al controllo dei pericoli,

19

Cfr. P.D. MacLean, Evoluzione del cervello e comportamento umano. Studi sul cervello trino, Einaudi, Torino 1984.

14

al giudizio di cosa può (o non) arrecare piacere, a lui spetta decidere cosa sia meglio fare per la nostra sopravvivenza, ed è inoltre fondamentale per le nostre relazioni. Al sistema limbico dobbiamo anche il meccanismo di fuga o combattimento che ci si presenta di fronte ad un evento traumatico. Il terzo livello, il neo-cortex, è il nostro cervello razionale, in cui si trovano i lobi frontali, caratteristici della specie umana, che ci rendono capaci di parlare e pensare a concetti astratti, di assimilare una enorme mole di informazioni e assegnare loro uno specifico significato. Il cervello rettiliano e il sistema limbico, insieme, formano il cervello emotivo20 (in contrasto con quello razionale del neo-cortex). Proprio il cervello emotivo guida i processi di fuga, scontro o blocco nei confronti del trauma, come abbiamo visto. Questa è un’ulteriore conferma che l’esperienza traumatica, dunque, ha poco a che vedere con la nostra razionalità e capacità logico-sequenziale, per questo troviamo difficoltà nel narrare un evento traumatico.

3.4 Cortocircuiti cerebrali traumatici Indagando sul nostro cervello, troviamo diverse altre aree degne di nota, soprattutto per quanto riguarda il nostro discorso sulle esperienze traumatiche e le situazioni di pericolo: situato nel sistema limbico, il talamo raccoglie gli impulsi derivati dalle nostre percezioni e li organizza nella nostra memoria; gli impulsi viaggiano dunque lungo due diverse direzioni, giù fino all’amigdala, nel punto più profondo del sistema limbico, nel cervello inconscio, o su fino ai lobi frontali, nella parte invece più consapevole del nostro cervello.21

20

Cfr. D. Servan-Schreiber, Guarire. Una nuova strada per curare lo stress, l'ansia e la depressione senza farmaci né psicanalisi, Sperling & Kupfer, Milano 2005. 21 Cfr. B. van der Kolk, The Body Keeps the Score, p. 56.

15

L’elaborazione che mette in atto il talamo, però, in particolari situazioni di pericolo e a seconda della reazione della persona, può fallire e bloccarsi, formando così frammenti di ricordi, sensazioni sconnesse, che interrompono il corretto funzionamento della nostra memoria. L’arresto delle funzioni del talamo

explains why trauma is primarily remembered not as a story, a narrative with a beginning middle and end, but as isolated sensory imprints: images, sounds, and physical sensations that are accompanied by intense emotions, usually terror and helplessness.22

Il compito principale dell’amigdala, denominata argutamente smoke detector, segnalatore di fumo, da van der Kolk,23 è quello di riconoscere automaticamente e rapidamente gli impulsi fondamentali per la nostra sopravvivenza. Se l’amigdala percepisce una minaccia, invia le informazioni rapidamente all’ipotalamo e al tronco cerebrale, i quali attivano il sistema ormonale dello stress e il sistema nervoso autonomo per dirigere una risposta del corpo al pericolo. L’amigdala riceve le informazioni dal talamo più velocemente rispetto ai lobi frontali, è per questo che distinguiamo una situazione pericolosa da una innocua ancor prima di esserne coscienti. I lobi frontali, però, e in particolare la corteccia prefrontale mediale al loro interno, permettono di capire se quello segnalato sia un falso allarme, e in questo caso garantiscono il ritorno del soggetto ad una condizione di quiete. Quando però tale sistema di controllo non funziona, prevale l’istinto dell’amigdala. Essa rilascia così potenti ormoni da stress, come l’adrenalina, che alzano il battito cardiaco, la pressione sanguigna, la respirazione, preparando il corpo per la fuga o

22

Ivi, p. 65. Cfr. ivi, p. 57.

23

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il combattimento. Una volta scampato il pericolo, il corpo ritorna alla normalità. Il soggetto traumatizzato, però, che non ha risolto la propria condizione traumatica poiché non è riuscito a rispondere adeguatamente alla minaccia, vive in uno stato di continua tensione ed allerta, non riuscendo a distinguere fra situazioni inoffensive e pericolose. Il processo traumatico non influisce solamente sull’elaborazione dell’intensità emotiva, rispettivamente attraverso l’amigdala e la corteccia prefrontale mediale, ma altera anche la corretta comprensione mentale del significato e del contesto in cui avviene una situazione, inibendo, in particolare, la corteccia prefrontale dorsolaterale e l’ippocampo. La corteccia prefrontale dorsolaterale indica infatti come il nostro presente si relaziona alle esperienze passate e come può influenzare il futuro - van der Kolk la definisce brillantemente timekeeper, cronometrista.24 Tale parte del nostro cervello ci dice quindi quando un’esperienza comincia e quando finisce, rendendo tollerabili anche gli eventi dolorosi, proprio perché prima o poi sappiamo che avranno una fine. In una condizione traumatica, però, tale meccanismo non funziona, per questo il vivere appare intollerabile, legato ad un evento passato che però non viene sentito come tale, perché si continua a riviverne le sensazioni.

4. Le neuroscienze oggi, la psichiatria ieri In questo primo capitolo, utile per gettare le prime basi teoriche sull’argomento, abbiamo visto varie definizioni e tipologie di trauma. Abbiamo potuto scoprire il funzionamento di questa particolare condizione di vita, quella traumatica, che riguarda le nostre esperienze quotidiane, indagando le risposte al trauma di corpo,

24

Cfr. ivi, p. 64.

17

cervello e mente - saldamente uniti in questa particolare esperienza - attraverso il fondamentale contributo dei recenti studi neuroscientifici. Prima di queste scoperte neuroscientifiche, però, bisogna sapere che c’è stato il lavoro di diversi psicanalisti sul trauma, sulle sue cause e le sue conseguenze. Uno studio psicologico, questo, che per primo ha fatto luce sulle problematiche e sulle dinamiche del processo traumatico e che ha aperto la strada alla più ampia categoria dei trauma studies, come vedremo nel prossimo capitolo.

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Capitolo II

I Trauma Studies 1. Prime teorie mediche sul trauma psicologico La psichiatria, nonostante il merito di aver portato a galla le problematiche del trauma, ha avuto nella sua storia di studi numerosi dubbi circa l'importanza e la rilevanza che, a livello psicologico, potesse avere un singolo episodio traumatico nell'influenzare l'intera vita e la psiche di una persona. Herman Oppenheim fu il primo a studiare la nevrosi traumatica, nel 1899, analizzando in particolare i casi di astenia neuro-circolatoria25 di cui erano vittima i soldati in guerra. Far risalire tale nevrosi ad un problema fisico (la malformazione cardiaca) era una buona trovata delle autorità militari per preservare la dignità dei soldati e giustificare i frequenti crolli psicologici al fronte. Tuttavia tale inquadramento del trauma come malattia fisica lasciò ben presto a desiderare. Diversi problemi non risolvibili apparivano nella definizione del trauma, incertezze che non permettevano di individuare tale condizione come l’episodio traumatico

25

«Astenia neuro-circolatoria: Sindrome polimorfa, caratterizzata da una incapacità ad eseguire sforzi fisici, mentre il sistema cardio-vascolare non presenta alcuna lesione manifesta. Si osserva soprattutto nei giovani tra i 20 ed i 30 anni, che lamentano facile affaticabilità con palpitazioni, lipotimie, dispnea, sudorazioni e dolori precordiali. Sembra sia dovuta a disturbi della regolazione del flusso cardiaco e della distribuzione del volume ematico ai diversi organi; queste anomalie sono di origine neurovegetativa e sono favorite dalla sedentarietà, allettamento, stress fisico e psichico». Definizione presente nel glossario medico online di www.dica33.it.

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stesso o l'interpretazione di tale evento da parte del soggetto traumatizzato. Anche circa l'origine della nevrosi traumatica esistevano diversi dubbi. In particolare non si riusciva a capire se fosse il trauma stesso a causare la nevrosi o se esistessero vulnerabilità preesistenti nella persona che arrivavano a causare tale disordine mentale. Solamente dopo aver analizzato i casi di soldati non esposti direttamente a conflitti bellici si intuì che la causa del trauma di guerra potesse essere meramente mentale, dettata dalle emozioni del soldato. Ma la politica voleva insabbiare l’imbarazzante notizia di questi ripetuti casi di traumi nei ranghi dell’esercito, ed ebbe in questo un aiuto dalla letteratura scientifica medica, che non si interessò dell’argomento per diverso tempo.26 Fu solo Charles Samuel Myers, psichiatra militare inglese a cui dobbiamo la definizione di shell shock (nevrosi da granata), a sostenere, nel 1915, che lo stato emotivo dei soldati, da solo, potesse spiegare la loro nevrosi traumatica. Myers, inoltre, individuò numerose somiglianze fra la nevrosi da guerra e l'isteria, abbracciando quel percorso di ricerca in cui si erano già affermate importanti scoperte di Jean-Martin Charcot e Pierre Janet nel famoso ospedale parigino Salpêtrière.

2. Teoria simulativa di Babinski vs teoria dissociativa di Charcot e Janet Il neurologo francese Jean-Martin Charcot, nel 1887, ipotizzò che l’origine dell’isteria fosse traumatica e che tale trauma determinasse nel paziente uno stato simile all’ipnosi. Aveva così rivelato un problema dissociativo nel soggetto traumatizzato, incapace di assimilare l’intollerabile esperienza vissuta. Le idee di Charcot, però, non ebbero subito grande successo: prevalse, infatti, la teoria

26

Cfr. B. van der Kolk, The Body Keeps the Score, p. 156.

20

simulativa di Joseph Babinski, la più accreditata dal 1905 fino alla seconda guerra mondiale. Babinski aveva interpretato l’isteria, e così anche la nevrosi da guerra, come un problema esclusivamente neurologico, non indotto da traumi ma da dinamiche di tipo suggestivo. La nevrosi da guerra veniva trattata allora non come un trauma, ma come un meccanismo di simulazione causato da un problema di disfacimento della forza di volontà del soldato27. La teoria dissociativa di Charcot venne comunque ripresa dal suo allievo, Pierre Janet, negli studi sul carattere dissociativo degli episodi isterici. Il trauma psicologico è un evento che risulta non integrabile nel sistema psichico pregresso della persona, minacciando di frammentare la coesione mentale. Questa è la definizione di trauma che viene data dallo psicologo francese nel suo studio sull'isteria, verso la fine dell'Ottocento28. Janet infatti individuò nell’origine traumatica dell’isteria dei propri pazienti un problema di dinamiche mnemoniche: i loro ricordi traumatici non erano stati categorizzati e assimilati adeguatamente a causa del forte urto emotivo dovuto al trauma subito. Si verificava così un processo dissociativo che rendeva latenti i ricordi del trauma, trasformandoli in ossessioni dell’inconscio che continuano a turbare la condizione psico-fisica del soggetto traumatizzato. I pazienti, posti da Janet di fronte a situazioni che rievocavano i loro traumi, rispondevano con una reazione adeguata all’originale trauma, dimostrando di non aver acquisito la capacità di adattarsi a tale minaccia proprio perché essi avevano subìto un processo dissociativo della memoria traumatica. Janet ipotizzò (e Freud confermò successivamente) che tale mancanza di adattamento avesse provocato

27

Cfr. ivi, p. 67. Cfr. P. Janet, Ètat mental des hysteriques, Parigi 1893.

28

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una situazione non solo di stallo nei pazienti, ma anche di affezione (fissazione la definirà Freud) per la situazione traumatica subita, che essi tendevano dunque a ripetere: non più in grado di integrare i ricordi traumatici, avevano dimenticato anche la capacità di assimilare nuove esperienze, come se la loro personalità si fosse fermata, in un momento, definitivamente, senza potersi più espandere aggiungendo o assimilando nuovi elementi.29 Nel suo studio su L’automatismo psicologico30 Janet individuò alla base delle nevrosi l’esperienza delle emozioni veementi: dopo aver subìto un trauma, le persone continuano a ripetere un certo genere di azioni, sensazioni ed emozioni (veementi, per l’appunto) collegati all’esperienza traumatica. Il soggetto dissociato appare così bloccato nel tempo, incapace di archiviare ordinatamente nella propria memoria il trauma e continuamente alle prese con i suoi echi e le sue ripetizioni inconsce.

3. Il trauma secondo Freud Anche il lavoro di Janet, nonostante il successo riscosso sui propri contemporanei, cadde presto nel dimenticatoio. Freud, però, che era stato in visita alla Salpêtrière proprio negli anni in cui vi esercitava la propria professione Charcot, alla fine del 1885, studiò e fece proprie le idee dei due medici francesi. Il padre della psicanalisi, sulla scia di Janet, nei primi anni Novanta dell’Ottocento vide nella teoria dissociativa la principale risposta ai casi di isteria: gli isterici, secondo Freud, soffrivano delle reminiscenze dei propri traumi ed erano legati e fortemente condizionati dai propri episodi traumatici - questa è la cosiddetta teoria della seduzione freudiana. La forza d’urto del trauma veniva ricondotta da Freud e dal

29

Cfr. P. Janet, La passione sonnambulica e altri scritti, Liguori, Napoli 1996. Idem, L’automatisme psychologique, Félix Alcan, Paris 1889.

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collega Joseph Breuer alla capacità dell’evento traumatico di attivare un processo dissociativo attraverso meccanismi di rimozione o amnesia, definendo ipnoide tale forma di isteria:

these memories, unlike other memories of their past lives, are not at the patients’ disposal. On the contrary, these experiences are completely absent from the patients’ memory when they are in a normal psychical state, or are only present in a highly summary form.31

Freud però cominciò ad allontanarsi dopo pochi anni dalla teoria della dissociazione, prima elaborando la propria teoria sessuale infantile, in base alla quale l’isteria sarebbe stata causata non necessariamente da traumi, ma da fantasie represse. Successivamente, arrivato all’idea di isteria di difesa, abbandonò la teoria dissociativa come unica soluzione dei casi isterici e affermò definitivamente che le nevrosi dei pazienti derivavano da desideri istintivi repressi.32 La sessualità infantile repressa diventava così la prima risposta al problema dell’isteria e Freud sospese, per il momento, gli interessi prima mostrati sulla teoria dissociativa e sul trauma: «il trauma della vita vera venne in quel periodo ignorato a favore della fantasia».33 Con l’inizio della prima guerra mondiale, però, l’attenzione di Freud ritornò sui traumi della psiche: il padre della psicanalisi riprese la teoria della fissazione e gli

31

J. Breuer - S. Freud, The Physical Mechanisms of Hysterical Phenomena, citato in B. van der Kolk, The Body Keeps the Score, p. 153. 32 Cfr. A. Buonauro, Trauma, cinema e media. Immaginari catastrofici e cultura visuale del nuovo millennio, Bulzoni, Roma 2014, p. 26. 33 B. van der Kolk – L. Weisaeth – C. McFarlane, Traumatic Stress: The effects of overwhelming experience on mind, body and society, Guilford Press, New York 1996. Trad. it. Stress traumatico. Gli effetti sulla mente, sul corpo e sulla società delle esperienze intollerabili, Magi Editore, Roma 2005, p. 75.

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spunti teorici di Janet sulle emozioni veementi. Freud individuò nell’incapacità corporea di reazione agli eventi traumatici la causa dei disturbi nevrotici: non riuscendo a sfogarsi fisicamente, le emozioni si esprimono solo nell’ambiente mentale, riempiendolo eccessivamente e portandolo a esplosioni e paralisi emotive. Freud espose le proprie idee sulla natura delle nevrosi, in particolare delle nevrosi da guerra, nel 1920 in un famoso processo contro lo psichiatra Julius Wagner-Jauregg, accusato di tortura per aver sottoposto i propri pazienti, affetti da nevrosi belliche, all’elettroshock, terapia che avrebbe dovuto far superare loro i supposti meccanismi simulativi. In quello stesso 1920 Freud pubblicò Al di là del principio di piacere, in cui descriveva in che modo la mente può produrre piacere e dispiacere. In tale saggio distingueva tra dispiacere proveniente da pressioni di istinti non soddisfatti e dispiacere originato da percezione di fattori esterni riconosciuti come pericolosi dalla mente. In questa seconda categoria Freud fece rientrare i casi degli incidenti che mettono in pericolo la vita, come un trauma cerebrale o un disastro ferroviario, e le nevrosi da guerra, definendo tutti questi eventi nevrosi traumatiche. Sempre più colpito dalle somiglianze fra traumi isterici e nevrosi belliche, Freud introdusse in questo saggio una prima chiara definizione relativa alla condizione traumatica:

chiamiamo traumatici quegli eccitamenti che provengono dall'esterno e sono abbastanza forti da spezzare lo scudo protettivo. Ritengo che il concetto di trauma implichi questa idea di una breccia in quella barriera protettiva che di regola respinge efficacemente gli stimoli dannosi.34

34

S. Freud, Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 50.

24

La guerra rappresentava quel fattore esterno in grado di penetrare la barriera difensiva dell’individuo colpito da nevrosi bellica; l’isteria, invece, più che un’aggressione esterna appariva come un assalto interno all’individuo, in questo Freud individuò la differenza fra le due nevrosi. La teoria freudiana sul trauma trovò però il proprio compimento nell’ultimo lavoro del padre della psicanalisi, L’uomo Mosè e la religione monoteista (1938). Qui Freud propose nuovamente la teoria sull’origine delle nevrosi partendo dal fondamentale ruolo svolto in esse dal trauma. Proprio del trauma viene qui data da Freud la sua definitiva definizione: «i traumi sono o esperienze sul proprio corpo, o percezioni sensoriali, soprattutto visive e uditive; sono cioè esperienze o impressioni».35 La risposta al trauma, differente da caso a caso, rimaneva una questione soggettiva, dipendente dalle esperienze pregresse dei pazienti esposti al trauma, dai loro schemi mentali e dai loro conflitti psichici precedenti, scatenati nuovamente dall’episodio traumatico. Il trauma, oltretutto, era visto come l’attivatore di meccanismi di fantasia che determinano il modo in cui il soggetto fa esperienza della propria nevrosi: gli episodi traumatici possono richiamare eventi del passato, mescolarsi ad essi nella memoria o ad ulteriori fantasie del traumatizzato. Il trauma veniva così legato saldamente all’area della memoria:

la memoria si configurava essenzialmente come un archivio selettivo per Freud, un archivio che, più che assorbire tutto ciò che incontrava, tendeva a incamerare solo una piccola parte di quel che il corpo

35

Idem, L’uomo Mosè e la religione monoteista (1938), in Freud Opere, v. 11, Bollati Boringhieri, Torino 1979, p. 397.

25

percepisce a contatto con l’esterno, ovvero solo quegli stimoli capaci di non traumatizzarla.36

Iniziata dalle suggestioni della Salpêtrière di Charcot e Janet, passata attraverso la crisi della teoria dissociativa dettata dalle idee sulla repressione delle fantasie sessuali infantili e ritornata infine alla centralità del ruolo del trauma nella spiegazione delle nevrosi e dei meccanismi memoriali traumatici, la teoria freudiana del trauma ha chiarito le responsabilità del ricordo, delle fantasie, della mente intera nel processo traumatico, un processo non solamente corporeo ma neanche solamente mentale, che coinvolge psico-fisicamente il soggetto traumatizzato, partendo da un trauma per lo più esterno che può scatenare reazioni differenti e di diverso grado, a seconda dei casi, della persona e del suo vissuto. Tale teoria rimane ancora oggi un punto di riferimento essenziale per gli studi delle malattie mentali, una teoria talmente all’avanguardia che ha aperto la strada ad alcune recenti scoperte delle neuroscienze, in particolare per quanto riguarda gli studi sui casi di disturbo post traumatico da stress (PTDS).37

36

A. Buonauro, Trauma, cinema e media, p. 32. «Disordine da stress post traumatico: eventi traumatici esperiti direttamente che includono, ma non si limitano a questi casi, il combattimento militare, l’aggressione violenta alla persona (aggressione sessuale, violenza psichica, furti, rapine), l’essere rapiti o presi in ostaggio, gli attacchi terroristici, la tortura, l’incarcerazione come prigioniero di guerra o di campo di concentramento, i disastri naturali o provocati dall’uomo, gravi incidenti automobilistici, diagnosi di gravi malattie. Per i bambini l’evento sessualmente traumatico può includere esperienze sessuali inappropriate per lo sviluppo, senza la minaccia di atti violenti o lesioni. Gli eventi traumatici di cui si è testimoni includono, ma non sono limitati a questi casi, osservare la grave lesione o la morte innaturale di un’altra persona dovuta ad aggressioni violente, incidenti, o disastri inaspettati, o ancora essere testimoni della presenza di un corpo morto o di parti di un corpo. Gli eventi esperiti da altre persone di cui si viene a sapere includono, ma non si limitano solo a questi, una violenta aggressione personale, un grave incidente o una grave ferita subita da un caro amico o un familiare; apprendere dell’inaspettata, improvvisa morte di un membro della famiglia o di un caro amico; o apprendere che il figlio di qualcuno ha una malattia per cui rischia la vita». In American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder (DSM-IV), APA, Arlington 2000, p. 463. Trad. it. di A. Buonauro in Trauma, cinema e media, pp. 43-44.

37

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4. Gli studi sul trauma dopo Freud A proposito di PTDS, è bene ricordare il lavoro di Abram Kardiner, lo psichiatra che, già durante la seconda guerra mondiale seppe descrivere al meglio tale patologia, nel suo saggio The Traumatic Neuroses of War (1941). Egli analizzò con dovizia di particolari la condizione traumatica dei propri pazienti, evidenziando soprattutto il loro perenne stato di allerta e, rifacendosi al concetto freudiano di nevrosi traumatica, sostenne che l’origine della loro malattia dovesse essere una fisionevrosi38, una patologia dalle manifestazioni psicosomatiche. Il paziente affetto da PTDS dimostrava la tipica fissazione freudiana sul trauma subìto, un’elaborazione onirica fuori dalla norma, che causava stati di allarme, di irritabilità e di ira. La condizione traumatica non appariva temporanea, ma duratura, e questo, secondo Kardiner, consisteva in un meccanismo di difesa per allontanare il ricordo del trauma. Il soggetto, dunque, rimaneva intrappolato nella propria condizione traumatica, attanagliato da un senso di impotenza che lo portava a chiudersi in se stesso, nelle proprie fobie. Tale fissazione sul trauma degenerava in stati dissociativi, per cui stimoli simili al trauma vissuto, ma attenuati, venivano ricondotti a tale episodio (un colpetto sulla spalla poteva ricordare il contatto fisico in guerra, la metropolitana rievocava la trincea, ecc.) e suscitavano reazioni pari alla minaccia del trauma originario, con attacchi di panico o impulsi aggressivi, spesso senza essere in grado di riconoscere consciamente la connessione di tali reazioni con l’esperienza traumatica vissuta. «Kardiner understood even then that the symptoms have their origin in the entire body’s response to the original trauma»39.

38

Cfr. A. Kardiner, The Traumatic Neuroses of War, Hoeber, New York 1941, p. 193. B. van der Kolk, The Body Keeps the Score, p. 19.

39

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I fondamentali studi di Kardiner portarono la psichiatria a nuovi orizzonti per quanto riguarda la terapia dei traumi da guerra: le nevrosi belliche vennero curate sia a casa dei pazienti, sia sul campo di battaglia, sperimentando per la prima volta le terapie somatiche, durante le quali ci si accorse che il paziente reagiva ricordando in modo alterato l’esperienza traumatica. Vennero dunque riproposte l’ipnosi e la narcosintesi per aiutare il paziente ad abreagire40 il trauma, ovvero scaricare le emozioni legate all’evento traumatico rievocato. L’abreazione avrebbe poi dovuto innescare processi di trasformazione e di sostituzione, poiché non è possibile cancellare il trauma semplicemente dandogli sfogo, essendo una ferita duratura nella mente e nella persona del soggetto traumatizzato. Sulla base di queste considerazioni, nella seconda metà degli anni Quaranta vennero inaugurate negli Stati Uniti le sedute di gruppo: è importante rilevare l’importanza di un lavoro del genere per gli studi psicologici, basato su un’unità più ampia di persone rispetto all’analisi del singolo individuo. Sempre in questo periodo vennero alla luce i primi importanti studi sui superstiti del trauma dell’Olocausto, individuando in essi una sindrome da campo di concentramento in cui vennero inclusi i sintomi della PTSD insieme al cambio permanente e irrimediabile della personalità dei sopravvissuti dopo l’evento traumatico. Henri Krystal, partendo dalle posizioni di Janet e Freud, sostenne che nei sopravvissuti all’Olocausto lo stato di estrema ansia ed allerta per la propria vita nei campi di concentramento si fosse gradualmente mutato in un’inibizione emotiva e comportamentale.41

40

Cfr. A. Buonauro, Trauma, cinema e media, p. 36. Cfr.. H. Krystal, Integration and Self-Healing: Affect, Trauma and AlexithymiaI, Analytic Press, Hillsdale 1988.

41

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I superstiti della Shoah furono la prova esemplare che l’esposizione ad un’estrema minaccia come quella dello sterminio comporta gravi e inevitabili effetti sul corpo, sulla mente e sulla disposizione sociale.

5. Gli anni Settanta e il Vietnam alle origini dei trauma studies Anche gli studi, le nuove terapie e l’attenzione sulla sindrome post traumatica da stress nel secondo dopoguerra vennero presto abbandonati: la società in rapido sviluppo non voleva certo fermarsi a piangere i propri morti e analizzare i propri traumi, ma si dirigeva spedita e speranzosa verso una nuova epoca di pace e benessere. Grazie ad una nuova, sconvolgente guerra, quella del Vietnam, ci fu un’ulteriore importante tappa nel percorso di studi sul trauma. La psichiatria si focalizzò nuovamente sui reduci di guerra e la loro sindrome post traumatica: di grande rilevanza fu il lavoro di Chaim Shatan e Robert Lifton che, attraverso gruppi di discussione di veterani del Vietnam, furono in grado di catalogare i ventisette sintomi più comuni nelle nevrosi traumatiche, portando l’American Psychiatric Association a includere la sindrome post traumatica da stress nel Diagnostic and Statiscal Manual Disorder, nel 1980. L’indagine sulla vita dei veterani del Vietnam andò, però, a toccare anche la situazione dei loro familiari: fu così che si scoprirono gli abusi e le violenze che donne e bambini subivano a causa dello stato mentale alterato dei propri parenti tornati dall’orrore del Vietnam. Furono soprattutto le denunce delle femministe a portare a galla, nel corso degli anni Settanta, la condizione sociale e familiare di donne e bambini vittime di violenza.

29

L’intervento della psichiatria non si fece attendere e, nel 1974, fu pubblicato il primo studio sulla sindrome da trauma da stupro, elaborato dalle dottoresse Ann Burgess e Lynda Holmstrom.42 Anche in questa patologia furono scoperte numerose somiglianze con la nevrosi da guerra, ravvisate in particolare negli incubi e nei flashback che colpivano le vittime di stupro. In questi stessi anni furono avviate le prime indagini psichiatriche sui traumi causati da violenze infantili e familiari. Proprio grazie a queste ricerche effettuate nel corso dell’ultima parte degli anni Settanta sui nuovi casi di nevrosi sociali, non più solo su isteria o nevrosi belliche, dunque, ma su tutte quelle psicopatologie che coinvolgevano la società contemporanea, proprio grazie a questo interesse sempre più pressante per le diverse realtà traumatiche presero forma i trauma studies.

6. La scuola di Yale: la trauma theory negli studi umanistici Il vero e proprio sviluppo di una trauma theory avvenne negli anni Ottanta, grazie ad una grande ondata di libri di psicologia riguardanti i traumi di guerra (in particolare, ancora, quella del Vietnam) e gli abusi sessuali sui minori. Mentre la psichiatria, convinta che la malattia mentale fosse causata principalmente da squilibri chimici nel cervello, cominciava a rivolgersi con interesse alla farmacologia43 e all’utilizzo di potenti medicinali (e droghe) per curare le patologie mentali, nei tardi anni Ottanta ci fu una svolta inaspettata anche negli studi umanistici, influenzati dalle nuove teorie del trauma: la trauma theory

42

A. W. Burgess - L.L. Holmstrom, Rape Trauma Syndrome, in «The American Journal of Psychiatry», v. 131, n. 9, 1974, pp. 981-986. 43 Per un approfondimento sull’argomento, leggasi il paragrafo The Triumph of Pharmacology in The Body Keeps the Score, pp. 37-38. Da segnalare il giudizio negativo di van der Kolk nei confronti di tale terapia ancor oggi molto, troppo diffusa, puramente basata sui medicinali, che non permette al paziente di affrontare realmente i propri problemi e, anzi, peggiora la sua condizione creando una grave dipendenza da farmaci.

30

venne infatti sfruttata dagli umanisti per tornare ad interessarsi di tematiche politiche e sociali, fino ad allora trascurate a causa dell’indirizzo strutturalista che aveva preso piede nella critica letteraria e mediatica. Il concetto di trauma, fondamentale per capire la storia del XX secolo (e non solo), ma relegato fino ad allora solamente nell’ambito della psicologia, dimostrava così di potersi smarcare dalle indagini psichiatriche e aprirsi ad un mondo di ricerca più ampio, a cominciare dagli studi umanistici. Nel 1996 apparve per la prima volta esplicitamente la definzione di trauma theory nell’opera di Cathy Caruth Unclaimed Experience.44 L’esperienza del titolo è appunto quella del trauma, che l’autrice, descrivendo come un meccanismo psicopatologico dissociativo, prendeva come modello di analisi per indagare temi e lavori attinenti all’area umanistica. Negli stessi anni furono pubblicati la raccolta di saggi Trauma: Explorations in Memory45, nel 1995, e Testimony46 di Shoshana Felman e Dori Laub del 1992. Queste tre opere rappresentano i lavori fondativi dei trauma studies, elaborati dalla cosiddetta Scuola di Yale - tutti gli autori sopra citati appartenevano infatti a quell’ambiente accademico. Questa primissima teoria del trauma di ambito umanistico si poneva all’incrocio fra un indirizzo decostruzionista e le nozioni psicanalitiche sulla teoria della dissociazione e sui disordini da stress post traumatico. I lavori di Caruth e Felman, in particolare, si concentrarono sull’analisi di testimonianze storiche di eventi tragici, prendendo come esempio le ricerche e la teoria della significazione del decostruzionista Paul de Man, docente di Yale ed esponente lui stesso della scuola

44

C. Caruth, Unclaimed Experience. Trauma, Narrative and History, The John Hopkins University Press, Baltimora 1996. 45 C. Caruth (a cura di), Trauma: Explorations in Memory, The John Hopkins University Press, Baltimora 1995. 46 D. Laub - S. Felman, Testimony: Crises of Witnessing in Literature, Psychoanalysis and History, Routledge, Londra 1992.

31

degli Yale critics. Come de Man ricercava nelle opere della letteratura romantica le contraddizioni concettuali e linguistiche che ostacolavano una comprensione ed interpretazione univoca del testo, così Caruth, Felman e Laub analizzavano testimonianze storiche (rilevanti soprattutto quelle dell’Olocausto) cercando di portare a galla gli eventi traumatici alla loro base attraverso l’analisi di lacune, rimozioni, lapsus, ricordi falsi o alterati presenti nei testi. L’approccio psicanalitico all’analisi testuale si rivelava così perfettamente in sintonia con il metodo decostruzionista. Particolare rilevanza per l’avanzamento della teoria del trauma ebbe lo studio delle testimonianze dell’Olocausto, visto ad esempio nel saggio Testimony di Laub e Felman. Gli atti mnemonici e testimoniali vengono messi qui alla prova di uno dei più grandi eventi traumatici della storia recente, attraverso esempi tratti dalla letteratura e dal cinema. Nell’Olocausto veniva vista la crudeltà di un evento straordinario, che ha eliminato i suoi testimoni («an event without a witness»)47, e proprio per questo motivo la Shoah veniva indicata come l’evento che ha originato la crisi della testimonianza, la conseguente impossibilità della rappresentazione48 e la fine delle grandi narrazioni. Lo scopo del lavoro di Laub e Felman fu allora quello di fare ordine nel passato e riportare la realtà al centro del dibattito teorico, grazie all’analisi dei rapporti tra storia e testimonianza, in risposta «all’idea dell’impossibilità della teorizzazione propria della post-modernità».49 L’impossibilità della rappresentazione dell’esperienza traumatica è un tasto su cui ha battuto anche Cathy Caruth, presentando il trauma, secondo la teoria

47

D. Laub - S. Felman, Testimony, p. 75. E' bene ricordare la citazione di Adorno del 1966: «Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d'arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile. Il rapporto delle cose non può stabilirsi che in un terreno vago, in una specie di no man's land filosofica». In T. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004, p. 326. 49 Cfr. A. Buonauro, Trauma, cinema e media, p. 48. 48

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dissociativa, come un evento la cui cognizione è tardiva nel soggetto traumatizzato. L’impossibilità della rappresentazione non si fermava solamente alla sfera del trauma individuale, ma andava a coinvolgere anche la storia stessa: Caruth infatti ha descritto il termine trauma come

il nome dell’impossibilità della storia come narrazione, come ordinata sequenza di eventi, di agenti come soggetti, come cronologia e come causa-effetto, come razionalità delle azioni.50

L’impossibilità della rappresentazione diventava così la principale caratteristica del trauma sia a livello individuale sia a livello storico-universale. L’esperienza del trauma implicava allora il riconoscimento della fallibilità della mente, della memoria e dei mezzi di rappresentazione dei ricordi. La nevrosi traumatica si rivelava in tal modo, per Caruth, non solo una realtà problematica per la psichiatria, ma anche per gli studi umanistici e l’analisi storico-letteraria. La soluzione di tale aporia doveva trovarsi nel trauma stesso, nel prenderlo come modello e base per l’analisi letteraria, rivolgendosi all’esperienza traumatica senza incasellarla cronologicamente e spazialmente in un preciso cronotopo, ma riconoscendone la sua referenzialità in se stessa e nella sua stessa cornice.51

7. I problemi della teoria dissociativa e la loro soluzione nella teoria umanistica del trauma Il trauma, dunque, venne visto inizialmente dai trauma studies come una «risposta, a volte ritardata, ad un evento molto intenso, che prende la forma di ripetute,

50

C. Caruth, Trauma, p. 7. Trad. it. di A. Buonauro, in Trauma, cinema e media, p. 49. Cfr. T. Elsaesser, Postmodernism as mourning work, in «Screen», v. 42, n. 2, 2001, pp. 193-201.

51

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intrusive allucinazioni, sogni, pensieri o credenze provenienti dall’evento».52 Focalizzati sulla natura ritardata del trauma come esperienza non conoscibile nell’immediato dal traumatizzato, che però continua a esperire tale condizione traumatica, gli studi umanistici, inizialmente, hanno soltanto sottolineato la parte emotiva dell’evento traumatico, presentando il trauma come esperienza priva di capacità significativa e comunicativa, in grado di essere analizzata solo in forme ripetitive legate alla sfera onirica e dell’immaginazione, come i sogni e gli incubi, le allucinazioni, le visioni e i ricordi traumatici. Questa concezione, eccessivamente legata ad un unico aspetto del trauma, la dissociazione, venne quindi criticata alla fine degli anni Novanta, anche perché molti studiosi non parevano capaci di superare il problema della falsa memoria,53 credendo che i ricordi recuperati di traumi del passato, come quelli di violenze e abusi, potessero essere falsati o indotti dal processo terapeutico psicoanalitico. Rivolti prevalentemente all’urto dell’evento traumatico e alle sue conseguenze sull’individuo, gli studiosi umanisti interessati allora alla trauma theory avevano dimostrato una “patologica” fissazione su un unico aspetto del trauma, che è appunto quello, molto teorico, della dissociazione e del rapporto fra ricordo e fantasie, dimenticandosi o tralasciando volutamente la pur fondamentale prospettiva storica e sequenziale della memoria, poiché questa faceva sorgere dubbi sull’effettiva possibilità di narrazione e rappresentazione aderente alla realtà del trauma.

52 C. Caruth, Unclaimed Experience, p. 182. Trad. it. di A. Buonauro, in Trauma, cinema e media, p. 40. 53 Per un approfondimento del tema, vd. i fondamentali studi della dr. Elizabeth F. Loftus, in particolare: K. Ketcham - E.F. Loftus, The myth of repressed memory: false memories and allegations of sexual abuse, St. Martin's Griffin, New Yor 1996.

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La grande aporia stava proprio nell’inconciliabilità fra la realtà traumatica - che ha un proprio sistema narrativo, frammentato, composto da flashback, ricordi e fantasie - e la realtà storica, intesa come assoluta fonte di verità ma che tale non può comunque essere, anche senza la presenza di eventi traumatici disturbanti il normale ordine della memoria. Oltre ad una reintroduzione di una contestualizzazione storica, dunque, si sentì la necessità allora di recuperare nuovamente gli studi di Freud e la doppia origine del trauma ipotizzata dal padre della psicanalisi: origine esterna, quella provocata da guerra, incidenti, abusi, causante il fenomeno della dissociazione; origine interna, derivante invece da complessi edipici o da interiorizzazione della perdita di oggetti d’amore, causanti conflitti psichici all’origine delle nevrosi. Così, aggiungendo nuovi punti di vista sul trauma, si poteva cominciare a pensare oltre la teoria della dissociazione. Bisognava però soffermarsi anche su un altro aspetto. Per la teoria della scuola di Yale l’evento traumatico, abbiamo visto, veniva riconosciuto solo nella sua natura dissociativa, come evento impossibile da assimilare per la memoria, ma che poteva ritornare oniricamente in incubi, flashback e ossessioni, unica vera traccia dell'altrimenti insondabile trauma. Fu Dominick LaCapra, nel suo studio sulla rappresentazione dell’Olocausto,54 ad indicare un possibile superamento dell’impasse dovuta alla fissazione sulla teoria dissociativa. Risalendo alla teoria psicanalitica, LaCapra individuò due modelli possibili di reazione all’evento traumatico: il primo, l’acting out, rappresentava una serie di meccanismi aggressivi in risposta ai ricordi traumatici, un modello, questo, che si rifaceva ancora alla dissociazione; il secondo, invece, il

54 D. LaCapra, Representing the Holocaust. History, Theory, Trauma, Cornell University Press, Itacha 1994.

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working through, rappresentava il modello dell’elaborazione del trauma, un tentativo di superamento della condizione di paralisi cognitiva e fissazione traumatica:

In the working through, the person tries to gain critical distance on a problem, to be able to distinguish between past, present and future. For the victim, this means his ability to say to himself, “Yes, that happened to me back then. It was distressing, overwhelming, perhaps I can't entirely disengage myself from it, but I'm existing here and now, and this is different from back then”.55

Grazie a queste critiche, anche gli studi umanistici, dunque, riuscirono a superare la fissazione sulla teoria della dissociazione, pervenendo ad una visione più completa del trauma, più fedele alla teoria freudiana nel suo complesso e al rapporto dell’esperienza traumatica con la memoria e con la storia, inserendo una certa distanza fra il vissuto e il racconto di quanto provato.

8. Testimonianza e trauma theory Ruth Leys, nel suo saggio Trauma: A Genealogy,56 datato 2000, ha individuato un’ulteriore differenziazione della teoria del trauma, analizzandone due tendenze: da una parte, la teoria mimetica, dall’altra, la teoria antimimetica. Il modello mimetico si rifaceva alla visione dissociativa del trauma, in cui il soggetto colpito si mostrava incapace di gestire i propri ricordi traumatici. Per la

55

Estratto da un’intervista di Amos Goldberg con Dominick LaCapra del 1998, presente, sotto il titolo di “Acting-Out” and “Working-Through” Trauma, nell’archivio online del centro di ricerca sulla Shoah in www.yadwashem.org 56 R. Leys, Trauma: A Genealogy, University of Chicago Press, Chicago 2000.

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tendenza antimimetica, invece, partendo dalla stessa teoria dissociativa, la gestione del trauma come evento esterno veniva effettuata dalla memoria, che relegava il ricordo del trauma in un angolo remoto della mente. Il modello mimetico sottolineava la mancanza di memoria nel traumatizzato e l’impossibilità di rappresentare un’esperienza cognitivamente non testimoniabile ma fisicamente esperibile come quella del trauma; la teoria antimimetica, rifacendosi invece alla reazione depersonalizzante del traumatizzato, vedeva un soggetto sì passivo rispetto al trauma esterno da cui veniva colpito, ma comunque «sovrano e autonomo»57 nella sua volontà di cancellare le tracce del trauma. Il soggetto traumatizzato, però, in certe situazioni, può recuperare la memoria dissociata dell’evento che ha sconvolto la sua psiche: questo è il cosiddetto recovery, processo di recupero, che ha permesso di risolvere la dicotomia fra modello traumatico mimetico e antimimetico. Il recupero dei ricordi dissociati, secondo la teoria del trauma, necessita del dialogo con un testimone. La testimonianza, grazie alla quale ci viene fornito anche un nuovo modo per tornare a rivolgerci alla storia, si rivela essere l’unica soluzione per superare l’ostacolo dell’impossibilità di rappresentazione del trauma, una difficoltà storica che si era dimostrata soprattutto dopo l’Olocausto, come abbiamo visto in precedenza negli studi di Laub e Felman. Il trauma, sempre al bivio fra la necessità di essere ricordato e la problematicità della sua rievocazione, attraverso la teoria della testimonianza ha potuto trovare nuove soluzioni di rappresentazione, avvalendosi del limite dell’irrapresentabilità per trovare nuovi espedienti narrativi che, in alcuni casi, coinvolgessero il rapporto fra memoria e storia, in altri casi

57 S. Radstone, Trauma Theory: Contexts, Politics, Ethics, in «Paragraph», v. 30, n. 1, 2007, p. 15. Trad. it. di A. Buonauro, in Trauma, cinema e media, p. 61.

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usando espedienti meno realistici e supportati da interpretazioni psicanalitiche, per rivelare così la traccia di eventi altrimenti indicibili e non rappresentabili. Dori Laub, che è stato professore di psichiatria e reduce dei campi di concentramento nazisti, nonché cofondatore dell’Holocaust Survivors' Film Project, Inc., particolarmente interessato al tema della testimonianza, ha individuato nel suo saggio Truth and Testimony58 tre tipologie diverse di testimonianza: l’essere testimoni per se stessi, come sono, ad esempio, i sopravvissuti dell’Olocausto; la partecipazione al racconto di un evento traumatico nel ruolo dell’intervistatore; l’atto di testimonianza come testimonianza a sua volta. Lo stesso Laub affermava che «the horror of the historical experience is maintained in the testimony only as an elusive memory that feels as if it no longer resembles any reality»59. Laub descriveva così una sorta di distacco, di distanza dall’esperienza traumatica nel meccanismo testimoniale, non riferendosi certo ad un processo empatico o alla sopraffazione del ricordo. La testimonianza è un’operazione di elaborazione costruttiva del trauma e/o del lutto. Essa, però, non può essere presa come verità assoluta, ma deve sempre fare i conti con l’inafferrabilità del trauma e con le distorsioni della memoria traumatica.

9. La rivoluzione neuroscientifica L’ultima tappa del nostro percorso negli studi del trauma passa obbligatoriamente per le più recenti ricerche nel campo della neuroscienza sul cervello e il suo funzionamento.

58

D. Laub, Truth and Testimony, in C. Caruth (a cura di), Trauma: Explorations in Memory. D. Laub - S. Felman, Testimony, p. 76.

59

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L’elettroencefalografo (EEG), inventato nei primi anni del Novecento, fu lo strumento indispensabile per portare a compimento le innovative ricerche sul funzionamento della mente umana, usato per monitorare gli effetti del trauma sul cervello, ma non solo: la fondamentale rivelazione fu infatti che il nostro cervello emette onde elettromagnetiche, marcatori della nostra attività cerebrale. Tali pionieristiche scoperte destarono inizialmente scetticismo ed ironia in campo medico, ma pian piano le nuove tecnologie presero piede e si imposero, diventando addirittura di moda negli anni ‘50. La prima registrazione dell’attività elettrica cerebrale venne effettuata nel 1924 dallo psichiatra tedesco Hans Berger: egli scoprì che ad ogni onda elettromagnetica corrispondeva una differente attività cerebrale. Nonostante allora non si conoscesse ancora la divisione per aree del cervello, si riuscì a individuare una mappatura degli stati di eccitazione neurali attraverso la schematizzazione delle onde cerebrali.60 Lo sviluppo decisivo delle neuroscienze avvenne però fra gli anni Ottanta e Novanta, sia attraverso l’elettroencefalogramma, sia con la tomografia a emissione di positroni (PET), sia con la risonanza magnetica, strumenti che servono per misurare la pressione sanguigna nel cervello e in questo modo capire quali aree dell’organo sono attive. Si scoprì che le diverse zone del cervello sono correlate (ad esempio, l’area di Broca, nei lobi frontali, centro della parola e del linguaggio, è legata all’ippocampo e a tutta l’area della memoria), e che ogni sensazione (come

60

Le onde delta (δ), che caratterizzano il sonno profondo, hanno una frequenza dallo 0,1 ai 3,9 Hertz; le onde theta (θ), dai 4 agli 8 Hertz, contraddistinguono il sonno REM e lo stato ipnotico; le onde alfa (α), dagli 8 ai 12 Hertz, indicano uno stato di calma e tranquillità, sono associate al riposo e alla meditazione; le onde beta (β), dai 13 ai 20 Hertz, indicano uno stato di attenzione mentale e di concentrazione, ma quando superano i 20 Hertz (possono toccare i 30), segnalano uno stato di allerta, di agitazione, di ansia e tensione corporea; dai 30 ai 42 Hertz troviamo le onde gamma (γ), che segnalano uno stato di estrema tensione.

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abbiamo visto per quanto riguarda l’esperienza traumatica nel cervello) passa dal sistema emotivo, legato strettamente a quello cognitivo. Fondamentale per la psichiatria è stato scoprire che i traumi non sono definitivi: il cervello, infatti, che attraversa una fase di formazione fino ai 25 anni, anche dopo tale traguardo dimostra notevoli capacità di adattamento, grazie all’attivazione delle sue diverse aree. Una delle scoperte più importanti per la moderna neuroscienza, però, è avvenuta, quasi per caso, all’Università di Parma: un gruppo di studiosi italiani, guidati da Giacomo Rizzolatti e Vittorio Gallese, nel 1994, studiando le reazioni motorie dei macachi, ha identificato delle speciali cellule nella corteccia cerebrale, chiamate neuroni specchio. Gli scienziati, analizzando la reazione motoria delle scimmie, stavano studiando i neuroni canonici, quelli che guidano l’azione non come forma ma come progettualità, come idea di realizzazione e scopo, quei neuroni grazie ai quali sappiamo automaticamente a cosa servono e a cosa ci portano le nostre azioni. Gli studiosi si resero conto che i macachi si accorgevano dei movimenti degli operatori e in risposta a tali movimenti attivavano processi neuronali. La scimmia capiva dunque le intenzioni e la progettualità dell’operatore:

The researchers had attached electrodes to individual neurons in a monkey’s premotor area, then set up a computer to monitor precisely which neurons fired when the monkey picked up a peanut or grasped a banana. At one point an experimenter was putting food pellets into a box when he looked up at the computer. The monkey’s brain cells were firing at the exact location where the motor command neurons were located. But the monkey wasn’t eating or moving. He was watching the

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researcher, and his brain was vicariously mirroring the researcher’s actions.61

I neuroni specchio, attraverso il riconoscimento fisiognomico, ci permettono di valutare lo stato emozionale delle altre persone in una data situazione - anche traumatica, quindi. Numerosi altri esperimenti si sono susseguiti in tutto il mondo e presto si è giunti a capire che i neuroni specchio sono determinanti per spiegare vari aspetti della nostra mente, dallo sviluppo del linguaggio, all’imitazione, alla sincronia, fino all’empatia: i neuroni specchio, infatti, sono la prova della capacità empatica delle scimmie e dell’uomo, come è stato sperimentato negli anni 2000. Questa capacità, l’empatia, sarà fondamentale per il nostro discorso sul rapporto fra trauma e cinema.

10. Trauma & trauma theory: conclusioni In questa sintetica panoramica sul trauma abbiamo avuto modo di chiarire le diverse caratteristiche che contraddistinguono l’esperienza traumatica, la sua doppia natura, sia culturale che individuale, i modi in cui si può esperire, ovvero primariamente, sulla propria pelle, o secondariamente, attraverso il racconto o la rappresentazione, anche mediatica. Grazie ai recenti studi neuroscientifici abbiamo anche potuto vedere come agisce il trauma e le molteplici risposte fisiche e cerebrali che può sviluppare il soggetto colpito dall’urto, evidenziando in questo modo come il trauma non sia solo un’esperienza mentale: mente e corpo subiscono insieme il colpo, reagiscono insieme all’urto e trovano insieme i modi per superare, evadere o elaborare

61

B. van der Kolk, The Body Keeps the Score, p. 55.

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l’esperienza traumatica. Il trauma si vive con la mente e con il corpo, dunque, ed è una situazione difficile da assimilare cognitivamente, perché in molti casi non siamo in grado di delimitarla in una narrazione coerente. È infatti un’esperienza che lascia tracce nella memoria, tracce fisiche, incarnate, che possono essere riattivate da stimoli sensoriali, percezioni, sensazioni e ricordi. «Mind and brain are indistinguishable — what happens in one is registered in the other»62. Con uno sguardo sui principali studi effettuati sulle problematiche del trauma, passando attraverso diverse discipline, dalla medicina alla psicologia, dalla psicanalisi agli studi umanistici della scuola di Yale, fino alle conquiste della neuroscienza, abbiamo cercato di indagare le principali questioni sollevate dalla teoria traumatica, come il problema della dissociazione, dell’empatia, del contatto fra memoria, fantasia e realtà, la difficoltà di rappresentazione ed elaborazione del trauma, la possibile risoluzione di tale situazione attraverso la testimonianza e il processo di working through. L’analisi del trauma, della sua storia, dei suoi studi è ovviamente molto più complicata ed estesa di quanto abbiamo provato a sintetizzare in questa introduzione. Le prospettive di studio sono ancora tante, e molte sono anche le problematiche insolute: qual è il vero campo di competenza degli studi sul trauma? A cosa rivolgerci in primis per analizzare al meglio gli eventi traumatici? Alla medicina, alla psichiatria, alla neuroscienza o agli studi umanistici? E quali eventi sono veramente da considerare traumatici, quali no? Affidarci al criterio della risonanza mediatica di un evento traumatico potrebbe essere una soluzione, ma valida (e solo parzialmente) per il trauma storico-culturale, trascureremmo

62

B. van der Kolk, The Body Keeps the Score, p. 91.

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l’importanza di quello individuale. Un trauma, questo, che si insinua nella vita quotidiana di più persone di quanto potremmo immaginare. Come si può ben vedere, nonostante le nostre conoscenze sempre più approfondite - aiutati oggi enormemente dall’avanzamento delle neuroscienze - e gli studi del passato più o meno recente, la ricerca sul trauma rimane un grande cantiere aperto. L’obiettivo di questa nostra prima parte è stato quello di introdurre le varie problematiche inerenti alla sfera traumatica e fornire al lettore le coordinate principali sul tema, con le quali poter affrontare al meglio il rapporto fra trauma e audiovisivo che indagheremo nei prossimi capitoli.

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Parte seconda

Cinema, mente e trauma

Capitolo III

Lo schermo e la mente: teorie del film a confronto Abbiamo approfondito per ora il tema del trauma, cercando di sottolinearne gli aspetti salienti, ma prima di poter trattare il rapporto tra l’audiovisivo e l’esperienza traumatica, ci preme condurre un ulteriore approfondimento. In questa sezione, infatti, andremo a esplorare in che modo la teoria del film si è interessata al rapporto che intercorre fra l’esperienza filmica e la mente. Il nostro sarà un percorso tematico e cronologico, dallo studio sullo spettatore delle origini del cinema fino agli indirizzi attuali intrapresi dalla filmologia nell’analisi del rapporto fra mente e cinema, senza dimenticarci delle istanze del corpo, una dimensione fisica che non solo ospita quella mentale ma è direttamente e reciprocamente collegata ad essa nella sfera percettiva e sensibile dell’esperienza umana. Questo approfondimento non pretende di risolvere ed esaurire le grandi problematiche

sollevate

dalle

diverse

correnti

teoriche

citate,

intende

semplicemente gettare alcune fondamenta per un discorso su una relazione, quella fra cinema e mente, considerata essenziale non solo per la maggior parte delle teorie filmologiche, come potremo appurare, ma anche per il nostro discorso sul rapporto 45

fra trauma e audiovisivo: la nostra intenzione, infatti, è quella di evidenziare una possibile analogia fra i meccanismi filmici e i processi mentali, indagare come questa relazione sia stata affrontata da diversi indirizzi critici e comprendere quanto questo discorso possa essere utile nella nostra osservazione del rapporto fra l’esperienza traumatica e quella audiovisiva.

1. Cinema come shock percettivo Il cinema, come abbiamo visto, è nato verso la fine del XIX secolo, negli stessi anni in cui si svilupparono le teorie psicanalitiche sull’isteria e nello stesso periodo in cui trionfava la cultura positivista e ci si avvicinava sempre più fortemente al tipo di società di massa moderna, caratterizzata dallo sviluppo delle metropoli e di una sempre più accesa vita nervosa delle persone. A partire dalle primissime proiezioni parigine, il cinema si rivelò essere una nuova, grande forma di attrazione popolare:

fin dalle sue origini, l’esperienza cinematografica si segnala per il forte impatto sensoriale che ha sugli spettatori. Paura e meraviglia sono i sentimenti che si rincorrono, provocando reazioni spesso scomposte che per alcuni attimi mettono a dura prova le capacità di controllo del pubblico.63

L’attrazione provocata dalle prime ombre sullo schermo si può spiegare ricorrendo all’esempio della leggendaria proiezione di L'Arrivée d'un train en gare de La

63 V. Gallese - M. Guerra, Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Raffaello Cortina, Milano 2015, p. 116.

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Ciotat. Questa è la descrizione che Gianni Rondolino fa del contenuto della famosa pellicola dei fratelli Lumière:

In Arrivée d'un train à La Ciotat vediamo giungere dal fondo dello schermo una locomotiva che si ferma in primo piano, sul lato sinistro dell'inquadratura, ripresa diagonalmente, in modo da consentire la vista, in prospettiva, dei vagoni. La gente si muove, passando da campi lunghi a piani ravvicinati, sale o scende dal treno, sino a quando, chiusi gli sportelli, il treno si accinge a ripartire. Il movimento dei personaggi e quello, iniziale, della locomotiva, determinano lo spazio scenico e il tempo dell'azione. Si ha la riproduzione di una scena di vita quotidiana e, al tempo stesso, la narrazione di un fatto, la sua drammatizzazione in termini di spettacolo.64

Figura 3.1 L'Arrivée d'un train en gare de La Ciotat (Auguste e Louis Lumière, 1896)

Tale pellicola è stata consacrata come prima proiezione cinematografica dall’opinione comune, anche se sappiamo che in realtà non fu il primo film della

64

G. Rondolino - D. Tomasi, Manuale di storia del cinema, UTET, Torino 2014, p. 16.

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storia del cinema.65 Il motivo per cui però rimane tuttora questo mito è a nostro avviso ravvisabile nella forza iconica di quel treno che si muove verso lo spettatore, quasi a voler bucare lo schermo, e nella mitica reazione del pubblico avvenuta, secondo una famosa leggenda metropolitana, durante la visione della pellicola: si dice, infatti, che la gente presente alla proiezione avesse temuto di essere investita, e che l’arrivo del treno sullo schermo avesse scatenato un fuggifuggi generale in sala. Tale leggenda - è probabile che la fuga del pubblico fosse solo una diceria escogitata dai giornali dell’epoca per far pubblicità all’invenzione dei Lumière - ci fa capire quanto la profondità di campo, l’apparente tridimensionalità e la forza di quelle prime immagini, così realistiche, colpirono gli spettatori di fine Ottocento. Questo mito, inoltre, indica come il cinema sia stato da subito avvertito dal pubblico come uno shock percettivo66, un’esperienza a suo modo traumatica per lo spettatore, che si andava ad aggiungere agli shock che l’uomo moderno stava già sperimentando a fine Ottocento, con l’intensificazione degli stimoli nervosi provocata dalla società di massa, dai nuovi modi di produzione industriale, come la catena di montaggio, dalle nuove tecnologie di trasporto e comunicazione, dalla vita metropolitana in generale:

Da Benjamin, a Simmel, a Kracauer, a Freud, a fare da trait d’union fu, infatti, una visione del soggetto come individualità esposta all’eccesso di stimoli (in primo luogo visivi) della metropoli, accompagnata perciò

65

L'Arrivée d'un train en gare de La Ciotat venne proiettato per la prima volta il 6 gennaio 1896, mentre la prima pellicola vista dal pubblico del Salon indien du Grand Café di Parigi fu La sortie de l'Usine Lumière à Lyon, il 28 dicembre 1895. 66 L’espressione shock percettivo, coniata da Walter Benjamin per descrivere l’individuo alle prese con la vita metropolitana, è fondamentale per comprendere il pensiero sulla modernità del filosofo tedesco.

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da un’idea della modernità come «assalto» al corpo umano e alle sue capacità sensoriali, impreparate di fronte alla velocità e alla discontinuità della modernizzazione.67

Il cinema, dunque, si pose subito come nuovo, efficace mezzo di comunicazione per indagare la modernità e i suoi shock: le pellicole dei Lumière, dal forte impatto sensoriale per il pubblico dell’epoca, furono una grande fonte di attrazione per gli spettatori, i quali si lasciavano trasportare e coinvolgere dalle immagini sul grande schermo e dallo spettacolo della tecnologia. «Il cinema delle attrazioni incitava alla curiosità visiva puntando ad esibire qualcosa, a mostrare, enfatizzando la stimolazione diretta di effetti shock»68, dimostrandosi così un «medium capace di produrre nello spettatore impressioni forti, frammentazioni spazio-temporali e dinamicità, mediante le sue strutture formali e l’esperienza della vita metropolitana».69 Ma come mai proprio il cinema è riuscito a diventare il portavoce delle nuove istanze della modernità? Come ha fatto ad imporsi in così poco tempo, riscuotendo un grande successo di pubblico? Perché, oggi come allora, andiamo a vedere i film,70 e perché i film funzionano?

2. Cinema, analogia del meccanismo mentale: Bergson e Münsterberg Rispondo subito alla domanda lasciata in sospeso nel paragrafo precedente: il cinema funziona perché i suoi meccanismi sono analoghi a quelli che mette in atto la mente umana.

67

A. Buonauro, Trauma, cinema e media, p. 83. Ivi, p. 99. 69 Ibidem. 70 Cfr. H. Münsterberg, Why We Go to the Movies, in «The Cosmopolitan», v. 60, n. 1, 15 dicembre 1915. 68

49

Henri Bergson fu il primo a sottolineare l’analogia fra meccanismo mentale e cinema: nell’Evoluzione creatrice71, opera del 1907, il filosofo francese sosteneva infatti che «l’intelligenza [...] agisce sulla realtà come un meccanismo cinematografico»72. Nei suoi primi scritti, Bergson faceva riferimento in particolare a quella forma di precinema che è il fucile cronofotografico di Étienne-Jules Marey. Il paragone che legava i meccanismi mentali umani all’invenzione di Marey non era certo lusinghiero per Bergson: il filosofo francese, tramite questa metafora, intendeva criticare le posizioni razionaliste del positivismo e indicare la differenza fra tempo spazializzato e durata reale. Il nostro modo di pensare, sosteneva Bergson, legge il tempo come una serie di istantanee, misurabili e divisibili, come quelle proiettate dal fucile cronofotografico: ciò pareva al filosofo come una inammissibile riduzione, compiuta dalla scienza positivista, dell’importanza del concetto di tempo e della sua percezione. La durata reale, invece, indicherebbe un movimento in fluire, non divisibile, l’essenza del tempo vero, della materialità e dell’energia vitale che risiede nella natura, non nell’intelletto. Nella sua metafora, dunque, Bergson intendeva criticare la cristallizzazione positivista del tempo presente nelle prime forme di cinema, a favore di un’esperienza naturale, non meccanica, del flusso del reale:

Perchè le immagini si animino, bisogna che da qualche parte il movimento ci sia. E infatti il movimento c'è: esso sta nell'apparecchio. La pellicola cinematografica si svolge portando, uno dopo l'altro, i diversi fotogrammi a continuarsi gli uni negli altri, ed è così che ogni

71

H. Bergson, L’Évolution créatrice, Felix Alcan, Paris 1907. L’ultimo capitolo del libro si intitola, significativamente: il meccanismo cinematografico del pensiero. 72 Cfr. la voce Filosofia, di Sergio Givone, in «Enciclopedia del cinema», www.treccani.it

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attore di questa scena riconquista la sua mobilità [...]. Questo è l'artificio del cinematografo. Ed è anche quello della nostra coscienza. Invece di spingerci fino all'intimo divenire delle cose, noi ci collochiamo al di fuori di esse, per ricomporre artificialmente il loro divenire. Fissiamo delle immagini quasi istantanee sulla realtà che passa e, poiché esse sono caratteristiche di questa realtà, ci basta infilarle lungo un divenire astratto, uniforme, invisibile, situato al fondo dell'apparato della conoscenza, per riprodurre ciò che vi è di caratteristico in questo divenire medesimo.73

Questo primo giudizio negativo nei confronti della nascente forma d’arte cinematografica, che verrà attenuato successivamente dal filosofo, è per noi fondamentale perché sdogana per la prima volta il dibattito pubblico sul cinema e soprattutto perché, nel farlo, segnala già con un certo anticipo le prime riflessioni sul funzionamento del cinema in rapporto ai meccanismi mentali. Il primo intellettuale a parlare compiutamente di analogie fra funzionamento del cinema e meccanismi mentali fu, però, Hugo Münsterberg. Lo psicologo tedesco espresse un’idea simile a quella di Bergson, ma certo con altre intenzioni: interessato alla psicologia del cinema, Münsterberg voleva capire, dal punto di vista dello spettatore, perché i film funzionassero. Questo psicologo, diventato famoso negli Stati Uniti nei primi anni del Novecento, fu il primo ad occuparsi dello studio attento alla risposta dello spettatore nella sala cinematografica: egli, che era solito interessarsi della gente che andava al cinema, ponendo loro questionari ed interviste, venne addirittura ingaggiato dalla Paramount Pictures per controllare i gusti del pubblico.

73

H. Bergson, L’evoluzione creatrice, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 249.

51

Nel 1915 pubblicò l’articolo Why We Go to the Movies, e l’anno seguente il suo famoso saggio sul cinema, The Photoplay: a Psychological Study, in cui il funzionamento dei film veniva analizzato attraverso la descrizione dei meccanismi linguistici del cinema, posti in analogia con i procedimenti mentali coinvolti nella percezione del film da parte degli spettatori. Münsterberg analizzò in particolare i meccanismi del cinema di finzione in opposizione alle tecniche teatrali. I difetti del grande schermo rispetto al palcoscenico, presenti ad esempio nella bidimensionalità delle immagini e nell’impossibilità di riprodurre i suoni e i colori presenti nel mondo reale (siamo ancora nell’epoca del cinema muto, in bianco e nero), non ostacolavano il piacere della visione del pubblico: infatti non è l’illusione del movimento nella pellicola, ma è la mente dello spettatore a costruire la realtà proiettata dal film sullo schermo. Münsterberg si proponeva proprio di dimostrare che i più importanti dispositivi e assetti formali cinematografici seguono la logica dei processi interiori, anche se l'immagine proiettata è fenomenicamente oggettiva74. Dunque, indagando le proprietà linguistiche del cinema, quali il flashback, il flashforward e il primo piano75, Münsterberg notò che esse esprimevano sul grande schermo,

rispettivamente,

i

procedimenti

mentali

della

memoria,

dell’immaginazione e della previsione, dell’attenzione76:

74

Cfr. D. Fredriksen, Hugo Münsterberg, in P. Livingston - C. Plantinga (a cura di), The Routledge Companion to Philosophy and Film, Routledge, New York 2009, p. 430. 75 Per quanto riguarda il primo piano, si vedano le riflessioni presenti in V. Gallese - M. Guerra, Lo schermo empatico, p. 214: «Hugo Münsterberg diceva che “il primo piano ha dato forma materiale nel mondo della percezione all’azione mentale e con ciò ha dato all’arte mezzi che vanno ben al di là della forza espressiva di qualunque rappresentazione teatrale”. Lo psicologo tedesco vedeva nel primo piano [...] un duplice potenziale: da una parte l’ingrandimento e l’avvicinamento costituiscono un’eccellente soluzione per favorire forme di inferenza (che Münsterberg definisce [...] “nessi mentali”) provocate dalla salienza e capaci di garantire un incremento dell’attenzione; dall’altra parte, il primo piano si configura come campo di attrazione sensoriale e affettivo in grado di esaltare il potenziale emotivo ed empatico del film». 76 Cfr. D. Fredriksen, Hugo Münsterberg, p. 431.

52

Münsterberg argued that technological apparatuses, such as the film camera, are capable of reproducing our mental functions in the absence of the essential material conditions for perception: e.g., the close up objectifies the mental act of attention while the flashback objectifies the mental act of remembering. Film simply takes advantage of one of the constitutive aspects of our normal psychic function – its reproducibility. Münsterberg saw the psychic mechanism utilized by film as lying dormant in the normal structure of our psychic apparatus: it is because the normal mind obeys its own laws, rather than the laws of the outside world, that film is possible in the first place. Our psychic apparatus (which includes our mental functions of attention, memory, and causal thinking) is naturally “set up” to interface with technological apparata, such as film, i.e. the film apparatus can reproduce our mental functions and project them back to us as if they existed “outside” us, disembodied.77

Il cinema, dunque, funziona grazie alla sua capacità di riprodurre i meccanismi della mente umana attraverso un linguaggio e delle tecniche analoghe ai nostri processi mentali. Per la nostra tesi è fondamentale segnalare questa importante analogia, ravvisata già così presto, agli esordi del cinema, da studiosi e intellettuali del settore cinematografico o esterni, come appunto Bergson e Münsterberg, poiché il trauma, che abbiamo visto essere un evento che coinvolge tanto il corpo quanto la mente, ha dei propri procedimenti mentali che, come vedremo prossimamente, possono

77

T. Trifonova, Neuroaesthetics and Neurocinematics: Reading the Brain/Film through the Film/Brain, in A. D’Aloia - R. Eugeni (a cura di), Neurofilmology. Audiovisual Studies and the Challenge of Neuroscience, «Cinéma & Cie. International Film Studies Journal», v. XIV, n. 22/23, Mimesis International, Udine 2014, pp. 31-32.

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essere riprodotti a loro volta per analogia dalle tecniche cinematografiche più diverse.

3. Cinema e psicoanalisi Come abbiamo sottolineato in precedenza, la prima proiezione dei fratelli Lumière è avvenuta nello stesso anno in cui la psicoanalisi compiva i suoi primi passi, nel 1895, con la pubblicazione degli Studi sull’isteria78 di Sigmund Freud e Joseph Breuer. Cinema e psicoanalisi, dunque, come abbiamo notato negli sviluppi teoretici di Münsterberg, hanno fin dalla nascita un rapporto speciale. Avvenne però negli anni Settanta la vera svolta psicoanalitica nella teoria del film79: nel 1975, infatti, sotto la direzione di Raymond Bellour, Thierry Kuntzel e Christian Metz venne pubblicato il ventitreesimo numero della rivista Communications, dedicato interamente alla psicoanalisi e al cinema.80 Christian Metz è, insieme a Jean-Louis Baudry, uno degli esponenti di spicco della nuova corrente psicoanalitica nella filmologia, legata strettamente alla sfera della semiotica e dello strutturalismo. Grande rilevanza, per la teoria psicoanalitica, ebbe il saggio di Metz, Le signifiant imaginaire81, in cui, attraverso le coincidenze fra il soggetto e lo spettatore, e fra lo schermo e lo specchio, si riferiva esplicitamente l’esperienza cinematografica dello spettatore allo «stadio dello specchio»82 lacaniano, secondo cui il bambino fra i sei e i diciotto mesi, guardando il riflesso del proprio corpo in uno specchio, intuisce la propria unità fisica, che

78

J. Breuer - S. Freud, Studien über Hysterie, Franz Deuticke, Vienna 1895. Negli anni Quaranta e Cinquanta anche sulla Revue internationale de filmologie erano stati anticipati degli aspetti riguardanti la teoria psicoanalitica nel film. 80 R. Bellour - T. Kuntzel - C. Metz (a cura di), Psychanalyse et cinéma, in «Communications», n. 23, 1975. 81 C. Metz, Le signifiant imaginaire: psychanalyse et cinéma, Union générale d'éditions, Parigi 1977. 82 Cfr. J. Lacan, «Le stade du miroir comme formateur de la fonction du Je», in Écrits, Le Seuil, Paris 1966. 79

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prima era invece da lui percepita come frammentata in diversi aspetti nelle proprie percezioni e in tutto ciò che lo circondava. Tale identificazione avviene grazie alla madre, che tiene in braccio il bambino davanti allo specchio e incrocia il suo sguardo. Il bambino, infatti, non può riconoscere la propria proiezione speculare: la sua identificazione è alienante, perché si basa sullo sguardo della madre e sull’identificazione con essa. Lo spettatore di un film, secondo la teoria psicoanalitica, rivive lo stadio dello specchio «perché al cinema vengono riattivate 'artificialmente' quelle stesse operazioni di alienazione, misconoscimento e illusione che hanno formato l'Io come 'istanza immaginaria'»83. Le immagini sullo schermo, così, «si confondono con quell'immagine che portiamo in noi»84, consentendo nello spettatore una regressione allo stato di narcisismo infantile e permettendogli l’illusione della conoscenza di un Io ideale. Lo spettatore al cinema può incorrere in una duplice identificazione, primaria e secondaria, secondo Baudry.85 L’identificazione primaria avviene quando la visione dello spettatore coincide con la sua persona, lo sguardo si fa persona attraverso la percezione visiva e sonora: questa identificazione corrisponde a quanto la psicoanalisi definisce narcisismo primario.86 Lo spettatore ricostruisce col proprio sguardo onniveggente le immagini frammentate e discontinue proposte sullo schermo, così come il bambino ricompone l’idea del proprio corpo guardandosi allo specchio. L’identificazione cinematografica primaria attiva un meccanismo di

83

L. Albano, Psicoanalisi, in «Enciclopedia del cinema», Enciclopedia Treccani online, 2004, www.treccani.it 84 J. Lacan, Il seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud. 1953-54, Einaudi, Torino 1978, p. 177. 85 Cfr. F. Linguiti - M. Colacino, L’inconscio cinema. Lo spettatore tra cinema, film e psiche, Effatà editrice, Torino 2004. 86 Cfr. S. Freud, Introduzione al narcisismo, in Totem e tabù e altri scritti 1912-1914, Bollati Boringhieri, Torino 2000.

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immedesimazione nella storia o nei panni del protagonista del film, che corrisponde all’identificazione cinematografica secondaria, ovvero all’identificazione e alla proiezione dello spettatore nella situazione e nei panni dei personaggi presenti sullo schermo, un procedimento che fa sì che lo spettatore sia in grado di dare un significato e provare piacere per ciò che vede. La dimensione del piacere viene infatti scatenata dai processi inconsci psicoanalitici di feticismo e voyeurismo dello spettatore. La visione dello spettatore al cinema, in una sala buia, corrisponde, secondo la visione freudiana del voyeurismo87, alla rievocazione del momento in cui il bambino, di nascosto, ha visto per la prima volta attraverso una serratura il rapporto sessuale dei genitori. Nel feticismo88, invece, che è un meccanismo di sostituzione di una mancanza, viene attivato il processo freudiano di smentita, un meccanismo di difesa nel figlio nei confronti del terrore della castrazione paterna. Il film è un feticcio in sé, poiché nasconde allo spettatore il proprio atto di registrazione e riproduzione, la propria esperienza vissuta. Le immagini sullo schermo si susseguono, vanno e vengono, esposte e subito dopo negate allo spettatore che, in questo modo, seduto sulla propria poltrona nella stanza buia, viene costretto a inseguire i propri oggetti del desiderio:

Incatenato al dispositivo della rappresentazione, come il prigioniero della caverna di Platone [...], è questo il modello della visione cinematografica, il gioco a cui lo spettatore non può sottrarsi, pena la

87

Cfr. Id., Metapsicologia, in Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti 1915-1917, Bollati Boringhieri, Torino 2002. 88 Cfr. Id., Fetischismus in «Almanach der Psychoanalyse», Vienna 1927, pp. 17-24.

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perdita del piacere, dell'identificazione nel doppio, della soddisfazione della pulsione scopica, dell'immersione nell'immaginario.89

La psicoanalisi non ha fornito solo un modello teorico di analisi del film e dell’esperienza spettatoriale, ma ha anche offerto le basi per una diversa interpretazione del contenuto, dei temi e delle narrazioni presenti nelle pellicole. Negli anni Settanta, grazie al successo dell’indirizzo strutturalista nella critica, si sono avvicendati due tipi diversi di correnti interpretative psicoanalitiche del testo filmico: da una parte, l’analisi psicocritica risalente ai modelli critici letterari di Charles Mauron e Charles Badouin, con un’attenzione rivolta particolarmente all’inconscio degli autori, alle loro figure ricorrenti, nella ricerca di particolari sintomi e traumi biografici che possono essere stati trasmessi al testo (letterario o filmico); dall’altra parte, troviamo analisi testuali vere e proprie che pongono la propria attenzione sulle modalità di scrittura del testo filmico, individuando un’analogia fra il linguaggio cinematografico e il linguaggio dell’inconscio e del sogno, un’attenzione rivolta quindi più alle forme del testo, al significante, che non al significato. La psicoanalisi applicata alla sfera cinematografica ci offre dunque un apporto importante sia per l’analisi dei meccanismi spettatoriali nel cinema, sia per l’interpretazione delle scritture e delle rappresentazioni del testo filmico: un contributo fondamentale, questo, anche per la nostra ricerca sulla rappresentazione audiovisiva del trauma.

89 L. Albano, Psicoanalisi, in «Enciclopedia del cinema», Enciclopedia Treccani online, 2004, www.treccani.it

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4. Cinema e mente: il cognitivismo Andiamo ora ad analizzare un indirizzo psicologico, filosofico e culturale, il cognitivismo, che, a sua volta, si è particolarmente interessato dei meccanismi mentali e delle dinamiche percettive spettatoriali per quanto riguarda lo studio dei media e del cinema, ciò che a noi più interessa, soprattutto in prospettiva del nostro studio sul rapporto fra l’evento traumatico - nella sua cognizione mentale, in questo caso - e il cinema. Come abbiamo visto citando i casi di Bergson e Münsterberg, il cinema, quasi fin dai suoi albori, ha suscitato negli intellettuali, che siano essi filosofi, psicologi o operatori cinematografici, delle teorie riguardanti la relazione tra il grande schermo e la mente umana. Per esempio, negli anni Venti fu Ėjzenštejn a formulare una corrispondenza fra il funzionamento del film e la teoria pavloviana dei riflessi condizionati, esaminati negli spettatori. Negli anni Trenta, Rudolf Arnheim, che era stato allievo della scuola di psicologia della Gestalt di Max Wertheimer, accostò le proprie competenze psicologiche gestaltiche a quelle filmiche e, analizzando i fattori differenzianti del cinema rispetto alla realtà (la mancanza nell’immagine di colore, di sonoro e la bidimensionalità), arrivò a trarre conclusioni simili a quelle di Münsterberg: i fattori differenzianti del cinema non vengono visti in modo negativo come un difetto dell’esperienza cinematografica, poiché è lo spettatore a costruire la realtà sullo schermo e a riempire l’universo diegetico proposto dal cinema. Gli studi e i lavori di questi anni, indirizzati all’analisi di tale prospettiva teorica e del rapporto fra strutture filmiche e processi mentali, vengono considerati da

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David Bordwell come precursori del cognitivismo, come teorie protocognitive dei meccanismi cinematografici.90 Il cognitivismo vero e proprio, in psicologia, nacque negli anni Quaranta del Novecento, in ambito anglosassone e americano. Fondamentali in questo periodo furono gli studi di Edward Tolman sul comportamento umano e animale91: lo psicologo statunitense fu infatti il primo a parlare di mappe cognitive, rappresentazioni mentali dentro le quali inscriviamo le nostre esperienze. Anche Tolman si richiamava agli studi della Gestalt, in particolare agli studi sulle forme: nel suo lavoro di psicologo comprese che le figure che la mente umana riconosce, nella nostra esperienza di vita, sono già complesse; nella mente, infatti, sono già presenti e definite delle mappe cognitive. La nostra mente, dunque, secondo questa teoria, è già preparata a riconoscere le cose e le forme e tutto ciò dà ragione alla complessità dell’esperienza umana. Il vero padre del cognitivismo, però, fu Ulric Neisser: infatti proprio dalla sua opera del 1967, Cognitive Psychology92, prese il nome tale corrente di pensiero. Partendo, a sua volta, da una base gestaltica, Neisser studiò la concezione procedurale della nostra ragione:

Il pensiero viene considerato come un’attività a processi simultanei, tra i quali si distingue una sequenza principale di operazioni (da quelli influenzabile o meno), che corrisponde al flusso della coscienza.93

90

Cfr. D. Bordwell, Cognitive Theory, in The Routledge Companion to Philosophy and Film, p. 356. Celeberrimo l’esperimento in cui Tolman inserì un gruppo di topi in un labirinto. 92 U. Neisser, Cognitive Psychology, Appleton-Century-Crofts, New York 1967. 93 Cfr. la voce Cognitivismo, in «Enciclopedie online Treccani», in www.treccani.it 91

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Queste sequenze cominciarono ad essere definite schemi da Neisser, superando così la teoria gestaltica che aveva condizionato Tolman: per Neisser, infatti, le mappe cognitive avevano il limite della rappresentazione, dell’immagine, mentre lo schema funzionava in virtù della presenza di schematismi cognitivi procedurali. La conoscenza per schemi è dunque processuale. Questa idea ha le sue fondamenta nel concetto di categoria kantiana e nel pensiero di Immanuel Kant, secondo cui, per esempio, l’idea del cerchio corrisponde non alla sua forma, ma alle regole per tracciarlo, e dunque un’idea non corrisponde alla sua forma, ma alla categoria, allo schema cognitivo utilizzato per raggiungerla, per ottenerla. Le idee, quindi, non sono fisse, come nel concetto di categoria platonico, ma sono processi, ed è proprio la procedura a permettere l’elasticità della conoscenza. Rispetto a Kant, però, il cognitivismo del Novecento non possedeva categorie trascendentali: tale dimensione trascendentale vale solo per il fatto che la nostra conoscenza si avvale di categorie, le quali poi vengono individualizzate. Gli schemi cognitivi vennero inizialmente studiati come fatti psicologici puri e solo in un secondo momento vennero applicati agli ambiti culturali e dei media, ciò che a noi più interessa. Una prospettiva cognitivista venne applicata al cinema già nei primi anni del cognitivismo, fra i Quaranta e i Cinquanta, ma tale indirizzo di studio dei media scemò molto presto: anche se, come abbiamo visto, la psicologia continuava a elaborare nuovi modelli, questi non vennero più recepiti dagli studiosi di cinema e televisione, almeno fino alla fine degli anni Settanta. Negli anni Ottanta, complice la crisi dello strutturalismo, gli studiosi di cinema riscoprirono le categorie psicologiche e gli schemi cognitivi per realizzare i propri propositi di analisi del film, dell’influenza dei media sul pubblico e dell’esperienza

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spettatoriale. Il cinema venne dunque ripensato e riconsiderato a partire da nuove basi e discipline scientifiche, come la psicologia della visione94. Allontanandosi dalla corrente strutturalista della Grand-Theory, molti psicologi e filosofi americani sono giunti a definire una prospettiva cognitivista postcomputazionale per descrivere i modi in cui lo spettatore riesce a comprendere mentalmente l’esperienza filmica.95 Il primo saggio riguardante i film studies che espose esplicitamente il metodo cognitivo applicato all’analisi del cinema fu Narration in the Fiction Film96, pubblicato da David Bordwell nel 1985:

The book fell within a recognizable tradition of film aesthetics, addressing familiar problems of how structure and style functioned in cinematic storytelling. But Bordwell also took a reverse-engineering approach, arguing that the regularities of narration revealed by film analysis indicated that films were designed to elicit particular activities from spectators. Many of those activities had already been identified by researchers in perceptual and cognitive psychology.97

Bordwell in questo saggio ha cercato di riavvicinare la narratologia e le scienze cognitive. Grande importanza dunque assumeva per questo studio l’analisi delle strategie narrative e la loro influenza nella visione dello spettatore, il quale viene visto dallo studioso come un information seeker98, un “cacciatore di informazioni”,

94

Cfr. V. Gallese - M. Guerra, Lo schermo empatico, p.82. Cfr. A. D’Aloia - R. Eugeni, Neurofilmology: An Introduction, in Neurofilmology. Audiovisual Studies and the Challenge of Neuroscience, a cura di A. D’Aloia - R. Eugeni, p. 14. 96 D. Bordwell, Narration in the Fiction Film, University of Wisconsin Press, Madison 1985. 97 Cfr. Idem, Cognitive Theory, in The Routledge Companion to Philosophy and Film, p. 360. 98 Ibidem. 95

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una figura attiva, dunque, nel processo di visione del film. L’esperienza filmica è dunque un «processo di interpretazione che nasce nella mente dello spettatore e che costruisce un senso a partire dai propri saperi, dai propri affetti e dalle proprie aspettative»99. Se il cinema è un’esperienza, dobbiamo leggerlo come un’esperienza quotidiana, non come un oggetto isolato sullo schermo. Per questo, secondo Bordwell, abbiamo bisogno di ricorrere alle modalità di analisi della psicologia cognitiva, ritornando al concetto neisseriano di schema e applicandolo al cinema:

Bordwell ritiene che la comprensione del testo filmico si basi su strutture del pensiero che la psicologia cognitiva chiama schemi e che appartengono anche alla nostra conoscenza ordinaria della realtà. Quando vediamo un film, attiviamo diversi schemi di riconoscimento che ci aiutano nell’identificazione di oggetti e persone (schemi prototipici), nell’interpretazione di linee narrative, ruoli e funzioni dei personaggi (schemi modello), ma anche nella valutazione di motivazioni particolari, per esempio artistiche o documentarie (schemi procedurali), o di coerenze di stile (schemi stilistici): in questo modo, confrontati con un universo narrativo testuale, siamo in grado di ricostruirlo e al tempo stesso renderlo unico e personale.100

Il piacere dello spettatore nella visione del film è dato dal riconoscimento di schemi esperienziali, che possono essere, come abbiamo appena visto: schemi prototipici, che ci aiutano a capire a quale categoria, a quale genere stiamo assistendo; schemi

99

M. Locatelli, Perché noir. Come funziona un genere cinematografico, Vita e Pensiero, Milano 2012, p. 19. 100 Ibidem.

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modello, grazie ai quali individuiamo organizzazioni narrative e sintattiche; schemi procedurali, che riguardano le motivazioni delle caratteristiche e delle scelte stilistiche di una pellicola. Il film viene letto così attraverso diverse modalità di conoscenza: una modalità compositiva, relativa alla coerenza formale del testo; realistica, riguardante la verosimiglianza della narrazione; transtestuale, interessata ai generi e all’intertestualità; artistica, relativa all’autorialità del cinema e alla sua coerenza estetica.101 Bordwell, attraverso questi schemi e queste modalità di conoscenza, ha così costruito dei solidi strumenti per l’analisi testuale dei film. Tali strumenti, però, presentano un limite: tendono infatti a inaridire il rapporto dello spettatore col testo, nell’ossessione tipicamente cognitiva di attivare schemi mentali e assegnare categorie fisse ai testi. L’esperienza film, analizzata come una costruzione mentale del pubblico, evidenziando solamente il ruolo della mente nel processo spettatoriale, «perde di vista il legame cervello-corpo»102. Un legame, questo, fondamentale per l’esperienza umana, come abbiamo già sottolineato nella prima parte della tesi a riguardo degli episodi traumatici, perché non viviamo astrattamente, ma situati in un corpo che reagisce agli stimoli esterni. Vedremo ora come queste istanze del corpo e dell’esperienza incarnata sono state recepite, in ambito filmologico, da una corrente complementare a quella cognitivista: la fenomenologia.

101

Cfr. D. Bordwell, Narration in the Fiction Film. V. Gallese - M. Guerra, Lo schermo empatico, p. 39.

102

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5. Cinema come fatto percettivo: la fenomenologia Dopo l’uscita dallo strutturalismo, non solo si giunse alla teoria cognitivista ma avvenne anche il recupero del versante fenomenologico nella filmologia, per offrire un’alternativa valida ai modelli strutturali. Verso la fine degli anni Settanta si erano create numerose vie d’uscita dallo strutturalismo, ad esempio, attraverso la corrente femminista nella filmologia, che aveva ripensato lo sguardo del pubblico al femminile, o mediante i cultural studies, i quali riscoprirono le esperienze spettatoriali dei fruitori. La fenomenologia divenne la chiave per studiare il cinema con occhi diversi: nel 1978, al culmine dello strutturalismo e della teoria semiotica e psicanalitica del film, Dudley Andrew pubblicò The Neglected tradition of Phenomenology in Film Theory103, il primo articolo a riportare il discorso fenomenologico nella teoria filmica.104 A partire dagli anni Ottanta fu soprattutto Vivian Sobchack a farsi portavoce di questa corrente, recuperando i modelli fenomenologici dei filosofi novecenteschi, da Husserl a Heidegger a Merleau-Ponty. Come sostenuto da quest’ultimo nel saggio del 1945, Phénoménologie de la perception, la fenomenologia è

una filosofia trascendentale che pone fra parentesi, per comprenderle, le affermazioni dell’atteggiamento naturale, ma è anche una filosofia per la quale il mondo è sempre “già là” prima della riflessione, come una presenza inalienabile, una filosofia tutta tesa a ritrovare quel contatto ingenuo con il mondo per dargli infine uno statuto filosofico.105

103

Cfr. D. Andrew, The Neglected tradition of Phenomenology in Film Theory, in «Wide Angle» 2, n. 2, 1978. 104 Cfr. V. Sobchack, Phenomenology, in The Routledge Companion to Philosophy and Film, p. 435. 105 M. Merleau Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, p. 13-14.

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L’assunto fondamentale della fenomenologia è la scoperta della realtà situazionale, dell’esserci prima dell’essere: l’uomo è un essere intenzionale, non è pura ragione, siamo situazione prima che pensiero, viviamo in un ambiente, circondati da stimoli. La fenomenologia della percezione di Merleau Ponty intendeva dimostrare l’indivisibilità del soggetto e dell’oggetto, per riabilitare l’identità del corpo come luogo della conoscenza del sensibile, ponte fra la coscienza trascendentale e la percezione intercorporea del mondo circostante. La volontà di Merleau-Ponty era dunque quella di partire dal concetto di percezione, fondamentale per la fenomenologia, per ristabilire un legame tra il mondo interiore della coscienza e della spiritualità, e quello esteriore della natura e della corporeità. Per evidenziare questo collegamento inscindibile fra soggetto e oggetto, fra corpo e coscienza, il filosofo francese aveva individuato un terreno fertile proprio nell’esperienza cinematografica. Merleau-Ponty, infatti, sosteneva che «il cinema è particolarmente adatto a far apparire l’unione di spirito e corpo, di spirito e mondo, e l’esprimersi dell’uno nell’altro»106. Proprio nel medium cinematografico l’unità di soggetto e oggetto, teorizzata da Hegel, reinventata da Husserl, raggiungeva una nuova fase attraverso la fusione tecnologica dell’occhio della telecamera e del mondo materiale.107 Vivian Sobchack, nel solco della filosofia di Merleau-Ponty, declinò compiutamente la fenomenologia filosofica nel campo della filmologia, attraverso il suo primo, celebre saggio: The Address of the Eye: A Phenomenology of Film

106

Id., Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 1962, p. 81. Cfr. N. Oxenhandler, Rewied Work: The Address of the Eye: A Phenomenology of Film Experience by Vivian Sobchack, in «SubStance», vol. 22, n. 1, Issue 70, 1993, p. 23. 107

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Experience.108 La studiosa individuò nella fenomenologia di Merleau-Ponty una nuova fonte per superare lo strutturalismo e ripensare la teoria del film e l’esperienza spettatoriale al cinema: nella filmologia, infatti, la fenomenologia indica il rapporto dello spettatore con il mezzo, con il testo e con l’immagine. Il rapporto con il mondo è un rapporto di messa in posizione, di contesto, un rapporto tra figura e sfondo. Lo strutturalismo cercava altro, non il rapporto con il mondo, ma il meccanismo di quest’ultimo. Negli anni Ottanta ci si allontanò dunque dallo strutturalismo, facendo ritorno alla filosofia di Merleau-Ponty, con autori, come Sobchack, che ripresero come riferimento la percezione. Quello della fenomenologia è un ritorno nella sfera della filmologia: infatti, come affermato da Sobchack nella prefazione di The Address of the Eye, la prospettiva fenomenologica era stata abbandonata a causa dell’affermazione della teoria filmica psicoanalitica, della diffusione della critica marxista e dello strutturalismo. La fenomenologia, allora, accostata esclusivamente al pensiero di Husserl o collegata all’esistenzialismo e al cattolicesimo francese, venne così ignorata dai più, fino a che, con i suoi studi, Sobchack riuscì a riportare alla luce questo modo di intendere la filmologia a partire dalla percezione, per concentrarsi sul rapporto fra corpo, coscienza e visione del film.109 Sobchack nei suoi testi iniziò a mettere in dubbio il modello lacaniano dello sguardo, ovvero l’idea che lo sguardo dello spettatore ci illuda di essere formatore del testo. Il femminismo per primo aveva affermato che lo sguardo dello spettatore è formatore, ma che possiede strategie di sguardo al maschile: c’era dunque il bisogno di formare uno sguardo al femminile. Le soluzioni incentrate sullo sguardo,

108

V. Sobchack, The Address of the Eye. A Phenomenology of Film Experience, Princeton University Press, Princeton 1992. 109 Cfr. ivi, pp. XIII-XIX.

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però, non potevano essere definitive. Sobchack propose dunque una critica radicale dell’oculocentrismo (che va di pari passo con la critica al logocentrismo strutturalista di quegli anni): per Sobchack le grandi teorie del cinema erano troppo fortemente legate alla preminenza dello sguardo, teorie che incarceravano lo spettatore in modelli di assoluta passività. Per l’autrice di The Address of the Eye era necessario capire l’esperienza mediale come esperienza onnicomprensiva e immersiva, ovvero come esperienza corporale totale, non solo dello sguardo: non esiste, infatti, uno sguardo disincarnato. Muovendo da basi filosofiche merleau-pontiane, dunque, Sobchack istituì una nuova forma di fenomenologia semiotica110, un indirizzo di ricerca nel tessuto cinematografico che considerava il contenuto delle pellicole tenendo presente l’importantanza dell’incarnazione dello spettatore nell’esperienza cinematografica, avendo come base la logica della percezione. Il linguaggio cinematografico e le sue tecniche, infatti, riflettono i comportamenti dell’esperienza umana incarnata: compito del cinema è esprimere la vita attraverso la vita stessa.111 Nell’esperienza cinematografica, secondo la fenomenologia, troviamo dunque un sistema comunicativo che prende come base della propria espressione la percezione corporea, in un rapporto fra spettatore e film che coinvolge anche l’autore della pellicola.112 Quando uno spettatore guarda un film, l’atto della sua visione sottintende la sua esistenza incarnata, che coinvolge un corpo che vede ma che è altresì guardato: la pellicola stessa è un corpo vedente e visibile, secondo la fenomenologia. Composta 110

Cfr. ivi, p. 6. Cfr. J. Mitry, Esthétique et psychologie du cinéma, vol. 2, Editions Universitaires, Parigi 1965, pp. 453-454. Cit. in V. Sobchack, The Address of the Eye, p. 5. 112 Cfr. V. Sobchack, The Address of the Eye, p. 9. 111

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dalla visione di un film, ovvero il movimento intenzionale dello spettatore verso un mondo rappresentato sullo schermo, e dalla corporeità dello spettatore, dal suo essere situato in un mondo, l’esperienza filmica viene sintetizzata abilmente dal titolo The Address of the Eye, il quale fa riferimento all’intenzionalità della visione e alla situazione dell’occhio (e del corpo) dello spettatore: la visione di un film è dunque l’incontro fra l’oggetto visibile, ciò che è sullo schermo ma anche lo stesso spettatore, visibile dall’autore del film e a cui si rivolge, e un soggetto incarnato, ovvero il corpo vedente dello spettatore, ma anche il corpo del film. Quest’ultimo è il mezzo che permette la comunicazione tra l’autore della pellicola e il suo fruitore, lo spettatore, poiché il corpo del film è un oggetto/soggetto sensibile, in cui sono a sua volta presenti corpi (materiali o astratti, oggetti, paesaggi, strutture architettoniche o corpi di attori). La componente corporea e fisica si rivela dunque decisiva nell’esperienza filmica, poiché non solo è attivata dalla percezione dello spettatore, ma è anche presente nel testo filmico. Si configura così una relazione fra mondo sensibile e occhio incarnato, un occhio che non appartiene solo all’autore del film, alla macchina da presa, o allo spettatore: il film esiste come rapporto visivo e visibile tra un occhio incarnato e un mondo sensibile.113 Per il nostro discorso sul rapporto tra trauma e cinema, la prospettiva fenomenologica si rivela così di vitale importanza: essa richiama il rapporto fra visione incarnata e percezione, focalizzando la propria attenzione sulla corporeità, sia dello spettatore che del film. Il corpo, come abbiamo sottolineato nella prima parte della tesi, è il luogo fondamentale del trauma, dove esso agisce e viene esperito. Il trauma, esperienza che ha un’origine mentale e cerebrale, ma che coinvolge tutto il corpo ed è anzi attivata da uno stimolo esterno e corporeo, è

113

Cfr. ivi, p. 203.

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dunque un’esperienza incarnata, così come lo è l’esperienza spettatoriale descritta dalla fenomenologia. Tale prospettiva di studio risulta quindi utilissima per comprendere i modi in cui il contenuto e la rappresentazione del cinema sono riusciti a trasporre sullo schermo la realtà traumatica, spesso (anche in questa tesi) definita non rappresentabile, ma che, senza dubbio, trova un punto chiave per esprimersi nell’esperienza incarnata e nell’evocazione del corpo presenti nel discorso cinematografico fenomenologico.

6. Lo studio delle emozioni sullo schermo e nello spettatore Nella seconda metà degli anni Novanta il dibattito cognitivista subì una certa spaccatura, che però ne permise un importante arricchimento: divenne infatti sempre più presente la dimensione emozionale nell’analisi dell’esperienza mediale. La questione della dimensione emozionale era già emersa più volte nella psicologia, come, ad esempio, nell’opera di Münsterberg. Sottostimata come problematica a causa dell’indirizzo strutturalista del pensiero critico e del positivismo cognitivista, la questione dell’emozione riemerse negli anni Settanta e Ottanta grazie agli studi di Francisco Varela, che negli anni Ottanta rielaborò il pensiero epistemologico e la psicologia tornando a pensare all’uomo come essere in situazione, come essere pensante, non un uomo-macchina, come lasciava intendere il cognitivismo classico. Pensando al rapporto dell’uomo con la realtà non come un qualcosa di astratto, ma come una relazione corporea e fisica, Varela propose la nozione di embodied knowledge, conoscenza incarnata, ovvero la descrizione in termini scientifici,

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valida soprattutto per gli studi psicologici, di un’idea fenomenologica del nostro rapporto col mondo.114 Inizialmente questa visione non ebbe molto seguito, soprattutto a causa del successo riscosso in quel periodo dal cognitivismo classico. Però, alla fine degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta tale corrente cominciò ad avere un certo seguito: Carroll Izard pubblicò un manuale sulla fisiognomica delle emozioni, The Psychology of Emotions,115 e nello stesso periodo uscirono numerose pubblicazioni sulle categorizzazioni delle emozioni fondamentali, come, ad esempio, l’importante studio di Paul Ekman116 The Nature of Emotion: Fundamental Questions117. Cominciò così a diffondersi, soprattutto in Europa, questa nuova corrente, la cui idea fondamentale era la visione del film come luogo in cui si sviluppano emozioni. Avvenne un passaggio semplice, dal punto di vista teorico, fra la teoria cognitivista e quella fenomenologica: la conoscenza incarnata, infatti, andò ad aggiungersi alla visione mentale cognitivista. Tutto questo avvenne anche grazie all’aiuto indispensabile degli psicologi, i quali fornirono in modo concreto le proprie definizioni

delle

emozioni,

le

cosiddette

modellizzazioni,

per

coprire

scientificamente il vasto campo delle esperienze umane. Per la semiotica strutturalista era problematico parlare di emozioni, poiché non possedeva gli strumenti adatti per farlo, le modellizzazioni, appunto. I teorici fra gli anni Settanta e Ottanta che avevano indagato il rapporto fra l’esperienza filmica e

114 Per il lavoro dell’autore sulla embodied knowledge e sull’esperienza umana, cfr. F.J. Varela - E. Rosch - E. Thompson, The Embodied Mind: Cognitive Science and Human Experience, The MIT Press, Cambridge 1991. 115 Cfr. C.E. Izard, The Psychology of Emotions, Plenum, New York 1991. 116 Paul Ekman, celebre psicologo statunitense, ha anche collaborato in qualità di consulente alla realizzazione della serie televisiva Lie to Me, una crime story il cui protagonista trae ispirazione proprio dalla figura di Ekman; la sua consulenza è stata fondamentale recentemente anche per il celebrato film di animazione della Pixar Inside Out. 117 Cfr. P. Ekman - R. Davidson, The Nature of Emotions: Fundamental Questions, Oxford University Press, Oxford 1994.

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le passioni, dedicatisi a una lettura per lo più psicoanalitica, si erano focalizzati sui desideri e sui piaceri delle storie, dei personaggi e degli spettatori, non riuscendo così a far luce sulla dimensione emozionale dei testi e della partecipazione spettatoriale.118 L’esperienza emotiva, che è un’esperienza individuale, un’espressione soggettiva del sentimento, ha bisogno di modellizzazioni per essere studiata ed analizzata: questo bisogno, a maggior ragione, è presente nella definizione dell’emozione, dal momento che essa non è un’esperienza strutturata, ma composta da diverse sfumature. Grazie al lavoro di modellizzazione degli psicologi, dunque, tali modelli emotivi scientifici sono stati assunti largamente anche dai media per l’analisi e per la scrittura di testi filmici adatti ad un pubblico sempre più esigente. Nella modellizzazione psicologica della dimensione emozionale troviamo una distinzione fra il campo degli affetti e quello delle emozioni. Gli affetti indicano tutte le dimensioni emotive non razionali, infatti sono costituiti dagli istinti, ovvero le necessità di soddisfazione dei bisogni fisiologici, dalle sensazioni, le risposte fisiologiche a particolari situazioni dovute a stimoli esterni, dai sentimenti (moods), stati di coscienza non intenzionati, senza un riferimento. Le emozioni, invece, sono stati di coscienza intenzionati, riferiti ad un oggetto. Esse sono il risultato del processo emotivo, per questo possiamo analizzarle nella loro processualità. L’emozione è infatti distinguibile in: percezione, ovvero la rielaborazione cognitiva della situazione; arousal, lo stato di eccitazione, non connotato positivamente o negativamente, scatenato dalla percezione, di cui è una risposta fisiologica;

118 Cfr. C. Plantinga, Emotion and Affect, in The Routledge Companion to Philosophy and Film, p. 86.

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appraisal (o labelling), il riconoscimento dello stato di eccitazione; emozione vera e propria come picco emotivo ed alterazione psicosomatica; action readiness, le ricadute delle emozioni sulle situazioni e sugli oggetti. Questi descrittori emotivi, elaborati, in particolare, da Torben Grodal su basi cognitive e neuroscientifiche e proposti nel cosiddetto PECMA flow-model119 sono stati fondamentali per l’analisi comportamentale dello spettatore, ma hanno anche scatenato accesi dibattiti: in particolare, non ci fu un giudizio concorde su cosa considerare il nodo cruciale dell’emozione, se l’arousal oppure l’appraisal. I cognitivisti classici, ad esempio, non accettavano che l’apice dello stato emozionale consistesse nell’arousal, lo stato di eccitazione emotiva, mentre ritenevano accettabile l’appraisal, il riconoscimento nello spettatore di tale stato eccitativo, come centro nodale dell’esperienza emotiva, puntando così l’accento sulla chiusura cognitiva dell’emozione. Anche il coinvolgimento, la partecipazione spettatoriale, divenne un importante modello di analisi mediatica. Il coinvolgimento venne descritto attraverso diversi fattori: l’intensità, ovvero la risposta emotiva ai materiali percettivi resistenti al processo di definizione; la saturazione, eccitazione causata dal dispiegarsi di una rete ripetitiva di associazioni e immagini mentali suscitate dall’oggetto incontrato; l’emotività, reazione somatica automatica che subentra se il passaggio della saturazione supera una certa soglia di durata, evidenziando la passività del soggetto (ad esempio attraverso il riso, il pianto, i tremiti di paura); la tensione, ovvero l’attribuzione di un significato alla situazione, la proiezione di un’operatività motoria nell’ambiente. Il coinvolgimento, descritto così nella sua processualità, viene anche analizzato all’opera nella persona dello spettatore: essenziale per la

119 Cfr. ivi, p. 91. L’acronimo PECMA viene sciolto in «perception, emotion, cognition and motor action».

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partecipazione spettatoriale è il riconoscimento, quando, ad esempio, lo spettatore riconosce nel protagonista l’eroe della storia, nel cattivo il rivale, ovvero quando lo spettatore è in grado di attribuire i corretti valori a ciò che vede sullo schermo; attraverso l’allineamento, poi, lo spettatore si conforma ai comportamenti del personaggio; con l’allegiance, infine, avviene la stabilizzazione del rapporto fra spettatore e personaggio sulla base della condivisione degli stessi valori. Non è detto, però, che il pubblico debba per forza condividere i valori espressi da un determinato protagonista di un film; può capitare, però, che, pur non condividendo le azioni e i pensieri di tale personaggio, lo spettatore riesca comunque ad avvicinarsi a lui. Per descrivere questo rapporto fra spettatore e film, soprattutto appunto per quanto riguarda la componente narrativa dei personaggi, è fondamentale tener presente il descrittore dell’empatia, meccanismo di comprensione, di condivisione e di simulazione con il quale lo spettatore si avvicina ad un personaggio filmico:

empathizing with a character is a complex imaginative process through which a spectator simulates the character’s situated psychological states, including the character’s beliefs, emotions, and desires, by imaginatively experiencing the character’s experiences from the character’s point of view, while simultaneously maintaining clear self/other differentiation.120

120 A. Coplan, Empathy and Character Engagement, in The Routledge Companion to Philosophy and Film, p. 103.

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Empatia è un termine ambiguo, proveniente dall’estetica del neoromanticismo: coniato da Robert Vischer nel 1873,121 il concetto di Einfühlung venne sistematizzato dall’estetologo Theodor Lipps che, in un saggio del 1906, descrisse l’empatia come una funzione psicologica indispensabile per l’esperienza estetica umana.122 Tale concetto venne ripreso da Michotte per descrivere il rapporto fra cinema e spettatore già negli anni Cinquanta,123 concentrandosi sui concetti di compresenza, condivisione e visione aptica dello spettatore, un guardare sinestetico, o, per meglio dire, cinesthetic124, che alla vista unisce gli altri sensi e la simulazione dell’atto motorio. A partire dagli anni Ottanta, infine, dopo che lo studio delle emozioni era stato accantonato dalla prospettiva strutturalista, ritornò fortemente nella critica il concetto di empatia e i suoi descrittori, utilizzati ancora oggi per analizzare l’esperienza mediale dello spettatore. La nozione di empatia è utilissima anche per il nostro studio sul trauma, in quanto ci permette di capire come lo spettatore reagisca alle dinamiche traumatiche riprodotte sullo schermo e come queste vengano rappresentate dalla produzione cinematografica in modo tale da avvicinare questa tematica al grande pubblico e stimolare reazioni empatiche ed emotive. L’empatia, inoltre, è fondamentale anche per il punto di vista teorico che presenteremo nel prossimo paragrafo: è infatti grazie al concetto di empatia che si

121

Cfr. R. Vischer, Über das optische Formgefühl: ein Beitrag zur Ästhetik, Hermann Credner, Lipsia 1873. 122 T. Lipps, Ästhetik: Psychologie des Schönen und der Kunst, Leopold Voss, Amburgo - Lipsia 1906. 123 A. Michotte, La partecipation émotionelle du spectateur à l’action représentée à l’écran. Essai d’une théorie, in «Revue internationale de filmologie», n. 13, 1953. 124 Cfr. V. Sobchack, Carnal Thoughts: Embodiment and Moving Image Culture, University of California Press, Berkeley - Los Angeles 2004, pp. 67 e segg., cit. in V. Gallese - M. Guerra, Lo schermo empatico, p. 121: «Sobchack dichiara che questo aggettivo [cinesthetic] nasce da tre parole: cinema, sinestesia e cenestesia. Ha dunque a che fare, naturalmente, con il cinema in quanto riproduzione del movimento, con la sinestesia in quanto percezione crossmodale e con la cenestesi in quanto senso di sé proveniente da vari organi del nostro corpo».

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è venuto a sviluppare il dibattito sulle neuroscienze nella filmologia, fra gli anni Novanta e gli anni Duemila.

7. Neuroscienze e neurofilmologia La ripresa degli studi sulla dimensione emozionale e sul concetto di empatia ha portato i dibattiti sulla teoria del film a fare i conti col funzionamento del cervello, analizzato soprattutto grazie ad un rinnovato interesse per le neuroscienze. Come abbiamo visto nella parte precedente riguardante il trauma, lo strumento classicamente adoperato nel Novecento per lo studio del cervello è stato l’elettroencefalogramma, uno strumento di largo uso negli anni Cinquanta, sia in campo medico che sperimentale e cinematografico. Gli strumenti degli anni Cinquanta, che avevano mostrato come il cervello emettesse onde elettromagnetiche, descrittori della nostra attività cerebrale, non riuscivano però a individuare la divisione per aree del cervello. Nonostante ciò, furono in grado di schematizzare le onde cerebrali, provando che il loro grado di frequenza corrispondeva a diversi stati di eccitazione. Ma, soprattutto, dimostrarono che la visione del film eccita effettivamente l’attività cerebrale:

The main discovery of the use of EEG was the fact that desynchronization of mu waves occurs not only during active movements of the subject, but also while the subject observes actions executed by someone else, even when this someone else is not a real person, but a film character.125

125

A. D’Aloia - R. Eugeni, Neurofilmology: An Introduction, p. 12.

75

I dati raccolti negli anni Cinquanta vennero allora letti in modo negativo, come conferme del fatto che l’esperienza mediale fosse pericolosa e dovesse essere attentamente controllata: la cultura neopositivista degli anni Cinquanta, infatti, vedeva un forte pericolo nello scatenamento delle emozioni presente al cinema. Lo studio neurologico del cinema venne poi abbandonato per anni. Riprese vigore alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta, focalizzandosi sul mezzo televisivo, per fornire le stesse conclusioni volte a definire negativamente l’influenza dei media sulla società. A partire dagli anni Ottanta e poi fortemente nel corso dei Novanta si svilupparono le neuroscienze e attraverso il neuro-imaging si iniziò a definire anche spazialmente il cervello, individuando legami fra diversi tipi di attività e aree specializzate. Il passaggio con gli anni Duemila ha definitivamente segnato l’arricchimento delle tecniche delle neuroscienze: l’elettroencefalogramma registra oggi onde in aree diverse del cervello, e ci ha permesso di comprendere che le diverse zone del cervello sono fra loro correlate, non agiscono per reparti stagni. Come abbiamo visto nella prima parte della tesi, grazie alle nuove tecniche di neuro-imaging si è scoperto che ogni sensazione passa dal sistema emotivo, strettamente legato a quello cognitivo. Queste importanti scoperte scientifiche si sono rivelate fondamentali anche per indagare il nostro rapporto con i media, dal momento che, durante l’esperienza mediale, i sistemi emotivi e cognitivi sono particolarmente attivi. Grande rilevanza ha avuto la scoperta dei neuroni specchio da parte dell’equipe medica italiana guidata da Rizzolatti e Gallese che, a metà anni Novanta, con i loro esperimenti sui macachi, come abbiamo visto, hanno permesso di chiarire il processo di emozione e simulazione motoria davanti allo schermo: i neuroni specchio, infatti, attraverso

76

il riconoscimento fisiognomico, riescono a farci capire la valutazione emozionale altrui di una data situazione. Questa prova della capacità empatica, prima misurata nei macachi e successivamente anche nell’uomo, negli anni Duemila è stata utilizzata per descrivere anche l’esperienza mediale. Vittorio Gallese ha sottolineato numerose ricadute dell’empatia e dei neuroni specchio nella cultura mediale, notando come il film richiami lo spettatore non solo attraverso il meccanismo empatico dei neuroni specchio: i meccanismi empatici, infatti, non possono certo essere una risposta univoca all’esperienza mediale, anche se senza dubbio sono uno strumento importante per analizzarla. Grande rilievo assumono allora anche i meccanismi dei neuroni canonici, grazie ai quali, quando vediamo un’azione sullo schermo, siamo tesi a simularla mentalmente: questo processo, fondamentale per lo studio dell’esperienza spettatoriale al cinema, è stato definito da Gallese simulazione incarnata:

La simulazione incarnata, secondo l’ipotesi […] sviluppata da Gallese, costituirebbe un meccanismo funzionale di base di funzionamento del cervello, rilevante per la cognizione sociale, e non esclusivamente limitato al dominio dell’azione [...]. Secondo questa ipotesi, la capacità di comprendere il comportamento altrui e le intenzioni di base che lo hanno promosso, di imitarlo, di comprendere in modo diretto ed esperienziale il senso delle emozioni e delle sensazioni esperite dagli altri, dipenderebbero dalla costituzione di uno spazio noi-centrico, configurato come “sistema della molteplicità condivisa” [...]. La nozione di simulazione incarnata coincide con gli aspetti più corporei dell’empatia, ma ha un ambito di applicazione più esteso, riguardando

77

anche le attività immaginative e il nostro rapporto con gli oggetti e con lo spazio attorno.126

La simulazione incarnata dimostra così l’importanza dei meccanismi empatici, ma soprattutto partecipativi e di tensione all’azione, nella relazione con l’altro e nell’esperienza mediale. Il modello di Gallese permette di distinguere più sfumature, sia empatiche sia di partecipazione motoria ed emozionali, fino all’identificazione con il personaggio e le vicende rappresentate.

Le emozioni o le sensazioni esperite dall’altro, indipendentemente dalla loro natura reale o fittizia, sono prima di tutto costituite e direttamente comprese attraverso il riuso di una parte degli stessi circuiti neurali su cui si fonda l’esperienza in prima persona di quelle stesse emozioni e sensazioni. Il nostro coinvolgimento con le vicende e le emozioni dei personaggi di un film è in parte verosimilmente mediato da questo meccanismo.127

Quando siamo davanti a un film sappiamo comunque di non essere davanti ad una persona reale, il pericolo della totale immersività viene così disinnescato. L’esperienza della visione del film viene allora ricondotta da Gallese ad un particolare tipo di simulazione, definita liberata:

Più che una sospensione dell’incredulità [...] l’esperienza estetica suscitata dalla visione di un film può essere letta come una “simulazione liberata”, cioè come il prodotto di un potenziamento dei meccanismi di

126

V. Gallese - M. Guerra, Lo schermo empatico, pp. 292-293. Ivi, p. 70.

127

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rispecchiamento e simulazione [...]. Nella ricezione della finzione artistica la nostra inerenza all’oggetto è libera dai normali coinvolgimenti personali diretti con la realtà quotidiana. Siamo liberi di amare, odiare, provare terrore, piacere, facendolo da una distanza di sicurezza.128

La prospettiva di studio dell’audiovisivo delineata dalle neuroscienze è stata recentemente adottata da una nuova corrente teorica, la neurofilmologia, che si pone all’incrocio fra le istanze cognitive e fenomenologiche:

Neurofilmology is a research program that arises at the encounter between two models of viewer: the viewer-as-mind (deriving from a cognitive/analytical approach) and the viewer-as-body (typical of the phenomenological/continental approach).129

La neurofilmologia ha così trovato un punto di incontro fra i due opposti indirizzi critici cognitivisti e fenomenologici nell’individuazione di un nuovo modello filmologico di spettatore, definito spettatore-come-organismo:

Neurofilmology should [...] assuming the model of the viewer-as-body, yet radicalising it in a new model that we call the viewer-as-organism. The key difference compared to both the previous models [viewer-asmind and viewer-as-body] is that viewer-as-organism are not already given before and independently from the film experience as a well defined entity, but constitute themselves in the course of this very

128

Ivi, p. 76. A. D’Aloia - R. Eugeni, Neurofilmology: An Introduction, p. 9.

129

79

experience, in complex, dynamical and provisional forms. Indeed, the viewer-as-organism handles simultaneously many processes of different nature (sensory, perceptual, cognitive, emotional, motor, active, mnemonic), within different time windows.130

La neurofilmologia si pone non solo l’obiettivo di conciliare la visione cognitivista e quella fenomenologica, voltandosi con interesse all’origine della filmologia, ma intende anche combinare gli studi in campo umanistico con quelli scientifici, ponendo la multidisciplinarietà come base della propria prassi teorica e sperimentale. Partendo

dunque

da

solide

basi

neuroscientifiche,

la

prospettiva

neurofilmologica evidenzia come l’associazione di corpo e mente, reciprocamente correlati nell’atto volontario della visione spettatoriale, sia fondamentale per comprendere l’esperienza filmica.

8. Lo schermo e la mente: conclusioni In questo excursus cronologico e tematico attraverso le teorie del film abbiamo avuto modo di chiarire i rapporti fra la dimensione mentale e l’audiovisivo, indagando le posizioni di diverse teorie. Partendo dal cinema delle origini come shock percettivo, abbiamo visto come l’esperienza filmica sia riuscita da subito a catturare l’attenzione di grandi masse di spettatori, trovando una spiegazione di questo irresistibile successo nell’analogia fra i meccanismi cinematografici presenti nella fruizione spettatoriale sul grande schermo e i processi della mente umana. Abbiamo analizzato tale analogia sotto la lente della psicologia e del pensiero di

130

Ivi, p. 19.

80

Hugo Münsterberg, il quale ha evidenziato significativamente una forte similitudine fra alcune proprietà linguistiche del cinema, quali il flashback, il flashforward e il primo

piano

paragonandole

ai

procedimenti

mentali

della

memoria,

dell’immaginazione e dell’attenzione. Dalla psicologia siamo passati quindi alla psicoanalisi, la quale ci ha permesso di allargare i nostri orizzonti con punti di vista orientati all’esperienza del film come costruzione linguistica, che presenta parziali analogie con l’inconscio e il sistema onirico dello spettatore. Attraverso la prospettiva cognitivista abbiamo poi sottolineato l’importanza della mente e dei suoi schemi nell’interpretazione spettatoriale del film, chiave questa per attivare i meccanismi di piacere della visione e per costruire efficaci strumenti di analisi filmica. Abbiamo visto come il rischio di una filmologia incentrata solamente sul ruolo della cognizione, dell’esperienza mentale e dello sguardo sia stato scongiurato attraverso l’indirizzo fenomenologico, che ha riportato al centro della propria teoria la percezione e il corpo come situazione, come luogo di conoscenza, di incontro fra la corporeità dello spettatore e quella della pellicola, nonché di esperienza fisica inalienabile dalla dimensione mentale. Siamo quindi tornati nel campo della psicologia per vedere come un altro aspetto della sfera mentale, la dimensione emozionale, abbia arricchito il dibattito filmologico negli ultimi anni, arrivando a sottolineare il ruolo cruciale dell’empatia per l’esperienza spettatoriale. Proprio l’empatia ha funzionato da ponte per parlare delle più recenti teorie del film, che hanno analizzato il coinvolgimento emozionale dello spettatore grazie all’aiuto imprescindibile dell’analisi cerebrale fornito dalle neuroscienze, grazie alle quali i punti di vista opposti del cognitivismo e della fenomenologia sono stati conciliati in una visione dello spettatore non più solo come mente o solo come corpo, ma come organismo onnicomprensivo, percettivo e cognitivo insieme.

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Giunti a questo punto, abbiamo dunque inteso quanto l’esperienza organica dell’audiovisivo possa essere messa fruttuosamente a confronto con l’esperienza traumatica, in quanto tutte e due presentano meccanismi mentali affini e poiché per entrambe si è rivelato significativamente importante l’appello ad una dimensione esperienziale unitamente corporea e mentale. Il nostro excursus attraverso la teoria del film non è ancora terminato: nel prossimo capitolo, infatti, andremo ad indagare il ruolo del trauma nello studio dell’audiovisivo, cercando di capire in che modo la trauma theory sia riuscita a trovare un proprio spazio nel dibattito filmologico.

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Capitolo IV

Trauma theory e cinema Le questioni sollevate dalla trauma theory nella letteratura e negli studi umanistici in generale non sono diverse da quelle proposte per lo studio del cinema. In questo capitolo, prendendo le mosse da quanto già detto nella prima parte sulla trauma theory, vogliamo soffermarci su alcuni aspetti fondamentali esposti dai maggiori teorici della trauma theory nel cinema, concetti importanti per l’analisi del trauma nell’audiovisivo. Prenderemo in esame diversi aspetti che riteniamo necessari per il dibattito, come, ad esempio, il concetto di referenzialità del trauma, la sua interpretazione e il rapporto tra fantasia e realtà nell’evento traumatico, collocando il tutto all’interno di una ben definita cornice di studi culturali e filmologici, esaminando anche un caso particolare, la polemica fra Lanzmann e Spielberg, che riteniamo possa essere esemplare e basilare per quanto riguarda il tema della rappresentabilità del trauma, un discorso chiave per comprendere le prospettive teoretiche degli studi sul trauma nell’audiovisivo. L’obiettivo è quello di evidenziare l’importanza di una tematica come quella del trauma all’interno del panorama mediatico, e vedere come tale concetto sia stato studiato fino ad oggi e quali prospettive possa ancora fornire, soprattutto in vista

83

della nostra prossima analisi del fenomeno traumatico all’interno di quella particolare forma mediale contemporanea che è la serialità televisiva.

1. Janet Walker e i primi studi sul trauma nel cinema Come abbiamo visto nella prima parte della nostra tesi, lo sviluppo di una teoria del trauma in campo umanistico avvenne negli anni Ottanta, grazie ad una grande ondata di libri di psicologia riguardanti i traumi di guerra e gli abusi sessuali sui minori. La svolta inaspettata degli studi umanistici, influenzati dalle nuove teorie del trauma, venne sfruttata dagli studiosi di letteratura e media per tornare ad interessarsi di tematiche politiche e sociali, fino ad allora trascurate a causa dell’indirizzo strutturalista che aveva preso piede nella critica letteraria e mediatica. Molti lavori si concentrarono sull’analisi di testimonianze storiche di eventi tragici, prendendo come esempio le ricerche e la teoria della significazione del decostruzionista de Man: attraverso una approfondita analisi delle testimonianze storiche, diversi autori della cosiddetta scuola di Yale131 hanno cercato di sottolineare gli eventi traumatici alla base dei testi, letterari o filmici, indagando lacune, rimozioni, lapsus, falsi ricordi o memorie alterate. L’approccio psicanalitico all’analisi testuale si rivelò così perfettamente in sintonia con il metodo decostruzionista. In quest'ordine di idee si inscrisse anche il primo studio sul trauma dedicato esplicitamente al cinema, ovvero The Traumatic Paradox, di Janet Walker. Pubblicato nel 1997 sulla rivista Signs: A Journal of Women in Culture and Society, il saggio di Walker trasportò il problema dei ricordi e dell’attendibilità nell’ambito

131

Cfr. capitolo II, sottocapitolo 6.

84

cinematografico: ciò che l’autrice intendeva sottolineare era lo statuto della memoria traumatizzata, in cui la scissione fra fantasia e realtà è impossibile. Fantasia e realtà, infatti, per Janet Walker possono, e devono, andare di pari passo.132 Abbiamo visto nella prima parte come l’esperienza del trauma sia difficile da raccontare e da rappresentare. Ciò non vuol dire che dobbiamo arrenderci di fronte a questo ostacolo, anzi: tutti abbiamo l’obbligo etico e politico di ricordare gli eventi traumatici del passato. Dobbiamo anche riconoscere, però, che gli eventi del passato possono essere soggetti ad interpretazioni, ed è proprio per questo, secondo Walker, che abbiamo fortemente bisogno di capire come le rappresentazioni del passato, di un passato anche traumatico e sfuggevole per una conoscenza normale, possano e riescano ad aderire alla realtà storica:

precisely because the past is open to partisan rereadings, there is a dire need to develop ways to understand representations of the past as texts that adhere nevertheless to historical reality. My aim, therefore, is to show the benefits for historiography of a whole repertoire of textual possibilities that may include [...] filmic strategies of fiction and reenactment informed by ideas about mental processes of trauma, memory and fantasy.133

L’obiettivo del saggio di Walker è dunque quello di far luce sulle dinamiche rappresentative degli eventi traumatici, basandosi sia sulla realtà storica dei fatti, sia sulle fantasie e le interpretazioni che il trauma può scatenare nella memoria, implicando così la lettura psicologica nel processo storiografico.

132

J. Walker, The Traumatic Paradox: Documentary Films, Historical Fictions, and Cataclysmic Past Events, in «Signs: A Journal of Women in Culture and Society», v. 22, n. 4, 1997, p. 805. 133 Ivi, p. 806.

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La ricerca di Walker si è concentrata in particolare su due eventi storici e traumatici, l’Olocausto e gli abusi sui minori, temi che già in precedenza erano stati approfonditi nell’ambito dei trauma studies. Siamo alla fine degli anni Novanta, anni in cui era sorto nell’opinione pubblica il problema della falsa memoria, che vedeva nei ricordi recuperati di traumi del passato, come quelli di violenze e abusi, il rischio di essere falsati o indotti dal processo terapeutico psicoanalitico. La vera questione, però, secondo Walker, va ben oltre la ricerca della verità storica o dello smascheramento delle fantasie nelle testimonianze di soggetti traumatizzati. Walker era infatti intenzionata a evidenziare la natura della condizione traumatica, in particolare del paradosso traumatico, che prevede un ricordo vivido fornito da stimoli esterni che però le convenzioni culturali non riescono a convalidare come testimonianza veritiera poiché non si basa su una memoria coscientemente verificabile.134 Per quanto fallibile, la memoria traumatica è comunque una memoria che non può essere screditata o ignorata dalla prassi storiografica, poiché, come ha sostenuto anche Elsaesser, «trauma suspends [...] the categories of true and false»135. Anche Dori Laub e Shoshana Felman sostennero questa idea e il loro parere venne riportato da Walker nella citazione di un episodio descritto nel saggio Testimony: Crises of Witnessing in Literature, Psychoanalysis, and History136: una donna, sopravvissuta all’Olocausto, testimoniò, per il Video Archive for Holocaust Testimonies dell’Università di Yale, di aver visto quattro camini distrutti, fatti saltare in aria, durante una rivolta ad Auschwitz. Solo un camino, però, secondo la verità storica, era stato distrutto. Gli storici screditarono dunque le testimonianze 134

Cfr. ibidem. T. Elsaesser, Postmodernism As Mourning Work, in «Screen», v. 42, n. 2, 2001, p. 199. 136 S. Felman - D. Laub, Testimony: Crises of Witnessing in Literature, Psychoanalysis, and History, Routledge, Londra 1992. 135

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della donna, perché essa aveva dimostrato una memoria non affidabile. Dori Laub, però, mostrò fortemente il proprio dissenso contro tale giudizio degli storici:

she was testifying not simply to empirical historical facts, but to the very secret of survival and to resistance to extermination. [...] She saw four chimneys blowing up in Auschwitz: she saw, in other words, the unimaginable. [...] And she came to testify to the unbelievability, precisely, of what she had eyewitnessed - this bursting open of the frame of Auschwitz. [...] Because the testifier did not know the number of the chimneys that blew up [...], the historians said that she knew nothing. I thought that she knew more, since she knew about the breakage of the frame, that her very testimony was now reenacting.137

Dunque, è proprio lo statuto fallace del ricordo traumatico a segnalarne una verità più profonda di quella storica, inscritta nell’esperienza vissuta: un’esperienza traumatica può innescare una serie di sintomi che legittimano la memoria di tale trauma, soprattutto se sono sintomi che si ripetono nel tempo, come accade in molti casi di incesto e di abusi; questi traumi possono contemporaneamente sviluppare anche fantasie, repressioni, percezioni errate e interpretazioni non realisticamente rappresentative di tali eventi. Una risposta comune al trauma è dunque la fantasia. Partendo dal paradosso della conoscenza impossibile del trauma e del suo contemporaneo ricordo vivido e sintomatico, Walker in The Traumatic Paradox sostenne che la rappresentazione filmica più efficace del fatto traumatico non corrispondeva ad una particolare forma finzionale o documentaristica, ma risiedeva in un racconto del passato traumatico frammentato ma anche provvisto di

137

Ivi, p. 59-63, cit. in J. Walker, The Traumatic Paradox, p. 808.

87

significato, in cui la realtà storica e la fantasia si intrecciano senza possibilità di divisione:

the films and videos most effective politically to redress real abuses of the past are not necessarily those that represent realistic character stories in fictional or nonfictional form but, rather, are those that figure the traumatic past as meaningful yet as fragmentary, virtually unspeakable, and striated with fantasy constructions.138

Walker denunciava così una rappresentazione degli episodi traumatici troppo affidata al concetto di realtà storica nel cinema e nei film in televisione, indicando una modalità rappresentativa diversa in alcune tipologie documentaristiche che, con interpretazioni e punti di vista alternativi, oltrepassavano la mera rappresentazione realista dell’attualità. Walker sostenne che i traumi, anche e soprattutto quelli più grandi, come l’Olocausto, non sono irreali o non rappresentabili: non sono rappresentabili secondo un’ordinaria concezione di rappresentazione realista. I documentari presi in esame da Walker, come Thin Blue Line139 e History and Memory140, presentavano una narrazione non lineare, introducevano interpretazioni alternative degli eventi e si opponevano al bisogno di chiusura del cinema classico.141 Alla testimonianza del soggetto traumatizzato, come controcanto, va sempre affiancata un’interpretazione storica, in modo tale da evidenziare il rapporto tra le diverse realtà e i diversi statuti di verità, invece della semplicistica indicazione che divide con pregiudizio la realtà storica dalle fantasie provocate dal trauma. La

138

J. Walker, The Traumatic Paradox, p. 809. The Thin Blue Line, E. Morris, USA, 1988. 140 History and Memory: For Akiko and Takashige, R. Tajiri, USA, 1991. 141 Cfr. J. Walker, The Traumatic Paradox, p. 813. 139

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testimonianza delle persone traumatizzate, in questi documentari, veniva proposta insieme a immagini di repertorio, a documenti storici ed a interpretazioni fondate provenienti dalla storiografia. I film così rifiutavano una rappresentazione realista ma nello stesso tempo insistevano nella loro ricerca della verità:

In both films [The Thin Blue Line e History and Memory] the representation of traumatic past events is responsive not only to the reliability of historical memory and material documentation but to the additional qualities of memory including repression, silence, ellipsis, elaboration, and fantasy.142

La repressione, il silenzio, l’elaborazione, la fantasia, ma anche l’amnesia e la non presenza sono elementi salienti del trauma, decisivi per una sua rappresentazione: Janet Walker sostenne infatti, come Cathy Caruth, che

the historical power of the trauma is not just that the experience is repeated after its forgetting, but that it is only in and through its inherent forgetting that it is first experienced at all [...] For history to be history of trauma means that it is referential precisely to the extent that it is not fully perceived as it occurs.143

L’esperienza del trauma risiede nella sua complicata comprensione, nella sua dimenticanza e successiva ripetizione. La rappresentazione filmica del trauma, dunque, deve presentarsi, secondo Walker, come un lavoro di «delayed historical

142

Ivi, p. 814. C. Caruth, Unclaimed Experience: Trauma and the Possibility of History, in «Yale French Studies», n. 79, 1991, p. 187, cit. in J. Walker, The Traumatic Paradox, pp. 817 - 818. 143

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understanding»144, di comprensione storica ritardata che riconosca la dimenticanza usando immagini ricostruite del passato e ricorrenti. Nel suo saggio Janet Walker ha analizzato anche First Person Plural145, un documentario che mostra come la memoria possa essere una questione di prospettive, in cui alle molteplici visioni della protagonista si intrecciano materiali d’archivio e storici, narrazioni sociali e mitiche, per spiegare l’incesto e la repressione delle testimonianze delle vittime di incesto come atto politico di dominazione sociale.146 La questione dell’incesto e del recupero della memoria traumatizzata viene qui sostenuta attraverso un punto di vista marcatamente femminista; lo scopo di Walker, però, anche in questo caso, non era tanto quello di portare chiarezza sulla verità o falsità di alcune testimonianze circa gli abusi sessuali subiti in ambito famigliare, quanto indagare come le scorie di tale violenza abbiano contaminato la memoria comune e privata e in che modo un trauma come l’incesto sia stato rappresentato. La storia traumatica individuale, secondo Walker, deve essere reintrodotta nell’ambito della storia razionale creando una reciproca relazione convalidante fra le due sfere, senza dare giudizi di merito relativi alla correttezza dell’una o dell’altra. Non tutte le testimonianze possono essere credibili alla lettera, ma l’interesse emozionale che queste suscitano non deve essere screditato a priori dalla storiografia realista.

“The so-called ‘mythic memory’ of the victims” must be integrated “within the overall representation of this past without its becoming an ‘obstacle’ to ‘rational historiography’”. [...] These documentaries [The

144

S. Friedlander, Trauma, Transference and ‘Working Through’ in Writing the History of the Shoah, in «History and Memory», n. 4, 1992, p. 43, cit. in J. Walker, The Traumatic Paradox, p. 818. 145 First Person Plural: The Electronic Diaries, L. Hershman, USA, 1995. 146 Cfr. J. Walker, The Traumatic Paradox, p. 820.

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Thin Blue Line, History and Memory e First Person Plural] demonstrate, therefore, Friedlander’s call for “the simultaneous acceptance of two contradictory moves: the search for ever-closer historical linkages and the avoidance of a naive historical positivism leading to simplistic and self-assured historical narrations and closures”.147

La fantasia, parte attiva del processo traumatico, non può significare assenza di verità. Questo è il paradosso traumatico: attraverso ricostruzioni fantastiche della realtà traumatica si ingaggia un rapporto con la memoria e il passato che, sì, tiene conto dell’importanza delle registrazioni storiche comunemente accettate riguardanti un dato evento, ma non si sofferma solamente a tali documenti, offrendo un’alternativa alla storiografia positivista attraverso uno studio psicologico delle testimonianze. Il compito dei trauma film, dunque, secondo Walker, è quello di fungere da terreno di incontro - e non di scontro - fra la prospettiva storiografica e quella psico-sociologica, fra le istanze della verità storica e quelle della fantasia, in modo da evidenziare la doppia natura dell’esperienza traumatica, inscindibilmente legata alla realtà esterna e all’elaborazione interiore. Janet Walker si pone così già oltre il problema dell’ossessione della teoria dissociativa presente nella prima trauma theory, individuando nel concetto di trauma un campo comune fra ricordi, fantasie e realtà storica utile per la rappresentazione dell’evento traumatico.

147 Ivi, p. 822; cit. all’interno S. Friedlander, Trauma, Transference and ‘Working Through’ in Writing the History of the Shoah, pp. 52 - 53.

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2. Rappresentabilità del trauma: il dibattito chiave sull’Olocausto L’Olocausto, evento traumatico per antonomasia del XX secolo, è un tema spesso molto dibattuto all’interno della trauma theory, non solo per la sua portata storica enorme, ma anche perché, essendo un evento senza testimoni, come sottolineava Dori Laub148, ha posto il grande problema della crisi della testimonianza e della rappresentabilità di eventi inimmaginabili, come appunto il piano di sterminio del popolo ebraico attuato nella Germania nazista. Il trauma in generale, e in particolar modo quello dell’Olocausto, è un evento che rompe gli schemi interpretativi culturali e le modalità rappresentative e non è in grado di essere rappresentato, secondo alcuni critici. Secondo E. Ann Kaplan, che comunque, ragionevolmente, sottolinea la natura dell’evento traumatico, la sua unicità e incapacità di essere adeguatamente rappresentato, questo giudizio sulla non rappresentabilità del trauma rischia comunque di porre il problema in una zona d’ombra, occulta, inaccessibile e intoccabile149. Secondo l’autrice, dunque, «mainstream narrative or imagistic interpretations of trauma, however, merit more than a simplistic negative judgment»150. A questo proposito, è per noi importante andare ad analizzare il dibattito fra Claude Lanzmann e Steven Spielberg intorno alla rappresentazione (o alla non rappresentazione) dell’Olocausto, in occasione dell’uscita del pluripremiato film del regista americano, Schindler’s List151. In tale dibattito, che contrappose la visione dell’Olocausto di Spielberg a quella di Lanzmann in Shoah152, si aprirono complesse controversie, non facilmente risolvibili, riguardanti la natura e il valore 148

S. Felman - D. Laub, Testimony, p. 75. E.A. Kaplan - B. Wang (a cura di), Trauma and Cinema: Crosscultural Explorations, Hong Kong University Press, Aberdeen - Hong Kong, 2004, p. 8. 150 Ibidem. 151 Schindler’s List, S. Spielberg, USA, 1993. 152 Shoah, C. Lanzmann, Francia, 1985. 149

92

del trauma, la possibilità o impossibilità di rappresentarlo e le diverse modalità filmiche a cui eventualmente rivolgersi per portare sullo schermo il dramma dell’Olocausto. Shoah di Lanzmann è un documentario monumentale, della durata di più di 10 ore, un’indagine intesa a sciogliere i luoghi comuni della memoria dell’Olocausto; il film di Spielberg, invece, è una pellicola hollywoodiana di fiction, anche se basata sulla storia vera di Oskar Schindler, e possiede un contesto produttivo molto diverso e dei circuiti di distribuzione molto più ampi. I due film sono inconciliabili dal punto di vista della rappresentazione ma, proprio per questo, calati in un fruttuoso dibattito, aiutano a capire le ragioni rappresentative che sottostanno alle rispettive pellicole e ai rispettivi modi di fare ed intendere il cinema. Quello di Lanzmann è un lavoro sulla testimonianza orale situata nei luoghi della memoria del genocidio. Nel film non sono presenti immagini di archivio, il regista ha constatato che non c’era un reale bisogno di immagini di repertorio per ricordare il vuoto della rappresentazione provocato dall’eccidio, riportando così i testimoni nel luogo della memoria, per riattivarne i ricordi traumatici. Ma il luogo della memoria rappresentato nel film è un campo di concentramento che è stato abbattuto, che non esiste più.

«Shoah non è un film sui sopravvissuti, ma sulla morte. Sulla radicalità della morte nelle camere a gas. È un film sulle camere a gas. Non ci sono testimoni, perché nessuno è mai tornato vivo dalle camere a gas. Ma ho cercato di toccare con mano. È stato un lavoro immane, durato 12 anni, estenuante fisicamente ed emotivamente. [...] Shoah è un film

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epico sull’ineluttabilità della tragedia della morte, con una tensione che non cessa mai».153

Figura 4.1 Shoah (Claude Lanzmann, 1985)

Formalmente opposto al cinema documentario dal taglio tipicamente europeo di Shoah è il lavoro di Spielberg in Schindler’s List, una pellicola americana di fiction, che si richiama esplicitamente al cinema classico hollywoodiano. Il film è un melodramma raffinato che usa sapientemente il bianco e nero con l’intento di istituire una patina storica nostalgica dell’evento tragico, presentando anche decise note di suspense ammiccanti ad atmosfere noir. Questo lavoro sui generi di Spielberg è stato uno dei primi punti critici segnalati da Lanzmann: «Spielberg's film is a melodrama, a kitschy melodrama»154. Secondo il regista francese, Schindler’s List (e con lui una miniserie televisiva sull’Olocausto del 1978, Holocaust155) peccherebbe di banalizzazione:

153

Lanzmann: "Shoah pace con Spielberg", «Avvenire», 20 gennaio 2014. Il virgolettato è una citazione diretta del regista. 154 C. Lanzmann, Schindler’s List is an impossible story, trad. ing. di Rob van Gerwen, da 'Schindler's List' is een onmogelijk verhaal, «NRC Handelsblad», 26 marzo 1994. 155 Holocaust, M.J. Chomsky - G. Green, USA, NBC, 1978.

94

The holocaust is unique in that, with a circle of fire, it builds a border around itself, which one cannot transgress, because a certain absolute kind of horror cannot be conveyed. To pretend that one is nevertheless conveying it makes one guilty of an offence of the utmost rudeness. Fiction is a transgression, I am deeply convinced that there is a ban on depiction. Schindler's List evoked the same sort of sensation I got from the Holocaust series. Transgressing or trivializing, in this case they are identical. The series or the Hollywood film, they transgress because they trivialize, and thus they remove the holocaust's unique character.156

Un evento storico enorme ed unico come l’Olocausto, chiaramente, non può essere banalizzato: Lanzmann vide in Schindler’s List proprio un uso non appropriato della Shoah, che più che protagonista della narrazione diviene sfondo di un melodramma hollywoodiano, ed imputò a Spielberg, regista di Jurassic Park, la volontà di commercializzare l’Olocausto e la seconda guerra mondiale come nuova meta di attrazione, nuovo parco dei divertimenti del cinema americano mainstream. Al centro della pellicola di Spielberg, infatti, invece che lo sterminio degli ebrei, Lanzmann vide l’imponente figura di Oskar Schindler, un imprenditore tedesco che grazie alla propria fabbrica riesce a salvare la vita di un gran numero di ebrei: il protagonista è il classico eroe hollywoodiano, e lo spettatore ne vede sullo schermo la crescita narrativa, dall’iscrizione al partito nazista al diventare eroe del popolo ebraico. Che il protagonista di questo film sull’Olocausto sia un tedesco e che il trauma storico dello sterminio venga riportato attraverso il suo punto di vista è un altro fattore di Schindler’s List che ha scatenato le proteste di Lanzmann:

156

C. Lanzmann, Schindler’s List is an impossible story.

95

The thing I reproach Spielberg is, that he shows the holocaust through the eyes of a German. Even though it was a German who saved jews, yet this completely changes the perspective on History. It is the world in reverse. Shoah disallows many things for people, Shoah is a lean and pure film. In Shoah there is not a single personal story. The jewish survivors in Shoah are not merely survivors, but people who were at the end of a chain of extermination, and who witnessed directly how their people were murdered. Shoah is a film about the dead and not at all about survival.157

In Shoah il punto di vista non è singolo, ma plurale, è quello degli ebrei sopravvissuti al genocidio. Il pensiero di questi, però, non si sofferma sulla propria presenza, sul proprio esistere, sul proprio Io e sulla propria sopravvivenza, ma va ad indagare i morti e le assenze provocate dall’Olocausto: sono i presenti gli unici testimoni possibili degli assenti. Attraverso le testimonianze dei sopravvissuti, Lanzmann ha voluto costruire una nuova forma di conoscenza plurale dell’Olocausto e una nuova forma di film su tale trauma storico, una forma diametralmente opposta a quella proposta da Spielberg, basata sul regime della finzione, sulla storia di un uomo e del suo atto di eroismo nei confronti di un popolo, una storia volta a suscitare emozioni forti nello spettatore:

As far as I am concerned: I wanted to construct a form that acknowledged the generality of the people. It is the reverse from Spielberg for whom the extermination is a setting: the blinding black

157

Ibidem.

96

sun of the holocaust is not stood up to. One cries when seeing Schindler's List? So be it. But tears are a kind of joy, a katharsis. Many people told me: I cannot see your picture, because with Shoah it is impossible to cry.158

Lanzmann si oppose al patetismo e al coinvolgimento emotivo scatenato nello spettatore, poiché vide appunto nella catarsi una forma di gioia che non si addice al senso storico della Shoah. Lanzmann criticò quindi anche la chiusura narrativa effettuata da Spielberg, evidenziando in particolare come in Schindler’s List ci sarebbe pure un lieto fine:

I would never dare to give such sledgehammer blows as those Spielberg gives at the end of Schindler's List. With that great reconciliation, Schindler's grave in Israel, with its cross and the small jewish pebbles, with the colour which insinuates a happy ending... Israel cannot buy off the holocaust. The six million did not die to justify Israel's existence. The last image of Shoah is different. It is a train which rides and never stops. It says that the holocaust has no ending.159

Sotto questo aspetto, il pensiero di Lanzmann è molto vicino a quello di Janet Walker: il trauma non ha bisogno di chiusure narrative. L’Olocausto non solo non può avere un lieto fine, non può proprio avere fine. La critica di Lanzmann è complessivamente forte e forse un po’ ingenerosa: anche Spielberg, infatti, ha impiegato diversi anni di lavoro per dare forma alla

158

Ibidem. Ibidem.

159

97

propria visione dell’Olocausto, con cui ragionare sulla propria radice culturale ebraica. Questa memoria personale però è costruita attraverso il linguaggio mediale ed inevitabilmente Spielberg deve fare i conti con una rappresentazione “adeguata” dell’Olocausto per il pubblico americano (e internazionale) da cinema commerciale. Anche la famosa shower scene, in fondo, non supera i limiti della rappresentazione dell’inimmaginabile indicati dalla trauma theory e da Lanzmann. La sequenza della doccia lavora su una suspense basata sul sapere extra-diegetico dello spettatore, che conosce la Storia più dei protagonisti del film. Noi sappiamo già come tutto è andato a finire e abbiamo paura che le docce siano camere a gas. Nella sequenza c’è un picco di suspense fino al raggiungimento di un inatteso happy ending, perché le donne presenti nella stanza non vengono gassate, come si aspetterebbe lo spettatore. Alla fine anche Schindler’s List si pone nella logica della non rappresentabilità del trauma delle camere a gas, evocando l'irrappresentabile tramite metafora.160

Figura 4.2 Shindler’s List (Steven Spielberg, 1993)

160

D’altro canto, l’esperienza della camera a gas e della morte, secondo un punto di vista realista, sarebbe ontologicamente non rappresentabile, poiché solo il testimone integrale, colui che non è scampato alla morte, potrebbe descriverla appieno. Riprendendo il pensiero di André Bazin, nel saggio del 1949 Morte ogni pomeriggio (cfr. A. Bazin, Che cos'è il cinema?, Garzanti, Milano 1973): «la morte [...] si vive e non si rappresenta [...] la rappresentazione della morte reale è [...] un’oscenità [...] metafisica».

98

L’opposizione fra Shoah e Schindler’s List è quindi difficilmente conciliabile,161 i due film presentano costruzioni e produzioni differenti, il primo è un documentario (anche se atipico, secondo la stessa opinione di Lanzmann), l’altro è fiction rivolta ad un pubblico di massa. Il dibattito ha comunque evidenziato come sia possibile raccontare lo stesso evento traumatico attraverso forme differenti, quella documentaristica e quella di finzione, e per mezzo di strategie diverse, che, da una parte, provano a portare chiarezza nella storia attraverso l’esposizione dei testimoni, mentre dall’altra parte suscitano l’adesione emozionale e catartica dello spettatore. Il film può trasformarsi in tutti e due i casi in una sorta di monumento, di memoria culturale che permane nel tempo, per attivare nel presente la memoria traumatica del passato. Certo, ciò avviene in due modi completamente diversi: da una parte, secondo Elsaesser e Kaplan, abbiamo la sobrietà del documentario, il modernismo e l’alta cultura, mentre dall’altra parte troviamo il sensazionalismo hollywoodiano, il postmodernismo e una cultura bassa, popolare.162 Il parere dei due autori pare certamente sbilanciato a favore delle soluzioni estetiche adottate da Lanzmann e qui lo segnaliamo, anche se la volontà di questa tesi non è quella di fornire un giudizio etico su quale modalità rappresentativa garantisca maggiore giustizia alla rappresentazione del trauma.

161

Il dissidio fra i due registi, invece, in occasione del Festival di Cannes del 2013, è stato ricomposto, come ha raccontato Lanzmann in un’intervista ad Avvenire: «Abbiamo cenato assieme per la prima volta e mi ha detto subito: "Lei mi disprezza". Ho risposto: "No". C’è stato fra noi un conflitto profondo, d’ordine ontologico, su cosa il cinema e la Shoah possono fare l’uno dell’altro. Gli ho dato il mio libro La lepre della Patagonia. E benché presidente di giuria, ne ha letto subito 4 capitoli in pieno festival, inviandomi il 23 maggio un primo messaggio». Da allora, non cessano più di scriversi, come se avessero ormai bisogno l’uno dell’altro. Lanzmann mostra alcune missive firmate a mano dal collega americano, piene di elogi verso il vecchio "avversario" francese. Anche i dissidi più profondi possono forse tramutarsi in amicizia, in nome della memoria e della speranza». Da Lanzmann: "Shoah pace con Spielberg", «Avvenire», 20 gennaio 2014. 162 E.A. Kaplan - B. Wang (a cura di), Trauma and Cinema, p. 11.

99

3. La ricezione spettatoriale della rappresentazione traumatica La trauma theory è una teoria filmica che ha preso inizialmente le mosse a partire da un terreno fertile situato fra le istanze della fenomenologia e del cognitivismo. È chiaro che per descrivere tale teoria non ci possiamo soffermare esclusivamente sull’analisi della rappresentazione filmica, ma ci dobbiamo interessare anche alla figura dello spettatore e a come la sua esperienza di visione di un film, che contenga elementi legati alla sfera del trauma, sia stata studiata e analizzata attraverso la teoria del trauma. Il citato sensazionalismo visto nella rappresentazione di un certo genere di film attinenti al trauma poggia fortemente sulla reazione empatica dello spettatore, chiamato a condividere l’esperienza traumatica riprodotta sullo schermo. Per analizzare proprio questa esperienza spettatoriale penso che sia molto utile rivolgersi brevemente anche ai principi della critica neuroscientifica esposti nei precedenti capitoli. Come abbiamo visto, i neuroni specchio sono la prova della capacità empatica dell’uomo e proprio questa capacità è alla base della comprensione e della partecipazione emotiva dello spettatore di un trauma film. Abbiamo già visto che la simulazione incarnata, teorizzata da Gallese, dimostra l’importanza dei meccanismi empatici nella visione spettatoriale, meccanismi che si basano sulla partecipazione e sulla tensione all’azione, sulla relazione con l’altro all’interno dell’esperienza mediale. Lo spettatore può quindi arrivare a provare gli stessi sentimenti visti nelle vicende rappresentate sullo schermo e provati dal personaggio traumatizzato, in cui può dunque identificarsi, anche senza aver mai provato le stesse esperienze traumatiche - d’altronde, abbiamo già visto come il trauma sia comunque una condizione esistenziale universale. L’esperienza del trauma viene spesso mostrata sullo schermo attraverso meccanismi anti-narrativi.

100

Walker, già a partire dagli anni Ottanta e Novanta, ha individuato le caratteristiche di un certo tipo di trauma cinema nella modalità narrativa non realistica:

Like traumatic memories that feature vivid bodily and visual sensation over verbal narrative and context, these films are characterized by nonlinearity, fragmentation, nonsynchronous sound, repetition, rapid editing and strange angles. And they approach the past through an unusual admixture of emotional affect, metonymic symbolism and cinematic flashbacks.163

La frammentazione, la ripetizione, gli inusuali angoli di ripresa di questo genere di film sul trauma si richiamano dunque alla memoria traumatica e sembrerebbero porre un certo ostacolo nella comprensione lineare dell’evento da parte dello spettatore, eppure anche tale rappresentazione traumatica riesce ad essere compresa attraverso meccanismi neurologici ed empatici di simulazione incarnata, i quali mediano (la maggior parte delle volte) l’impatto visivo del trauma esposto sullo schermo agli occhi dello spettatore. La corretta ricezione del trauma da parte dello spettatore è fondamentale per i film riguardanti eventi traumatici, ed è stata infatti analizzata acutamente dalla teoria del trauma. Abbiamo già potuto notare come la visione di un film, al cinema, in televisione o su qualsiasi altro dispositivo dotato di schermo, sia senza dubbio un’esperienza avvolgente per lo spettatore, volta spesso ad immergerlo in una narrazione e in un mondo altro. Tale esperienza può diventare a volte ancor più coinvolgente quando viene chiamato in causa, nella rappresentazione filmica, il tema del trauma. La

163 J. Walker, Trauma Cinema: False Memories and True Experience, in «Screen», v. 42, n. 2, 2001, p. 214.

101

posizione dello spettatore nei confronti del trauma rappresentato sullo schermo è fondamentale per capire le diverse strategie adottate dai film interessati alla sfera traumatica. E. Ann Kaplan, in particolare, ha individuato quattro differenti posizioni dello spettatore nei confronti dei trauma film164. La prima vede uno spettatore introdotto al concetto di trauma attraverso i temi e le tecniche di un film nel quale, però, vi è un lieto fine, una chiusura confortevole che indica l'avvenuta guarigione della ferita traumatica. Tale posizione viene solitamente adottata da spettatori di cinema mainstream: Kaplan ricorre infatti all’esempio dei melodrammi hollywoodiani, come i film Spellbound165 o Marnie166 di Hitchcock, i quali collocano gli eventi traumatici in un tempo passato, relativamente facile da localizzare e da curare. Questo genere di film hollywoodiani viene analizzato come una dislocazione culturale del trauma, «a symptom of a culture’s need to “forget” traumatic events while representing them in an oblique form»167. Questa tentata dimenticanza dell’evento traumatico, però, può lasciare tracce che rivelano ciò che si è tentato di nascondere. Questo è l’obiettivo principale della critica ispirata alla trauma theory nella visione di questi film, ovvero interpretare la narrazione e la rappresentazione filmica e scovare i meccanismi traumatici nascosti sotto la superficie del testo e dello schermo: «The task for critics is how to read against the grain of manifest narratives and imagery for symptoms of deeper-lying, latent processes, not to dismiss them as sheer mindless sensationalism»168. Ci soffermeremo

più

avanti

sull’importanza,

per

la

teoria

dell’interpretazione nei film.

164

Cfr. E.A. Kaplan - B. Wang (a cura di), Trauma and Cinema, pp. 9-10. Spellbound, A. Hitchcock, USA, 1945. 166 Marnie, A. Hitchcock, USA, 1964. 167 Cfr. E.A. Kaplan - B. Wang (a cura di), Trauma and Cinema, p. 9. 168 Ibidem. 165

102

del

trauma,

La seconda posizione dello spettatore consiste invece nell’essere traumatizzato indirettamente (vicariously traumatized): in questo caso, il sistema neurologico non riesce a funzionare da mediatore, l’impatto visivo del trauma sullo schermo si ripercuote direttamente sulla percezione emotiva dello spettatore. Ciò può provocare veri e propri shock durante la visione (Kaplan porta come esempio alcuni film di Cronenberg, come The Brood169 o The Fly170, ma cita anche i casi di alcuni film sull’Olocausto). Il film, se possiede un impatto visivo troppo violento, invece di insegnare qualcosa per mezzo di una rappresentazione scioccante, può turbare lo spettatore e portarlo addirittura a fuggire - una reazione molto simile a quella vista nel trauma primario, definita flight. È altrettanto vero che lo shock del trauma indiretto potrebbe spingere lo spettatore a conoscere meglio i fatti sconvolgenti rappresentati sullo schermo e cercare di fare qualcosa a riguardo: è il caso, ad esempio, per cui si costruiscono le pubblicità progresso, ma anche alcuni documentari, volti a ingaggiare una reazione pro-sociale nello spettatore esponendo crudamente dei fatti traumatici. La terza posizione individuata da Kaplan è quella del voyeur, tipica di uno spettatore di notiziari colmi di immagini di catastrofi, di gravi incidenti, di personaggi famosi morti e di guerre; è una posizione assunta, secondo Kaplan, anche dagli spettatori di serie tv come Holocaust, miniserie drammatica e sentimentalistica sulle vicende di due famiglie, di cui una ebrea, nella Germania nazista. Il voyeurismo è naturalmente una posizione negativa, poiché la rappresentazione audiovisiva sfrutta le vittime di drammi per fornire allo spettatore una forma subdola e perversa di piacere, derivante da immagini dal forte impatto

169

The Brood, D. Cronenberg, Canada, 1979. The Fly, D. Cronenberg, USA, 1986.

170

103

emotivo: «voyeurism is dangerous because it exploits the victims and secretly offers a sort of subversive pleasure in horror one would not want to encourage»171. L’ultima posizione descritta da Kaplan è quella del witness, dello spettatore come testimone, una categoria che si riallaccia ai livelli di testimonianza esposti da Dori Laub nel suo studio sull’Olocausto. La posizione del testimone è la più politicamente utile, «the most politically useful position of the four»172, poiché è capace, attraverso l’attivazione di un meccanismo empatico, che non comporta però shock percettivi, di permettere l’identificazione dello spettatore senza che questi possa subire indirettamente il trauma rappresentato dalla pellicola - «an identification which allows the spectator to enter into the victim’s experience through a work’s narration»173. I film che permettono un tale tipo di rappresentazione sono, secondo Kaplan, documentari come Nuit et brouillard174 di Alain Resnais, o pellicole come Hiroshima, mon amour175, sempre di Resnais, Meshes of the Afternoon176, un cortometraggio surrealista di Maya Deren, o Night Cries177, altro cortometraggio, stavolta dell’australiana Tracey Moffatt. In questi film la narrazione procede in modo insolito, anti-narrativo, una modalità rappresentativa che permette allo spettatore di vivere emotivamente la visione ed esserne anche commosso, ma che allo stesso tempo pone una certa distanza cognitiva fra quanto rappresentato sullo schermo e quanto esperito emotivamente dallo spettatore: l’identificazione con il/la protagonista del trauma presentato nella pellicola è infatti incompleta, poiché lo spettatore, attraverso i meccanismi anti-

171

E.A. Kaplan - B. Wang (a cura di), Trauma and Cinema, p. 10. Ibidem. 173 Ibidem. 174 Nuit et brouillard, A. Resnais, Francia, 1956. 175 Hiroshima mon amour, A. Resnais, Francia, Giappone, 1959. 176 Meshes of the Afternoon, M. Deren, USA, 1943. 177 Night Cries, T. Moffatt, Australia, 1990. 172

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narrativi adottati dal film, non può comprendere appieno le sofferenze della vittima. Lo spettatore diviene dunque il veicolo, il testimone del trauma rappresentato, subìto e incarnato sullo schermo dalla vittima/protagonista del film. Kaplan individua in questa struttura triangolare («the horror, the victim and the listener/viewer»178) la caratteristica peculiare dell’atto di testimonianza, che permette la promozione della compassione e della comprensione fra culture diverse.

4. Trauma theory e cultural studies: la teoria post-coloniale del trauma Il concetto di trauma svolge un ruolo fondamentale nel dialogo fra popolazioni e culture diverse. La trauma theory si intreccia in questo modo ai postcolonial studies, un settore dei cultural studies sorto grazie all’interesse per le lotte degli indigeni di tutto il mondo contro i colonizzatori occidentali, avvenute negli anni Settanta del Novecento. A partire dagli anni Ottanta e Novanta, i postcolonial studies hanno cominciato a criticare il colonialismo da diverse prospettive disciplinari, tra cui quella cinematografica, la più interessante per il nostro discorso. La teoria post-coloniale ha soprattutto domandato ai film il superamento del concetto di cinema etnografico classico, troppo legato a numerosi stereotipi occidentali. Due sono state le risposte: la rinnovata rappresentazione etnografica degli aborigeni da parte dell’Occidente e l’autorappresentazione indigena. Anche per quanto riguarda il rapporto tra trauma e teoria post-coloniale la nostra autrice di riferimento è Kaplan. La studiosa, nel suo saggio Trauma Culture179, ha infatti indicato tre modelli per lo studio del cinema etnografico: il dialogo (ovvero un semplice scambio interculturale); l’interpretazione (un tentativo di

178

E.A. Kaplan - B. Wang (a cura di), Trauma and Cinema, p. 10. Cfr. E.A. Kaplan, Trauma Culture, pp. 101-121.

179

105

comprensione critica); il translating. Kaplan assegna a quest’ultimo modello la maggior parte delle attenzioni. Il translating (che possiamo rendere in italiano come traduzione e/o tramandamento) consiste nella trasmissione delle esperienze di una cultura per le persone della stessa cultura (ma di una diversa generazione) e/o per le persone di una cultura diversa. Questo atto di traduzione e tramandamento si serve, sullo schermo, dei cosiddetti embodied translators, ovvero traduttori incarnati, figure in carne ed ossa, che svolgono spesso il ruolo di protagonisti nelle pellicole, che attraverso la testimonianza del proprio vissuto si rendono parte di un processo di costruzione di senso, volto a sanare la frattura provocata dal colonialismo. Altro concetto fondamentale per la teoria postcoloniale è quello di contact-zone: ideato per la prima volta da Mary Louise Pratt180, evidenzia la zona di contatto fra gruppi indigeni ed invasori occidentali, uno spazio utile per comprendere le relazioni - quasi sempre catastrofiche - fra aborigeni e colonizzatori, colpiti entrambi dalle tracce di un passato violento. Interessante è anche l’idea di trauma transgenerazionale, assimilata da Kaplan al concetto di fantasma individuato da Nicolas Abraham e Maria Torok181, ovvero un trauma che passa dal genitore al figlio, inconsciamente. Dopo aver descritto questi concetti chiave, Kaplan cerca di mostrarli attraverso diversi esempi cinematografici, indagando prima l’immaginario occidentale delle relazioni fra bianchi colonizzatori e aborigeni, attraverso i film Where the Green Ants Dreams182 di Werner Herzog e Dances With Wolves183 di Kevin Costner, poi

180

Cfr. M. L. Pratt, Arts of the Contact Zone, in «Profession», 1991, pp. 33-40. Cfr. N. Abraham - M. Torok - N.T. Rand, The Shell and the Kernel: Renewals of Psychoanalysis, University of Chicago Press, Chicago 1994. 182 Where the Green Ants Dream, W. Herzog, Australia, 1985. 183 Dances With Wolves, K. Costner, USA, 1990. 181

106

focalizzandosi sull’autorappresentazione degli indigeni, citando i casi di My Survival As an Aboriginal184 di Essie Coffey e My Name is Kahentiiosta185 di Alanis Obomsawin. Nell’esempio dei due film occidentali, di Herzog e Costner, Kaplan ravvisa un superamento dello stereotipo degli indigeni, descritti come selvaggi brutali da certa cinematografia, soprattutto di genere western. Quello che però risulta da questo superamento è il ritorno ad un altro stereotipo, ovvero al concetto settecentesco del buon selvaggio, dimostrando così in questi film un’operazione di translating impossibile, secondo Kaplan, poiché i popoli indigeni vengono mostrati in un altro universo mentale e fisico, attraverso il punto di vista dell’uomo bianco che, pur empatico nei confronti degli aborigeni, rappresenta comunque un elemento esterno rispetto ad essi; la figura dell’uomo bianco e il suo tentativo di identificazione con le popolazioni estranee oppresse fungono da elementi di mediazione fra il trauma delle vittime del colonialismo e lo spettatore occidentale, ma sotto la superficie di queste pur buone intenzioni di denuncia sociale si cela un forte senso di colpa, inconscio, causato dalla politica coloniale occidentale. L’operazione di translating messa in atto dalle film-makers indigene Coffey e Obomsawin si rivela invece più efficace, secondo il parere di Kaplan, poiché il punto di vista assunto è quello indigeno, che vuole educare il proprio popolo e lo spettatore occidentale attraverso la rappresentazione delle tradizioni. La testimonianza in prima persona da parte dell’aborigeno, funzionando così da embodied translator, permette allo spettatore di entrare nel mondo dell’indigeno e di empatizzare con le sue lotte. I protagonisti dei film di Coffey e Obomsawin non si pongono come vittime né chiedono empatia, ma resistono all’oppressione,

184

My Survival As an Aboriginal, E. Coffey, Australia, 1978. My Name is Kahentiiosta, A. Obomsawin, Canada, 1995.

185

107

cercando di aiutare il prossimo attraverso la propria testimonianza, la quale si rivela un processo vitale per la riparazione del trauma. e che produce a sua volta l’atto di testimonianza dello spettatore, che nell’esperienza della visione compie un atto di assunzione di responsabilità verso l’ingiustizia storica, superando la semplice empatia e condiscendenza dei film occidentali sull’Altro come vittima, andando oltre la sterile identificazione con la sofferenza. Lo spettatore si fa così testimone dell’evento traumatico altrui: nel film, attraverso la testimonianza personale di un protagonista, vittima di soprusi razziali, culturali, politici o di genere, viene trasmessa la conoscenza di fatti traumatici, la quale viene integrata e assimilata dallo spettatore attraverso una certa distanza data dallo schermo e dalla narrazione. Lo spettatore diventa testimone a sua volta di questa operazione di significazione di un evento come il trauma che, senza legami con la storia, la cultura e la persona, rimarrebbe un’esperienza priva di senso, di valore e di cognizione. L’atto di comprensione svolto dallo spettatore prevede un tentativo di interpretazione di quanto visualizzato sullo schermo: proprio l’interpretazione è il concetto chiave dell’analisi del trauma nell’audiovisivo.

5. Il trauma come categoria interpretativa del film Il tema principale del trauma, secondo Thomas Elsaesser, rimane il rapporto fra la memoria e le sue lacune.186 La teoria del trauma si è rivelata, nella nostra analisi, un luogo ideale per affrontare questi vuoti e le numerose difficoltà che altre teorie dell’audiovisivo non sono riuscite a risolvere come, ad esempio, il rapporto fra la memoria, la fantasia e la realtà storica, il problema della rappresentazione degli eventi traumatici, le complessità culturali e politiche legate al contatto fra diversi

186

Cfr. T. Elsaesser, Postmodernism As Mourning Work, p. 194.

108

generi e civiltà (in questo caso, la trauma theory si è agganciata al discorso sia della teoria femminista sia degli studi post-colonialisti). La teoria del trauma, partendo da un’analisi testuale prettamente decostruttivista e rielaborando la critica psicanalitica, è arrivata a indagare le relazioni dell’audiovisivo con i suoi riferimenti storici e culturali, studiando in questo modo il rapporto fra testo ed extratestualità. Tale rapporto è visibile sia nelle citazioni palesi dei film al trauma, culturale o individuale, che lascia così evidenti tracce di sé, sia nelle pieghe del testo, nelle sue assenze, dove traccia del trauma non è apparentemente rimasta, ma che proprio per questo motivo ne può far sospettare una celata presenza. Nelle tracce troviamo così quella che in psicologia del trauma viene definita l’agency, l’essere agente, che riconosce ed esprime la situazione traumatica; nelle assenze, invece, risulta chiaro il concetto psicologico di latenza e dislocazione. Senza dubbio il cinema ha utilizzato molto la dislocazione per relazionarsi al trauma culturale. Kaplan, in Trauma Culture187, si è concentrata in particolar modo sul cinema classico americano dopo la seconda guerra mondiale, notando l’attrazione di diversi produttori hollywoodiani per il tema della dimenticanza, soprattutto all’interno dei melodrammi, dove numerosi sono gli esempi di individui affetti da un’amnesia traumatica. Raramente, però, questi film trattano la politica culturale della dimenticanza. In questo modo viene attivato il meccanismo che Kaja Silverman188 ha definito finzione dominante: il trauma culturale, dislocato, viene nascosto o trasformato nella narrazione all’interno di un trauma individuale; allo stesso tempo, però, si cerca di sanarlo e rivelarlo inconsciamente. Il compito dei trauma studies è proprio quello di indagare il trauma individuale presente nel testo di fiction di un

187

Cfr. E.A. Kaplan, Trauma Culture, pp. 66-86. K. Silverman, Male Subjectivity at the Margins, Psychology Press, Hove 1992, p. 12.

188

109

film - classico, nel caso citato da Kaplan, che prende in esame Spellbound di Hitchcock - attraverso gli strumenti della trauma theory per poter riportare in superficie il trauma culturale sommerso. È evidente che il lavoro di analisi critica dei teorici del trauma sia un lavoro di interpretazione

testuale,

volto

a

evidenziare

le

problematiche

della

rappresentazione traumatica e lo statuto dell’evento traumatico, che indica un nuovo modo di intendere la memoria, non più solamente ancorata alla realtà effettiva e conoscibile. Abbiamo infatti visto, grazie agli studi di Janet Walker, che il trauma si colloca nella dimensione ibrida e ambigua della realtà e della fantasia, una dimensione soggettiva che oltrepassa il fondamentalismo dell’esperienza autentica ma anche la tirannia del performativo189: ciò che esprime la trauma theory è una mediazione fra soggettività e realtà storica.

In this respect, trauma theory revives debates around the definition of subjectivity and history. What contemporary trauma theory tries to rethink is the relation of subjectivity to history, across the act of narration, in which witnessing and personal testimony are in some sense both crucial and highly problematic.190

Il rapporto tra la memoria e la storia è inevitabilmente traumatico, dal punto di vista della trauma theory, che ne analizza le lacune e le narrazioni atipiche, non lineari. Dal momento che l’esperienza del trauma avviene (anche) attraverso la sua dimenticanza, l’assenza di evidenti sintomi traumatici in una rappresentazione può

189

T. Elsaesser, Postmodernism As Mourning Work, p. 201. Ivi, p. 198.

190

110

segnalare un sottotesto traumatico, come sostiene Elsaesser: «one of the signs of the presence of trauma is the absence of all signs of it»191. Nella rappresentazione di un evento traumatico possiamo ancora vedere il ritorno di qualcosa di represso, ma questa, secondo Elsaesser, è una analisi del trauma ormai limitata, che si rivolge ancora troppo alla prospettiva strutturalista e psicanalitica.192 La trauma theory si deve porre alle spalle della postmodernità, individuando i suoi problemi politici e culturali e riconoscendo senza rammarico che le grandi narrazioni della modernità si sono concluse con l’Olocausto, evento che è stato visto sia come l’ultima delle grandi narrazioni storiche sia come l’emblema dell’impossibilità delle grandi narrazioni dell’emancipazione umana. Caruth ha sostenuto che il trauma è «the name for the impossibility of history as narrative, as an ordered sequence of events, of agents as subjects, as chronology, as cause and effect, as rationality or purposiveness of actions»193. L’accento posto sul tempo, lo spazio e la loro dislocazione nell’esperienza traumatica porta Elsaesser a parlare di referenzialità come concetto utile per comprendere il trauma e la sua rappresentazione:

referentiality [...] can no longer be placed (that need no longer be placed) in a particular time or place, but whose time-space-place referentiality is nonetheless posited, in fact, doubled and displaced in relation to an 'event'. That this could be of interest to film theorists, meditating on the special-effects blockbuster or event-movie, and might

191

Ivi, p. 199. Ivi, p. 200. 193 C. Caruth (a cura di), Trauma: Explorations in Memory, p. 7, cit. in T. Elsaesser, Postmodernism As Mourning Work, p. 200. Caruth riprende le riflessioni sulle grandi narrazioni esposte da JeanFrançois Lyotard in La Condition postmoderne: rapport sur le savoir, Les Éditions de Minuit, Parigi 1979. 192

111

be suggestive to television scholars trying to get a handle on the factsfantasies-and-fictions surrounding a media event like the death of Diana, Princess of Wales.194

Elsaesser dunque vede nella trauma theory più il recupero della referenzialità ovvero della situazione concreta, del contesto storico e culturale a cui si riferisce l’azione - che della memoria, irrimediabilmente traumatizzata. La referenzialità serve proprio a superare le difficoltà di collocazione temporale e spaziale causate nella memoria e nella percezione dall’evento traumatico:

Besides involving repetition and iteration, the traumatic event intimately links several temporalities, making them coexist within the same perceptual or somatic field, so much so that the very distinction between psychic time and chronological time seems suspended.195

Dunque la referenzialità, secondo Elsaesser, indaga il rapporto fra soggettività e realtà nella narrazione e nella testimonianza dell’evento traumatico, per ristabilire un «link between public event and private impact, across body and voice as instruments of an (incomplete) inscription of this subjectivity»196. Basarsi esclusivamente sul rapporto fra sintomi e ricordi del trauma può non bastare, non tanto perché le sensazioni e/o la memoria del trauma potrebbero essere ingannevoli, o perché il trauma stravolge le normali categorie narrative, ma poiché l’evento traumatico può non lasciare tracce evidenti di sé, come abbiamo visto nel fenomeno della dissociazione:

194

T. Elsaesser, Postmodernism As Mourning Work, p. 200. Ivi, p. 197. 196 Ivi, p. 198. 195

112

trauma poses the enigma of interpretation as a negative performative, while referring to a historicity and a temporality that acknowledges (deconstruction's) deferral and (psychoanalyst's) double time of Nachtraglichkeit. In which case, trauma theory is not so much a theory of recovered memory as it is one of recovered referentiality Such referentiality. however, can only be recovered through interpretation, because as Gertrude Stein might have said, there is no there there.197

Il trauma può dunque essere indagato non solo attraverso le sue tracce sensibili e visibili, presenti in un testo in modo evidente, ma anche attraverso un’interpretazione dei silenzi, delle oscurità e dei vuoti, delle tracce invisibili che si riferiscono al trauma, ma che non si manifestano apertamente. A causa della natura del trauma, questa referenzialità all’evento presente nel testo audiovisivo può essere recuperata solo attraverso l’interpretazione: se il trauma rappresenta la distruzione di senso della storia, la sua interpretazione, affidata alla trauma theory, deve essere dunque vista come una ricostruzione del senso distrutto. È proprio da qui, dall’interpretazione come concetto chiave per l’esplorazione del trauma nella sfera audiovisiva, che partiremo per la nostra analisi della narrazione, della rappresentazione e della referenzialità storico-culturale degli eventi traumatici presenti all’interno della serialità televisiva.

197

Ivi, p. 201.

113

Parte terza

Serialità traumatiche

Capitolo V

La serialità televisiva 1. Breve storia della serialità, dall’industrializzazione alla televisione Il concetto di serialità, oggi associato abitualmente alla sfera cinematografica, televisiva e dell’audiovisivo in generale, ha origini lontane: concettualmente, ha origine nel pensiero di Johannes Gutenberg, il famoso orafo tedesco che, nel XV secolo, partendo dalla fabbricazione in serie di specchietti laminati, era riuscito a realizzare il sogno della riproduzione a stampa con caratteri mobili. Il concetto di serialità, legato saldamente dunque, fin dalle origini, all’ambito economico e culturale, trovò la propria affermazione con l’industrializzazione, ed è soprattutto fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento che il mondo industriale vide il successo della produzione in serie, basata sull’innovativa tecnica della catena di montaggio e sul sistema fordista. La società di massa, che si profilò già a partire dalla metà dell’Ottocento, fu il terreno fertile per lo sviluppo della serialità industriale e culturale. In questo periodo si cominciò a parlare di prodotti culturali di massa: i giornali e i periodici sono un primo esempio di produzione culturale in serie, rivolta a soddisfare le esigenze comunicative della massa, di cui era cominciato ad aumentare notevolmente il grado di alfabetizzazione. La prima narrazione seriale nacque proprio sui periodici:

115

è qui che si svilupparono i feuilleton, all’inizio dell’Ottocento, da cui presero successivamente le mosse i romanzi a puntate, accolti subito favorevolmente dal grande pubblico. Il successo di questo tipo di narrazione, primo passo verso l’istituzionalizzazione della serialità narrativa, avvenne grazie alle nuove tecniche di produzione e circolazione della stampa, sempre meno costose e sempre più rivolte ad un vasto ed eterogeneo pubblico, maschile e femminile. La narrazione a puntate costruita dal medium periodico non prevede una divisione di un’iniziale trama, ma anzi, comporta una narrazione in itinere, che si sviluppa puntata dopo puntata. Uno dei primi ricorsi a questa strategia narrativa è avvenuto con l’edizione del romanzo, inizialmente a puntate, di Charles Dickens, Il circolo Pickwick198, pubblicato in diciannove episodi in venti mesi, fra il marzo del 1836 e l’ottobre del 1837. Questo genere di stampa popolare, capace di raggiungere un vasto pubblico, diede dunque forma ad una nuova modalità narrativa, il cui ritmo si basava sull’alternanza fra ripetizione (di personaggi, di luoghi, di eventi, di situazioni, di storie) e interruzione, e che proprio grazie all’espediente della ripetitività attraeva il piacere del lettore e lo fidelizzava. Inoltre, la modalità di lettura, aperta al vasto pubblico, divenne collettiva, non più solo individuale, innescando meccanismi di confronto e condivisione della narrazione da parte dei lettori. Diretto discendente di questa serialità narrativa su carta è il fumetto, che fece i suoi esordi, nel 1895, sul supplemento domenicale del New York World con le strisce illustrate di Yellow Kid. Ma il 1895, come ben sappiamo ormai, segna anche la nascita di un’altra, fondamentale forma artistica basata sul concetto di

198

C. Dickens, The Postumous Papers of the Pickwick Club, Chapman & Hall, Londra 1837.

116

riproduzione tecnica e serialità: il cinema, il quale, molto presto, si rivolse a modalità narrative seriali:

il serial è stato una forma caratteristica del cinema fin dagli anni Dieci. In quegli anni, la produzione era infatti ricca di prodotti dalla durata variabile (alcuni erano molto brevi, altri duravano anche più di quarantacinque minuti), caratterizzati da molta azione, e ricchi di situazioni di suspense, scenari esotici e avventurosi salvataggi. Si trattava quindi di film caratterizzati da una struttura episodica, in cui una story-line veniva portata avanti per numerose puntate. La struttura dei singoli frammenti prevedeva l’interruzione del racconto proprio nel momento di apice della tensione, con un finale sospeso.199

I primi prodotti seriali cinematografici, legati anche ad innovazioni tecniche nel mondo della pubblicità, cercarono dunque di intercettare l’attenzione di un pubblico sempre più vasto, il quale veniva attratto attraverso l’utilizzo di situazioni ripetitive con i medesimi personaggi, i quali assursero a icone dando il via al fenomeno del divismo. I serial, inoltre, cambiarono le dinamiche produttive e di diffusione dell’industria

cinematografica,

avvicinandosi

al

modello

fordista

dell’organizzazione lavorativa, con una produzione creativa sempre più veloce e costi realizzativi ridotti. Il modello seriale divenne presto dominante nella sfera dell’audiovisivo nei primi anni del Novecento, ne troviamo l’influenza anche in un altro importante medium di questo periodo, ovvero la radio. Anche in questo caso, un grande

199

V. Innocenti - G. Pescatore (a cura di), Le nuove forme della serialità televisiva: Storia, linguaggio e temi, Archetipolibri, Bologna 2008, p. 5.

117

impulso economico e pubblicitario spinse il sistema radiofonico commerciale alla ricerca di un sempre più vasto bacino di ascoltatori/consumatori, i quali venivano attratti attraverso trasmissioni seriali, basate anche stavolta sui principi della ripetizione, del divismo (anche se via radio, la potenza e la riconoscibilità di certe voci riusciva ad assumere un valore iconico) e della fidelizzazione del pubblico. Non solo i concetti radiofonici di trasmissione e programmazione, dunque, ma anche quello di serialità, saranno decisivi per l’avvento del medium televisivo. I mass media, quali stampa, cinema, radio e televisione, come vedremo nelle prossime pagine, sono dunque caratterizzati intimamente dal concetto di serialità. Questo legame fra produzione seriale e media di massa ha origine, come abbiamo visto, nella società capitalista occidentale a partire dall’Ottocento, fortemente condizionata dalla modernizzazione delle città e delle industrie. La cultura subisce l’influenza di questi processi, andando così a delinearsi il fenomeno dell’industria culturale, con il mondo dell’arte che, persa ormai la propria aura, è costretto a ripensarsi e a tener conto della nuova dimensione e delle nuove condizioni artistiche determinate dai processi di riproducibilità tecnica.200 La serializzazione e la riproducibilità permettono una circolazione e un’accessibilità alle opere prima di allora inimmaginabile, ma questo processo ha comportato inevitabilmente anche una massificazione del prodotto culturale, guidato, secondo le teorie della Scuola di Francoforte201, non più da fini propriamente artistici ma dalla volontà economica del produttore e del consumatore, in una logica commerciale sempre più rispondente al legame fra domanda e offerta. La frattura così aperta fra la cultura

200

Cfr. W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1966. 201 Cfr. M. Horkheimer - T.W. Adorno, Dialettica dell'Illuminismo, Einaudi, Torino 1995.

118

alta e quella popolare è stata però ridimensionata dalla rivalutazione della cultura di massa, ad opera, soprattutto, di autori come Edgar Morin202 e Umberto Eco203. I mezzi di comunicazione di massa e i loro prodotti subiscono dunque una rivalutazione in positivo, anche perché, volenti o nolenti, sono ormai diventati strumenti cui quotidianamente ci si rivolge per questioni di informazione e cultura: è soprattutto la televisione, medium seriale per eccellenza, ad assumersi un ruolo di primo piano nella vita culturale degli uomini, dal secondo Novecento in poi.

2. Television studies, industria culturale e serialità televisiva Come abbiamo appena visto, il meccanismo della serialità non è nato con la televisione, come potrebbe sembrare oggi, in un momento storico in cui il concetto viene ricondotto sempre più popolarmente all’ambito televisivo. Letteratura e cinema, fumetto e radiofonia avevano già largamente usufruito dei meccanismi seriali, prima dell’avvento della televisione. È però con il sistema televisivo che il processo seriale tocca il proprio apice, ne è dimostrazione il fatto che la serialità televisiva ancora e soprattutto al giorno d’oggi non soltanto è un fenomeno in continua espansione, che si rivolge ad un pubblico vastissimo ed eterogeneo, ma è anche sempre più soggetta alle attenzioni di studiosi ed accademici dell’audiovisivo e non solo. Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta cominciarono a cambiare i sistemi universitari di studio, si guardava l’audiovisivo da un punto di vista meno teorico e più pratico: la televisione divenne così un importante oggetto di studio, infatti nacquero negli Stati Uniti i television studies.

202

Cfr. E. Morin, L'industria culturale. Saggio sulla cultura di massa, Il Mulino, Bologna 1963. Cfr. U. Eco, Apocalittici e integrati: comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Milano, Bompiani, 1964.

203

119

Prima di allora, però, un pregiudizio storico aveva attanagliato la critica televisiva, rimasta ancorata ad una certa nicchia specialista e settoriale, poiché, paradossalmente, proprio per le caratteristiche di grande diffusione di cui era capace il medium televisivo, le sue proposte venivano rubricate negativamente nell’ambito esclusivo della cultura di massa, popolare. Per questo motivo, il discorso sulla serialità televisiva ha impiegato diverso tempo prima di poter significativamente affiorare:

il problema della serialità applicata alle forme estetiche è rimasto per decenni sottotraccia, costantemente eluso seppure in qualche modo segretamente abbracciato per le necessità del mercato. Solo verso la fine degli anni 70 del secolo scorso questo argomento ha cominciato a essere sottratto agli schemi discorsivi dell’interdetto, emergendo in maniera sempre più frequente sebbene ancora conflittuale e problematica nell’ambito di un dibattito sulle forme della cultura di massa che impegnava le nuove generazioni.204

La serialità televisiva non è una modalità narrativa e rappresentativa omogenea, ma presenta al suo interno diverse categorie. Per questo motivo, per affrontare lo studio del fenomeno seriale televisivo, abbiamo bisogno innanzitutto di riallacciarci alla categorizzazione effettuata da Umberto Eco a metà degli anni Ottanta, nel saggio L’innovazione nel seriale205. Il noto semiologo ha diviso i prodotti seriali televisivi in due principali categorie, ovvero il serial e la serie.

204

S. Brancato (a cura di), Post-serialità. Per una sociologia delle tv-series. Dinamiche di trasformazione della fiction televisiva, Liguori, Napoli 2011, p. 4. 205 Cfr. U. Eco, L’innovazione nel seriale, in Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano 1985, pp. 125-145.

120

Il serial è una lunga ed intricata narrazione, composta da un numero variabile di puntate, segmenti narrativi di cui è composta e che risultano dipendenti l’uno dall’altro. Una singola puntata non può reggersi autonomamente, poiché appunto dipende e si collega in modo diretto alla narrazione precedente, formando il complesso divenire della trama. Il serial è a sua volta divisibile in due categorie, caratterizzate da diversa durata: il continuous serial e la miniserie. Il continuous serial, che prevede una prolungata serialità della narrazione, si diversifica a sua volta in soap opera e telenovela. La soap opera ha un’origine radiofonica, legata alla sfera commerciale, basti pensare all’ipotesi sull’origine del nome stesso di questa forma di fiction, che si pensa indicasse proprio una produzione rivolta ad un pubblico femminile al quale venivano presentati messaggi pubblicitari di detersivi e saponi all’interno della narrazione. La soap opera televisiva è diretta erede di quella radiofonica sia per quanto riguarda i temi, l’amore, principalmente, sia per quanto concerne il pubblico di riferimento, il mondo femminile delle casalinghe, sia per quanto riguarda l’intenzione commerciale di fondo, volta a veicolare la pubblicità di prodotti della nascente società dei consumi ad un pubblico sempre più interessato. Sviluppatasi in Europa e Stati Uniti, la soap opera non prevede una risoluzione narrativa, un finale, infatti potrebbe ipoteticamente proseguire all’infinito, come ben sanno gli spettatori del serial tv Beautiful206, andato in onda per la prima volta nel marzo del 1987 e giunto oggi alla sua trentesima stagione, con più di 7400 puntate all’attivo. La telenovela, invece, ha origine nell’America Latina e, sebbene preveda anche questa forma narrativa un ingente numero di puntate, tuttavia la concatenazione degli eventi rappresentati è rivolta ad un epilogo. La soap opera e la telenovela vengono anche catalogate come esempi di saga,

206

The Bold and the Beautiful, W.J. Bell - L.P. Bell, USA, CBS, 1987 - in produzione.

121

narrazioni in cui il protagonista e la sua famiglia vengono seguiti per lunghi periodi, anche per diversi anni, come dimostra l’esempio precedentemente citato di Beautiful, fino ad arrivare ai figli, ai nipoti, a tutti i discendenti dei protagonisti iniziali. Il miniserial, invece, l’altra forma in cui si ramifica il serial, è una fiction televisiva composta da poche puntate. Pur appartenendo alla categoria del serial, il miniserial è dunque anomalo, presenta una modalità seriale breve rispetto alla soap opera e alla telenovela, prevedendo quindi una risoluzione narrativa finale e chiedendo allo spettatore una fedeltà ed un’attenzione minore. I meccanismi della lunga serialità, per intercettare l’attenzione dello spettatore e stimolare il piacere della visione, si dispongono alla ripetizione di situazioni note e alla rappresentazione di personaggi conosciuti, assicurandosi così la fedeltà dello spettatore, curioso di scoprire come potranno proseguire (e forse finire) le vicissitudini a cui ha assistito nel corso della narrazione. La serialità corta, per ottenere questa fidelizzazione dello spettatore, deve ricorrere a sua volta a meccanismi di ripetizione e a forme intertestuali, meccanismi di citazione e riconoscibilità di storie archetipiche e di temi universali, spesso adattando dunque per il piccolo schermo acclamati romanzi del passato o celebri eventi storici: è il caso, ad esempio, della miniserie Holocaust, che abbiamo citato nel precedente capitolo, una serie sulle drammatiche esistenze di una famiglia tedesca e una ebraica nella Germania del secondo conflitto mondiale, narrate in quattro puntate andate in onda nel 1978 sulla rete NBC. Dopo aver analizzato il serial e tutte le sue sottocategorie, passiamo ora alla descrizione dell’altra forma di serialità televisiva, la serie. Anch’essa presenta una narrazione strutturalmente divisa in puntate ma, a differenza del serial, quelle delle

122

serie sono definite episodi e godono di una propria autonomia all’interno dello svolgimento narrativo: la narrazione è dunque frammentata in episodi, dotati di un titolo preciso, generalmente autoconclusivi e autosufficienti. Le serie, oltre che presentarsi in forme di genere diverse, dalla fantascienza al western, dal dramma alla commedia, dal procedural al medical, dall’avventura al crime, è a sua volta divisibile in tre categorie utili a descriverne le diverse formule narrative: la serie antologica, la sit-com e la serie vera e propria. La serie antologica è composta da diversi episodi di durata variabile, i cui protagonisti risultano sempre diversi, così come le situazioni e i luoghi in cui le vicende vengono di volta in volta ambientate. Dunque potrebbe sembrare che venga qui a cadere un fattore chiave della serialità, la ripetizione: in realtà i diversi episodi presentano spesso la stessa struttura narrativa, e il loro elemento unificante è spesso ravvisabile nel genere di appartenenza, ad esempio la fantascienza per la celebre serie degli anni Sessanta Ai confini della realtà207, o i temi trattati, come la dipendenza tecnologica nell’attualissima e futuristica serie televisiva Black Mirror208, o la presenza dello stesso interprete o narratore, come ad esempio Ronald Reagan in General Electric Theater209 o Alfred Hitchcock in Alfred Hitchcock presenta210. Questa tipologia di serie non è molto comune - se pensiamo ad esempio al panorama attuale, l’unica serie antologica dotata di un ragguardevole seguito è proprio Black Mirror. La continua differenziazione narrativa, infatti, è un fattore decisivo per la produzione ridotta di queste serie, poiché richiede un notevole sforzo inventivo. Una forma più semplice, composta da brevi episodi autosufficienti ma comunque legati fra loro da

207

The Twilight Zone, R. Serling, USA, UPN, 1959 - 1964. Black Mirror, C. Brooker, UK - USA, Channel 4, 2011 - in produzione. 209 General Electric Theater, USA, CBS, 1953 - 1962. 210 Alfred Hitchcock Presents, A. Hitchcock, USA, CBS, 1955 - 1962. 208

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tematiche, genere e/o protagonisti è quella della sit-com. Il nome, contrazione di situation comedy, dichiara subito il genere e gli intenti leggeri tipicamente da commedia di queste serie. La struttura della sit-com, come ha notato Milly Buonanno, è costantemente circolare, divisibile in:

stato di equilibrio iniziale, presto scompigliato dall’ingresso di un elemento turbativo [...]; parabola ascendente della tensione o del conflitto al suo apice; risoluzione del problema e ritorno alla situazione di equilibrio iniziale [...]. In nessun altro caso ci troviamo di fronte, ogni volta, alla traduzione quasi letterale dell’essenza della serialità, vale a dire il ritorno del già noto, il ritorno al già noto.211

Il ritorno del già noto è dunque un fattore tipico della serialità e in particolare delle sit-com, ma i protagonisti di queste serie, nel corso delle stagioni, comunque, maturano e compiono mutamenti, basti pensare al percorso evolutivo della compagnia di amici di Friends212 o alla famiglia atipica e allargata di Due uomini e mezzo213 e alla crescita (in realtà più fisica che caratteriale), nel corso delle stagioni, del piccolo Jake Harper, interpretato da Angus T. Jones. Le serie vere e proprie sono invece contraddistinte dalla presenza di uno schema e di un carattere fisso: gli episodi sono tutti costruiti allo stesso modo, rappresentano situazioni sempre molto simili fra loro, ricorrenti, così come i personaggi principali, accanto ai quali si avvicendano personaggi secondari minori per variare la narrazione e «per dare l’impressione che la storia seguente sia diversa dalla storia

211

M. Buonanno, Le formule del racconto televisivo. La sovversione del tempo nelle narrative seriali, Sansoni, Milano 2002, pp. 174 - 175. 212 Friends, K. Bright - M. Kauffman - D. Crane, USA, NBC, 1994 - 2004. 213 Two and a Half Men, C. Lorre, L. Aronsohn, USA, CBS, 2003 - 2015.

124

precedente»214. Questo è il caso, ad esempio, di Dr. House - Medical Division215, medical drama in cui il protagonista, un medico sui generis interpretato da Hugh Laurie, ispirato alla figura di Sherlock Holmes, deve risolvere in ogni puntata casi clinici particolari. La struttura è tipica del genere investigativo e poliziesco, non a caso fra altri esempi di serie del genere possiamo annoverare Colombo216 e La signora in giallo217. Caratteristica tipica della serie televisiva è dunque la riproposizione di situazioni simili agite dagli stessi protagonisti di episodio in episodio, come le analisi mediche di House e le indagini di Colombo e della signora Fletcher, ad esempio. In questa tipologia di strutture apparentemente molto rigide si possono comunque aprire vie innovative e sperimentali per diversi mondi possibili, attraverso espedienti narrativi come il flashback e il flashforward, variazioni nel corso della storia basate sul principio del what if: è il caso dell’episodio Di nuovo normale di Buffy218, in cui la teenager ammazzavampiri, in seguito alla ferita di un demone che le inietta un potente veleno allucinatorio, immagina di essere in un manicomio e Sunnydale, la sua città piena di creature soprannaturali, viene semplicemente vista come frutto dell’immaginazione della mente malata della ragazza. La categorizzazione che abbiamo presentato può sembrare rigida, ma la realtà è che spesso la serialità televisiva si presenta in modo più sfumato, con strutture inizialmente tendenti alla serie vera e propria, dal carattere ripetitivo, che poi, nel

214

U. Eco, Tipologia della ripetizione, in F. Casetti (a cura di), L’immagine al plurale. Serialità e ripetizione nel cinema e nella televisione, Marsilio, Venezia 1984, p. 24. 215 House, M.D., D. Shore, USA, Fox, 2004 - 2012. 216 Columbo, R. Levinson - W. Link, USA, NBC, 1968 - 1991. 217 Murder, She Wrote, P.S. Fischer - R. Levinson - W. Link, USA, CBS, 1984 - 1996. 218 Normal Again, R. Rosenthal, s. VI, ep. 17, prima tv USA 12 marzo 2002, in Buffy, the Vampire Slayer, J. Whedon, USA, The WB, 1997 - 2003.

125

corso della narrazione, possono sfociare in narrazioni di più ampio respiro, tipiche invece del serial:

Le formule narrative non sono schemi rigidi e intoccabili, esse si fondono, si sovrappongono, danno vita a uno scenario produttivo complesso, all’interno del quale si fanno avanti tipologie di prodotti più difficilmente classificabili, ma di grande interesse.219

La tendenza della serie televisiva a serializzarsi è un fenomeno recente, che coinvolge soprattutto la televisione americana e che indica il raggiungimento di una qualità più elevata del prodotto televisivo, che tende a complicarsi e ad arricchirsi di sfaccettature. Gli episodi, inizialmente autosufficienti, nel corso delle stagioni divengono puntate concatenate l’una all’altra; la narrazione, che nella serie si basa sul principio dell’autonomia e della chiusura, nel serial si frammenta e si prolunga, per svolgersi in un numero variabile di puntate dipendenti l’una dall’altra e caratterizzate dalla sospensione della narrazione e dalla sua ripresa. L’ibridazione è una caratteristica importante della serialità televisiva americana, per studiare l’ambiguità di questi formati si è dunque fatto ricorso alle categorizzazioni delle trame in anthology plot e running plot: nel primo, la materia della narrazione si limita ad un solo episodio, mentre nel secondo abbiamo un materiale narrativo che si prolunga in due episodi o più, secondo le forme del serial.

In molti casi, pertanto, le serie partono con una struttura narrativa ad episodi autoconclusivi, per poi intraprendere la strada della serializzazione dopo qualche stagione. Tale passaggio si rende

219

V. Innocenti - G. Pescatore (a cura di), Le nuove forme della serialità televisiva, p. 14.

126

necessario nel momento in cui il prodotto deve garantire al suo fruitore il giusto equilibrio tra il “ritorno del già noto” e la novità, tra l’approfondimento del carattere dei personaggi e la creazione di storylines sempre più appassionanti e coinvolgenti.220

L’ibridazione era sicuramente meno forte, o addirittura assente, nella televisione delle origini, quella che negli Stati Uniti viene chiamata Golden Age e comincia nel secondo dopoguerra fino a raggiungere gli anni Sessanta. Il vero salto di qualità della fiction televisiva avvenne però a partire dagli anni Ottanta, non a caso vista come una seconda età dell’oro della televisione, che giunge fino ai nostri giorni. L’intrattenimento di massa si complica ed aumenta il proprio livello qualitativo e culturale, e alla televisione non si guarda finalmente più con pregiudizio, ma le si assegna una rinnovata dignità di studio e analisi, non più esclusivamente sociologica. Negli anni Ottanta cominciò infatti ad apparire in ambito accademico uno studio dell’audiovisivo da un punto di vista meno teorico e più pratico, che integrava sociologia, storia, narratologia, in un insieme di studi multidisciplinari che si sono incrociati con la nascita dei television studies. Il primo studioso in questo campo è stato John Fiske: tra gli anni Ottanta e i Novanta egli pose le basi dello studio sistematico della televisione e dei generi televisivi, attraverso saggi quali Reading Television221 e Television Culture222. Negli anni Ottanta e Novanta non fu solo la tv a cambiare al suo interno le proprie logiche narrative e rappresentative, ma si cominciò a vedere e a pensare al pubblico come un insieme di spettatori maturi, un pubblico composto da fasce diverse, eterogenee,

220

Ivi, p. 20. J. Fiske - J. Hartley, Reading Television, Methuen, Londra - New York 1978. 222 J. Fiske, Television Culture, Methuen, Londra - New York 1987. 221

127

a cui si rivolse la nascente quality television, una televisione che, secondo Robert Thompson223, rompe le precedenti norme televisive, allontanandosi da quanto fatto in passato; una televisione prodotta da persone competenti nella sfera cinematografica, che attrae con la qualità il proprio spettatore, una produzione che possiede un grande cast e una tramatura complessa, costruita attraverso diversi piani narrativi. La nuova fiction non si lascia etichettare facilmente in un solo genere ed innalza il proprio livello culturale, letterario e sociale, facendosi contenitore anche di critiche sociali e di riferimenti culturali popolari o più elitari. L’ibridazione e la complessità sono le vie percorse dalla nuova televisione di qualità, apprezzata non più solamente dalla massa indistinta degli spettatori da divano (i cosiddetti couch potato o teledipendenti), ma anche da critici di settore e accademici, i quali coi propri giudizi garantirono la qualità raggiunta dal prodotto televisivo. Cadde dunque il pregiudizio sull’audiovisivo televisivo e divenne così legittimo il suo studio estetico. Aldo Grasso ha individuato tre motivi per cui le serie televisive sono riuscite a guadagnare credito nei confronti della critica:

il telefilm cerca di mettere un po’ d’ordine nel disordine del flusso televisivo. [...] Ha il potere della forma, quella lunga e spesso complicata operazione di sceneggiatura, recitazione, regia, montaggio che permette di dare a una massa informe di idee e di azioni un profilo, una fisionomia. E infatti, la fiction è una delle ultime riserve televisive dove è possibile incontrare il regista, una specie in via di estinzione. [...] il telefilm mette comunque in scena un sistema di valori cui fare riferimento. [...] la fiction è sempre un punto di riferimento rispetto, per

223 Cfr. R.J. Thompson, Television's Second Golden Age: From Hill Street Blues to ER, Syracuse University Press, Syracuse 1997.

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esempio, ai talk show o ai reality dove non c’è mai gerarchia di valori, dove una chiacchiera vale l’altra, dove si può dire tutto e il contrario di tutto. [...] infine, [...] il telefilm traccia [,,,] dei percorsi passionali, delle vie obbligate al sentimento e lo spettatore viene inconsciamente preso per mano e trasferito d’incanto nella dimensione emotiva che lo risarcisce dell’aridità della vita quotidiana.224

Un ruolo importante nella caduta del pregiudizio sulla fiction televisiva spetta dunque non solo alla qualità proposta dalla nuova serialità, ma anche all’abbandono dell’idea di un palinsesto caratterizzato da un flusso indistinto, delineato da Raymond Williams225, un flusso continuo dal quale difficilmente si pensava potesse emergere qualcosa di valore o di diverso rispetto al panorama delle trasmissioni presenti. La nuova, proficua stagione della serialità televisiva di qualità prese le mosse con l’innovativa costruzione narrativa multilineare, dalle multiple trame, di Hill Street giorno e notte226, la prima serie a mostrare un processo di serializzazione in atto nella narrazione televisiva. Jason Mittell vede proprio nel processo di serializzazione delle serie televisive l’origine della quality television, con prodotti di fiction sempre più complessi227:

Allo stadio più elementare, la complessità narrativa è una ridefinizione delle forme a episodi sotto l’influenza della narrazione seriale – non

224

A. Grasso, Il telefilm fa bene, in V. Innocenti - G. Pescatore (a cura di), Le nuove forme della serialità televisiva, 2008, p. 119. 225 R. Williams. Television: Technology and Cultural Form, Fontana, Londra, 1974. 226 Hill Street Blues, S. Bochco - M. Kozoll, USA, NBC, 1981 - 1987. 227 Il concetto di complessità nella serialità televisiva è stato analizzato a fondo dall’autore e i suoi studi sono stati raccolti nella recente opera intitolata, non a caso, Complex TV. Cfr. J. Mittell, Complex TV. The Poetics of Contemporary Television Storytelling, New York University Press, New York - Londra, 2015.

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necessariamente una fusione completa tra struttura a episodi e struttura seriale, ma un equilibrio variabile. Sottraendosi all’esigenza di una conclusione dell’intreccio nell’ambito di ogni singolo episodio che caratterizza la convenzionale struttura a episodi, la complessità narrativa privilegia una continuità del racconto abbracciando un’ampia varietà di generi. Inoltre, la complessità narrativa affranca la struttura seriale dalla generica associazione alle soap opera.228

La vera rivoluzione, però, avvenne con la serialità d’autore, che ha visto l’entrata in scena di figure di alto livello, spesso provenienti dal mondo del cinema, nella sceneggiatura e nella regia di prodotti televisivi:

Un’influenza fondamentale che ha contribuito all’emergere della complessità

narrativa

nella

televisione

contemporanea

è

il

cambiamento di percezione da parte degli autori riguardo alla legittimità e all’attrattiva del medium. Molti dei programmi televisivi innovativi degli ultimi vent’anni sono stati ideati da autori che provenivano dal cinema, un mezzo tradizionalmente di maggior prestigio culturale.229

Il primo è più importante esempio di autore cinematografico prestatosi al piccolo schermo è sicuramente David Lynch, regista palma d’Oro per Cuori selvaggi230 nel 1990 che nello stesso anno ha esordito sul piccolo schermo con I segreti di Twin

228

J. Mittell, La complessità narrativa nella televisione americana contemporanea, trad. it. S. Mambrini, in V. Innocenti - G. Pescatore (a cura di), Le nuove forme della serialità televisiva, 2008, p. 125. 229 Ivi, p. 123. 230 Wild at Heart, D. Lynch, USA, 1990.

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Peaks231, vera e propria serie tv di culto da cui ha origine idealmente la serialità televisiva di qualità. L’ultimo esempio, in ordine di tempo, di regista cinematografico passato a dirigere una serie televisiva è invece Paolo Sorrentino, che ha esordito il 21 ottobre di quest’anno, 2016, su Sky con The Young Pope232. Molte serie tv di successo, come appunto Twin Peaks, I Soprano233 e Mad Men234, celebrati esempi di quality television235, presentano caratteristiche peculiari e di valore nello stile, nella scrittura, nella regia, nel cast, nelle tematiche e nella rappresentazione visiva. Questo nuovo modello di televisione balza subito all’occhio dello spettatore, non abituato a una qualità del genere sul piccolo schermo, una qualità senza dubbio più adatta alla grande rappresentazione cinematografica, ma che in questo modo nobilita il denigrato medium televisivo e apre nuovi orizzonti di critica e di pubblico: molte serie, infatti, grazie al loro alto grado di qualità, non conquistano solamente i network nazionali, ma spesso finiscono in circuiti ben più ampi, internazionali, pensiamo ad esempio ai prodotti seriali televisivi statunitensi, osannati non solo in territorio nazionale ma anche oltreoceano. Ciò permette anche un investimento ingente di capitali in questi nuovi prodotti, costruiti per attrarre diverse fasce di pubblico e molteplici sponsor, grazie ai quali finanziare e produrre show milionari, come nel caso di E.R. - Medici in prima linea236, prima serie a sfondare il budget per puntata di un normale film per il cinema.

231

Twin Peaks, D. Lynch - M. Frost, USA, ABC, 1990 - 1991. The Young Pope, P. Sorrentino, Italia, Sky Atlantic, 2016 - in produzione. 233 The Sopranos, D. Chase, USA, HBO, 1999 - 2007. 234 Mad Men, M. Weiner, USA. AMC, 2007 - 2015. 235 Per quanto riguarda il concetto di quality television, oltre ai già citati R.J. Thompson, Television's Second Golden Age, 1997, e J. Mittell, Complex TV, 2015, cfr. M. Jancovich - J. Lyons, Quality Popular Television: Cult TV, the Industry, and Fans, BFI, Londra 2003; J. McCabe - K. Akass, Quality TV. Contemporary American Television and Beyond, I.B.Tauris, Londra, 2007. 236 ER, M. Crichton, USA, NBC, 1994 - 2009. 232

131

La qualità e la complessità di queste serie, dotate di una narrazione multilineare e stratificata, ricca di misteri e di particolari nascosti, come in Lost237, ad esempio, invita gli spettatori a una visione ripetuta delle puntate e delle stagioni. Questa nuova necessità dello spettatore è stata affrontata prima organizzando repliche televisive delle serie più seguite, poi trasferendo il contenuto televisivo prima sul supporto VHS e poi su DVD, confezionando cofanetti di serie che aumentano notevolmente la circolazione e la vita degli show. Questa diffusione è resa oggi ancor più ampia grazie a Internet, con la relativa pirateria audiovisiva ma anche con gli approfondimenti nei blog e nei forum, e grazie ai servizi di streaming e on demand forniti dalle maggiori aziende di produzione e distribuzione filmica, una su tutte Netflix, azienda nata nel 1997 per il noleggio di DVD e videogiochi ma che solo nel 2008, grazie all’avvio del servizio di streaming online on demand, ha visto un’ascesa e un successo incredibile nel campo della distribuzione dell’audiovisivo, diventando una dei leader attuali di un settore in continua crescita. Quello delle serie tv, infatti, è uno dei principali mercati dell’industria culturale contemporanea, un business miliardario: pensiamo solo al fatturato della rete televisiva via cavo HBO, principale capostipite della quality television e creatrice di serie tv quali I Soprano, The Wire238 e Il Trono di Spade239, che nel 2014, con 32 milioni di abbonati, ha guadagnato circa 1.3 miliardi di dollari240. Il successo economico e culturale, di critica e di pubblico delle serie televisive, dagli anni Ottanta e Novanta ad oggi, dipende molto anche dalla loro capacità di coinvolgere lo spettatore, con un prodotto in grado di intrattenere ma anche capace

237

Lost, J.J. Abrams - D. Lindelof - J. Lieber, USA, ABC, 2004 - 2010. The Wire, D. Simon, USA, HBO, 2002 - 2008. 239 Game of Thrones, D. Benioff - D.B. Weiss, USA, HBO, 2011 - in produzione. 240 S. Fumarola, Rai, Mediaset e Sky alla disfida delle fiction aspettando Netflix, «Repubblica», 17 novembre 2014. 238

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di suscitare riflessioni. Un prodotto che, spesso, grazie alle tematiche trattate e alla propria tendenza realista, visibile anche nell’estensione seriale della durata della narrazione, si avvicina alla quotidianità dello spettatore, riempiendo le giornate di un pubblico, oggi, sempre più esigente e abituato al consumo di serie televisive. Sarebbe riduttivo, però, descrivere lo spettatore solamente come consumatore del prodotto televisivo: egli infatti non è più il teledipendente, spettatore couch potato di qualche decennio fa, ma, con la propria attenzione ed un coinvolgimento in prima persona, partecipa anche al processo produttivo, influenza coi propri gusti e le proprie opinioni gli autori, attraverso varie forme di dibattito. Prima dell’avvento dei social media, i luoghi del confronto fra appassionati erano fisici, con vere e proprie comunità di ammiratori, i cosiddetti fandom, che si incontravano in raduni e convention, famosa ad esempio quella dei fan di Star Trek. Poi, i social network hanno permesso il costituirsi di reti di fan più ampie e capillari, dalle comunità si è passati alle community online, che permettono di interagire e di influenzare anche direttamente gli autori, i quali spesso si rivolgono attraverso i social agli appassionati e ne assecondano le opinioni. I meccanismi di risposta alle serie tv esercitati dai fan decostruiscono il prodotto non attraverso una logica strutturalista, relativa maggiormente alla critica specialistica: la decostruzione avviene per appropriarsi del prodotto, ad esempio attraverso la creazione di fan fiction, user generated content e mashup. Henry Jenkins, che dagli anni Novanta si è occupato di media e cultura di massa partecipativa, nel complesso dei cosiddetti audience studies, ha coniato il termine textual poachers241 per descrivere il ruolo degli spettatori nella nuova industria

241 H. Jenkins, Textual Poachers: Television Fans & Participatory Culture. Studies in culture and communication, Routledge, New York 1992.

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culturale, oltre ad aver etichettato anche gli accademici studiosi ed appassionati di serie tv (fra i quali si inserisce lui stesso) col termine aca-fan242. Lo spettatore diviene contemporaneamente un user, in un’interazione costruttiva con il prodotto per lui creato attraverso (anche) le sue opinioni. Lo spettatore diventa così un prosumer243, consumatore e produttore nello stesso tempo, esperto e conoscitore di media, di tecnologia e dei prodotti che l’industria culturale può a lui offrire, compresa la serialità televisiva, sempre più complessa e sempre più adattata alle esigenze del nuovo spettatore:

Ora sappiamo tutti, o quasi, cosa significa dire serialità televisiva. Almeno in superficie. Sono i suoi più esperti spettatori a conoscerne la natura di esperienza emotiva, insieme interiore e territoriale, situata. Sono loro a suggerirci che esistono innumerevoli trame, continue affinità elettive, tra serialità televisiva e vita quotidiana.244

La serialità è diventata ormai parte della vita quotidiana di molte persone, le quali seguono appassionatamente le vicende dei propri beniamini sul piccolo (al giorno d’oggi, non più così piccolo) schermo del televisore, o del personal computer, o di tablet e smartphone. La serialità televisiva, però, non soltanto fa parte del vivere quotidiano, ma si appropria anche delle tematiche espresse dalla quotidianità, e a sua volta lo spettatore si appropria di quanto proposto dalla narrazione seriale, in un continuo gioco di specchi fra autore, spettatore e realtà in cui entrambe queste figure sono inevitabilmente immerse. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti,

242

Si guardi il weblog personale di Henry Jenkins, intitolato significativamente: Confessions of an Aca-Fan, www.henryjenkins.org 243 A coniare il termine è stato il saggista statunitense Alvin Toffler, negli anni Ottanta, cfr. A. Toffler, The Third Wave, Bantam Books, New York 1980. 244 S. Brancato (a cura di), Post-serialità, p. 1.

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la vita quotidiana, soprattutto a partire dalla modernità, deve fare i conti costantemente con la realtà traumatica, ed anche per questo motivo, ma non solo, la serialità televisiva contemporanea si è occupata frequentemente del trauma, una condizione umana inevitabile e per questo molto interessante per l’indagine narrativa della televisione di qualità. Vedremo dunque, nel prossimo capitolo, perché il trauma è uno dei temi preferiti della serialità televisiva, non soltanto in quanto efficace espediente narrativo utilizzato per mettere in moto l’azione, ma anche per le particolari caratteristiche rappresentative che presenta e per i discorsi e le riflessioni che scatena più o meno esplicitamente nel panorama della programmazione televisiva.

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Capitolo VI

La serialità televisiva e il trauma La serialità televisiva, che ha utilizzato e sfrutta tuttora molto frequentemente il trauma come espediente narrativo per costruire articolate trame da proporre ad un pubblico sempre più esigente, non solo si nutre dell’esperienza traumatica, ma ne condivide anche alcune caratteristiche peculiari, quali la ripetizione, con il ritorno (più o meno fantasmatico) di eventi e personaggi, la frammentazione della rappresentazione in puntate o episodi, e la rottura dell’equilibrio narrativo (un principio, questo, che in realtà accomuna il trauma pressoché con ogni genere di racconto). In questo capitolo andremo quindi ad analizzare alcune delle congruenze e delle consonanze fra la serialità televisiva e la realtà traumatica, nonché le implicazioni del loro rapporto, partendo da una breve osservazione dell’ambiente mediale in cui si sviluppa il racconto seriale del trauma, ovvero la televisione: qui l’evento traumatico non trova spazio solamente nella fiction, ma anche nella rappresentazione realistica dei notiziari e dei telegiornali, e il confronto fra queste due forme diverse ma conviventi nello stesso medium può offrire qualche spunto interessante per il nostro studio. Successivamente ci occuperemo di un’analisi delle rappresentazioni e delle narrazioni di eventi traumatici nella serialità televisiva, in particolar modo evidenziando alcuni dei motivi e delle strutture principali e

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ricorrenti in quelle serie tv da noi prese in considerazione che abbiamo definito nel titolo della nostra tesi trauma series, ovvero esempi di quality television che possiedono un forte legame con la tematica traumatica. Proveremo così a capire come il trauma possa essere usato utilmente anche come categoria interpretativa della serialità televisiva contemporanea. Prima di inoltrarci nel vivo della nostra analisi vogliamo però esaminare un recente caso di rappresentazione traumatica che riteniamo esemplare e adatto ad individuare alcuni elementi su cui ci soffermeremo poi nel corso del nostro studio complessivo delle trauma series: l’episodio Orso bianco245 di Black Mirror.

1. Orso Bianco, distopia traumatica: spunti sul trauma nelle serie tv Black Mirror è una serie antologica britannica, in onda su Channel 4 a partire dal 2011, in Italia su Sky Cinema 1, ed approdata recentemente su Netflix con sei episodi della nuova, terza stagione. È una serie tv distopica, che immagina un futuro inquietante in cui l’umanità è dominata dalla tecnologia. Il leitmotiv che lega ogni episodio della serie è infatti la critica all’avanzamento tecnologico, colpevole della disumanizzazione occorsa alle persone e alla società. Lo specchio nero, black mirror, che dà il titolo alla serie si riferisce inequivocabilmente agli schermi (neri perché spenti? o neri perché bui, inquietanti, insondabili?) di televisione, computer e smartphone, evidenziando così chiaramente fin dal titolo l’amara critica verso una contemporaneità dipendente dalla tecnologia. Una critica, questa, che in realtà proviene da un autore che ha sempre avuto un grande rapporto con la tecnologia: Charlie Brooker, infatti, sceneggiatore e produttore televisivo, scriveva per una

245 White Bear, C. Tibbets, s. II, ep. 2, prima tv UK 18 febbraio 2013, in Black Mirror, C. Brooker, UK, Channel 4, 2011 - in produzione.

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rivista di videogiochi246 ed ha fatto il suo esordio nel mondo televisivo proprio grazie a Internet, attraverso un sito web nel quale realizzava parodie della programmazione televisiva247. Nella serie tv che gli ha dato notorietà e successo, Black Mirror, Brooker racconta un mondo parallelo, ipertecnologizzato, in cui le relazioni umane sono completamente mediate dalle nuove tecnologie. È evidente in tutta la serie la presenza di un rapporto traumatico, anche se non esplicitato, fra un prima, un mondo senza tecnologia o in cui essa certamente non tiranneggiava la società, e un dopo, un’apocalisse tecnologica che la novella Cassandra britannica Charlie Brooker sembra prevedere con chiarezza e che non lascia grandi speranze per un futuro luminoso248. Interessante dunque, per il nostro discorso, la visione pessimistica della sfera esistenziale, condannata ad una realtà traumatica dalla tecnologia, ma ancor più degno di attenzione per il nostro studio sulla rappresentazione audiovisiva del trauma si rivela l’episodio Orso Bianco, presente nella seconda stagione della serie. L’episodio si apre con un susseguirsi di immagini disturbate e disturbanti: una donna si sveglia su una sedia, con un forte mal di testa, mentre l’inquadratura indugia su alcune pillole sparse sul pavimento ai suoi piedi. La donna si guarda allo specchio, sembra non riconoscersi, né ricordare molto della propria vita probabilmente le pillole sul pavimento segnalano un tentato suicidio?

246

La sua stessa tesi di laurea in Scienze della Comunicazione aveva come argomento i videogiochi, ma proprio per questo non fu accettata dall’Università di Westminster, che non gli permise di laurearsi: «I failed to graduate, thanks entirely to my decision to write a 15,000-word dissertation on the subject of videogames, without bothering to check whether that was a valid topic, which it wasn't». C. Brooker, Poor A-levels? Don't despair. Just lie on job application forms, «The Guardian», 21 agosto 2011. 247 Cfr. www.tvgohome.com 248 «The future is bright» è la tagline con cui è stata presentata la terza stagione della serie su Netflix, con un chiaro gioco di parole e di ironie fra la visione pessimistica del futuro e la luminosità degli schermi tecnologici.

138

Figura 6.1. Orso Bianco (Carl Tibbets, Black Mirror, 2013)

Ricordiamoci che la dimenticanza, oltre che essere un meccanismo narrativo efficace e molto sfruttato dalla drammaturgia nella letteratura, nel cinema e nelle serie tv, è un chiaro sintomo traumatico, indica la rimozione di un evento, dislocato dalla mente, troppo grave per essere elaborato immediatamente, ma che potrebbe un giorno tornare a infestare i ricordi del traumatizzato, come accadrà alla protagonista dell’episodio in analisi. La casa in cui si è svegliata la donna è piena di schermi su cui è proiettato uno strano simbolo, una specie di Y al contrario, squadrato come un tetramino del tetris, bianco in campo nero; sono presenti inoltre molte fotografie sugli scaffali, e la protagonista concentra la propria attenzione su una di esse, che ritrae lei e un ragazzo, abbracciati: all’interno della cornice è stata posta anche la fotografia di una tenera ragazzina, sorridente. Il volto della bambina scatena un ricordo doloroso nella mente della donna: un’immagine frammentata, che subisce diverse interferenze e glitch, in cui la ragazzina sorride, in direzione di un implicito obiettivo, che si sovrappone così all’occhio della protagonista (e dello spettatore, catapultato nel vivo del ricordo della donna, assumendo il suo punto di vista). L’inquadratura torna sul viso sconvolto della protagonista, descrivendo il suo sbigottimento attraverso un angolo di ripresa che genera un’inquadratura obliqua: la macchina da presa insiste sul volto della protagonista, con una ripresa sbieca e

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mossa del primo piano. Abbiamo visto nel quarto capitolo l’importanza degli inusuali angoli di ripresa249 per rappresentare la realtà traumatica, una realtà che viene descritta in questo modo indicando un allontanamento dalla norma e dalla linearità.

Figura 6.2 Orso Bianco (Carl Tibbets, Black Mirror, 2013)

La protagonista esce quindi di casa: dalle finestre delle case del vicinato e per strada, la gente osserva le azioni della donna e le registra con i propri smartphone. La protagonista prova a chiedere aiuto alle persone che incontra, dice di non ricordarsi chi sia, ma la gente pare sorda, insensibile, non le risponde, proseguendo a filmarla. Scende improvvisamente da un’automobile un uomo in giacca rossa: indossa un passamontagna con il simbolo visto dalla donna sugli schermi in casa. L’uomo mascherato imbraccia un fucile e spara in direzione della protagonista, che si dà alla fuga. La donna trova rifugio all’interno di un negozio di alimentari, qui

249

Cfr. capitolo IV, sottocapitolo 3.

140

aiutata da una ragazza, Jem, e un altro uomo, Damien, con i quali prova a fuggire dall’uomo mascherato, che intanto li ha raggiunti, seguito da una folla di gente intenta a filmare la scena, smartphone alla mano. Damien copre la fuga delle due compagne, che riescono a uscire dal negozio di alimentari, ma cade sotto i colpi dell’uomo col passamontagna. La donna senza memoria, terrorizzata, vede da lontano la morte del ragazzo, i suoi occhi si posano sul carnefice e il simbolo sul passamontagna scatena un altro flashback della protagonista.

Figura 6.3 Orso Bianco (Carl Tibbets, Black Mirror, 2013)

Vediamo nuovamente immagini frammentarie, con glitch che scompongono i pixel di frame intervallati quasi impercettibilmente dallo strano simbolo della Y al contrario. Sono immagini girate da un cellulare, all’interno di un’automobile: alla guida si trova il probabile fidanzato della donna, la quale siede nel posto accanto al conducente, mentre sui sedili posteriori c’è la ragazzina della foto. Tutti e tre sorridono. Finisce il flashback e la donna viene portata via da Jem, per mettersi insieme al sicuro. Comincia qui la folle fuga delle due donne, inseguite da uomini 141

armati e mascherati e da curiosi muniti di smartphone, sempre pronti a riprendere ogni minimo istante. La donna senza memoria chiede spiegazioni a Jem, non riesce a capire perché stia succedendo tutto questo, le pare di vivere un incubo. Jem, quasi incredula dell’ignoranza della donna, le spiega l’origine di quei comportamenti che la smemorata ha visto nelle persone: un giorno, un segnale video, proprio quello rappresentato dalla Y al contrario, ha invaso gli schermi di tutta la popolazione. La maggior parte delle persone è caduta sotto l’influenza del segnale, ed ora questa gente, definita col nome di spettatori, si aggira costantemente con lo smartphone in mano, come zombie ossessionati dal riprendere qualsiasi cosa passi davanti ai loro occhi. Altre persone, però, non hanno subìto alcuna influenza da parte del segnale, e fra queste molte hanno cominciato a muoversi nel mondo come se fosse il proprio lunapark, scatenando il caos: questi sono i cosiddetti cacciatori, gli uomini mascherati che stanno inseguendo le due donne apparentemente senza alcun ragionevole motivo. Jem rivela inoltre alla donna senza memoria che il segnale del misfatto proviene da un trasmettitore chiamato Orso bianco, il piano è di trovarlo e distruggerlo per porre fine al caos. Il nome del trasmettitore, però, scatena nella donna smemorata una crisi di panico: questa comincia a ripetere le parole «orso bianco» a Jem, e, colpita dal flash proveniente dalla fotocamera di uno smartphone di uno spettatore, la donna ricorda un altro frammento traumatico del proprio oscuro passato. Le immagini vengono proposte ancora in modo scomposto, vediamo la donna nell’atto di riprendere con il proprio cellulare la bambina della foto che, giocando, fingendo di essere ad un pic-nic, saluta la donna, sorridendo all’obiettivo. Finisce il flashback, e la protagonista si scaglia contro uno degli spettatori, lanciandogli un mattone trovato per strada. Lo spettatore perde il proprio smartphone, scappando. Il cellulare viene recuperato dalla donna senza memoria,

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ma Jem la avverte, minacciandola con un taser, di non guardare lo schermo: potrebbe essere pericoloso, sostiene, potrebbe presentare un segnale. La donna guarda comunque lo schermo, attivando un altro flashback: è ormai chiaro che il simbolo, gli schermi e i flash, nella narrazione, fungono da trigger, da oggetti scatenanti, da stimoli diretti della memoria traumatica. Questo è un espediente narrativo comune, viene ad esempio notato ed analizzato anche da E. Ann Kaplan nel film Spellbound, un melodramma classico di Alfred Hitchcock250: il protagonista, anche qui uno smemorato, Edwards/Ballantine, si imbatte in cinque attacchi di panico nel corso della narrazione, scatenati dalla reazione ad uno stimolo condizionato causato dalla visione di linee nere su campo bianco, che provocano sia flashback, sia allucinazioni. L’influenza estetica dei fenomeni traumatici viene osservata minuziosamente da Kaplan, che individua in ogni attacco di panico tecniche cinematografiche molto simili (focus sulle linee nere, seguito dal primo piano del volto sbigottito di Ballantine) che rappresentano il fenomeno di duplicazione subito dalle vittime di traumi. Nel caso di Orso Bianco, sono gli schermi, i flash, il simbolo della Y capovolta a stimolare una risposta traumatica, mentre per Ballantine sono le linee nere, che si riferiscono ad un incidente sugli sci del protagonista: le linee richiamano esplicitamente nel film il trauma familiare infantile del protagonista, la morte accidentale del fratellino, trafitto su una staccionata, causata da Ballantine stesso. Al trauma individuale del protagonista, però, si lega nascostamente quello culturale della guerra mondiale. Vedremo anche per Orso Bianco la presenza di un significativo trauma culturale, che però coincide con il trauma individuale della protagonista e per questo motivo non viene affatto nascosto dalla narrazione.

250

Cfr. E.A. Kaplan, Trauma Culture, pp. 66-86.

143

Ma torniamo ora dove eravamo rimasti, all’analisi di un altro flashback accorso alla mente della nostra smemorata: le immagini, ancora scomposte e intervallate rapidamente dal segnale misterioso, mostrano nuovamente la donna nell’atto di filmare la bambina, ma a questi frame si accompagna un primo piano sul volto del fidanzato, in auto, e una nuova inquadratura, che rappresenta un grande incendio, al quale la donna sta assistendo, protetta, sul sedile della propria automobile. Si chiude il flashback, e altri cacciatori irrompono sulla scena. Fortunatamente per le due donne, un uomo di nome Baxter le trae in salvo, portandole sul proprio furgone. La donna senza memoria ricorda di aver già visto il loro attuale salvatore, ma Baxter nega. La protagonista, però, sembra ricordare il tragitto che stanno percorrendo, e prevede la meta in cui l’uomo porterà lei e Jem, ovvero il bosco. Si scopre quindi che Baxter non è altri che l’uomo mascherato che le minacciava all’inizio dell’episodio, il quale ha condotto le due donne nel bosco per ucciderle. Jem riesce a scappare dalle grinfie dell’uomo e, mentre questi sta per ammazzare la donna senza memoria, interviene in aiuto della protagonista e spara a Baxter. Prosegue così la fuga delle due donne, le quali, salite sul furgone, si dirigono nella zona del bosco in cui è localizzato il trasmettitore Orso bianco. Lungo la strada, il flash proveniente dallo smartphone di uno spettatore scatena un altro ricordo nella mente della donna senza memoria: le immagini sono ancora frammentate, ritornano al viaggio in automobile della donna col fidanzato e con quella che la protagonista sostiene ormai essere la propria figlia. Nel ricordo, l’automobile passa accanto ad una vettura della polizia: la donna chiede dunque alla bambina di nascondersi, sdraiandosi sul tappetino dell’auto, come l’orsetto bianco che la accompagna. A queste immagini si sovrappone un’altra inquadratura, che mostra una mano, probabilmente quella della donna stessa, ammanettata al bracciolo di una sedia.

144

Figura 6.4 Orso Bianco (Carl Tibbets, Black Mirror, 2013)

Finisce il flashback, la donna pare molto turbata, soprattutto perché finalmente risulta chiaro il motivo dell’attacco di panico sopravvenuto alla pronuncia delle parole orso bianco: queste avevano infatti ricordato inconsciamente alla donna il peluche appartenente alla sua bambina. La protagonista chiede allora a Jem di tornare indietro, «c’è qualcosa che non va con l’orso bianco! - dice - Mi sto ricordando!». Ma Jem prosegue, non si fida della donna e vuole raggiungere il trasmettitore. Giungono quindi davanti all’area recintata in cui è posto il ripetitore del segnale, e nuovi flashback affollano la mente della donna, sempre più confusa: il ricordo stavolta ci propone le immagini ancora leggermente scomposte dell’incendio citato in precedenza, ma stavolta vediamo anche che ad appiccarlo è stato il fidanzato della donna, la quale osserva tutto dall’interno dell’automobile, dove la raggiunge poi l’uomo, per accarezzarla sul viso. L’inquadratura torna sulla donna, che ripete lo stesso gesto, accarezzandosi il viso, confusa, mentre fluiscono in lei i ricordi. Intanto Jem è riuscita a scardinare il cancello che porta all’area

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protetta dove si trova il trasmettitore. Jem trascina la smemorata con sé, ma questa vede sul cancello l’insegna «TRASMETTITORE ORSO BIANCO», un nuovo trigger che innesca un altro ricordo: all’immagine della donna che filma la bambina, la quale ripete la frase, già sentita in precedenza, «un pic-nic coi miei due migliori amici», segue il frame del simbolo della Y, stavolta però ne comprendiamo l’origine, poiché si trova tatuato sul collo di un ragazzo - forse il fidanzato della donna?

Figura 6.5 Orso Bianco (Carl Tibbets, Black Mirror, 2013)

Jem e la protagonista finalmente trovano il trasmettitore, ma una banda di cacciatori mascherati le assale: la donna senza memoria riesce a sottrarre ad uno degli aggressori il fucile e gli spara, ma dalla canna non escono pallottole, bensì coriandoli! La donna, incredula, osserva le mura che la circondano aprirsi, rivelando un pubblico in visibilio. Jem, Damien e i cacciatori si inchinano di fronte agli spettatori, dichiarando così esplicitamente la fine della recita. La donna senza memoria però non capisce, e viene allora legata ad una sedia, al centro del palco. 146

Entra in scena Baxter, che rivela alla protagonista chi è e perché si trova in quella situazione: le mostra su tre maxischermi l’immagine segnaletica della donna e quella del fidanzato, rivelandole i loro nomi. Scopriamo finalmente che la protagonista si chiama Victoria Skillane, e col fidanzato Ian Rannoch ha partecipato al rapimento e all’assassinio della piccola Jemima Sykes. Su due maxischermi vanno in onda immagini di repertorio di un notiziario dell’emittente UKN251, mentre il terzo maxischermo presenta un primo piano della faccia sconvolta e incredula della protagonista. Nel notiziario si parla dell’orso bianco di peluche, traccia usata dagli inquirenti per risalire ai colpevoli e simbolo di speranza per l’intera comunità, in apprensione per le sorti della piccola Jemima fino a che non fu scoperto il suo corpo, avvolto in un sacco a pelo e carbonizzato.

Figura 6.6 Orso Bianco (Carl Tibbets, Black Mirror, 2013)

251

Emittente televisiva fittizia.

147

Victoria e Ian sono stati scoperti anche grazie ai filmati delle sevizie - menzionati ma non mostrati nella narrazione - conservati nel cellulare della protagonista. Il notiziario parla anche del processo per l’omicidio, in cui Victoria si è dichiarata colpevole di aver girato i video delle torture e di aver aiutato il fidanzato poiché da lui costretta e sotto l’influenza del suo fascino. Il giudice però non ha voluto attenuarle la pena, ritenendola un soggetto altamente pericoloso, così come il fidanzato, il quale però si è suicidato in cella prima del processo, evitando in questo modo la propria giusta punizione. L’opinione pubblica non vuole che una tale via di fuga possa essere presa anche da Victoria, la quale viene quindi condannata ad una pena dantesca, per contrappasso, «proporzionata e ponderata», come afferma il giudice, dettata da una giustizia poetica: Victoria viene infatti costretta a rivivere ogni giorno lo stesso incubo, braccata da cacciatori che vogliono apparentemente ammazzarla e inseguita da una folla che registra ogni suo tormento. Questo colpo di scena finale obbliga a rivalutare dunque la figura della protagonista: lo spettatore, legato a Victoria da un rapporto empatico, vedendola fin dall’inizio come vittima di una situazione kafkiana, incomprensibilmente perseguitata, condizionata da un trauma apparentemente irrisolvibile, la scopre infine come una carnefice, non innocente ma colpevole, non madre ma infanticida. Il trauma individuale della donna viene a sovrapporsi col trauma culturale della violenza sui minori, una realtà traumatica particolarmente cara alla serialità televisiva, un tema sul quale ci soffermeremo in un percorso di studio appositamente dedicato. Scopriamo dunque che Victoria, che pensavamo fosse vittima di un trauma, è in realtà complice di un delitto terribile, che ha traumatizzato l’opinione pubblica. Ma, anche se passata dalla parte del carnefice, non possiamo certo dire che la protagonista non sia comunque anche vittima di un sistema

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giudiziario folle - e fortunatamente distopico - e traumatizzata lei stessa, nonché segnata dal senso di colpa. Anche alla luce dello scioccante colpo di scena finale, non riusciamo a non provare un po’ di empatia per quella donna che, pur avendo compiuto un crimine inammissibile, viene insultata dal pubblico, portata in mostra, legata, all’interno di una camionetta dalle pareti trasparenti, attraverso una folla urlante, e costretta a rivivere ogni giorno lo stesso incubo. Condotta infatti da Baxter nella stessa stanza della scena iniziale, viene da lui legata alla stessa sedia su cui si era svegliata al mattino. Victoria chiede pietà, vorrebbe morire ma, dopo averle posizionato sulle tempie degli elettrodi, Baxter le cancella violentemente con l’elettroshock la memoria della giornata vissuta, facendole contemporaneamente rivedere le immagini di Jemima che Victoria stessa aveva filmato. Nei titoli di coda scopriamo che il luogo in cui si svolge la pena della donna è una sorta di parco divertimenti della giustizia, aperto al pubblico, intrattenuto da attori i quali interagiscono, in tutta sicurezza, con l’assassina, permettendo agli spettatori di assistere e svolgere loro stessi una parte nella farsa. L’episodio, terminati i titoli di coda, si conclude come era cominciato: Victoria si risveglia, sconvolta da immagini frammentarie ed indistinte di ricordi traumatici. L’episodio termina così circolarmente, lasciando intuire allo spettatore che il trauma della donna proseguirà indeterminatamente, ed essa subirà una pena eterna: possiamo dunque dire che l’episodio, in realtà, non conclude, così come non conclude il trauma di Victoria, segnato da una ripetizione senza fine, costretta a rivivere ogni giorno il proprio incubo, come un novello, contemporaneo e tecnologico Sisifo. L’episodio Orso Bianco, che si concentra su diversi problemi, quali la giustizia sommaria e la sua spettacolarizzazione mediatica, il punto di vista del carnefice e il

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senso di colpa, ci ha anche fornito numerosi spunti di riflessione sulla narrazione televisiva del trauma, partendo dalle tecniche di rappresentazione fino a vedere l’importanza dell’evento traumatico come espediente narrativo. Ci proponiamo ora di analizzare alcuni di questi spunti, a partire da un discorso che in Orso Bianco appare un po’ sotto traccia, ma che viene comunque approfondito in diversi episodi della serie Black Mirror252: ci riferiamo alla rappresentazione giornalistica televisiva del trauma. In particolare, metteremo a confronto il modello narrativo del notiziario con quello della serialità televisiva.

2. Trauma series vs trauma news: modelli narrativi a confronto La televisione racconta il trauma ogni giorno, e non solo attraverso le serie televisive, nostro argomento di studio, ma soprattutto per mezzo dei telegiornali e dei notiziari, i quali si soffermano con particolare attenzione sugli eventi traumatici e drammatici che accadono nel mondo. La narrazione seriale di qualità appartiene al contesto televisivo, così come i servizi informativi proiettati dalle testate giornalistiche, per questo ci pare interessante fare un breve confronto fra questi due differenti modelli narrativi, distanti in quanto a logiche - rivolta all’informazione quella dei notiziari, all’intrattenimento quella delle serie tv - ma che convivono nel palinsesto e condividono lo stesso ambiente, lo schermo televisivo, e lo stesso destinatario, il grande pubblico di massa. Per affrontare tale discorso, però, dobbiamo tornare sui concetti di trauma secondario ed empatia, fondamentali per la condizione spettatoriale.

252

Cfr. The National Anthem, O. Bathurst, s. I, ep. 1, prima tv UK 4 dicembre 2011; 15 Millions of Merits, E. Lyn, s. I, ep. 2, prima tv UK 11 dicembre 2011; The Waldo Moment, B. Higgins, S. II, ep. 3, prima tv UK 25 febbraio 2013; in Black Mirror, C. Brooker, UK, Channel 4, 2011 - in produzione.

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E. Ann Kaplan, in Trauma Culture, dedica un intero capitolo, intitolato Vicarious Trauma and Empty Empathy253, al rapporto fra mass media e trauma, capitolo in cui fondamentalmente l’autrice si concentra sul concetto di trauma secondario ed empatia. Il trauma secondario è un cambiamento in negativo degli schemi cognitivi che deriva dal coinvolgimento empatico con le esperienze traumatiche a cui si è assistito (direttamente o indirettamente). Abbiamo già visto, nel primo capitolo della nostra tesi254, che questo genere di trauma, a livello neurologico, coinvolge la corteccia cerebrale, l’area cognitiva del cervello. Mentre il trauma primario potrebbe non avere un’elaborazione cognitiva, dal momento che colpisce direttamente il soggetto traumatizzato, il trauma secondario prevede sempre uno stato cosciente da parte del soggetto traumatizzato. È stato notato che il trauma secondario coinvolge particolarmente il terapista di casi psichiatrici, ma anche lo spettatore di storie o film che esibiscono traumi può esserne interessato. Anche lo spettatore, come il terapista, generalmente rimane cosciente nella situazione di visione mediata sullo schermo. Abbiamo visto che, sul piccolo schermo, il tema del trauma è molto considerato: la maggior parte delle persone, oggi, incontra i traumi delle catastrofi proprio attraverso la rappresentazione mediatica televisiva. Secondo Kaplan, però, la rappresentazione mass-mediale dei traumi presenterebbe un grave problema: l’autrice, infatti, studiando la risposta spettatoriale agli eventi traumatici presentati sullo schermo dai notiziari, si lamenta del fatto che allo spettatore, per il superamento dell’evento traumatico, venga fornita la via della empty empathy, la cosiddetta empatia vuota.

253

Cfr. E.A. Kaplan, Trauma Culture, pp. 87-100. Cfr. capitolo I, sottocapitolo 2.

254

151

Abbiamo già visto come l’autrice si fosse lamentata del fatto che lo spettatore di telegiornali abbia a che fare con notiziari pieni di immagini catastrofiche, di gravi incidenti, di personaggi famosi morti e di guerre, e quanto ciò induca lo spettatore a prendere una posizione voyeuristica; una posizione negativa, attraverso la quale il pubblico gode subdolamente e perversamente di immagini drammatiche che gli forniscono un forte, ma breve, impatto emotivo. Questo impatto, infatti, lascia una labile traccia, che sparisce dopo poco tempo, una traccia troppo poco significativa per il pensiero dello spettatore: è così che avviene la reazione emotiva dell’empty empathy. Tale reazione è visibile soprattutto nello spettatore di notiziari a cui, tramite un certo tipo di report mediatico che incoraggia una visione sentimentalista, viene proposta una quotidiana raffica di immagini che rappresentano solo frammenti di una più grande e complicata situazione, politica, sociale o culturale, che il pubblico inevitabilmente conosce molto poco. Empty empathy rappresenta infatti un picco di empatia che viene subito svuotata, suscitata per un attimo da immagini di sofferenza offerte senza alcuna conoscenza di contesto o sfondo, senza una cronaca coerente e continuativa alle spalle. Tale genere di empatia difficilmente permette allo spettatore di essere mosso da motivi pro-sociali di giustizia e/o di carità. Isolata in riprese di violenza e morte, l’immagine possiede un impatto che provoca una breve reazione empatica che si perde a lungo termine. L’esempio portato da Kaplan a sostegno della propria tesi riguarda la copertura mediatica della guerra in Iraq del 2003: una campagna televisiva strettamente affine al sentimentalismo, secondo Kaplan, costituita da immagini frammentate di dolore individuale poco o per niente contestualizzate nell’ambito delle guerre mediorientali. Una copertura giornalistica che ha suscitato solo empatia vuota nello spettatore, dunque, non offrendo spunti per una riflessione razionale sui fatti

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accaduti e mostrati dal medium televisivo. Esemplare è il caso del soldato Jessica Lynch, eroina di guerra che con la sua storia individuale ha tenuto banco per diversi mesi nei media statunitensi, arrivando addirittura alla produzione di un film per la televisione sulle sue gesta, Saving Jessica Lynch255. La critica di Kaplan attacca dunque la narrazione giornalistica, rea di soffermarsi sulle storie individuali più che sull’ampio contesto socio-politico, individuando una volontà non più informativa del medium, che invece si avvicina all’intrattenimento emozionale, incapace di descrivere profondamente la realtà dei fatti. Il racconto giornalistico, in questo modo, è molto affine alla spettacolarizzazione narrativa tipica della fiction, nella tendenza contemporanea dell’infotainment, in cui l’informazione diviene intrattenimento. Nei reportage vagliati da Kaplan risulta degna di nota anche la descrizione fotografica della guerra che, attratta dall’estetica del war movie, genera un campo rappresentativo ambiguo, in bilico fra realtà e finzione, in cui si crogiola l’infotainment. In tali servizi, infatti, avviene una sinistra confusione di ruoli, secondo Kaplan: coinvolto empaticamente dalle storie nei telegiornali sulle truppe del proprio paese, lo spettatore è come se entrasse a far parte dell’esercito, simpatizzando con le vicende individuali dei soldati, senza capire le dinamiche e il contesto della guerra. I notiziari contemporanei, dunque, secondo Kaplan, nell’affrontare tematiche traumatiche, soprattutto riguardanti guerre e calamità, dimostrano una certa miopia, focalizzandosi sugli avvenimenti dell’ultima ora e sulle storie individuali, difficilmente riuscendo a comporre un quadro più ampio di contestualizzazione storica, sociale e culturale. Questa caratteristica sembrerebbe allontanare la narrazione giornalistica televisiva del trauma da quella proposta dalla serialità

255

Saving Jessica Lynch, J. Fasano, NBC, prima tv USA 9 novembre 2003.

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finzionale, che invece, partendo da un trauma, ne cerca l’origine e le conseguenze in un arco di tempo ampio e dilatato: pensiamo, ad esempio, al delitto di Laura Palmer in Twin Peaks e alle indagini fuori dall’ordinario del detective Cooper che infine portano alla soluzione del mistero, dopo 17 episodi. Le serie tv (non le soap opera, come abbiamo visto nel capitolo precedente) sono costruite attorno ad una narrazione ampia e multilineare e, pur divise e frammentate in stagioni ed episodi, tendono sempre a concludere un arco narrativo, a raggiungere un finale unitario. Il giornalismo televisivo, pensiamo soprattutto ai servizi dei telegiornali, per proprie caratteristiche potrebbe non sembrare adatto a costruire una narrazione concludente e seriale, perché costretto a lavorare su un flusso continuo di eventi e di informazioni della cronaca contemporanea. Eppure il notiziario televisivo, soprattutto a partire dai tempi della cosiddetta neotelevisione, pare si sia pericolosamente avvicinato alle peculiari caratteristiche di intrattenimento e spettacolarizzazione tipiche della finzione televisiva:

Spettacolarizzazione

e

personalizzazione,

trasformazione

del

giornalista in anchor, evoluzione delle notizie in storie, da narrare ciclicamente: sono queste le caratteristiche che dall’infotainment si propagano ai tg di Fininvest/Mediaset (ormai monopolista del segmento privato) e, in seconda battuta, a quelli della Rai.256

Le premesse presenti nella neotelevisione sono esplose nel sistema televisivo contemporaneo, in cui, per i servizi giornalistici riguardanti la cronaca nera, sia nella cornice dei telegiornali nazionali, sia per quanto riguarda la sfera

256

E. Menduni, Il giornalismo televisivo, in C. Sorrentino (a cura di), Il giornalismo in Italia. Aspetti, processi produttivi, tendenze, Carocci, Roma 2003, p. 146.

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dell’approfondimento, si è cominciato a parlare di televisione del dolore. In Italia il «punto di non ritorno»257 è rappresentato dalla tragedia di Vermicino, nel 1981, in cui una lunghissima diretta tv ha seguito la morte di Alfredino Rampi, bambino sprofondato in un pozzo.

Da allora, tutti i canali hanno alimentato il filone orrorifico, a stento mascherandolo: il dolore come show, la sofferenza come osceno lievito dell'ascolto. Ogni volta, il luogo della tragedia si trasforma in un enorme set televisivo, con il fondato rischio che il dolore declini in spettacolo.258

Recentemente, l’Osservatorio di Pavia Media Research ha eseguito un’indagine, commissionata dall’Ordine nazionale dei Giornalisti, sulle pratiche della televisione del dolore, che ha evidenziato

un'attenzione televisiva alla cronaca nera molto ampia e costante (in media 3 ore al giorno), [...] una concentrazione su casi ritenuti emblematici che assumono carattere seriale nel racconto televisivo, [...] un'esposizione mediatica massiccia di vittime, familiari e conoscenti in qualità di testimoni del proprio dolore, [...] un'enfasi e partecipazione emotiva elevata di conduttori, inviati e ospiti, [...] una commistione di ruoli tra ospiti tecnici, esperti televisivi e al contempo consulenti di parte, [...] una ridondanza di informazioni e opinioni sui casi di cronaca

257

Cfr. A. Grasso, Si può staccare la spina dall’orrore?, «Corriere della Sera», 10 ottobre 2010. Ibidem.

258

155

più noti, [...] una varietà di format televisivi che include al proprio interno racconti di dolore.259

Interessante è l’insistenza sul carattere seriale della cronaca nera televisiva, che mostra quindi una profonda consonanza fra le pratiche dei notiziari e quelle della serialità finzionale: pensiamo ai vari esempi della cronaca nera più o meno attuale, dal delitto di Cogne a quello di Avetrana, allo svolgimento televisivo delle indagini, alla celebrità acquisita involontariamente dai protagonisti di queste drammatiche storie. La spettacolarizzazione del dolore, l’insistenza patemica, le finalità di intrattenimento, la narrazione giornalistica empatica, l’accanimento mediatico, insomma la logica dell’infotainment260 , hanno assottigliato sempre più in questi ultimi anni il confine fra la rappresentazione televisiva della cronaca nera e la narrazione seriale di fiction. Se, per quanto riguarda la cronaca bellica e la politica estera, è vero, come sostiene Kaplan, che il tema del trauma viene solitamente poco contestualizzato e si punta maggiormente ad una storia circoscritta ed al focus sulle situazioni individuali, la componente narrativa, spettacolare e seriale, che richiama un’attenzione spettatoriale empatica e non razionale, viene dunque esaltata nei racconti televisivi di cronaca nera, non strettamente informativi ma volti a suscitare una reazione emotiva nello spettatore. Il giornalismo televisivo mostra, in questo modo, di avere molto in comune con la serialità televisiva, non solamente il terreno condiviso del piccolo schermo in cui

259

Quando l’infotainment spettacolarizza drammi e tragedie: indagine sulle “cattive pratiche” televisive, 24 marzo 2015, www.odg.it 260 Cfr. ibidem.

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si muovono: l’influenza vicendevole fra rappresentazione di fiction e reportage è evidente nella costruzione narrativa del trauma in ambito seriale e giornalistico.

3. Narrazioni e rappresentazioni seriali del trauma Prima di entrare nel dettaglio delle caratteristiche narrative e rappresentative del trauma nella serialità televisiva, ricordiamo che i discorsi fatti nel capitolo quarto, riguardanti la trauma theory nel cinema, ovviamente, valgono anche per la quality television qui in analisi. Abbiamo infatti già visto come la serialità televisiva contemporanea erediti la propria cifra stilistica dal grande schermo. Ci pare comunque interessante notare delle caratteristiche che accomunano specificamente la fenomenologia del trauma e il racconto seriale della fiction televisiva, più che la rappresentazione cinematografica. Con questo non intendiamo dare giudizi su quale modalità narrativa sia più adatta a descrivere l’esperienza traumatica, se quella documentaristica o finzionale presente nel cinema, o quella della serialità televisiva. Semplicemente, il nostro scopo è quello di porre in evidenza alcune significative coincidenze che riguardano i meccanismi di funzionamento del trauma e quelli delle serie televisive, attraverso una sorta di analogia munsterberghiana: se il cinema infatti può essere presentato come analogia del processo mentale, le serie televisive possono a loro volta presentare affinità con il meccanismo psichico del trauma?

3.1 Ripetizioni seriali traumatiche: il caso Westworld Cominciamo a rispondere alla domanda precedente segnalando una delle analogie forse più evidenti nella costruzione del racconto seriale e nell’esperienza traumatica: la ripetizione. Abbiamo visto nel capitolo precedente come la serialità

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televisiva preveda la ripetizione di situazioni, personaggi, archetipi ricorrenti come meccanismo di piacere volto a fidelizzare lo spettatore. La ripetizione, però, è un processo fondamentale anche per la persona traumatizzata, che rivive la propria esperienza traumatica proprio ripetendo tale situazione, inconsciamente. Nella serialità il meccanismo è dunque di piacere, per lo spettatore, che vede reiterati sullo schermo luoghi e personaggi conosciuti, e di cui può approfondire la conoscenza proprio grazie alle loro ripetute apparizioni. Anche il processo della ripetizione traumatica coinvolge il campo della conoscenza: è infatti la ripetizione del trauma dissociato a rendere comprensibile tale esperienza, che, nell’immediato, non risulta cognitivamente conoscibile. Con ciò non intendiamo però dire che la ripetizione del trauma sia simile a quella della serialità televisiva, ovviamente: la ripetitività traumatica non è certo un meccanismo di piacere. Le serie televisive, comunque, possono sfruttare la propria caratteristica ripetizione per simulare i processi ripetitivi del trauma: pensiamo, ad esempio, ai ricorrenti attacchi di panico del boss mafioso Tony Soprano nella serie I Soprano, e a come questi vengano affrontati attraverso la psicoterapia, o pensiamo alle numerose crisi dei coniugi Palmer, disseminate nel corso della narrazione di Twin Peaks, che descrivono e rappresentano al meglio il crollo psicologico dettato dalla traumatica perdita della figlia Laura, e nello stesso tempo aprono uno squarcio sulla personalità malata, schizofrenica (o posseduta dal demonio?) del padre, Leland. La ripetizione è propriamente tipica della serie (secondo la denominazione che abbiamo visto nello scorso capitolo) più che del serial, tuttavia, oltre i casi sopra citati de I Soprano e di Twin Peaks, segnaliamo qui l’importanza fondamentale della ripetizione nella rappresentazione seriale del trauma anche per quanto riguarda un serial recentissimo della HBO, in onda in Italia dall’ottobre 2016 su Sky Atlantic:

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Westworld - Dove tutto è concesso261. Questa serie tv narra di un avveniristico parco divertimenti a tema western abitato da androidi, Westworld per l’appunto, e visitato da migliaia di turisti, denominati convenzionalmente forestieri, a cui è concessa ogni licenza, come se fossero in un gigantesco e reale videogioco open world. Gli androidi, iperrealistici per volontà del loro creatore, sembrano in tutto e per tutto simili ad umani veri, per fattezze, pensieri ed emozioni, ad eccezione del fatto che non hanno una vera coscienza di sé e credono, grazie a sofisticati algoritmi, di essere effettivamente degli uomini e delle donne del vecchio West. Ogni giorno la loro memoria viene cancellata dagli addetti ai lavori, per far rivivere loro le stesse azioni il giorno seguente, basate su una story-line ideata dallo sceneggiatore del parco, per cui essi ripetono le stesse storie, le stesse battute, le stesse dinamiche, potenzialmente, all’infinito. L’ideatore del parco, però, ha nascostamente permesso ad alcuni androidi di mantenere delle ricordanze, ricordi occulti delle loro vite passate e dei personaggi da loro interpretati in precedenza, che noi possiamo ricondurre al principio della coscienza dislocata. La presa di coscienza del proprio status porterà quindi gli abitanti sintetici del parco ad uno shock (e, forse, ad una ribellione)262, dimostrando che gli androidi non soltanto “sognano pecore elettriche”, ma provano anche sentimenti, emozioni, paure ed evidenti disturbi traumatici causati dalle loro ricordanze. Soprattutto la protagonista, Dolores, che, nonostante l’aspetto giovane e bello di una tenera fanciulla della frontiera, è l’androide più vecchio del parco, pare intuire, insieme ad altri compagni di avventura, di essere imprigionata in una sorta di loop narrativo ed esistenziale

261

Westworld, J. Nolan - L. Joy, USA, HBO, 2016 - in produzione. Questo è quanto lascia prevedere il finale dell’episodio pilota, in cui uno degli androidi difettosi, interprete del padre di Dolores, viene portato in manutenzione: egli minaccia gli ingegneri del parco paventando una vendetta degli androidi sfruttati per l’intrattenimento degli umani.

262

159

ambientato nel lontano West. Già nella prima puntata della serie263 possiamo comprendere l’importanza strutturale della ripetizione: essa gioca un ruolo chiave nell’andamento della narrazione, poiché segnala i giorni che scorrono nel parco, sempre uguali, eppure diversi. Vediamo nel corso della puntata pilota, ad esempio, quattro risvegli mattutini della protagonista, Dolores, la quale si alza dal letto e va a salutare il padre seduto nel portico della loro casa di campagna. La quarta volta, però, il padre cambia attore/androide, poiché quello precedente aveva mostrato malfunzionamenti, pensieri pericolosi e ricordi disturbanti di personaggi interpretati da lui stesso in passato, scatenati da una fotografia del mondo reale abbandonata da un visitatore. Dolores, comunque, sembra non accorgersi del cambiamento dell’interprete paterno.

Figura 6.7 The Original (Jonathan Nolan, Westworld, 2016)

263

The Original, J. Nolan, s. I, ep. 1, prima tv USA 2 ottobre 2016, in Westworld, J. Nolan - L. Joy, USA, HBO, 2016 - in produzione.

160

Bisogna sapere che l’arco narrativo programmato dallo sceneggiatore del parco per Dolores prevede il risveglio di costei e il saluto al padre, una visita al fiume, in cui la ragazza dipinge il paesaggio di fronte a sé, l’incontro in città con l’amato cowboy Teddy e il ritorno a casa, la sera, in cui la giovane vede la famiglia vittima delle violenze di una banda di criminali, che le uccidono il padre e abusano di lei. Lo stupro viene commesso non solo dai criminali/androidi, ma a volte anche da forestieri, unitisi alla banda di androidi per provare il brivido del crimine. Un ospite in particolare si è divertito più volte a «far conoscenza» della protagonista: è quello che viene definito l’Uomo in Nero, interpretato da Ed Harris, un forestiero che frequenta da diversi anni il parco e a cui viene offerta, per motivi ancora misteriosi, una libertà di agire ancor più indiscriminata rispetto agli altri ospiti. È proprio in seguito all’ennesimo, ripetuto tentativo di stupro da parte di un criminale/androide che assistiamo ad uno dei primi significativi cambiamenti nel personaggio di Dolores: nel corso della terza puntata264, un criminale la porta nel fienile, come già capitato in precedenza, per abusare di lei. La situazione, però, stavolta, fa scattare nella ragazza il ricordo traumatico di una precedente violenza subita dall’Uomo in Nero: Dolores dunque reagisce in modo inaspettato e non programmato, sparando al criminale. La protagonista dimostra così di essere in grado di reagire al trauma, ribellarsi alle violenze e di uccidere, cosa che non dovrebbe essere capace di fare, secondo la sua programmazione e la narrazione scritta per il suo personaggio da parte dello sceneggiatore del parco: sono infatti le ricordanze, i ricordi traumatici, a stimolare le sue azioni, ora.

264 The Stray, N. Marshall, s. I, ep. 3, prima tv USA 16 ottobre 2016, in Westworld, J. Nolan - L. Joy, USA, HBO, 2016 - in produzione.

161

Figura 6.8 The Stray (Neil Marshall, Westworld, 2016)

Westworld è dunque una serie per noi interessante perché sfrutta in modo originale il meccanismo traumatico e seriale della ripetizione, riuscendo a descrivere l'evoluzione dei protagonisti, da piatti interpreti robotici di una farsa ad androidi forniti di memoria e coscienza, lavorando su uno schema narrativo apparentemente rigido e ripetitivo, ma che in realtà può essere espanso proprio attraverso le storie personali e pregresse dei protagonisti, che si nascondono nelle pieghe delle loro ripetizioni e delle loro ricordanze traumatiche.

3.2 Trigger traumatici: il capocollo di Tony Soprano Nell’analizzare il tentato stupro di Dolores nella terza puntata di Westworld, abbiamo visto un esempio di trigger, di evento scatenante: la ragazza, vivendo una situazione simile ad un’esperienza traumatica già vissuta più volte in precedenza, viene colpita da un attacco di panico, da un cortocircuito mentale - il termine cortocircuito è usato anche fuor di metafora, in questo caso, considerando che Dolores è un androide - un blackout che genera una risposta imprevedibile, 162

eccessiva, non controllata: non a caso Dolores commette un omicidio (anche se nei confronti di un altro androide, dovremmo forse chiamarlo androidicidio), un’azione per la quale non era stata programmata, scatenata dal ricordo traumatico dei reiterati stupri da lei subiti da parte dell’Uomo in Nero. Quello che abbiamo definito trigger, o evento scatenante, è un espediente narrativo molto utilizzato nella narrazione di fiction, che abbiamo già visto all’opera nell’episodio Orso bianco di Black Mirror: Victoria, la protagonista, recupera il proprio passato traumatico (e traumatizzante) attraverso input esterni - flash di fotocamere, schermi di cellulare, simboli enigmatici - che attivano la memoria e i ricordi della sua esperienza traumatica. Quello del trigger è un meccanismo non soltanto tipico di certa serialità televisiva, che si focalizza sull’approfondimento psicologico dei personaggi, ma è proprio un espediente usato da tempo nel cinema per la rappresentazione traumatica (e non solo), come abbiamo visto precedentemente: Kaplan ne sottolinea le potenzialità, ad esempio, già nel film di Hitchcock Spellbound, del 1945. Ritornando a Münsterberg, possiamo dunque credere che se il cinema imita il meccanismo mentale del cervello, attraverso i flashback, i flashforward e il primo piano265, allora l’attivazione del processo traumatico viene esibita proprio grazie all’espediente del trigger, che si basa sul principio di associazione mentale delle immagini. La quality television ci ha fornito alcuni degli esempi più alti e più celebri di tale meccanismo nelle figure di Tony Soprano e Leland Palmer, personaggi iconici, psicologicamente approfonditi anche grazie alla storia del loro passato irrimediabilmente traumatico. Sulla figura di Leland Palmer, sui suoi traumi e i

265

Cfr. capitolo III, sottocapitolo 2.

163

relativi eventi scatenanti ci soffermeremo nel prossimo capitolo, ora invece indagheremo quelli del famoso personaggio interpretato da James Gandolfini. Anthony Soprano è il protagonista della serie televisiva I Soprano, basata appunto sulla vita di Tony, boss di una cosca mafiosa del New Jersey, alle prese con ripetuti attacchi di panico, i quali lo costringono a rivolgersi alla consulenza di una psicologa, la dottoressa Melfi. Il concept della serie è basato interamente sull’influenza del trauma psicologico nella vita quotidiana di un ordinario boss della malavita italoamericana. Nello studio della dottoressa Melfi, Tony racconta il suo primo episodio di attacco di panico, descritto subito nella puntata pilota266: accade ad un barbecue di famiglia, per festeggiare il compleanno del figlio. La giornata è serena e Tony sta cucinando allegramente nel giardino di casa, davanti alla griglia, fumando un sigaro e guardando con gioia le anatre che abitano ormai da diverso tempo nella sua piscina, alle quali si è ormai affezionato. Le anatre però cominciano a sbattere le ali e prendono il volo, verso il Sud, come naturale per un animale migratore. La fuga delle anatre fa scattare qualcosa nella mente di Tony, uomo grande, grosso e potente, ma che per un evento così apparentemente innocuo perde i sensi: il sigaro gli sfugge di bocca, comincia ad ansimare, si porta una mano al petto, lascia cadere l’olio combustibile per la grigliata nel barbecue, e precipita infine al suolo, privo di sensi, schiantandosi su un tavolino da giardino. Come abbiamo visto nella rappresentazione del trauma in Orso bianco, anche in questo caso l’utilizzo della macchina da presa mima l’esperienza traumatica con inusuali angoli di ripresa267: in particolare, è interessante notare il movimento oscillante dell’inquadratura sul

266

The Sopranos, D. Chase, s. I, ep. 1, prima tv USA 10 gennaio 1999, in The Sopranos, D. Chase, USA, HBO, 1999 - 2007. 267 Per gli inusuali angoli di ripresa, ravvisati da Janet Walker come carattere tipico della rappresentazione del trauma, cfr. capitolo IV, sottocapitolo I.

164

primo piano di Tony, che mostra bene allo spettatore l’instabilità psico-fisica e il senso di mancamento tipici di un attacco di panico.

Figura 6.9 The Sopranos (David Chase, The Sopranos, 1999)

Apparentemente, dunque, è il volo delle anatre, piccole creature a cui Tony si era ormai affezionato, a scatenare in lui l’attacco di panico. L’analogia è chiara, soprattutto se pensiamo al giorno in cui avviene l’attacco di Tony, ovvero il compleanno del figlio: Tony percepisce per la prima volta lo scorrere inesorabile del tempo268, e la migrazione delle sue anatre rappresenta la metafora della crescita

268

Questa tematica è fondamentale, soprattutto se pensiamo al controverso finale della serie, che si chiude significativamente con una nota temporale, la strofa della canzone Don’t Stop Believin’ dei Journey in cui il cantante Steve Perry dice «don’t stop». Ci soffermeremo su questa scena nelle prossime pagine.

165

e la previsione del distacco dal nucleo familiare, in età matura, dei suoi adorati figli, l’allora undicenne Anthony Jr. e l’adorata Meadow, che si appresta ad andare al college. Questa interpretazione viene confermata nel corso della puntata dalla stessa dottoressa Melfi, che rivela a Tony durante una seduta di terapia, che egli ha proiettato l’amore per la propria famiglia sulle anatre che vivevano nella piscina, e la loro fuga ha scatenato la paura occulta dell’uomo di perdere in qualche modo la propria famiglia. Questo è il primo di una lunga serie di attacchi di panico e svenimenti da parte di Tony. Nella terza stagione ne abbiamo un altro importante esempio.269 Tony ha un acceso colloquio, dai toni razzisti, con il presunto nuovo ragazzo di sua figlia, uno studente afroamericano. Ancora scosso dalla rabbia e dal disappunto, Tony si reca in cucina e prende dal frigorifero delle fette di capocollo acquistate in salumeria dalla moglie. Aprendo poi la dispensa, Tony vede una confezione di riso Uncle Bean’s, sulla cui etichetta campeggia il volto di un anziano signore afroamericano: Tony sviene. Nella puntata successiva, il signor Soprano analizza con la propria psicologa l’episodio. La dottoressa Melfi ha un’intuizione geniale: ricordando il primo attacco di panico raccontato dal paziente, avvenuto mentre Tony stava preparando delle salsicce e delle bistecche sul barbecue per il compleanno del figlio, collega gli attacchi di panico del paziente alla carne. La seduta finisce, ma Tony non è molto convinto dell’associazione mentale, non riesce a capire come la carne possa causargli attacchi di panico. La spiegazione avviene nell’episodio stesso: Tony, a casa della defunta madre, apre il frigorifero e, anche stavolta, afferra del capocollo incartato per mangiarsene una fetta. La visione delle

269

Proshai, Livushka, T. Van Patten, s. III, ep. 2, prima tv USA 4 marzo 2001; Fortunate Son, Henry J. Bronchtein, s. III, ep. 3, prima tv USA 11 marzo 2001, in The Sopranos, D. Chase, USA, HBO, 1999 - 2007.

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fette di coppa, però, non scatena stavolta un altro svenimento, ma un ricordo fondamentale dell’infanzia di Tony, rappresentato attraverso un flashback rivelatore.

Figura 6.10 Fortunate Son (Henry J. Bronchtein, The Sopranos, 2001)

Tony ricorda un pomeriggio in cui, da bambino, lui, il padre Johnny Boy, e lo zio Junior andarono a far visita al signor Satriale, un macellaio del quartiere. Per Johnny e Junior non era ovviamente una visita di cortesia: i due criminali erano nella macelleria per minacciare il signor Satriale, reo di non aver saldato i propri debiti. Proprio quando le minacce dei due malavitosi arrivano al culmine entra in scena il piccolo Tony, a cui era stato raccomandato di rimanere seduto in auto ad aspettare. Johnny e Junior sono nel retrobottega, e mentre Junior immobilizza il signor Satriale, Johnny, brandendo una mannaia, recide il mignolo del macellaio sotto gli occhi del figlio, che ha assistito a tutta la scena, affacciatosi alla porta semichiusa, senza che nessuno se ne accorgesse, se non quando era ormai già troppo tardi: questo è l’episodio chiave, il ricordo traumatico originario e scatenante gli attacchi di panico, anche se non è in questo momento che si verifica il primo svenimento della vita di Tony, ma poco dopo, raccontato alla dottoressa Melfi nella stessa puntata.

167

Figura 6.11 Fortunate Son (Henry J. Bronchtein, The Sopranos, 2001)

È la sera del giorno in cui il piccolo Tony vide il padre mozzare il dito al macellaio. La madre Livia è insolitamente felice, perché è arrivato in regalo dal macellaio un ghiotto pezzo di arrosto con cui saziare la famiglia per cena. L’insolita felicità di Livia e la sua eccitazione scatenano anche la gioia incontenibile del padre che, davanti ai bambini, abbraccia, bacia e balla con la madre, concedendosi a diverse allusioni sessuali. La combinazione fra gli atteggiamenti eroticamente allusivi dei genitori, la consapevolezza della provenienza della cena, ottenuta col malaffare, e la visione del pezzo di carne tagliato dalla madre provocano il primo blackout nella mente del giovane Anthony che, alla vista della tenera e rosea carne all’interno dell’arrosto, cade a terra, svenuto, rovinando la cena.

Figura 6.12 Fortunate Son (Henry J. Bronchtein, The Sopranos, 2001)

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Nelle parole della dottoressa troviamo non soltanto l’analisi dell’origine e delle cause degli attacchi di panico di Tony, ma anche una perfetta e per noi utilissima descrizione del concetto di trigger, dell’evento scatenante come fattore disturbante e occulto del passato, dislocato ma che torna incomprensibilmente a infestare la mente del protagonista con prepotenza. La definizione della psicologa analizza il ruolo chiave delle associazioni mentali e richiama alla mente anche un illustre esempio letterario:

Dott.ssa Melfi: «Perciò è andato in cortocircuito. La pubertà. Assistere non solo all’esibizione della sessualità dei suoi genitori, ma anche associare così traumaticamente la violenza e il sangue al cibo di cui si nutriva. E, come se non bastasse, il pensiero che un giorno o l’altro sarebbe toccato a lei portare a casa le bistecche, sostituire suo padre». Tony: «Tutto questo esce da una fetta di capocollo?» Dott.ssa Melfi: «È l’equivalente delle madeleine di Marcel Proust». Tony: «Che cosa?» Dott.ssa Melfi: «Marcel Proust. Ha scritto le sue memorie in sette volumi, il titolo è Alla ricerca del tempo perduto270. Un giorno Proust addentò una madeleine, è una specie di biscotto da tè che mangiava sempre nell’infanzia. E quell’unico morso scatenò il flusso della memoria da quando era solo un bambino, su su, fino alla sua vita di adulto».271

270

M. Proust, À la recherche du temps perdu, Bernard Grasset - Gallimard, Parigi 1913 -1927. Fortunate Son, Henry J. Bronchtein, s. III, ep. 3, prima tv USA 11 marzo 2001, in The Sopranos, D. Chase, USA, HBO, 1999 - 2007. 271

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Il trigger si pone dunque fra passato, presente e futuro: nel presente, perché è un evento scatenante, uno stimolo che attiva meccanismi memoriali e riporta a galla il passato con tutta la sua forza e i suoi ricordi traumatici; uno stimolo che inoltre si proietta verso un’ottica futura, poiché dimostra la propria ineluttabile capacità di infestare la mente del traumatizzato e le sue previsioni. Nel caso del piccolo Tony, infatti, il trigger della carne si lega al fatto che, come dice la dottoressa Melfi, un giorno sarebbe stato lui a portare a casa da mangiare e avrebbe così sostituito la figura del padre. Vediamo così quanto sia importante il concetto di trigger nella narrazione seriale, poiché esso rappresenta un sintomo traumatico ma anche un espediente narrativo, in grado di legare diversi piani temporali e di mettere in contatto memoria, fantasia e realtà, capace di cucire ampie trame e di scavare a fondo nella personalità dei protagonisti, in particolar modo quelli dotati di un passato traumatico.

3.3 Personalità traumatiche: Breaking Bad e la simpatia per il diavolo L’approfondimento psicologico dei personaggi è una caratteristica fondamentale della quality television: la serialità, infatti, col suo ampio respiro, permette narrazioni estese in cui i personaggi principali (ma non solo) possono essere strutturati attraverso una caratterizzazione pluridimensionale ed un intenso approfondimento psicologico. Abbiamo visto poco sopra l’esempio di Tony Soprano, potente boss mafioso eppure pieno di dubbi e fragilità legate ai traumi della propria infanzia e della propria vita familiare. Il trauma, in questo caso, non funge soltanto da motore narrativo, ma crea un incredibile legame empatico con lo spettatore: chi infatti

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potrebbe mai pensare di provare simpatia per un grasso, rozzo e crudele boss mafioso? Questo sarebbe l’identikit perfetto del villain di una qualche saga supereroistica - ed anzi, lo è, pensiamo a Wilson Fisk, il Kingpin di casa Marvel. Eppure Tony Soprano è un personaggio per il quale lo spettatore “tifa”, dal quale viene coinvolto empaticamente fin dalla prima puntata. Uno dei fattori determinanti di questa simpatia per il diavolo è dato non solo dal fascino indiscutibile che emana la carismatica figura del protagonista, ma anche dal fatto che l’apparente inviolabilità e invincibilità del personaggio principale sia messa in discussione attraverso le sue debolezze, le sue fragilità e i suoi traumi: questo senza dubbio avvicina la figura del boss mafioso allo spettatore, il quale ne vede in fondo l’umanità, non solo le ambizioni, ma anche le paure e le crisi più nere, ed un insospettabile desiderio di redenzione. Il trauma dunque arricchisce la personalità dei protagonisti ritratti dalla complex television, e permette (insieme ad altri fattori) l'identificazione dello spettatore anche nei personaggi più improbabili, ambigui ed oscuri. È questo il caso non solo di Tony Soprano, ma di un altro protagonista che ha scritto la storia recente della serialità televisiva: Walter White. All’inizio della narrazione di Breaking Bad il signor White è un professore di chimica, fin troppo qualificato, presso la scuola superiore di Albuquerque, in New Mexico. Padre di famiglia, la moglie è in attesa di una secondogenita, mentre il primo figlio, l’adolescente Walter Jr., è affetto da paralisi cerebrale. Le ristrettezze economiche e la maternità della moglie costringono il signor White ad avere anche un secondo lavoro, presso un autolavaggio, un’occupazione di cui non va orgoglioso e che non riesce a tenere nascosta ai suoi studenti, di cui diventa lo zimbello quando lo vedono lavare le loro automobili. La sua vita non è certo ricca

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di soddisfazioni professionali, economiche o personali, ma, come si usa dire, l’importante è la salute. Anche questa, però, verrà presto a mancare: infatti Walt, il giorno successivo al suo cinquantesimo compleanno, sviene sul posto di lavoro, accasciandosi sul pavimento dell’autolavaggio. Walter viene dunque portato in ospedale e qui scopre di avere un cancro incurabile ai polmoni. La scena, presente nell’episodio pilota272, è significativa per il nostro studio sulla rappresentazione traumatica nella serialità televisiva non soltanto perché rappresenta alcuni cliché delle diagnosi traumatiche, ma anche perché li utilizza per stabilire un primo contatto diretto ed empatico fra il signor White e lo spettatore. Walter, dopo le visite di routine ed una lastra ai polmoni, si trova al cospetto del medico: la macchina da presa scivola dal riflesso del volto di Walt sulla lucida scrivania nera del dottore al primo piano dell’espressione attonita del protagonista. Il medico sta blaterando qualcosa di apparentemente incomprensibile, sovrastato da un fischio sordo: Walt (e noi con lui) pare non sentirlo, il suo sguardo si perde sulle labbra del dottore che, inquadrate in primissimo piano, paiono scandire infinite parole. Con la tecnica del ralenti, infatti, il momento traumatico si dilata esponenzialmente, facendo sembrare il tutto un’agonia interminabile. Lo sguardo di Walter però si distrae, la sua attenzione viene trascinata da una macchiolina di mostarda sul camice bianco del dottore. Sono i richiami del medico, che vuole sincerarsi che il suo paziente abbia capito la gravità della notizia, a riportare alla realtà Walter in una serrata sequenza di campo e controcampo, nella quale pare che il nostro professore di chimica abbia capito perfettamente quanto diagnosticatogli dal dottore, ripetendo il tutto con un controllo non usuale in queste drammatiche

272

Pilot, V. Gilligan, s. I, ep. 1, prima tv USA 20 gennaio 2008, in Breaking Bad, V. Gilligan, USA, AMC, 2008 - 2013.

172

situazioni: «cancro ai polmoni, non operabile». L’attenzione di Walt, però, rimane focalizzata sulla macchiolina di mostarda, tanto da farla infine notare al medico.

Figura 6.13 Pilot (Vince Gilligan, Breaking Bad, 2008)

Walter, in questa scena, sembra subire un processo di depersonalizzazione273: pare infatti che la notizia traumatica del cancro incurabile non lo scuota, lasciandolo invece inebetito. L’esperienza traumatica è infatti, in un primo momento, di difficile comprensione, come abbiamo visto nel primo capitolo. La reazione non si fa però attendere, in tutta la sua vitalità: il signor White, celatamente interessato ad intraprendere il sentiero della criminalità e del denaro facile, segue il cognato Hank, agente della DEA, in un blitz ad un laboratorio casalingo di metanfetamina; il protagonista, poi, si licenzia dall’autolavaggio, insultando il proprio capo, Bogdan; difende rabbiosamente proprio figlio dagli insulti di un gruppo di bulli; quindi, si accorda col suo ex studente Jesse Pinkman,

273

Cfr. capitolo I, sottocapitolo 3.2.

173

visto fuggire durante il blitz della DEA, per cominciare un’attività illegale di produzione e spaccio di metanfetamina. Gli eventi cominciano però a precipitare già da subito: i primi, loschi acquirenti, Krazy Eight e suo cugino, si fanno condurre nel laboratorio mobile di Jessie e Walter per minacciare i due e rubare loro la ricetta della portentosa nuova formula della crystal meth. Walter, però, affidandosi al proprio genio chimico, durante la preparazione della droga, versa di nascosto del fosforo rosso in un barattolo pieno di acqua bollente: si sprigiona così all’interno del laboratorio mobile un gas tossico, la fosfina, che neutralizza gli aggressori, uccidendone uno. Walter riesce così a passare fisicamente indenne il suo battesimo di fuoco del crimine, dopo aver rischiato una morte ancor più prematura di quella che gli avrebbe concesso la sua malattia. Le ferite interiori, però, si fanno presto sentire. Walter è un eroe atipico, un antieroe sfortunato che cerca riscatto, trovandolo attraverso il passaggio al lato oscuro. Questa evoluzione, però, non si rivela indolore: gli scrupoli morali sono persistenti e non ignorabili, soprattutto quando Jessie e Walter scoprono che Krazy Eight non è morto intossicato, come il cugino, nel laboratorio mobile: toccherà al professor White eliminare Krazy Eight, testimone indesiderato.274 Fino a qui, dunque, potrebbe sembrare che la serie tv racconti la storia di un uomo disperato, a cui viene diagnosticato un cancro che lascia pochi mesi di vita, nei quali il professore è dunque quasi costretto a trasformarsi in un criminale per guadagnare più denaro possibile ed aiutare la propria famiglia. Ma non è così:

It seemed like this was going to be the story of a man (Walter White, portrayed by Bryan Cranston) forced to become a criminal because he

274

...And the Bag’s in the River, A. Bernstein, s. I, ep. 3, prima tv USA 10 febbraio 2008, in Breaking Bad, V. Gilligan, USA, AMC, 2008 - 2013.

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was dying of cancer. That’s the elevator pitch. But that’s completely unrelated to what the show has become. [...] what we see in Breaking Bad is a person who started as one type of human and decides to become something different. And because this is television [...] the audience is placed in the curious position of continuing to root for an individual who’s no longer good.275

Breaking Bad è la gloriosa discesa agli inferi di un anonimo professore di chimica che decide di diventare Heisenberg, il più grande criminale e cuoco di metanfetamina di tutta l’America. La sua scelta evidenzia la presenza di una personalità fortemente scissa: Walter White, il disgraziato ed inerte professore di chimica, lascia il passo ad Heisenberg, genio criminale e senza scrupoli, in una versione aggiornata dell’archetipica scissione della personalità di Dr. Jekyll e Mr. Hyde - non a caso, in tutte e due le storie c’è di mezzo la chimica. Il cancro è solo la miccia, l’evento traumatico che scatena le reazioni collaterali, trasformando il mansueto professor White nel crudele Heisenberg: è inutile però domandarsi se Walt sarebbe comunque diventato un criminale, se non avesse contratto la malattia.

The central question on Breaking Bad is this: What makes a man “bad” — his actions, his motives, or his conscious decision to be a bad person? Judging from the trajectory of its first three seasons, Breaking Bad creator Vince Gilligan believes the answer is option No. 3.276

275

C. Klosterman, Bad Decisions. Why AMC's Breaking Bad beats Mad Men, The Sopranos, and The Wire, «Grantland», 2 agosto 2011, www.grantland.com 276 Ibidem.

175

Walter White non diventa Heisenberg per caso, ma per una scelta consapevole: diventa cattivo secondo il proprio libero arbitrio, e la storia traumatica alle sue spalle, fatta di sacrifici ed insoddisfazioni, mette lo spettatore nella posizione di tifare per il cattivo:

Breaking Bad non solo fa sì che lo spettatore adotti il punto di vista del bad guy, va oltre: spiega il processo che conduce lungo la strada della malvagità costituendo, di fatto, il racconto delle attenuanti a quei comportamenti che, guardati oggettivamente e in medias res, sarebbero condannati senza appello.277

La scoperta traumatica del cancro, dunque, rappresenta l’espediente narrativo scatenante delle vicende e il mezzo per avvicinare empaticamente lo spettatore ad un personaggio ambiguo, che nel corso della narrazione si immergerà sempre più volontariamente nel male, seguito anche in questo caso da un pubblico ormai affezionato che, nonostante gli scrupoli morali e gli interrogativi della coscienza, rimarrà fedelmente accanto al bad guy, fino alla fine.

3.4 Incipit traumatici Abbiamo visto, negli esempi finora esposti, che all’origine di molte serie tv c’è un trauma, come la diagnosi della malattia terminale, per il signor White di Breaking Bad, o l’attacco di panico di Tony Soprano ne I Soprano. Come sostenuto da Jason Mittell:

277

C. Susca, Per chi fai il tifo? Breaking Bad: dalla parte del cattivo, in C. Susca - A. Rubino (a cura di), Storie (in) Serie. Narrazioni a puntate, Cineporti di Puglia, Bari, 2015, p. 69.

176

The beginning of a narrative is an essential moment, establishing much of what will follow, including whether any given consumer is motivated to keep consuming. If we want to understand contemporary serial television storytelling, we need to examine how programs begin.278

Per questo, nel nostro studio sul trauma e la quality television, non possiamo che rivolgerci con attenzione agli incipit della serialità televisiva, soprattutto laddove troviamo rappresentato un episodio traumatico. Gli esempi possono essere molteplici e mi pare interessante sottolineare che la stessa quality television nasce con l’esibizione di un evento traumatico. Se, come abbiamo infatti visto nello scorso capitolo, possiamo far risalire l’avvento della serialità televisiva di qualità a Twin Peaks, è innegabile che in principio di tale show ci sia un evidente evento traumatico: il ritrovamento del cadavere di Laura Palmer, una splendida ragazza nel fiore dei suoi anni ammazzata brutalmente e abbandonata sulla riva di un lago, avvolta in un telo di plastica. Il misterioso caso di Laura Palmer, che getta nello sconforto, nell’incredulità e nella paura l’intera cittadina di Twin Peaks, apre idealmente la quality television all’insegna del trauma.

Figura 6.14 Northwest Passage (David Lynch, Twin Peaks, 1990) 278

J. Mittell, Complex Television, p. 42.

177

Ma de I segreti di Twin Peaks avremo modo di parlare successivamente, nell’approfondimento dedicato alla violenza sui minori nella serialità televisiva. Non è comunque difficile pensare ad ulteriori incipit traumatici di serie televisive, anche recenti. L’abbiamo già detto, e qui lo ripetiamo: il trauma viene (anche) usato come espediente narrativo, e non solo dalla serialità televisiva, ma anche nel cinema, nel fumetto (pensiamo alla moltitudine di supereroi orfani), nei romanzi e nella letteratura in generale: possiamo infatti collocare l’espediente traumatico nello schema di Propp279. In particolare, vediamo che il trauma rappresenta, nella narrazione, la rottura dell’equilibrio iniziale e la funzione del danneggiamento o della mancanza. Da segnalare, però, nel nostro studio della serialità televisiva, che in molti casi la fase d’esordio, il cosiddetto equilibrio iniziale, secondo lo schema di Propp, viene spesso scavalcato o dato per scontato, inserendo lo spettatore subito in medias res nel vivo della narrazione, con la rappresentazione iniziale di un evento traumatico. Ci soffermeremo, a proposito, sugli esempi di episodi pilota di due serial di successo come Lost e The Walking Dead, entrambi diretti da due affermati registi del grande schermo come, rispettivamente, J.J. Abrams e Frank Darabont. Un poliziotto si aggira per una strada deserta e desolata, arrivando ad una stazione di servizio incustodita. Davanti a lui, automobili e oggetti abbandonati, fra i quali un peluche, che viene raccolto da una bambina, inquadrata di spalle. Il poliziotto richiama la ragazzina, vuole aiutarla, ma essa rivela il proprio volto squarciato e tumefatto: è uno zombie, al quale il poliziotto è costretto a sparare impietosamente in fronte.

279

Cfr. V. Propp, Morfologiija skazki, Leningrado 1928, trad. it. G.L. Bravo (a cura di), Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 1966.

178

Figura 6.15 Days Gone Bye (Frank Darabont, The Walking Dead, 2010)

Così si apre280 Walking Dead, serie televisiva basata sull’omonimo fumetto scritto da Robert Kirkman: è un inizio in medias res, che catapulta subito lo spettatore nell’atmosfera tetra e orrorifica, desolante e spettrale della narrazione. Non sappiamo molto su ciò che ci circonda, ma quanto basta: il mondo di prima non esiste più, è giunta l’apocalisse, che ha ridotto gli uomini a morti che camminano. Un incipit senza dubbio traumatico, ma che verrà reso ancor più traumatico nel seguito della narrazione, con un flashback che coinvolge il protagonista. Scopriamo che il poliziotto è in realtà un vicesceriffo, Rick Grimes, il quale viene ferito gravemente al torace in uno scontro a fuoco: il suo amico nonché collega, Shane Walsh, lo soccorre subito, tamponandogli la ferita, ma il trauma toracico è troppo profondo. Rick perde i sensi, sullo schermo abbiamo una dissolvenza in bianco: le immagini successive presentano una stanza di ospedale,

280 Days Gone Bye, F. Darabont, s. I, ep. 1, prima tv USA 31 ottobre 2010, in The Walking Dead, R. Kirkman - F. Darabont, USA, AMC, 2010 - in produzione.

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bianca, dal punto di vista di Rick: è venuto a fargli visita Shane, il quale si maledice per quanto avvenuto al compagno, e gli porta in dono un vaso di fiori. I movimenti di Shane sono rappresentati al ralenti, il tempo si è fermato e si è dilatato,281 lo spettatore si trova nella condizione comatosa di Rick. Subito dopo, però, il vicesceriffo si sveglia, parla con Shane, gli chiede sorridendo se il vaso l’ha rubato a sua nonna. Ma Shane non c’è: nessuna risposta, nessun rumore, tutto tace. Rick osserva la stanza che lo circonda: i fiori sono appassiti, l’orologio è fermo alle due e un quarto, di notte o pomeriggio, non è dato sapere. Il risveglio dal coma è quindi connotato dall’assenza, dalla mancanza. In ospedale non si aggira un’anima, i corridoi sono vuoti e sinistri, qua è là si trovano macchie di sangue sparse sui muri, fino a che Rick si trova davanti un portone chiuso da una spranga e dei catenacci, sul quale campeggia la scritta DON’T OPEN - DEAD INSIDE. Dalla stanza sigillata provengono tetri lamenti, mani tumefatte fanno breccia nella fessura del portone. Rick fugge terrorizzato: è il suo primo incontro con l’apocalisse zombie, avvenuta evidentemente mentre lui si trovava in coma. Il trauma del risveglio viene così aumentato esponenzialmente dal ritrovarsi in un mondo completamente nuovo: scoprirà infatti che, mentre era in coma, una devastante pandemia sconosciuta ha trasformato i morti in zombie che vagano seminando terrore in un mondo apparentemente senza speranze. Un altro celebre incipit traumatico è quello presentato dalla serie televisiva Lost.282 La puntata pilota inizia con un primissimo piano di palpebre chiuse, che si aprono subito dopo, rivelando un occhio stupefatto e spaventato che guarda dal basso verso l’alto un folto canneto: un uomo si sveglia, da solo, nel mezzo di una

281

Abbiamo visto un esempio simile di ralenti nella descrizione dell’esperienza traumatica anche per quanto riguarda la scoperta della malattia terminale del signor White in Breaking Bad. 282 Pilot: Part 1, J.J. Abrams, s. I, ep. 1, prima tv USA 22 settembre 2004, in Lost, J.J. Abrams - D. Lindelof - J. Lieber, USA, ABC, 2004 - 2010.

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foresta, ferito, stordito e disorientato: un incipit abbastanza dantesco283. Il protagonista corre fra la vegetazione, fino a giungere ad una spiaggia: davanti a lui si palesa l’agghiacciante visione di un disastro aereo. Fra i resti del volo, schiantatosi sulla spiaggia, regna il caos, si levano grida di dolore, la gente corre in preda all’angoscia o in cerca di aiuto. Il protagonista della scena iniziale, che scopriamo chiamarsi Jack, salta da un sopravvissuto ad un altro, cercando, dove possibile, di portare aiuto e un primo soccorso, è infatti un medico. Intanto, i rottami dell’aereo continuano a incutere terrore e mietere vittime: un uomo viene risucchiato da una turbina, facendola esplodere, e il resto di un’ala si schianta al suolo, sfiorando una donna incinta. La scena descritta dalle prime inquadrature di Lost è decisamente traumatica: lo spettatore, anche in questo incipit, viene gettato nel vivo della vicenda, in medias res, attraverso lo sguardo disorientato e sconvolto del protagonista. Il pubblico giunge quindi da subito a confronto con la catastrofe fantasmi post-apocalittici aleggiano anche in questa serie. Il disastro aereo, inoltre, non può non richiamare alla mente un evento traumatico ancora fresco, irrisolto allora, all’epoca della prima trasmissione, nel 2004, e tutt'oggi non facilmente elaborabile, da parte, soprattutto, del pubblico americano: il trauma dell’11 settembre. La spaventosa sequenza iniziale, con le grida strazianti dei superstiti e il sinistro frastuono dei rottami, che paiono un gigantesco mostro pronto a divorare altre vittime, come accade per l’uomo che viene inghiottito dalla turbina del motore, tutto questo viene osservato attraverso lo sguardo sconvolto e la bocca aperta del protagonista, quello stesso genere di sguardo che possiamo ricordare attraverso le

283 Il riferimento a Dante e al primo canto della Commedia, nell’incipit di Lost, trova una conferma nell’analogia, che si scopre alla fine della serie, fra l’isola, il Purgatorio e la vita ultraterrena.

181

immagini di repertorio dei volti dei testimoni diretti dell’attentato alle Twin Towers, increduli, ai piedi delle torri.

Figura 6.16 Pilot: Part 1 (J.J. Abrams, Lost, 2004)

Il trauma storico che sconvolse l’America ad inizio millennio viene così dislocato in una narrazione seriale che, pur non riferendosi direttamente all’attentato284, chiama in causa evidentemente quel contesto storico e politico, attraverso l’utilizzo di una rappresentazione seriale allegorica, misteriosa e orrorifica. Pensiamo al grande mostro invisibile che infesta l’isola e insegue i protagonisti, i quali non riescono a vederlo: è una chiara allegoria dell’ombra del terrorismo, detto il nemico invisibile, e della paranoia che ha afflitto l’Occidente nel dopo 11 settembre. Avremo però modo di parlare di recupero della referenzialità, ovvero del contesto storico, politico e culturale all’interno della serialità televisiva,

284

Ricordiamo comunque che nel gruppo di superstiti è presente un uomo di origine irachena, su cui uno dei compagni di sventura fa ricadere la colpa della caduta dell’aereo nel secondo episodio: cfr. Pilot: Part 2, J.J. Abrams, s. I, ep. 1, prima tv USA 22 settembre 2004, in Lost, J.J. Abrams - D. Lindelof - J. Lieber, USA, ABC, 2004 - 2010.

182

nelle prossime pagine. Ora, invece, dopo aver esaminato il ruolo del trauma come motore della narrazione seriale, ci soffermeremo sul finale delle serie televisive e sul rapporto che anche la conclusione, come abbiamo visto per l’incipit, può stabilire col trauma.

3.5 Finali traumatici Il segmento narrativo denominato finale viene percepito già di per sé, dall’affezionato spettatore di una serie televisiva, come un evento traumatico: una serie, durata anche per anni, finisce, prima o poi, e quando ciò avviene, getta nello sconforto lo spettatore, abituato al periodico e personale appuntamento con i personaggi, i luoghi, le situazioni, le atmosfere di una grande saga che sente come propria e che inevitabilmente si conclude. L’empatia provata dallo spettatore nei confronti dei propri beniamini televisivi può raggiungere picchi così elevati - in particolare in soggetti altamente sensibili - da creare una relazione parasociale con i personaggi fittizi ritratti in televisione: il pubblico entra in un rapporto di intimità con i protagonisti rappresentati sullo schermo, di cui conosce ogni pensiero, ogni parola, ogni azione. Questo elevato livello di empatia porta, nella conclusione delle vicende di una serie televisiva, a stati emotivi di tristezza e dolore nello spettatore affezionato. Tale ipotesi è stata supportata da uno studio della Ohio University, effettuato dalla ricercatrice in Scienze della Comunicazione Emily Moyer-Guse285 partendo da un campione di 403 studenti fra i 18 e 33 anni, nel periodo fra il 2007 e il 2008 in cui molte serie televisive sono state (temporaneamente, la maggior parte) sospese o chiuse a causa dello sciopero degli sceneggiatori di Hollywood.

285

Cfr. J. Lather - E. Moyer-Guse, How Do We React When Our Favorite Characters Are Taken Away? An Examination of a Temporary Parasocial Breakup, «Mass Communication & Society», v. 14, n. 2, marzo 2011, pp. 196 - 215.

183

The students answered questions about their viewing habits, reasons for watching, how important the shows were, and how close they felt to their favorite characters. Next, they described their level of distress as a result of their programs being disrupted by the strike [of Hollywood writers]. They described what activities they substituted once the shows were not airing. Not surprisingly, the stronger the “relationships”, the more the distress.286

Gli individui maggiormente coinvolti in modo empatico nelle storie narrate dalla fiction televisiva, dunque, si sono dimostrati essere quelli più colpiti negativamente dall’assenza delle proprie serie tv preferite. La ricercatrice rivela comunque che i risultati sono nella norma, non c’è nulla di anomalo in quanto dimostrato da questo studio: le serie televisive accompagnano lo spettatore per diverso tempo e, quando finiscono, possono causare una sorta di breve e depotenziata forma di lutto: «it's like you have lost someone important to you. It does leave a hole there for a while. It's a form of mourning»287. L’ovvietà di queste considerazioni ci potrebbe forse far dubitare del reale valore scientifico di questo studio. Esso segnala comunque un’importante attenzione in campo accademico e sociale all’attuale fenomeno della televisione di qualità e contemporaneamente conferma la nostra tesi riguardante il rapporto traumatico dello spettatore con i finali dei propri serial preferiti. Ogni serie, prima o poi, giunge alla sua naturale conclusione: alcune perché troncate brutalmente dai network, pensiamo al famoso caso di Firefly288, serie di

286

K. Doheny, TV Breakups: When a Show Ends, Fans May Mourn, «WebMD Health News», 22 aprile 2011, www.webmd.com 287 Ibidem. 288 Firefly, J. Whedon, USA, FOX, 2002.

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culto cancellata dalla FOX dopo appena undici puntate; altre serie televisive, invece, hanno avuto modo di espandere la propria narrazione fino al progettato finale. Pensando a quelle che abbiamo definito trauma series, a serie televisive in cui viene coinvolta ampiamente la dimensione traumatica, possiamo osservare come una narrazione, partendo da un evento traumatico, si definisca come un lungo e a tratti difficoltoso esempio di elaborazione finzionale del trauma: come abbiamo detto nei capitoli precedenti, infatti, se il trauma raffigura la distruzione di senso, allora la sua ricostruzione rappresenta l’elaborazione, che nel caso della serialità televisiva viene incarnata da una lunga successione di puntate, che cercano di mettere ordine e dare risposte agli eventi traumatici iniziali. I finali possono essere dunque riconcilianti, presentando una risoluzione delle dinamiche traumatiche, ma abbiamo anche visto che, spesso, il trauma non conclude. Talvolta, quindi, anche una serie, di cui magari è stato anche progettato con grande anticipo il finale, può non concludere, lasciando lo spettatore in sospeso, in attesa di una spiegazione che non verrà mai - o, quantomeno, non avverrà attraverso la visione di un nuovo episodio. Fra i molti esempi citabili, torniamo qui su due casi famosi di serie tv che abbiamo analizzato in precedenza, ovvero Lost e I Soprano. Possiamo classificare il finale de I Soprano289 nella categoria delle “non conclusioni”. Jason Mittell descrive così questo pezzo di storia della televisione americana:

The Sopranos legendarily ended with a scene of Tony’s immediate family eating in a diner and listening to the Journey song “Don’t Stop Believin’,” before cutting to a silent black screen for ten seconds

289

Made in America, D. Chase, s. VI, ep. 21, prima tv USA 10 giugno 2007, in The Sopranos, D. Chase, USA, HBO, 1999 - 2007.

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preceding its final credits. This edit is a narrative special effect played in reverse, an anti-spectacle offering a moment of spectacular storytelling. If traditional special effects push screen and sound systems to their limits, this cut-to-black highlighted technology in the opposite direction, triggering a large number of viewers to surmise that their cable had gotten disconnected or their televisions had died at the least opportune moment.290

Figura 6.17 Made in America (David Chase, The Sopranos, 2007)

Il finale è volutamente ambiguo, come la serie stessa è sempre stata, aperto a ogni interpretazione e traumatico, soprattutto per lo spettatore che, come segnalato da Mittell, in un primo momento crede che lo schermo sia nero a causa di un guasto tecnico, non può certo immaginare che lo show finisca veramente in questo modo dopo sei intense stagioni. In molti hanno creduto che l’improvviso sipario nero calato sulla vicenda dei Soprano sia stato un attacco diretto del creatore, David Chase, nei confronti di un pubblico, quello televisivo, sempre alla ricerca del lieto fine o almeno di un senso di chiusura291: la vittima finale di Tony Soprano sarebbe così il suo stesso affezionato pubblico, il quale viene colpito da una potente e violenta infrazione dell’abituale codice televisivo. Effettivamente, più che un

290

J. Mittell, Complex Television, p. 213. Cfr. ivi, p. 215.

291

186

attacco al pubblico, messaggio che Chase non aveva assolutamente intenzione di esprimere, il finale può essere visto sia come una critica della struttura della narrazione seriale, sia come un rifiuto autoriale di sottostare ai meccanismi televisivi292. Il cut-to-black, però, può essere comunque ricondotto pienamente nell’economia della narrazione, come un espediente narrativo e rappresentativo rivoluzionario: la chiusura in nero, infatti, potrebbe presupporre il fatto che stiamo assistendo alla morte di Tony293 dal punto di vista del protagonista stesso.294 In questo caso, raro per una serie televisiva, lo spettatore si pone nella posizione del testimone, del witness, come abbiamo visto Kaplan definirla nel capitolo IV della nostra tesi295: l’identificazione col punto di vista di Tony ci permette di entrare nel vivo della sua esperienza di vittima di omicidio, ma attraverso un espediente narrativo straniante, che non a caso ha disorientato parecchi spettatori.

We feel no emotional reactions to Tony’s death because we do not even realize that it happens until after analytic reflection and analysis. We arrive at the realization of his death at an analytic distance so that we’re not emotionally tied up in the storyworld: we are not present in the diner with the family, and thus do not experience their moment of loss. We’ve already had a moment of mourning, but the grief is over the loss of the series, not the character.296

292

Peraltro il nero finale doveva durare 30 secondi e non presentare successivamente titoli di coda, ma la HBO pose il veto su questa idea di Chase, giungendo al compromesso dei 10 secondi di nero seguiti da titoli di coda abbreviati. 293 Suggerita dalla misteriosa presenza di un uomo, definito nei titoli di coda Man in Members Only Jacket, che, seduto al bancone del locale dove sta mangiando Tony con la sua famiglia, scambia uno sguardo col boss e poi si reca alla toilette, proprio alle spalle del tavolo in cui è seduto Tony. In questo caso, la morte del boss sarebbe rappresentata quasi per contrappasso, citando la scena preferita di Tony del film Il Padrino, quando Michael Corleone si reca in bagno per recuperare una rivoltella e freddare il capitano McLusckey e Virgil Sollozzo. 294 Cfr. J. Mittell, Complex Television, p. 215. 295 Cfr. capitolo IV, sottocapitolo 3. 296 Cfr. J. Mittell, Complex Television, p. 216.

187

Non è la morte di Tony, del personaggio, a suscitare in noi un senso di dispiacere e di perdita, quanto la fine della serie: l’intenzione del finale di non mostrare esplicitamente la morte del protagonista vuole suggerire, probabilmente, non soltanto l’ambiguità come statuto fondamentale di tutta la serie, ma anche lasciar intendere l’impossibilità di assolvere noi stessi, attraverso l’esibizione del cadavere di Tony, da anni di atrocità compiute dal boss e testimoniate dal nostro sguardo morboso297.

If we saw Tony’s body, some might feel moral superiority over the fallen criminal, while others might experience grief for our protagonist or pity for his family witnessing the assassination—but none of these emotional responses fit with the ambiguous attitude the series had fostered toward the main character.298

Possiamo dunque goderci il finale e provare dispiacere per la conclusione dello show senza provare un senso di sentimentalistica simpatia per Tony causata dalla sua morte né tantomeno provare un senso di superiorità morale nei confronti del boss malavitoso. David Chase è così riuscito nell’impresa di ammazzare il proprio eroe «without allowing the audience to fall into any conventional emotional traps, but still create a visceral and engaged emotional reaction to the finale»299. L’ambiguità logica, emotiva e rappresentativa del finale de I Soprano dimostra che il trauma non ha forzatamente bisogno di chiusure narrative.

297

Cfr. ibidem. Ibidem. 299 Ibidem. 298

188

La serie di J.J. Abrams, invece, nonostante abbia ancora oggi molteplici misteri non risolti dalla soluzione finale della narrazione, possiede una conclusione conciliante300, nella quale, non a caso, vediamo la riunione di tutto il cast che ha animato la serie per sei stagioni. Facciamo riferimento in particolare all’ultima scena di cosiddetti flash sideways301, in cui tutti i sopravvissuti del disastro aereo si ritrovano in una chiesa e Jack incontra il defunto padre: è proprio da lui che il protagonista (e noi con lui) viene a sapere di essere morto egli stesso, così come tutti gli altri suoi compagni di avventura, chi prima, chi dopo. Scopriamo, infatti, nel dialogo fra padre e figlio, che i flash sideways non sono altro che un luogo ultraterreno, in cui i personaggi della serie si incontrano, dopo aver vissuto l’intensa esperienza dell’isola, per tornare a vivere insieme. Così dice Christian Shephard, il padre, rivolgendosi al figlio Jack:

«Questo è il posto che voi avete creato tutti insieme per venire qui e potervi ritrovare. La parte più importante della tua vita è stata quella che hai trascorso con queste persone. Ecco perché vi trovate tutti qui. Nessuno muore da solo, Jack. Tu avevi bisogno di loro, e loro di te. [...] Per ricordare, e farsene una ragione. [...] Andare avanti»302.

Il discorso di Christian sembra riecheggiare quanto abbiamo detto, attraverso le parole di LaCapra, nel primo capitolo della nostra tesi, riguardante l’elaborazione

300

The End, J. Bender, s. VI, ep. 16, prima tv USA 23 maggio 2010, in Lost, J.J. Abrams - D. Lindelof - J. Lieber, USA, ABC, 2004 - 2010. 301 «Season 6 introduced a new narrative technique - the flash sideways. Like flashbacks and flash forwards, flash sideways intercut into episodes' main action a secondary storyline, which covered the centric characters at a different time. The series finale revealed the nature of the world the flash sideways portrayed: it showed the characters meeting after death. As such, the flash sideways are in a sense Flash-forwards». Da www.lostpedia.wikia.com 302 The End, J. Bender, s. VI, ep. 16, prima tv USA 23 maggio 2010, in Lost, J.J. Abrams - D. Lindelof - J. Lieber, USA, ABC, 2004 - 2010.

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del trauma come working through: «Yes, that happened to me back then. It was distressing, overwhelming, perhaps I can't entirely disengage myself from it, but I'm existing here and now, and this is different from back then»303. L’elaborazione del trauma, nel caso di Jack, avviene dopo la morte, in un mondo ultraterreno che ha le fattezze di una chiesa ma che si aprirà su un’abbagliante luce bianca, che avvolge tutti i protagonisti di Lost in una delle ultime sequenze. Allo stesso tempo, però, il montaggio alternato ci mostra gli ultimi istanti di Jack sull’isola, prima di morire, ferito all’addome: il dottore si accascia per terra, nella stessa foresta di bambù che abbiamo visto nell’episodio pilota, in cui troviamo pure lo stesso cane, che stavolta si ferma accanto al protagonista morente. Lo sguardo di Jack si sofferma sul cielo sopra di lui, stavolta solo parzialmente oscurato dalle foglie e dagli arbusti del canneto. Lo squarcio di cielo visto da Jack viene attraversato dall’aereo che porterà i suoi ultimi compagni sopravvissuti verso casa, tutto questo grazie anche al suo aiuto. Jack può finalmente morire felice: la serie tv termina sul primissimo piano dell’occhio del protagonista che, però, stavolta, si chiude. Il concetto di elaborazione e di chiusura, nonostante i numerosi misteri irrisolti presenti nella trama, appare evidente nel finale di Lost, soprattutto nella riconciliazione finale di tutti i protagonisti e in una conclusione della serie che potrebbe sembrare ad anello, una Ringkomposition, dal momento che si chiude nello stesso luogo in cui tutto era cominciato, ma che mostra situazioni opposte: l’aereo non è più rappresentato come un terribile mostro, un simbolo di terrore, come nell’episodio pilota del 2004 - ricordiamoci il contesto storico della guerra al terrorismo nel post 11 settembre; ora l’aereo rappresenta la libertà e il ritorno a casa

303

D. LaCapra,”Acting-Out” and “Working-Through” Trauma, 1998, www.yadwashem.org

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e alla normalità - l’episodio è girato a quasi dieci anni di distanza dall’attentato alle torri gemelle. Importante notare anche l’occhio di Jack, che non si apre più stupefatto e sconvolto verso l’orrore, ma si chiude, appagato e felice, verso la fine delle sofferenze.

Figura 6.18 The End (Jack Bender, Lost, 2010)

4. Referenzialità traumatiche, fra disastri aerei e cambiamenti climatici La diversa rappresentazione dell’aereo nell’episodio pilota e nel finale di Lost ci fornisce l’occasione giusta per introdurre il concetto di referenzialità del trauma anche nella serialità televisiva. Se prima abbiamo visto il trigger come funzione narrativa interna alla narrazione, ora, nella figura dell’aereo, possiamo vedere un oggetto scatenante, il sintomo di un trauma, quello dell’11 settembre, che non viene menzionato esplicitamente dalla serie, ma che non può non attivare nello spettatore un meccanismo di ricordo traumatico. La sequenza iniziale di Lost è paradigmatica: l’aereo, i suoi rottami, il loro sferragliare e il tremendo rumore del metallo e della 191

turbina sono al centro di una narrazione traumatica, a cui il pubblico si trova ad assistere sbigottito, attraverso il punto di vista del personaggio principale, Jack. La prima puntata dello show è andata in onda il 22 settembre del 2004, a pochi giorni dal terzo anniversario degli attacchi al World Trade Center. L’atmosfera era ancora quella dell’attentato, il tempo era ancora fermo all’11 settembre 2001: la tragedia, dislocata narrativamente in un disastro aereo terminato su un’isola misteriosa, viene riconosciuta dallo spettatore e associata all’esperienza del dirottamento aereo che ha abbattuto le Twin Towers. Come abbiamo visto nel capitolo IV304, il concetto di referenzialità evidenzia la relazione di una scena o di un’intera narrazione all’evento traumatico, in questo caso l’11 settembre, mostrando allo spettatore le radici culturali e il contesto storico e sociale che ha influenzato la produzione e la rappresentazione di un prodotto culturale, nel nostro caso la serie televisiva Lost. Il finale della serie, come abbiamo visto, con l’aereo che torna a volare e porta in salvo e a casa gli ultimi superstiti dell’isola, dimostra un’elaborazione avvenuta del lutto dell’11 settembre: l’aereo non è più un sintomo di orrore, ma diventa simbolo di speranza, di ritorno alla vita di sempre, alla normalità. Siamo nel 2010, nell’era del presidente Obama, la guerra al terrorismo è, almeno a parole, solo un lontano ricordo: dal 2009, infatti, la Casa Bianca si riferirà alle operazioni antiterrorismo non più come guerra al terrore, ma operazioni d'oltremare e contrasto all'estremismo violento. Totalmente immersa nel paranoico e traumatico clima di terrore post 11 settembre è invece un’altra serie rilevante per il nostro discorso sulla referenzialità, 24305. Questa serie, che ha esordito il 6 novembre 2001, a poco meno di due mesi

304

Cfr. capitolo IV, sottocapitolo 5. 24, J. Surnow - R. Cochran, USA, FOX, 2001 - 2010.

305

192

dall’attentato, mostra in tempo reale un’intera giornata dell’agente federale Jack Bauer dell’unità governativa anti-terrorismo di Los Angeles. Il protagonista è un agente non soltanto fuori dagli schemi, ma spesso anche oltre le regole e l’ortodossia del proprio mestiere, pronto a tutto pur di compiere il bene del proprio Paese. Ogni stagione - che si svolge dunque in una singola giornata di Bauer presenta per gli Stati Uniti una minaccia che l’agente è chiamato a sventare, il tutto in ventiquattro ore. Il tema principale della serie, dunque, è il terrorismo, e questo viene rappresentato in un momento caldissimo, subito dopo gli attentati dell’11 settembre: gli autori avevano scritto e montato in precedenza i primi episodi, ma pensavano che gli attentati di New York avrebbero fatto abortire il loro progetto. La FOX scommise comunque sul prodotto, che riportò un grande successo di pubblico e anche di critica. Nell’episodio pilota306, non bastasse il riferimento esplicito della serie al terrorismo, troviamo subito una scena su un Boeing 747, il quale viene fatto esplodere da una misteriosa terrorista, la quale si catapulta fuori dall’aereo prima di innescare l’esplosione.

Figura 6.19 12:00 a.m.-1:00 a.m. (S. Hopkins, 24, 2001)

306 12:00 a.m.-1:00 a.m., S. Hopkins, prima tv USA 6 novembre 2001, in 24, J. Surnow - R. Cochran, USA, FOX, 2001 - 2010.

193

Il richiamo all’attentato dell’11 settembre è decisamente forte e troppo fresco ancora nella memoria dello spettatore: gli autori avevano scritto l’episodio precedentemente agli attentati, e si trovarono dunque a dover correggere la scena, riducendo al minimo lo spazio dato all’esplosione dell’aereo. Vediamo infatti solo la detonazione, che avviene nei pressi della porta di sicurezza, le inquadrature sono tutte per la terrorista, mascherata da un elmetto e munita di occhiali neri, la regia non si sofferma su alcuna reazione dei passeggeri a bordo. L’esplosione dell’aereo non viene praticamente mostrata, ma lasciata intendere. L’11 settembre non è stato l’unico evento traumatico ad aver segnato la nostra età contemporanea, né il terrorismo è la sola minaccia ad aver influito sui comportamenti politici, sociali e culturali dei nostri tempi. Un notevole pericolo, sempre più ragguardevole a livello globale, ha interessato e interessa tuttora lo sviluppo ambientale, presente e futuro, del nostro pianeta: stiamo parlando della minaccia del cambiamento climatico, un tema che in questi giorni diventa ancor più caldo dopo l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti di Donald Trump, che in passato ha sempre negato l’evidenza scientifica del riscaldamento globale. Non esistono, a quanto sappiamo, serie tv che tematizzano esplicitamente il cambiamento climatico, anche se, certo, ci sono molte serie ambientate in un mondo post-apocalittico, che presuppone una qualche catastrofe incontrollabile per l’uomo, come abbiamo visto per The Walking Dead. Un discorso esplicito sul problema del cambiamento climatico è presente nella serie (meta)televisiva The Newsroom307, che rappresenta le dinamiche relazionali di una redazione telegiornalistica. Nella terza puntata della terza serie308 il protagonista,

307

The Newsroom, A. Sorkin, USA, HBO, 2012 - 2014. Main Justice, A. Poul, s. III, ep. 3, prima tv USA 23 novembre 2014, in The Newsroom, A. Sorkin, USA, HBO, 2012 - 2014. 308

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l’anchorman Will McAvoy, intervista in diretta il vicedirettore dell’agenzia americana per l’ambiente (Epa). Costui descrive il contenuto dell’ultimo rapporto sull’ambiente e le emissioni di anidride carbonica presentato al Presidente degli Stati Uniti d’America; fondandosi sui più recenti dati ottenuti dalle rilevazioni del National oceanic and atmospheric administration sulla concentrazione di CO2 nell’atmosfera, l’esperto delinea uno scenario irrecuperabile ed apocalittico, affermando che ormai non c’è più nulla da fare per salvare il pianeta. Il discorso dell’esperto provoca un forte impatto sul pubblico, sia quello fittizio della serie, sia quello reale, degli spettatori dello show: il cambiamento climatico viene descritto come una realtà non più modificabile, la vera sfida diventa garantire la sopravvivenza umana. Ovviamente siamo nell’ambito della fiction, ma il discorso proposto da questa scena sul clima può certamente muovere in modo positivo, attraverso una tesi così scioccante, la consapevolezza dello spettatore sulla tematica ambientale.

Figura 6.20 Main Justice. (Alan Poul, The Newsroom, 2014)

Il discorso che abbiamo analizzato sopra viene descritto solamente in una scena di The Newsroom. Il cambiamento climatico, per la serie, rappresenta sì un argomento, forse mai rappresentato così esplicitamente e duramente prima in televisione, ma è comunque uno dei tanti temi trattati dalla redazione di The Newsroom, non il principale. 195

Proviamo allora a trovare un riferimento al cambiamento climatico cercando i sintomi di questo evento traumatico, tutt’oggi in corso, in serie televisive che, apparentemente, non hanno nulla a che fare con esso, come, ad esempio, il Trono di Spade. Infatti, come abbiamo visto nel capitolo IV309, Elsaesser ha affermato che dove non c’è traccia di un trauma, allora lì vi è il trauma: e chi mai potrebbe pensare che Game of Thrones sia una serie sul cambiamento climatico? Cosa avrà a che fare una serie ambientata in un mondo fantasy d’ispirazione medievale, Westeros, con il cambiamento climatico? C’è davvero posto per un discorso sull’ambiente fra gli intrighi di corte, le guerre dinastiche e le battaglie campali fra diversi regni? Rispondiamo subito affermativamente: basti pensare al titolo dell’episodio pilota, Winter Is Coming310, nonché motto di una delle casate principali di Westeros, gli Stark, e refrain ossessivo ripetuto in numerose puntate della serie. E, come abbiamo potuto vedere in precedenza, la ripetizione è un chiaro sintomo traumatico.

Figura 6.21 Winter Is Coming. (Tim Van Patten, Game of Thrones, 2011)

«L’inverno sta arrivando» è un motto che viene usato non solamente per esortare ad un continuo stato di attenzione e di vigilanza, ma anche per indicare l’arrivo vero

309

Cfr. capitolo IV, sottocapitolo 5. Winter Is Coming, T. Van Patten, prima tv USA 17 aprile 2011, in Game of Thrones, D. Benioff D.B. Weiss, USA, HBO, 2011 - in produzione. 310

196

e proprio dell’inverno, che nel Nord di Westeros, dove risiedono gli Stark, è particolarmente rigido e duro. L’espressione, però, viene usata anche per evidenziare la minaccia degli Estranei, creature mitiche, simili a morti viventi, nemici della vita umana che inducono cambiamenti climatici catastrofici facendo calare sulla terra, col loro passaggio, un inverno devastante.

Figura 6.22 The Door. (Jack Bender, Game of Thrones, 2016)

Non sappiamo molto degli Estranei, se non che sono creature demoniache, mostruose e misteriose, abitanti in luoghi remoti, oltre la Barriera. C’è addirittura chi nella serie nega, come Eddard Stark, forse solo per paura, che gli Estranei siano ancora esistenti, dal momento che sono vissuti migliaia di anni prima rispetto al tempo in cui si svolge la narrazione. Eppure lo spettatore può vedere un agghiacciante ritratto degli Estranei e della loro malvagità già nella prima scena dell’episodio pilota, quando un gruppo di Guardiani della Notte, in perlustrazione oltre la Barriera, scopre un raccapricciante strazio di carni umane compiuto dagli Estranei. Mentre (quasi) tutta la narrazione del Trono di Spade prevede personaggi per lo più ambigui, in una lotta di potere fra diversi regni che si consuma anche all’interno delle stesse casate, gli Estranei rappresentano il vero nemico esterno, l’unico in grado di rovesciare definitivamente le sorti di Westeros e dell’intera narrazione: il fatto che questi nemici non siano usuali orde di barbari, o semplici schiere di morti viventi, ma siano portatori di mutamenti climatici devastanti, ciò 197

deve far riflettere lo spettatore, consapevole che nelle rappresentazioni di genere può nascondersi un messaggio rivolto alla contemporaneità.

Figura 6.23 Winter Is Coming. (Tim Van Patten, Game of Thrones, 2011)

L’ipotesi, recentemente avvalorata da Manjana Milkoreit, una ricercatrice del Walton Sustainability Fellowship Program dell’Arizona State University311, è che nella trama del Trono di Spade sia ravvisabile un discorso sul trauma ambientale in atto nei nostri giorni: gli Estranei sarebbero dunque una chiara metafora del cambiamento climatico. Mentre nella nostra contemporaneità ci ritroviamo ad avere a che fare ormai da anni col problema del riscaldamento globale, per Westeros la minaccia è quella di un inverno incombente e devastante: due concetti apparentemente opposti, quello del Global Warming e del Winter Is Coming, ma che proprio per questa loro opposizione naturale permettono di muovere interessanti associazioni nello spettatore. La minaccia dell’incombente glaciazione causata dall’arrivo degli Estranei è sottolineata dalla ripetuta litania «l’inverno sta arrivando», così come nell’informazione contemporanea il rischio del riscaldamento globale è stato più volte oggetto (ma forse non abbastanza) di

311

Manjana Milkoreit ha sottolineato questo paragone fra cambiamento climatico in atto a Westeros e nel mondo reale in un saggio di 40 pagine “Winter is Coming”: Can Game of Thrones change Climate Change Politics? non ancora pubblicato ma che ha anticipato in un’intervista alla Thomson Reuters Foundation, cfr. K. Plantz, Is 'Game of Thrones' aiding the global debate on climate change?, «Thomson Reuters Foundation», 8 aprile 2015, www.news.trust.org

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attenzione mediatica. La metafora della contemporaneità si amplia se pensiamo al contesto del cambiamento climatico presente nel Trono di Spade, inserito in uno scenario per lo più disinteressato alle tematiche ambientali, coinvolto solamente in intrighi di palazzo e giochi di potere: gli unici che paiono curarsi dell’incombente minaccia climatica portata dagli Estranei sono i Guardiani della Notte. Il Trono di Spade sembra parlarci della nostra epoca, di una politica che pare non prendere troppo sul serio la minaccia ambientale del riscaldamento globale. L’analogia è stata riconosciuta dallo stesso ideatore del mondo di Westeros, George R.R. Martin, in un’intervista del 2013 ad Al Jazeera America:

I mean, we have things going on in our world right now like climate change, that’s, you know, ultimately a threat to the entire world. But people are using it as a political football instead of, you know… You’d think everybody would get together. This is something that can wipe out possibly the human race. So I wanted to do an analogue not specifically to the modern-day thing but as a general thing with the structure of the book.312

Teniamo presente anche che il primo libro della serie di A Song of Ice and Fire313 di George R.R. Martin, da cui è tratto il serial televisivo Game of Thrones, risale al 1996, e le sue prime stesure al 1993: siamo negli anni della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, i cosiddetti Accordi di Rio, primo vero riconoscimento ratificato a livello internazionale del problema del riscaldamento globale, che porterà, nel 1997, alla stesura del Protocollo di Kyoto.

312

George R.R. Martin talks to David Shuster, «Al Jazeera America», 13 novembre 2014, www.america.aljazeera.com 313 G.R.R. Martin, A Game of Thrones, Bantam Books, New York 1996.

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L’ipotesi di una trama che alluda al trauma odierno del cambiamento climatico, dislocato in una narrazione di genere fantasy, non è dunque così assurda come potrebbe sembrare. Il processo della dislocazione del trauma attraverso l’uso di una narrazione di genere è anzi un espediente abbastanza comune, basti pensare a quanto cinema mainstream di genere horror, catastrofico o supereroistico, a quanti blockbuster abbiano ammiccato ad atmosfere post-apocalittiche di terrore nel clima del dopo 11 settembre314. Il cinema di genere, infatti, non richiamandosi direttamente ed esplicitamente all’evento 11 settembre ed alla sua rappresentazione, ma avvalendosi invece di metafore, allegorie, simbolismi più o meno consci, riesce comunque a raccontare bene il clima di terrore dell’11 settembre e le conseguenze dell’attentato. Lo stesso Lost, abbiamo visto, mette in atto una dislocazione del trauma dell’11 settembre in una narrazione misteriosa che prende le mosse da un disastro aereo analogo a quello degli attentati di New York. Il concetto di referenzialità ci consente quindi di interpretare la narrazione e la rappresentazione presente nella serialità televisiva, permettendoci di scoprire i meccanismi traumatici nascosti sotto la superficie del testo e dello schermo e mettendo in luce i riferimenti culturali espressi dai prodotti televisivi: possiamo così vedere le serie televisive non solo come un oggetto di intrattenimento, ma come un prodotto intellettuale figlio del proprio tempo, mettendole in relazione con il loro contesto storico di produzione. Se assumiamo dunque il trauma come categoria interpretativa, riusciamo anche a scoprire riferimenti all’attualità nascosti o dislocati in narrazioni di genere, comprendendo così il forte legame che le serie possiedono con la nostra storia e con la quotidianità dello spettatore.

314 Pensiamo ad esempio a War of the Worlds, S. Spielberg, USA, 2005 e a Cloverfield, M. Reeves, USA, 2008.

200

5. Il trauma come categoria interpretativa della serialità In questo capitolo abbiamo cercato di tracciare una mappa articolata dei rapporti più significativi che intercorrono fra il trauma e la serialità televisiva. Siamo partiti dall’analisi di un episodio specifico di una serie antologica recente, Black Mirror, per constatare come il trauma sia un oggetto privilegiato nella scrittura attuale di serie televisive. Abbiamo dunque individuato alcune tematiche traumatiche presenti nell’episodio Orso bianco, riferite sia alla rappresentazione che alla narrazione del trauma: al livello rappresentativo abbiamo segnalato elementi importanti come la presenza di immagini disturbate e disturbanti, gli angoli inusuali di ripresa e la raffigurazione di oggetti in funzione di trigger, mentre al livello narrativo abbiamo evidenziato le dimenticanze, le ripetizioni, le dislocazioni e i flashback. Tutto ciò che abbiamo visto all’interno di questo episodio ci è servito per introdurre i temi e le peculiarità principali delle cosiddette trauma series, che abbiamo successivamente approfondito attraverso l’esempio concreto di numerose serie televisive più o meno recenti, da Twin Peaks, su cui ci soffermeremo però attentamente nel prossimo capitolo, fino a Westworld, ultima creatura della HBO, in onda a partire dall’ottobre del 2016, passando per show che hanno fatto la storia recente del piccolo schermo, come I Soprano, Lost e Breaking Bad, individuando per ogni serie un legame concreto con la realtà traumatica. Prima di passare all’analisi degli elementi traumatici in queste serie esemplari della complex television abbiamo però rivolto un breve sguardo all’ambiente in cui si sviluppa il racconto traumatico della fiction, ovvero la televisione. Mettendo a confronto le pratiche narrative della serialità con quelle solo apparentemente distanti dell’informazione telegiornalistica, abbiamo notato che le due tipologie non condividono soltanto lo stesso medium e lo stesso pubblico: abbiamo infatti

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constatato un pericoloso avvicinamento dell’informazione televisiva alla narrazione empatica tipica della fiction, rilevando una reciproca influenza delle modalità di rappresentazione della serialità e del giornalismo sul piccolo schermo, con un’informazione che, in particolare nel racconto della cronaca nera, si avvicina sempre più a pratiche di intrattenimento rivolte ad un pubblico morbosamente interessato. Terminato il confronto fra serialità e infotainment, siamo dunque passati all’analisi vera e propria di alcune trauma series, individuando scene utili a sottolineare il rapporto che intercorre fra la serialità televisiva e il trauma. Abbiamo visto così, attraverso l’esempio di Westworld, che la ripetizione di scene e sequenze può essere usata efficacemente come struttura narrativa per simulare la caratteristica ripetitività del trauma. Ci siamo soffermati sul concetto di trigger, oggetto o evento scatenante, utilizzato come espediente narrativo e rappresentativo per attivare flashback e aprire squarci sul passato traumatico dei protagonisti di alcune serie, come Tony Soprano, un personaggio ambiguo, la cui storia affonda le proprie radici in un rapporto familiare traumatico. L’ambiguità contraddistingue anche la personalità di Walter White, di cui abbiamo indagato il passaggio da vittima a carnefice e l’inusuale rapporto empatico del pubblico con questo genere di personaggi, affascinanti ma oscuri, non certamente dei modelli positivi, ma con i quali lo spettatore riesce a entrare in contatto e a giustificarne le azioni malvagie anche grazie all’attenzione rivolta al loro passato traumatico. Abbiamo dunque analizzato l’importanza del trauma come espediente narrativo per dare il via ad ampie narrazioni seriali, soffermandoci sugli incipit di The Walking Dead e Lost. Di quest’ultima serie abbiamo anche osservato il finale, una conclusione conciliante, in cui avviene l’elaborazione del trauma iniziale del disastro aereo;

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d’altro canto, abbiamo visto che ad una narrazione traumatica non può sempre corrispondere un finale conciliante e conclusivo, vòlto alla risoluzione del trauma: è il caso dei Soprano, il cui epilogo drammatico e traumatico non soltanto ha scosso lo spettatore lasciandolo per sempre in sospeso, ma ha anche dimostrato che una serie può non concludere, quantomeno non seguendo l’usuale concetto televisivo di chiusura narrativa. Attraverso il caso di Lost siamo quindi riusciti a dimostrare come le serie televisive, dislocando traumi storici e contemporanei in una narrazione di genere, riescano ad attivare importanti focus sull’attualità: abbiamo infatti evidenziato il riferimento al clima di terrore post 11 settembre in Lost attraverso il disastro aereo della puntata pilota, e anche il riferimento all’attuale cambiamento climatico nella serie Il Trono di Spade. In questo capitolo abbiamo dunque potuto vedere come il trauma sia non soltanto un espediente narrativo molto efficace e sfruttato dalla quality television, ma anche uno strumento utile per l’interpretazione della serialità televisiva, come abbiamo potuto constatare osservando alcuni dei casi più significativi e recenti di serie tv di qualità. I casi e gli esempi sono ovviamente più numerosi di quelli da noi descritti, l’argomento è ampissimo e certamente non pretendiamo di risolverlo qui: può essere infatti ulteriormente approfondito, con nuovi punti di vista, attenzioni ad altre serie tv, ad altri aspetti del trauma, e con studi dedicati ad alcune tematiche particolari relative all’esperienza traumatica. Nel prossimo capitolo, infatti, ci soffermeremo sul rapporto fra trauma e serialità televisiva prendendo in considerazione un tema traumatico di particolare importanza, la violenza sui minori, attraverso l’esempio di tre diverse serie televisive.

203

Capitolo VII

La violenza sui minori nella serialità televisiva

La World Health Organization, nel rapporto mondiale sulla violenza e la salute, ha così definito le violenze sui minori (child abuse e child maltreatment):

all forms of physical and/or emotional ill-treatment, sexual abuse, neglect or negligent treatment or commercial or other exploitation, resulting in actual or potential harm to the child's health, survival, development or dignity in the context of a relationship of responsibility, trust or power.315

L’Organizzazione Mondiale per la Salute ha inoltre distinto quattro diverse forme di maltrattamento su minori, ovvero: physical abuse; sexual abuse; emotional and

psychological abuse; neglect.316 Le negligenze e gli abusi psicologici familiari purtroppo si rivelano come esperienze comuni durante l’età infantile, ma dati preoccupanti emergono anche riguardo alle altre tipologie di abusi: un quarto di

315

E.G. Krug - L.L. Dahlberg - J.A. Mercy - A.B. Zwi - R. Lozano, World report on violence and health, World Health Organization, Ginevra 2002, p. 59. 316 Cfr. A. Butchart - A. Phinney Harvey - M. Mian - T. Fürniss, Preventing child maltreatment: a guide to taking action and generating evidence, World Health Organization, Ginevra 2006, pp.7-9.

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tutta la popolazione adulta ha infatti subìto abusi fisici durante l’infanzia, e una porzione pari ad un quinto delle donne, contro un tredicesimo degli uomini, ha subìto abusi sessuali in minore età.317 Eppure il problema della violenza sui minori è una piaga sociale spesso sottovalutata, forse perché, per la società contemporanea, rappresenta un argomento tabù, difficile da trattare. Lo psichiatra Bessel van der Kolk, di cui ci siamo serviti per individuare i nodi chiave dell’esperienza traumatica secondo la medicina e la psicologia, ha messo a confronto i rischi che i soldati americani corrono in guerra con i pericoli che minacciano i minori nelle loro stesse famiglie e nelle loro stesse case, negli Stati Uniti, giungendo ad una relazione sorprendente e scioccante:

For many people the war begins at home: each year about three million children in the United States are reported as victims of child abuse and neglect. [...] for every soldier who serves in a war zone abroad, there are ten children who are endangered in their own homes. This is particularly tragic, since it is very difficult for growing children to recover when the source of terror and pain is not enemy combatants but their own caretakers.318

Van der Kolk ha infatti definito provocatoriamente l’abuso sui minori «our nation’s largest public health problem»319, riferendosi agli Stati Uniti. Lo psichiatra si è inoltre lamentato del fatto che gli studi compiuti in tema di violenze sui minori non siano riusciti a far veramente luce sulla problematica e a procurare ad essa spazio

317

Child maltreatment: Fact sheet No. 150, World Health Organization, dicembre 2014. B. van der Kolk, The Body Keeps the Score, p. 25. 319 Ivi, p. 128 - 129. 318

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in un dibattito più ampio, che coinvolga la consapevolezza dell’opinione pubblica riguardo queste tematiche:

When the surgeon general’s report on smoking and health was published in 1964, it unleashed a decades-long legal and medical campaign that has changed daily life and long-term health prospects for millions. The number of American smokers fell from 42 percent of adults in 1965 to 19 percent in 2010, and it is estimated that nearly 800,000 deaths from lung cancer were prevented [...]. The ACE [Adverse Childhood Experiences] study, however, has had no such effect. Follow-up studies and papers are still appearing around the world, but the day-to-day reality of children [...] in outpatient clinics and residential treatment centers around the country remains virtually the same.320

Ricordiamo, comunque, che è anche grazie allo studio delle violenze sui minori che siamo pervenuti ad una teoria del trauma in ambito umanistico: infatti, come abbiamo visto nel corso della prima parte della nostra tesi, è stata la denuncia femminista, negli anni Settanta, degli abusi sui minori e delle violenze domestiche, ad originare il campo dei trauma studies. Le violenze sui minori rappresentano un argomento tabù per la nostra società perché risulta difficile per l’opinione pubblica riconoscere una realtà traumatica così oscena e abominevole, che colpisce bambini innocenti, spesso vittime dei propri stessi familiari: la stessa istituzione della famiglia, così intima e sacra, risulta

320

B. van der Kolk, The Body Keeps the Score, p. 128 - 129.

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scalfita da tali episodi di violenza, mostrando una fragilità che non vorremmo vedere, che ci spaventa. I media riconoscono comunque un certo spazio al discorso della violenza sui minori, per lo più, nei notiziari, affrontando casi tragici di cronaca nera e seguendone morbosamente gli sviluppi321, come abbiamo visto nel capitolo scorso, confrontando la narrazione giornalistica del trauma in televisione con quella elaborata dalle serie tv. Anche nella serialità televisiva il tema degli abusi sui minori trova largo spazio: esso infatti dimostra di essere un argomento molto utilizzato dalla fiction, in particolar modo statunitense. Pensiamo al cinema, a quanti film rappresentano l’argomento, anche solo di sfuggita, da Taxi Driver322 a Mystic River323, fino al recente Il caso Spotlight324, premiato dall’Academy come miglior film, nel 2016, incentrato sull’indagine del Boston Globe che ha svelato gli abusi sessuali su minori perpetrati da settanta sacerdoti dell’Arcidiocesi di Boston. In questo ultimo capitolo vedremo dunque come la complex television e la serialità televisiva in generale hanno affrontato il tema traumatico della violenza sui minori, con un occhio di riguardo soprattutto per le serie che implicano la narrazione di abusi sessuali, indagando l’argomento attraverso l’analisi di tre serie televisive differenti ma con diversi punti in comune, riguardanti sia le dinamiche narrative sia le pratiche rappresentative del trauma: Twin Peaks, uno dei primi serial televisivi di grande successo, che ha dato origine al fenomeno della complessità televisiva e che, significativamente, pone al centro della propria narrazione la

321

Pensiamo, in Italia, al delitto di Cogne, ma anche al più recente caso del piccolo Loris, ucciso dalla madre Veronica, o al parco degli orrori di Caivano, dove si consumavano abusi sessuali su minori. 322 Taxi Driver, M. Scorsese, USA, 1976. 323 Mystic River, C. Eastwood, USA, 2003. 324 Spotlight, T. McCarthy, USA, 2015.

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violenza su una giovane ragazza, Laura Palmer; Broadchurch325, recente crime serie britannica in cui troviamo, come in Twin Peaks326, l’indagine sulla misteriosa morte di un giovane di buona famiglia, Danny Latimer, abitante di una piccola e apparentemente tranquilla cittadina sulla costa inglese; e infine Stranger Things, serie televisiva targata Netflix uscita nell’estate del 2016 che ha subito raggiunto una grande popolarità e che narra la misteriosa scomparsa di un ragazzino, Will Byers, attraverso una detection story ambientata nella provincia americana degli anni Ottanta, in uno scenario fantascientifico e con un forte citazionismo del cinema di quegli anni. Il nostro obiettivo sarà dunque quello di interpretare i testi di questi esempi di serialità televisiva alla luce della trauma theory, indagando in che modo la complessità televisiva e la pop culture siano riusciti a relazionarsi e a narrare il trauma indicibile e osceno della violenza sui minori, proponendolo a proprio modo al vasto pubblico di massa della televisione.

1. I segreti di Twin Peaks Come abbiamo già detto in precedenza, Twin Peaks è il primo vero serial a imprimere uno scatto qualitativo al prodotto televisivo, originando la cosiddetta complex television. I suoi autori sono Mark Frost, uno degli sceneggiatori di Hill Street Blues327, e David Lynch, regista cinematografico e artista tout court proveniente dal circuito indipendente che per la prima volta si trova a lavorare per il medium televisivo. Twin Peaks rappresenta da subito, dalla sua prima messa in onda, l’8 aprile del 1990, una ventata d’aria fresca nella programmazione televisiva: non si era mai 325

Broadchurch, C. Chibnall, UK, ITV, 2013 - in produzione. Stranger Things, M. Duffer - R. Duffer, USA, Netflix, 2016 - in produzione. 327 Abbiamo visto che questa serie rappresenta uno dei primi passi fondamentali verso la serializzazione, cfr. capitolo V, sottocapitolo II. 326

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visto, infatti, un lavoro così sperimentale approdare in prima serata. Twin Peaks è lavoro autoriale, ma anche ibridazione di generi: nell’atmosfera di mistero della cittadina montana (inventata), ai confini fra Stati Uniti e Canada, convivono infatti realismo e surrealismo, orrore e commedia, presenti all’interno di un formato che ricalca sia la detective story, sia la soap opera, facendo un’efficace parodia di questi generi, ma andando anche oltre, descrivendo uno spaccato inquietante della psicologia umana.

1.1 Chi ha ucciso Laura Palmer? La storia, come abbiamo già avuto modo di vedere nel capitolo scorso, comincia in medias res328, col ritrovamento del cadavere di una giovane ragazza, avvolto in un telo di plastica, sulla riva di un lago. La complex television comincia così subito con l’immagine scioccante della violenta morte di un’adolescente, inizia con il traumatico omicidio di Laura Palmer. È Pete Martell, taglialegna in pensione, il primo abitante di Twin Peaks a scoprire il terribile delitto, rinvenendo sulla riva il cadavere, prono, avvolto nella plastica, la mattina del 24 febbraio 1989. Egli chiama subito lo sceriffo, Harry Truman, per avvisarlo del ritrovamento, con la voce rotta dallo shock: «Eh… è morta! Avvolta nella plastica, Harry». Lo sceriffo si precipita sul luogo del delitto con il fedele agente Andy Brennan e il medico di Twin Peaks, Will Hayward. Dopo qualche fotografia per immortalare la scena del crimine, i tre girano il cadavere, scoprendo che la vittima è Laura Palmer. Il patetismo della scena del ritrovamento viene rafforzato notevolmente dalle lacrime di Andy, agente imbranato e puro di cuore, e dalla colonna sonora di Angelo Badalamenti, che scandisce la scoperta 328

Cfr. Northwest Passage, D. Lynch, s. I, ep. 1, prima tv USA 8 aprile 1990, in Twin Peaks, D. Lynch - M. Frost, USA, ABC, 1990 - 1991.

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dell’identità del cadavere con un toccante crescendo musicale. Le atmosfere sonore del musicista accompagnano perfettamente tutta la serie televisiva, districandosi fra sonorità melodrammatiche, orrorifiche, misteriose e surreali.

Figura 7.1 Northwest Passage (David Lynch, Twin Peaks, 1990)

La scena si sposta in casa Palmer, dove la madre di Laura, Sarah, cerca la figlia, per fare colazione, ma non la trova: sale in camera della ragazza, al piano superiore, ma la stanza è vuota. Una ventola ruota sopra l’anticamera, eppure è il 24 febbraio! La ventola che gira indica, infatti, nel linguaggio misterioso della serie, il passaggio di un’entità demoniaca, il killer Bob.329

329

Cfr. A. Parlangeli, Da Twin Peaks a Twin Peaks: piccola guida pratica al mondo di David Lynch, Mimesis, Milano - Udine 2015, p. 34.

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La madre è preoccupata, fa qualche telefonata per avere informazioni su dove possa trovarsi sua figlia, senza trovare risposte soddisfacenti. Infine chiama il marito, Leland Palmer. La prima apparizione di Leland lo vede a colloquio con l’amico, di cui è anche avvocato, Benjamin Horne, proprietario del Green Northern Hotel di Twin Peaks. La telefonata della moglie lo distoglie da un convegno, in hotel, e lo fa recare in un’altra stanza, per rispondere. Sarah mostra tutte le proprie preoccupazioni al marito, il quale dice alla moglie di non preoccuparsi. Entra in scena però lo sceriffo Truman, che raggiunge Leland, ancora al telefono con la moglie. L’attenzione del montaggio si alterna sulle due situazioni: da una parte, vediamo lo sceriffo rivelare a Leland la morte di Laura, dall’altra, vediamo la disperazione di Sarah, all’altro capo della cornetta, che capisce che lo sceriffo è a colloquio col marito per comunicargli la morte della figlia. La scena si chiude con le urla di Sarah, prima attraverso un’inquadratura della cornetta abbandonata da Leland, poi tramite un primo piano del volto disperato della donna. Leland si recherà poi all’obitorio, per riconoscere il cadavere della figlia, mentre il preside della scuola superiore di Twin Peaks, con un discorso commosso, rotto dal pianto, annuncia attraverso l’interfono dell’istituto la morte della studentessa modello Laura Palmer. Le immagini indugiano sulla disperazione dell’amica, Donna Hayward, in lacrime, e dell’amante di Laura, James Hurley, mentre il fidanzato della ragazza, Bobby Briggs, viene interrogato dalla polizia riguardo la sera dell’omicidio. La scena si conclude con un primissimo piano di una foto di Laura, nella bacheca della scuola, in cui la giovane è incoronata come reginetta del ballo. È una foto che ricorre numerose volte nella serie, punteggia il tessuto della narrazione ed indica non solo l’assenza della ragazza, ma il suo doppio volto: infatti,

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dietro al sorriso angelico della reginetta del ballo, si nasconde una personalità turbata e perturbante.

Figura 7.2 Northwest Passage (David Lynch, Twin Peaks, 1990)

Queste sono le prime scene della serie, l’incipit traumatico, in cui vediamo subito alcuni fra i principali protagonisti e veniamo a conoscenza dell’ambiente in cui si svolge la storia, la piccola e apparentemente tranquilla comunità di Twin Peaks, sconvolta da uno scioccante delitto. Del caso si occuperà, oltre allo sceriffo Truman, un agente dell’FBI, Dale Cooper. Costui è un detective sui generis: goloso di cherry pie e di caffè nero, sensibile ed educato, basa le proprie indagini non tanto sull’intelligenza, quanto sull’intuito e su un sesto senso che gli deriva da una particolare passione per il Tibet e la meditazione zen.

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La puntata prosegue con una serie di interrogatori, a Bobby e Donna, interpellati per sapere più informazioni possibili sulla vita di Laura. Nel frattempo, il mistero si infittisce: fa la sua comparsa Ronette Pulaski, in stato di incoscienza, sui binari di un treno: una ragazza salvatasi dallo stesso terribile mostro che ha ucciso Laura, e che finirà in coma per le conseguenze del trauma subito. Scopriremo che Laura e Ronette erano legate da una vita nascosta, da oscure amicizie, dalla passione per gli uomini, da alcune inserzioni su riviste pornografiche e dalla dipendenza dalla cocaina. La serie si presenta dunque, di puntata in puntata, come un tipico whodunit, un giallo deduttivo, che appassiona lo spettatore, immergendolo nella folle e ossessiva ricerca dell’assassino di Laura: «Chi ha ucciso Laura Palmer?» è stato infatti il tormentone del 1990, capace di ‘incollare’ davanti agli schermi televisivi un vastissimo ed eterogeneo pubblico, almeno fino alla risoluzione (anticipata e per questo non gradita da Lynch) del mistero che reggeva con la propria forza l’intera serie, fino alla nona puntata della seconda stagione. Il nostro percorso di analisi di Twin Peaks si fermerà lì, perché, come abbiamo anticipato, la nostra volontà è quella di indagare la particolare tematica della violenza sui minori. Con la nona puntata della seconda stagione ci troveremo di fronte alla confessione dell’assassino: è stato Leland, il padre di Laura, ad uccidere la figlia, dopo averla ripetutamente violentata nel corso della sua giovane vita. Vediamo ora come viene presentato, giustificato e motivato un atto così terribile, l’incesto e l’omicidio della propria stessa figlia, nel corso della serie. Affronteremo la narrazione di questo trauma basandoci principalmente sulle figure maggiormente coinvolte, ovvero Leland e Laura.

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1.2 I segreti di Leland e Laura Sotto la superficie della sorridente fotografia di reginetta del ballo, la figura della protagonista-assente della serie, Laura Palmer, ci viene presentata come «piena di segreti»330 e di misteri. Già nella puntata pilota veniamo a sapere dal dottor Jackoby, eccentrico psichiatra di Twin Peaks, che Laura Palmer era una delle sue pazienti, ma i genitori non sapevano nulla della terapia. Nella stessa puntata, veniamo a conoscenza di un diario segreto di Laura, nel quale la ragazza raccontava i propri incontri sessuali e le proprie preoccupazioni. L’agente Cooper e lo sceriffo Truman trovano inoltre una cassetta di sicurezza appartenente a Laura, in un caveau, dove la ragazza nascondeva un mucchio di denaro e una rivista pornografica, sulla quale appariva lei stessa con la compagna Ronette. Una delle migliori descrizioni di Laura nella serie viene fornita attraverso le parole dell’ex fidanzato, Bobby Briggs, in un dialogo col dottor Jackoby durante la sesta puntata:

Bobby: «Laura voleva morire [...] diceva che le persone provano a essere buone, ma sono ormai corrotte, marce. Lei più degli altri. E ogni volta che aveva tentato di trasformare il mondo in un posto migliore, dentro di lei era esplosa una forza orribile che l’aveva trascinata giù all’inferno. Quella cosa la portava sempre più giù, nel più nero degli incubi, ed era sempre più difficile liberarsene e trovare la luce.» Dr. Jackoby: «Ti è capitato di avere la sensazione che Laura nascondesse qualche orribile segreto?» Bobby: «Sì».

330

Così definisce la vita di Laura il nano che appare in sogno a Cooper nella terza puntata. Cfr. Zen, or the Skill to Catch a Killer, D. Lynch, s. I, ep. 3, prima tv USA 19 aprile 1990, in Twin Peaks.

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Dr. Jackoby: «Così orrendo da indurla a desiderare la morte?» Bobby: «Sì». Dr. Jackoby: «Così orrendo da indurla a cercare le debolezze delle persone e poi ad approfittarne, tentadole, privandole della dignità, portandole a compiere gesti terribili, degradanti?» Bobby: «Sì». Dr. Jackoby: «Voleva corrompere la gente perché si sentiva sporca e corrotta anche lei». Bobby: «Sì».331

Questa descrizione rappresenta il lato oscuro di Laura, quello che si vede oltre il bel sorriso della reginetta della scuola, che campeggia nella bacheca scolastica e nel salotto di casa Palmer. L’ambigua figura di Laura pare dunque avere tutti i connotati di una personalità schizoide. In una scena in ospedale, lo psichiatra Jackoby descrive così la sua paziente al detective Cooper, paragonando la personalità della ragazza al ciondolo col cuore diviso su cui ruotano alcuni episodi dell’indagine sull’omicidio di Laura: «un cuore diviso in due… anche Laura era divisa in due. Insomma, viveva una doppia vita. Due persone».332 La personalità di Laura pare irrimediabilmente scissa: da una parte, troviamo la ragazza semplice, carina e per bene, dall’altra invece una donna ammaliante, dalla forte carica sessuale, viziosa, disinibita, dipendente dalla cocaina, piena di segreti e di misteri terribili. La descrizione di Laura è ben lontana dall’unico ritratto in vita della ragazza mostrato nella serie, un video girato da James, in compagnia di Donna: qui

331

Cfr. Cooper’s Dreams, L.L. Glatter, s. I, ep. 6, prima tv USA 10 maggio 1990, in Twin Peaks. Cfr. May the Giant Be With You, D. Lynch, s. II, ep. 1, prima tv USA 30 settembre 1990, in Twin Peaks.

332

215

una giovane, allegra e spensierata, scherza, balla e ride con l’amica di sempre, e ammicca alla telecamera, dietro la quale si nasconde l’amante, James. Anche quest’ultimo, in un dialogo con Donna, nella prima puntata, rivela un lato che, fino ad allora, non era riuscito a vedere in Laura:

È stato come vivere un incubo. Lei era così diversa dal solito. Ha detto di essere coinvolta in certe strane storie. Di essersi fatta trascinare in una brutta faccenda, diceva che l’avresti odiata per questo. Diceva “ci sono certi aspetti della mia vita che nemmeno Donna può immaginare”.333

L’ultima sera in cui James l’ha vista, Laura pareva diversa dal solito. Ma questo non era un’anomalia per la ragazza, che viveva continuamente diversi e contrastanti stati d’animo, in bilico fra innocenza e perdizione. Una condizione, questa, di volubilità, che viene descritta da Bessel van der Kolk come tipica dei bambini che hanno vissuto un’infanzia travagliata: «Children who don’t feel safe in infancy have trouble regulating their moods and emotional responses as they grow older»334. James è un amante di Laura, uno dei tanti: infatti, nel corso della serie, veniamo a sapere che Laura ha intrattenuto relazioni intime con diversi uomini, fra cui appunto James Hurley, l’ex fidanzato Bobby Briggs, l’agorafobico Harold Smith, il dottor Jackoby, Leo Johnson e Jacques Renault, due criminali locali con cui organizzava incontri sessuali e con i quali si prestava a set fotografici osé per la rivista pornografica Flesh World, Benjamin Horne, proprietario del Green Northern Hotel e del One Eyed Jacks, locale a luci rosse in cui Laura ha lavorato per un certo

333

Cfr. Northwest Passage, D. Lynch, s. I, ep. 1, prima tv USA 8 aprile 1990, in Twin Peaks. B. van der Kolk, The Body Keeps the Score, p. 104.

334

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periodo come prostituta. Il ritratto di Laura si arricchisce così di una decisa sfumatura di trasgressione, che la raffigura come una femme fatale. Lei stessa ne è consapevole e, nelle confessioni che registra appositamente per il dottor Jackoby, per la terapia ma anche per eccitare lo psichiatra, dice: «Perché è così facile per me fare innamorare gli uomini? Non devo neanche impegnarmi troppo»335. James, fra tutti gli uomini avuti da Laura, risulta essere il più ragazzino, il più dolce ma per questo anche il più noioso: egli non riesce a solleticare le fantasie della ragazza, compromessa dalla relazione illecita e incestuosa col padre Leland, posseduto dal demone Bob. Così Laura descrive il suo rapporto con James, in una registrazione al dottor Jackoby:

Oggi è giovedì 23, e sono così annoiata… [...] Certo, James è carino, ma è talmente stupido… e poi comincio ad averne abbastanza delle sue smancerie. Ehi, ti ricordi di quell’uomo misterioso di cui ti ho parlato? Beh, se ti rivelassi il suo nome, tu saresti davvero nei guai! Lui non sarebbe più un uomo misterioso, ma tu saresti senz’altro un uomo morto. Credo che un paio di volte abbia cercato di uccidermi. Ma, come avrai indovinato, mi sono eccitata ancora di più. Non è strano, il sesso? Poi questo tizio sa come accendere il mio… fuoco!336

Il tizio di cui parla Laura, questo suo oscuro amante, in un primo momento, viene ipotizzato essere Leo Johnson, da Cooper e Truman. In realtà, ogni volta che nel film si parla di fuoco, questo elemento è senza dubbio riconducibile al demoniaco

335

Cfr. Realization Time, C. Deschanel, s. I, ep. 7, prima tv USA 17 maggio 1990, in Twin Peaks. Cfr. The Last Evening, M. Frost, s. I, ep. 8, prima tv USA 23 maggio 1990, in Twin Peaks.

336

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Bob. È lo stesso James a parlare di questa presenza, per la prima volta, allo sceriffo Truman:

Laura nel nastro parla sempre di un uomo misterioso… Non credo che si tratti di lui [Leo Johnson], e nemmeno di Jacques Renault. L’ho capito quando ho sentito il nastro in cui Laura diceva “questo tizio sa come accendere il mio fuoco”. Beh, io mi ricordo di una sera, era da poco che ci vedevamo, lei prendeva ancora la droga allora. Eravamo nel bosco, Laura si era messa a recitare uno spaventoso poema, continuava a ripeterlo, parlava di fuoco, e alla fine mi ha detto “ti piacerebbe giocare col fuoco, ragazzino? Ti piacerebbe giocare con Bob?” [...] Laura diceva un sacco di cose strane, a volte invece non ti rivolgeva la parola. Lei sapeva incantare.337

Nel diario segreto di Laura vengono trovate ulteriori tracce del demone Bob, anche se l’identità di costui viene inizialmente fraintesa da Cooper, che sospetta di Benjamin Horne:

Sono nella sala conferenze della stazione di polizia, con quello che resta del diario di Laura Palmer. Molte pagine sono state strappate, tutto ciò che sono riuscito a decifrare conferma quello che ha detto l’uomo con un braccio solo338: ci sono continui riferimenti a un certo Bob, una presenza minacciosa fin dai primi anni dell’adolescenza. Ci sono anche

337

Cfr. May the Giant Be With You, D. Lynch, s. II, ep. 1, prima tv USA 30 settembre 1990, in Twin Peaks. 338 L’uomo da un braccio solo è Philip Gerard, venditore ambulante di calzature che ospita Mike, demone che un tempo era socio di Bob, ma che, dopo aver visto il volto di Dio, si è redento e si è votato alla caccia del vecchio compagno di delitti.

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accenni piuttosto frequenti a molestie e a maltrattamenti ripetuti. Questo Bob sarebbe, a quanto ha scritto Laura, un amico del padre.339

Come possiamo vedere, le violenze di Bob su Laura cominciano ben prima della notte dell’omicidio: fin dai primi anni dell’adolescenza la ragazzina ha dovuto subire le angherie del genitore/demone. Laura, però, sembra non riconoscere il padre come suo aguzzino: nelle registrazioni e nel diario non viene mai associato il nome di Bob a quello di Leland, se non quando il demone, come abbiamo visto sopra, viene indicato come un «amico del padre». Inoltre pare che esista una raccapricciante intesa sessuale fra la ragazza e il suo violentatore. Ricordiamo le parole di Laura nella registrazione per Jackoby: «questo tizio sa come accendere il mio fuoco». Un atteggiamento simile è frequente nelle vittime di abusi in età infantile. Bessel van der Kolk ce ne fornisce una descrizione che sembra descrivere appieno il trauma di Laura e l’influenza che ha avuto sulla sua vita:

victims of child abuse: Most of them suffer from agonizing shame about the actions they took to survive and maintain a connection with the person who abused them. This was particularly true if the abuser was someone close to the child, someone the child depended on, as is so often the case. The result can be confusion about whether one was a victim or a willing participant, which in turn leads to bewilderment about the difference between love and terror; pain and pleasure.340

339

Cfr. Lonely Souls, D. Lynch, s. II, ep. 7, prima tv USA 10 novembre 1990, in Twin Peaks. B. van der Kolk, The Body Keeps the Score, p. 21.

340

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Laura non riesce a rivelare a Donna il proprio segreto più grande, l’incesto paterno, e prova una forte vergogna per le proprie azioni; così scrive nel proprio diario segreto:

ancora ho paura di raccontarle le mie fantasie e i miei incubi… io voglio molto bene a Donna, ma certe volte temo che non mi rivolgerebbe più la parola, se le rivelassi tutte le mie fantasie… le mie fantasie oscure, e i sogni interminabili, di uomini altissimi, e dei modi in cui possono prendermi e tenermi sotto il loro controllo.341

Laura prova anche una sorta di senso di colpa, che la porta a dislocare il proprio trauma, a trasferire le violenze del padre nella figura demoniaca di Bob. Sia Laura che la madre Sarah, infatti, paiono non sapere che Leland sia uno spietato killer e violentatore seriale:

le donne della famiglia rimuovono il pensiero abominevole dell’incesto. A livello conscio, non lo vedono. Non solo; entrano in gioco anche altri meccanismi, come il senso di colpa da parte della vittima (che reagisce cercando la dannazione).342

Non che Bob sia descritto come un personaggio irreale, nella narrazione, o come il frutto della fantasia di Laura: infatti viene visto anche dalla madre, Sarah, dal padre, Leland, che ne riconosce l’identikit e lo vede nel proprio riflesso sugli specchi, da Maddy, cugina di Laura, da Ronette Pulaski, perseguitata anche dopo la terribile

341

Cfr. Laura’s Secret Diary, T. Holland, s. II, ep. 4, prima tv USA 20 ottobre 1990, in Twin Peaks. Cfr. A. Parlangeli, Da Twin Peaks a Twin Peaks, p. 39.

342

220

notte delle violenze dagli incubi e dalle apparizioni del demone, e dallo stesso Cooper, che vede più volte in sogno Bob grazie alle proprie abilità psichiche paranormali e ad un misterioso legame mentale con le vittime. Il demone, dunque, esiste, è reale, ma possiamo anche considerarlo come una metafora per rappresentare la coscienza dissociata del Male: in fondo, siamo in un territorio cinematografico, quello di David Lynch, che non permette letture immediate, definite e definitive, rivolto a suscitare nello spettatore più domande che risposte, più dubbi che certezze, in una rappresentazione dell’ambiguità che contraddistingue la dimensione umana del pensiero. Se da un lato Laura pare comunque attratta irresistibilmente da Bob e dalla sua carica erotica, d’altro canto sa che il demone desidera possedere non solo il suo corpo, ma anche la sua anima, considerata da lui pura e preziosa. Sarebbe questo il motivo degli atti autolesionistici di Laura, della ricerca della depravazione morale e della dannazione: essi sono un modo per sfuggire ai desideri di Bob.343 Eppure anche tutto questo non riesce a fermare le mire demoniache: l’unica soluzione, per Laura, è la morte.

23 febbraio: Morirò questa notte, è deciso. Devo farlo, perché questo è l’unico modo per tenere Bob lontano da me, è l’unico modo per strapparmelo da dentro. Lo so che lui mi vuole, posso sentire il suo fuoco. Ma se muoio, non può più farmi del male.344

Come abbiamo precedentemente svelato, dietro le azioni di Bob si cela Leland Palmer, o potremmo anche dire che sia il demone a nascondersi dentro Leland:

343

Cfr. A. Parlangeli, Da Twin Peaks a Twin Peaks, p. 37. Cfr. Arbitrary Law, T. Hunter, s. II, ep. 9, prima tv USA 1 dicembre 1990, in Twin Peaks.

344

221

l’ambiguità è norma nel mondo di Twin Peaks. Leland è dunque un violentatore, con l’aggravante del reiterato incesto, ed un serial-killer. Uccide infatti non soltanto Laura, ma anche la nipote, Maddy, identica all’amata figlia, e in precedenza aveva assassinato anche Teresa Banks, una prostituta diciassettenne. Però Leland è anche un padre di famiglia amorevole, un noto avvocato e uno stimato cittadino di Twin Peaks; nelle prime scene della serie, inoltre, lo vediamo disperato per la morte della figlia, come se veramente non sapesse di essere stato proprio lui l’assassino. Anche nel caso di Leland Palmer, come per la figlia, abbiamo a che fare con un esempio di personalità schizoide e di rimozione del trauma: per Laura è la violenza subita, per Leland è la violenza compiuta, ad essere rimossa, allontanata. È lo stesso signor Palmer a cantare, in una cena a casa Hayward, una canzone rivelatrice, Get Happy, in cui si dice «forget your troubles, come on, get happy, you’ve got to pack all yours cares away [...] forget your troubles, come on, get happy, you better chase all you cares away»345. Leland non conosce i propri delitti perché li ha rimossi, perché scaccia via ogni preoccupazione, ogni cattivo pensiero. Ma «di fronte a tante rimozioni, Lynch non esita a far parlare l’inconscio»346. Nella prima puntata, la polizia sta ispezionando la casa dei Palmer in cerca di indizi sull’omicidio. Il poliziotto Hawk è in camera di Laura e con lui c’è il padre della ragazza, seduto sul letto della figlia: Leland stringe un cuscino fra le gambe, come se volesse inconsciamente nascondere la vergogna dell’incesto.347

345

Cfr. May the Giant Be With You, D. Lynch, s. II, ep. 1, prima tv USA 30 settembre 1990, in Twin Peaks. 346 A. Parlangeli, Da Twin Peaks a Twin Peaks, p. 40. 347 Da notare che sulle scale che portano alla stanza di Laura è accesa la ventola, indicatore della presenza di Bob, come abbiamo visto in precedenza.

222

Figura 7.3 Northwest Passage (David Lynch, Twin Peaks, 1990)

Nella terza puntata della prima stagione348, invece, Leland accende il giradischi, altro elemento, come la ventola, che indica la presenza di Bob e funziona da trigger sia per il ricordo traumatico, sia per l’evocazione del demone.

Figura 7.4 Zen, or the Skill to Catch a Killer (David Lynch, Twin Peaks, 1990)

348 Cfr. Zen, or the Skill to Catch a Killer, D. Lynch, s. I, ep. 3, prima tv USA 19 aprile 1990, in Twin Peaks.

223

In questo caso Leland ascolta la musica, una musica allegra, genere swing, ma pensa, dolente, alla figlia Laura. Si avvicina alla fotografia della ragazza, la afferra e comincia a ballare con essa, piangendo e urlando di dolore. Questa macabra danza viene interrotta dalla moglie, che cerca di riportare alla realtà il marito: la donna esclama due volte, come se finalmente stesse comprendendo i segreti del marito, «che sta succedendo in questa casa?».349 Nella quarta puntata350, poi, alla fine del funerale di Laura, Leland si getta disperato sulla bara della figlia, mentre questa sta per essere seppellita: il meccanismo di trasporto della bara sotto terra, però, è malfunzionante, e Leland, aggrappato alla cassa, sale e scende con essa. Questa scena non solo dimostra il legame fortissimo del padre nei confronti della figlia, ma potrebbe anche nascondere la simulazione di un macabro atto sessuale, l’ultimo che Leland si può concedere con la figlia, prima che questa venga definitivamente sepolta nel sottosuolo. Sarah, dall’alto, rimprovera il marito: «Leland, non rovinare anche questo!». In questa frase possiamo percepire l’inconscia consapevolezza della donna del delitto compiuto dal marito.

Figura 7.5 Rest in Pain (Tina Rathborne, Twin Peaks, 1990)

349

Cfr. A. Parlangeli, Da Twin Peaks a Twin Peaks, p. 40. Cfr. Rest in Pain, T. Rathborne, s. I, ep. 4, prima tv USA 26 aprile 1990, in Twin Peaks.

350

224

In queste scene troviamo degli indizi, dunque, non chiarissimi e passibili di interpretazione, della colpevolezza di Leland. Questa appare chiaramente per la prima volta nella settima puntata della seconda stagione.351 Leland ha saputo in mattinata dalla nipote che questa avrebbe fatto ritorno a casa, dopo aver trascorso alcuni giorni in casa dei Palmer per sostenere gli zii e partecipare al funerale della cugina, a cui era molto affezionata e di cui rappresenta la perfetta copia fisica, anche se non è bionda ma mora. La notizia dell’abbandono di Maggy deve aver scatenato nuovamente il desiderio possessivo di Leland: la sera stessa, Bob prende il controllo del suo corpo. La sequenza dell’omicidio di Maddy comincia con un primissimo piano sul giradischi, che gira a vuoto: è il trigger che permette l’entrata in scena di Bob. Sarah striscia sulle scale, probabilmente anche lei ha subito violenze domestiche da parte del marito. La donna giunge sul pavimento del salotto, dove ha la visione di un grande cavallo bianco, che rappresenterebbe un presagio di morte.352 Subito dopo, Sarah sviene sul pavimento. Nell’atrio, intanto, Leland si guarda allo specchio, sistemandosi la cravatta. La regia stacca e ci porta alla roadhouse, con Cooper, lo sceriffo Truman e la donna col ceppo. Nel locale c’è un concerto, sul palco, davanti ad una tenda rossa, si esibisce una band dalla melodia dolce e malinconica. Lo spettacolo, però, per Cooper, viene interrotto dal Gigante, una sorta di aiutante fiabesco per l’agente353, che gli rivela cripticamente quanto sta avvenendo in casa Palmer: «attento, sta per succedere ancora». Leland dunque sta per ripetere il proprio delitto: come abbiamo visto, la ripetizione è un notevole sintomo traumatico. La regia ritorna in casa Palmer: Leland si sta ancora

351

Cfr. Lonely Souls, D. Lynch, s. II, ep. 7, prima tv USA 10 novembre 1990, in Twin Peaks. Cfr. A. Parlangeli, Da Twin Peaks a Twin Peaks, p. 39. 353 Anche grazie all’intervento del gigante e alla sua controfigura terrena, il vecchio cameriere, Cooper riuscirà a giungere alla risoluzione dell’omicidio di Laura Palmer. 352

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specchiando, e il suo riflesso rivela il volto di Bob.354 Finalmente il grande mistero che reggeva tutta la prima parte della serie viene sciolto. Maddy rientra a casa e trova la zia accasciata sul pavimento: lo zio la vede e, posseduto da Bob, rincorre follemente la nipote. Maddy prova a scappare, ma non riesce a sottrarsi alla presa del demone. La rappresentazione vede l’alternarsi sulla scena dei due diversi interpreti di Leland (Ray Wise) e Bob (Frank Silva). Le scene in cui è presente Leland sono girate con la luce naturale della stanza, mentre le sequenze di Bob utilizzano il ralenti e vengono illuminate da un faro, che evidenzia il vivo dell’azione: la traumatica scissione della personalità di Leland viene dunque rappresentata attraverso questi espedienti visivi. Dopo aver preso a pugni Maddy, Leland/Bob la stringe a sé, simulando quel ballo che tanto desiderava ancora fare con Laura. Nelle sequenze dell’omicidio di Maddy con Leland troviamo il signor Palmer dolente, che invoca il nome della figlia, mentre nelle sequenze con Bob vediamo il demone baciare voluttuosamente il volto della vittima. Bob riesce quindi a prendere il sopravvento anche sull’ultima briciola di coscienza rimasta a Leland e, nei panni dello zio di Maddy, scaraventa questa contro un quadro appeso alla parete, raffigurante un cervo355, spaccandole la testa. Maddy muore, così come era morto il suo doppio, Laura. La ripetizione del trauma è evidente, poiché Leland/Bob uccide una vittima identica alla figlia e attua anche con lei lo stesso rituale post mortem: le infila una piccola lettera sotto l’unghia dell’indice e la avvolge in un telo di plastica, gettandola il giorno seguente nella cascata di Twin Peaks.

354

«The lack of self-awareness in victims of chronic childhood trauma is sometimes so profound that they cannot recognize themselves in a mirror». Cfr. B.van der Kolk, The Body Keeps the Score, p.84. 355 Anche il cervo rappresenta un simbolo di morte, come il cavallo, cfr. A. Parlangeli, Da Twin Peaks a Twin Peaks, p. 38-39.

226

Figura 7.6 Lonely Souls (David Lynch, Twin Peaks, 1990)

In questa scena, dunque, viene rappresentato Leland posseduto per la prima volta esplicitamente da Bob. Il demone, però, è apparso già diverse volte, in precedenza, nel corso della serie: compare, di sfuggita, già al termine della puntata pilota, quando Sarah ha la visione di una mano nel bosco che raccoglie il ciondolo della figlia. Nello specchio posto alle spalle di Sarah, sopra il divano su cui questa è seduta, vediamo per la prima volta il riflesso di Bob: la puntata termina col grido di terrore della donna, provocato probabilmente sia dalla visione del ciondolo, sia dall’apparizione del demone.

227

Figura 7.7 Northwest Passage (David Lynch, Twin Peaks, 1990)

La seconda, inquietante apparizione di Bob avviene nella puntata successiva356, a vederlo è nuovamente Sarah: Donna è in casa Palmer, per far visita ai genitori dell’amica e consolarli per la perdita. La ragazza si sofferma a parlare con Sarah, la quale, disperata, afferma che la figlia le manca da morire. La disperazione è tale che fa vedere alla madre addolorata il volto di Laura in quello di Donna (questa visione viene rappresentata attraverso una sovrapposizione di immagini un po’ grezza). La madre abbraccia Donna, pensando di riabbracciare l’amata figlia, ma un’altra visione sconvolge la sua mente: è Bob, nascosto ai piedi del letto di Laura. Sarah grida, terrorizzata: l’immagine, però, probabilmente, è solamente mentale, un flashback. Siamo infatti nel salotto e, nonostante la donna pare guardare in direzione di Bob, il demone viene visto nella stanza di Laura.

356

Cfr. Traces to Nowhere, D. Dunham, s. I, ep. 2, prima tv USA 12 aprile 1990, in Twin Peaks.

228

Figura 7.8 Traces to Nowhere (D. Dunham, Twin Peaks, 1990)

Non vediamo Bob solo attraverso gli occhi di Sarah, ma anche nei sogni del detective Cooper: nella terza puntata della serie, in chiusura, Cooper si addormenta nella sua stanza al Green Northern Hotel, avviando una sequenza onirica: Cooper, invecchiato di una ventina d’anni, si trova seduto su una poltrona, in una stanza circondata da tende rosse, in compagnia di un nano, che gli dà le spalle e urla il nome di Laura. Lo schermo diventa nero, poi vediamo un susseguirsi di immagini: Sarah che fugge dal piano superiore di casa Palmer, sulle scale, mentre la ventola gira; Bob nascosto ai piedi del letto di Laura; una cassapanca insanguinata; il cadavere di Laura nell’obitorio. In voice over comincia a parlare Mike, il demone che abita nel corpo di Philip Gerard, l’uomo con un braccio solo, che appare quindi nel sogno di Cooper:

Nell’oscurità di un futuro passato il mago desidera vedere. Non esiste che un’opportunità, tra questo mondo e l’altro. Fuoco, cammina con me. Noi viviamo tra la gente. Tu lo chiameresti un negozio conveniente. Noi ci viviamo sopra, proprio così com’è, come lo vedi tu. Anch'io sono stato toccato dall'essere infernale. Un tatuaggio sulla spalla sinistra. Ah,

229

ma il giorno che vidi il volto di Dio, divenni un altro, e mi staccai da solo il braccio intero. Il mio nome è Mike e il suo è Bob.357

Mike rivela qui cripticamente il suo legame con Bob. Tutti e due sono demoni che abitano a Twin Peaks, prima erano compagni di malefatte, ma dopo l’epifania divina, Mike ha deciso di combattere lo spirito maligno Bob. Quest’ultimo appare subito dopo Mike nel sogno di Cooper, minacciando l’ex socio: «Mike! Puoi sentirmi? Ti catturerò con il mio sacco mortale. Tu penserai che io sia impazzito, ma ti faccio una promessa... tornerò ad uccidere, ancora!»358. E così avverrà: infatti il demone ammazzerà il criminale Jacques Renault e Maddy Ferguson, la nipote di Leland, come abbiamo visto in precedenza. Bob appare anche nelle visioni di Ronette Pulaski, la ragazza che si prostituiva con Laura e che ha accompagnato la figlia di Leland nelle sue ultime ore di vita, assistendo all’omicidio e venendo violentata essa stessa da Bob. Proprio attraverso la memoria traumatizzata di Ronette, in coma in ospedale, vediamo le immagini disturbanti dell’omicidio di Laura.359 La compagna di Laura, nonostante riposi in stato comatoso, pare avvertire la presenza del demone, che si aggira per i corridoi dell’ospedale. L’inquietante venuta del demone ci viene rappresentata inizialmente con una carrellata in stile Shining dei corridoi dell’ospedale, nei quali vediamo correre Bob. Ronette si agita nel letto, dalla sua memoria provengono brevi flash che inquadrano il vagone del treno dove è avvenuto il delitto, con Bob che colpisce ripetutamente il corpo di Laura, la quale grida, fino ad esalare l’ultimo respiro. 357 Cfr. Zen, or the Skill to Catch a Killer, D. Lynch, s. I, ep. 3, prima tv USA 19 aprile 1990, in Twin Peaks. 358 Il sogno di Cooper continuerà nella sala rossa, con l’anziano agente che incontra il doppelgänger onirico di Laura, la quale pare sussurrargli nell’orecchio il nome del proprio assassino, mentre il nano prosegue la sua folle danza. 359 Cfr. May the Giant Be With You, D. Lynch, s. II, ep. 1, prima tv USA 30 settembre 1990, in Twin Peaks.

230

Figura 7.9 May the Giant Be With You (David Lynch, Twin Peaks, 1990)

Abbiamo così notato che Bob viene visto da diverse persone, dunque non può essere frutto solamente dell’immaginazione della famiglia Palmer ma, come abbiamo detto in precedenza, nell’economia del racconto è raffigurato come un personaggio reale, una presenza demoniaca effettiva, che noi possiamo interpretare come il lato oscuro dell’uomo, il simbolo del male, e anche come la coscienza dissociata di Leland. Una descrizione del demone ci viene fornita da Philip Gerard/Mike che, al commissariato, descrive in questo modo Bob:

Mike: «Lui era uno spirito simile. [...] Lui è Bob, gli piace divertirsi, ed ha un sorriso tale al quale nessuno può resistere. Sapete che cos’è un parassita? È un essere che sfrutta un’altra forma di vita e se ne nutre. Bob ha bisogno di un ospite umano. Lui si ciba di paure, e a volte di

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piaceri. Questi sono i suoi figli. Io sono simile a Bob, una volta eravamo soci. [...] Ma poi io ho visto il volto di Dio, e da allora divenni puro, e mi tolsi il braccio, però restai vicino a questo vascello, e lo abitai di tanto in tanto perché avevo una missione da compiere». Cooper: «Trovare Bob?» Mike: «Per fermarlo! Il suo vero volto è questo [indica l’identikit di Bob] ma pochi riescono a vederlo: gli eletti e i condannati». Cooper: «È vicino a noi, adesso?» Mike: «Da quasi quarant’anni!»360

Da questa descrizione traspare l’essenza demoniaca di Bob, ma il riferimento ai quarant’anni situa nel passato l’arrivo del demone a Twin Peaks. A parlarcene è inconsapevolmente il suo stesso ospite, Leland. Nell’ufficio di Ben Horne, infatti, l’avvocato riconosce l’identikit segnaletico di Bob appoggiato sopra un tavolino. Guarda il volto nell’immagine, scioccato, e afferma: «io lo conosco quest’uomo, la residenza estiva dei miei nonni, a Pearl Lakes, lui abitava proprio vicino a noi. Ero un bambino allora, ma l’ho riconosciuto! Devo andare subito a dirlo allo sceriffo!»361. Nella puntata seguente Leland incontra il detective Cooper, lo sceriffo Truman e l’agente Hawk in commissariato. L’avvocato racconta loro di conoscere l’uomo misterioso dell’identikit:

Leland: «Quando ero bambino, mio nonno aveva una residenza estiva a Pearl Lakes. Noi ci andavamo tutti gli anni». Cooper: «Ed è lì che l’ha visto?»

360

Cfr. Demons, L.L. Glatter, s. II, ep. 6, prima tv USA 3 novembre 1990, in Twin Peaks. Cfr. Coma, D. Lynch, s. II, ep. 2, prima tv USA 6 ottobre 1990, in Twin Peaks.

361

232

Leland: «Sì, sì. Quello che so è che non si chiamava Shalbert. Loro stavano in una casa vicino alla nostra, nell’altro lato, un piccolo terreno, e accanto, una casa bianca: è lì che abitava». Cooper: «E ricorda il suo nome?» Leland: «No, ehm… io credo, credo… credo che fosse Robertson, sì, Robertson». Cooper: «Robertson? Robert… R B T, ecco il significato di quelle lettere!» [...] Leland: «Ah, un’altra cosa! Ricordo che mi tirava addosso i fiammiferi. E diceva: “ti piacerebbe giocare col fuoco, ragazzino?»362

Leland, dunque, ha conosciuto il demone in tenera età, ed in quel tempo è stato a sua volta una vittima di Bob. È proprio il demone a rivelare allo spettatore i dettagli del primo incontro con Leland, e di come sia riuscito a impossessarsi del suo corpo, da bambino: siamo alla nona puntata della seconda stagione363, l’ultima in cui appare il signor Palmer. Leland, con la scusa di accompagnare il suo assistito, Ben Horne, viene portato in commissariato da Cooper, lo sceriffo Truman e l’agente Hawk: questi gettano l’avvocato nella stanza degli interrogatori, al posto del signor Horne, e lì lo rinchiudono: Leland/Bob, in trappola, comincia ad impazzire, a sbraitare e a schiantarsi contro le mura che lo serrano. Il detective Cooper aveva infatti precedentemente scoperto, grazie all’aiuto di una visione del gigante e del ricordo di quanto detto a lui da Laura, in sogno, che il vero assassino era proprio il padre della ragazza. Legato ad una sedia, al cospetto del detective Cooper, degli agenti Rosenfield ed Hawk, e dello sceriffo Truman, Bob, nelle sembianze di

362

Cfr. The Man Behind the Glass, L.L. Glatter, s. II, ep. 3, prima tv USA 13 ottobre 1990, in Twin Peaks. 363 Cfr. Arbitrary Law, T. Hunter, s. II, ep. 9, prima tv USA 1 dicembre 1990, in Twin Peaks.

233

Leland, risponde alle domande dell’interrogatorio, confessando, con folli ululati, di aver ucciso Laura e Maddy.

Bob/Leland: «Oh Leland, Leland, sei stato un buon veicolo, e il viaggiare era divertente, ma adesso sei vecchio, pieno di malanni, ormai è arrivato il momento di volarsene a Buffalo!» Cooper: «Leland lo sa che cosa hai fatto? Bob/Leland: «Leland è un albero nel bosco, con un grande foro, dove si rifugia la sua coscienza. E quando era solo un ragazzino mi divertivo a tirarla fuori di lì e gli dicevo: attento, Leland! Non fidarti mai, non fidarti mai! Ma tu non mi ascoltavi».364

A parlare, in questo momento, è chiaramente il demone, o la coscienza sporca di Leland, a seconda dell’interpretazione che si vuole attribuire alla figura di Bob. Leland cade in uno stato di catalessi, finisce così l’interrogatorio e la confessione dell’assassino. Cooper e gli altri agenti abbandonano la stanza, lasciando da solo il signor Palmer, in balìa di se stesso e del suo demone interiore. Cooper, nel frattempo, ricostruisce con i colleghi quanto avvenuto negli ultimi giorni a Twin Peaks, alla luce della scioccante confessione. Cooper sostiene che la risposta fosse sempre stata davanti ai suoi occhi: il nano, nel sogno, ballava, così come Leland, che danzava continuamente dopo la morte della figlia; Sarah aveva detto loro che Bob aveva i capelli grigi, come grigi sono diventati i capelli di Leland dopo aver ucciso Jacques Renault; Leland affermava di aver conosciuto da piccolo un uomo dai capelli grigi, di nome Robertson e, secondo il demone Mike, i posseduti erano figli di Robert, “Robert” “son”; le lettere trovate sotto le unghie

364

Cfr. ibidem.

234

delle vittime, R O B T, facevano parte del nome del demone, «la firma sotto l’autoritratto del demonio». Cooper sostiene che Leland abbia ucciso la figlia perché Laura stava raccontando di Bob nel proprio diario, e il padre ne era venuto a conoscenza. Lo sceriffo Truman ha comunque ancora dei dubbi, che non riesce a sciogliere:

Truman: «Ma perché ha ucciso Maddy?» Cooper: «Forse perché gli ricordava Laura. Maddy stava tornando dai suoi, può darsi che lui non volesse. Magari voleva rivivere l’esperienza, o forse lei aveva scoperto la verità su Bob e lui l’ha capito». Truman: «Sì, ma questo Bob… non può esistere nella realtà. Insomma, Leland è soltanto un pazzo, giusto?»365

Lo sceriffo Truman, così come l’agente Rosenfield, rappresenta in questo caso la parte razionale, quella che non riesce a concepire non solo il delitto di Leland, l’incesto e l’omicidio della figlia e della nipote, ma non riesce neppure a credere che un demone si sia potuto impossessare del corpo del signor Palmer, e attribuisce le cause dei crimini alla follia dell’avvocato. Nel frattempo, nella stanza dell’interrogatorio, Bob ha ripreso il controllo di Leland e urla per un’ultima volta le proprie minacce, poi il signor Palmer, approfittando della confusione dovuta all’accidentale attivazione del sistema antincendio, prende più volte a testate la porta, chiusa a chiave, fracassandosi la fronte. Cooper e i suoi colleghi intervengono troppo tardi, per Leland c’è solo il tempo del riconoscimento delle colpe e del finale pentimento:

365

Cfr. ibidem.

235

Oddio, Laura! L’ho uccisa io! Ho ucciso mia figlia! Sono stato io! Perdonami, perdonami! Ero soltanto un bambino, lui veniva a trovarmi nei sogni, diceva di voler giocare con me. Alla fine mi convinse e lo invitai a giocare, e lui entrò dentro di me! Io non lo sapevo, quando era dentro di me, e quando se ne andava, non ricordavo più niente. Mi faceva fare delle cose, delle cose terribili! Diceva di volere delle anime, loro volevano altra gente, altra gente da poter usare così come hanno usato me!366

Figura 7.10 Arbitrary Law (Tim Hunter, Twin Peaks, 1990)

Nelle ultime parole di Leland, dunque, non troviamo solo il forte senso di colpa per l’omicidio della figlia, ma vediamo anche che all’origine del suo comportamento esiste un ulteriore trauma relativo alla violenza sui minori: la possessione in età infantile di Leland da parte di Bob può essere infatti interpretata ambiguamente sia come un vero e proprio episodio di incarnazione demoniaca, sia come un caso di abuso sessuale ai danni di un bambino. Le parole di Leland, infatti, quando dice «lui veniva a trovarmi nei sogni, diceva di voler giocare con me» e «lui entrò dentro di me» lasciano intuire una violenza sessuale subita dal piccolo Leland. Il demone

366

Cfr. ibidem.

236

Bob assumerebbe, secondo questa interpretazione, un ulteriore significato: il male subito viene covato nella coscienza e dà vita a una nuova forma di violenza. Leland, piccola vittima innocente dei giochi di Bob, diviene da adulto un crudele violentatore. Il trauma infantile, dislocato nella figura demoniaca di Bob, torna a tormentare il signor Palmer, che mette nuovamente in atto le violenze subite perseguitando l’innocente figlia. Viene in questo modo azionata una catena delittuosa potenzialmente senza fine, che però è subito troncata dal consapevole sacrificio di Laura: «volevano mia figlia, ma lei era molto forte, lei si rifiutava dice Leland - lei riusciva a resistere [...] si sarebbe fatta ammazzare, piuttosto che cedere. E allora me l’hanno fatta uccidere».367

1.3 Una narrazione surreale del trauma infantile In questa nostra analisi della serie televisiva Twin Peaks abbiamo voluto porre l’attenzione su due dei protagonisti, Leland e Laura Palmer, e sul raccapricciante rapporto incestuoso fra padre e figlia, per sottolineare come è stata narrata la violenza sui minori in uno dei primissimi esempi seriali di complex television. La serie di David Lynch e Mark Frost potrebbe essere analizzata ulteriormente e rivelare molti altri dettagli interessanti, che probabilmente potremmo trovare anche nella prossima stagione di Twin Peaks: nel 2017, infatti, è previsto l’arrivo, sul network televisivo Showtime, di nuove attesissime puntate. La serie tornerà così dopo poco più di venticinque anni, come aveva annunciato Laura Palmer nella Loggia Nera al detective Cooper, nell’ultima puntata della seconda stagione, andata in onda nel 1991.368

367

Cfr. ibidem. Cfr. Beyond Life and Death, D. Lynch, s. II, ep. 22, prima tv USA 10 giugno 1991, in Twin Peaks.

368

237

La nostra analisi si è rivolta solamente ai primi diciassette episodi di Twin Peaks perché, oltre ad essere stilisticamente più validi di quelli presenti nella seconda parte della serie, è nelle vicende che si concludono con la morte di Leland che troviamo il nucleo di maggiore interesse per il nostro focus sul trauma infantile. Qui infatti abbiamo potuto notare la presenza di due diversi personaggi traumatici, caratterizzati dalla stessa personalità scissa, Leland Palmer, stimato avvocato di Twin Peaks e amorevole padre di famiglia, ma contemporaneamente violentatore ed assassino demoniaco, e Laura Palmer, dolce e angelica reginetta della scuola ma al contempo ragazza dissoluta e viziosa. Tutti e due nascondono un segreto, le violenze subite e l’incesto, chi nel proprio diario personale, come Laura, chi, come Leland, dislocando la propria cattiva coscienza nel demone Bob. La rappresentazione del trauma assume in questa serie televisiva un tono surreale e soprannaturale, raffigurando ambiguamente il Male assoluto in sembianze demoniache. La soluzione del delitto non può dunque avvenire in altro modo che non sia quello che coinvolga, più del raziocinio e dell’intelletto, l’intuizione e il presentimento, con sogni rivelatori di giganti e nani, demoni e doppelgänger. La rappresentazione del trauma fa affiorare un piano narrativo ambiguo, in bilico fra il realismo e il surrealismo. Lo stesso stile rappresentativo si adatta bene all’ambiguità della narrazione, muovendosi fra diversi generi, dal melodramma all’horror, dalla soap opera alla crime story, con un utilizzo di sperimentali tecniche cinematografiche, inusuali, negli anni Novanta, per il piccolo schermo. Twin Peaks ha così compiuto una rivoluzione televisiva, e l’ha fatto portando al centro della narrazione un tema scottante come quello dell’incesto e delle violenze sui minori, rappresentando un punto di riferimento per tutta la successiva produzione seriale.

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Vediamo ora come un’altra serie televisiva, a distanza di vent’anni da Twin Peaks, abbia ripreso le fila del discorso sulla violenza ai minori, attualizzandolo e proponendolo in una veste britannica, ma rifacendosi comunque esplicitamente all’ingombrante precursore lynchiano.

2. Broadchurch Broadchurch è un serial inglese, trasmesso per la prima volta dall’emittente televisiva britannica Independent Television (ITV) il 4 marzo del 2013, in Italia sul canale tematico Giallo del digitale terrestre dal 28 aprile del 2014. La prima stagione, la sola di cui ci occuperemo in questa sede, ha riscosso un ragguardevole successo non solo in patria, ma anche fuori dai confini britannici: in Italia Aldo Grasso ne ha parlato entusiasticamente, affermando che «insieme ad altri esempi recenti (come Sherlock369 e Downton Abbey370), la serie dimostra che anche fuori dagli Stati Uniti si possono realizzare fiction di alta qualità»371. La narrazione è ambientata in una piccola cittadina inventata, Broadchurch appunto, sulla costa giurassica inglese, nel sud del paese, affacciata sul canale della Manica: «poche anime, una vita che si anima d’estate con l’arrivo dei turisti attratti dalle scogliere e dall’incantevole spiaggia»372. Broadchurch è una piccola cittadina, tutti gli abitanti si conoscono e vivono tranquillamente in apparente armonia: in uno dei primissimi frame dell’Episodio 1373 vediamo, non a caso, un primo piano di un cartello sul quale un manifesto pubblicitario recita: love thy neighbor as thyself. Il manifesto è però un po’ sgualcito, strappato: l’analogia pare immediata, la

369

Sherlock, S. Moffatt - M. Gatiss, UK, BBC One, 2010 - in produzione. Downton Abbey, J. Fellowes, UK - USA, ITV, 2010 - 2015. 371 A. Grasso, «Broadchurch»: non solo giallo, «Corriere della Sera», 29 aprile 2014. 372 Ibidem. 373 Cfr. Episode 1, J. Strong, s. I, ep. 1, prima tv UK 4 marzo 2013, in Broadchurch, C. Chibnall, UK, ITV, 2013 - in produzione. 370

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tranquillità della città è solo apparente. Già qui ci troviamo subito ad avere a che fare con una forte similitudine fra la serie e Twin Peaks: la cittadina piccola e apparentemente tranquilla è il set perfetto per inscenare oscuri misteri e turpi delitti. Come nel serial di Lynch e Frost, infatti, l’apparente quiete ed armonia cittadina è turbata da un brutale omicidio: il cadavere di un ragazzino, Danny Latimer, viene ritrovato sulla spiaggia principale della città. Anche questo particolare non può che ricordarci l’illustre precedente: «The mysterious murder of a young resident of a close-knit town. If that sounds like the beginning of the premise of Twin Peaks, it certainly is, but it also applies to the hit British show Broadchurch»374. Le premesse e anche alcune soluzioni narrative di Broadchurch rivelano un profondo debito dell’autore, Chris Chibnall, nei confronti di Twin Peaks. Chibnall ha dichiarato esplicitamente l’influenza che ha avuto sul proprio lavoro il serial di Lynch e Frost, unitamente ad un’altra serie americana di quegli anni, Murder One375:

Chibnall himself says his influence is in fact Murder One, Steven Bochco's 1996 US TV drama serial in which one criminal trial is followed over 23 episodes. "Around the same time there was Twin Peaks as well," says Chibnall. "Those shows have stuck around in my DNA as I've become a writer."376

È importante sottolineare le congruenze fra Broadchurch e Twin Peaks, e lo faremo spesso nel corso della nostra analisi, ma la serie britannica si pone comunque in

374

N. Tylwalk, Broadchurch Writer Names Twin Peaks As An Influence, «Twin Peaks Fans», www.twinpeaksfans.com 375 Murder One, S. Bochco, USA, ABC, 1995 - 1997. 376 G. Gilbert, David Tennant: From time traveller to crime unraveller, «The Independent», 20 febbraio 2013.

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rapporto con il precedente lynchiano in modo originale, traendone spunto ma muovendosi oltre, verso nuovi orizzonti tematici. Broadchurch, infatti, che raccoglie la struttura di genere del thriller e della detective story da Twin Peaks, grazie all’espediente tipico del whodunit attiva un discorso interessante sull'impatto del trauma della perdita non solo per la famiglia di Danny Latimer ma per tutta la città di Broadchurch, sconvolta nelle sue tranquille certezze e coinvolta in un paranoico clima di sospetto reciproco fra vicini, potenziato dall'invandente attenzione dello sciacallaggio mediatico nei confronti del dolore e dei misteri che ruotano attorno al delitto di Danny. La prima stagione della serie (che comprende una seconda stagione datata 2015 ed una terza ancora in fase di produzione) è l’unica su cui si sofferma la nostra analisi poiché qui troviamo gli spunti più interessanti per il nostro focus sulla rappresentazione della violenza sui minori nella serialità televisiva: non solo abbiamo l’omicidio di un undicenne, Danny Latimer, ma la descrizione del rapporto anomalo fra questo ragazzino e il padre di un suo amico, Joe Miller, e numerosi altri dettagli riguardanti la vita apparentemente tranquilla di una normale famiglia inglese.

2.1 Il cadavere sulla spiaggia La serie si apre con un’inquadratura delle onde del mare inglese, mosso, nella notte: la regia si sposta sulla strada principale della città, deserta, per poi inquadrare la sede del commissariato di polizia e infine l’esterno di casa Latimer. Entriamo nella casa di una delle famiglie protagoniste della serie: il padre e la madre stanno dormendo, nel letto matrimoniale, i corpi rivolti in direzioni opposte. La sveglia sul comodino indica, ticchettando, le tre e venti di notte, accanto ad essa troviamo la

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foto di un bambino, è Danny: nella sua camera, però non c’è nessuno. Il ragazzino appare infatti, nella sequenza successiva, sul bordo della ripida scogliera che si affaccia sulla spiaggia: Danny perde sangue, ansima e chiude gli occhi. La madre Beth si desta di soprassalto, come se avesse avuto un incubo: la sveglia si è bloccata alle tre e venti di notte, ma in realtà è ormai mattina. In cucina stanno già facendo colazione il marito Mark, la figlia Chloe e la madre di Beth, nonna Liz. Beth nota che tutti gli orologi di casa si sono fermati: questo è un chiaro segnale narrativo, il presagio del trauma, che ferma simbolicamente la dimensione temporale. Il discorso sulla temporalità del trauma, nella serie, verrà spesso affrontato anche grazie all’espediente rappresentativo del ralenti, una delle cifre stilistiche di Broadchurch: troviamo infatti un uso drammatico quasi eccessivo, nel corso di ogni puntata, di questa tecnica di rallentamento dell’immagine, che però non è rivolta soltanto a suscitare un sentimentalismo fine a se stesso, ma riesce a veicolare perfettamente la sospensione temporale causata dall’esperienza traumatica. Beth si accorge dunque non solo che gli orologi di casa sono fuori uso, ma anche che il figlio Danny, il quale si sveglia solitamente presto per consegnare i giornali, si è dimenticato di prendere la merenda. Le prime scene della puntata introducono subito non soltanto i personaggi principali del dramma, la famiglia Latimer, ma anche due temi importanti per il proseguimento della narrazione, ovvero l’assenza e la sospensione temporale dettata dall’esperienza traumatica. Nella scena successiva, attraverso un piano sequenza nella strada principale della città, vediamo Mark salutare i compaesani, nonché protagonisti della serie: per primo incontra l’amico Joe col figlio Tom e la moglie, l’agente di polizia Ellie Miller, che conduce il passeggino del loro neonato. Scopriremo solamente nell’ultima puntata della stagione che è proprio Joe l’assassino del piccolo Danny:

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l’uomo, ex paramedico e casalingo disperato, che ha intessuto una morbosa relazione col piccolo di casa Latimer, nella sua prima apparizione sta stringendo in modo apparentemente affettuoso per il collo il figlio Tom, che tossisce. Sicuramente è un particolare voluto e rivelatore, infatti scopriremo che Joe ha ammazzato il piccolo Danny, compagno di scuola di Tom, proprio soffocandolo.

Figura 7.11 Episodio 1 (James Strong, Broadchurch, 2013)

Mark incontra per strada anche altri protagonisti della serie: Susan Wright, una misteriosa signora che abita in una roulotte sulla spiaggia; il giovane reverendo Paul Coates; il reporter in erba Oliver Stevens, detto Olly, nipote della detective Miller; l’editrice del giornale locale, Maggie Radcliffe; Becca Fisher, proprietaria dell’unico hotel di Broadchurch, nonché amante di Mark Latimer; infine l’idraulico Nigel Carter, detto Nige, il migliore amico di Mark nonché suo collega. Ellie intanto torna in commissariato, dopo il periodo di maternità, e scopre che il posto di ispettore che le spettava è stato assegnato al detective Alec Hardy. Costui si trova sulla scogliera, a colloquio con degli agricoltori che hanno subito un furto di carburante: c’è un caso più importante, però, ad attenderlo, infatti la guardia costiera ha notato qualcosa sulla spiaggia ed ha dunque avvisato la polizia. Nel frattempo Beth è, con la figlia Chloe, alla gara campestre della scuola: qui però, insospettabilmente, non vi è traccia del figlio Danny. Beth comincia a preoccuparsi, chiama Jack Marshall, l’anziano giornalaio per cui Danny consegna i quotidiani, 243

ma costui dice a Beth di non aver visto il figlio. Beth si mette dunque alla guida, con un oscuro presentimento che si realizzerà poco dopo: imbottigliata nel traffico sulla strada che conduce alla spiaggia, Beth scopre che la causa della coda è determinata dall’intervento della polizia a seguito del rinvenimento di un cadavere in riva al mare. Beth, nel panico, esce dalla macchina e corre verso la spiaggia: il pathos della scena viene sottolineato dalle riprese in ralenti. Sulla spiaggia, intanto, il neo ispettore Alec Hardy ha individuato il cadavere della giovane vittima: la soggettiva sul detective ci segnala tutta la sua preoccupazione, sottolineata dalle parole stesse di Alec: «oh mio Dio, non farmi questo». Il detective Hardy, infatti, è stato assegnato all’apparentemente tranquilla cittadina di Broadchurch dopo essere stato coinvolto nel recente fallimento del caso Sandbrook, in cui l’ispettore non è riuscito a incastrare l’assassino di due giovani cugine, poiché la prova madre del crimine è stata rubata dall’automobile di Hardy. Il detective si ritrova dunque di fronte ad un nuovo, inatteso caso di omicidio di minore, un caso analogo a quello di Sandbrook, che stavolta non può permettersi di fallire. Anche il personaggio di Alec Hardy ci ricorda dunque Twin Peaks: nonostante Hardy abbia un carattere per certi versi opposto a quello del detective Cooper, scontroso ed ombroso l’ispettore inglese, solare e positivo quello americano; inoltre Cooper si affida ciecamente al suo istinto, ai suoi sogni e all’aiuto di elementi e di figure paranormali, mentre Alec Hardy rifiuta (inizialmente) di ascoltare un elettricista, che sostiene di parlare con i morti, e che ha avuto notizie dallo stesso defunto, Danny Latimer, sul delitto. Sia Cooper che Hardy, però, possiedono un retroscena traumatico, un caso irrisolto che, col suo ritorno fantasmatico, tormenta le loro indagini: per Hardy è rappresentato dal caso Sandbrook, il cui ricordo gli toglie ancora il sonno, gli procura crisi di panico e ha

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originato i suoi problemi di aritmia cardiaca; per Cooper, invece, le inquietudini derivano dalla figura dell’ex collega Windom Earle, il quale, impazzito, ha assassinato a Pittsburgh la moglie Coraline, della quale si era innamorato Dale e che era sotto la sua custodia. Ma torniamo al ritrovamento del cadavere di Danny: sulla spiaggia sopraggiunge anche la detective Miller che, sconvolta, dice di conoscere il bambino: è il migliore amico di suo figlio. La prima ipotesi formulata da Hardy è il suicidio, ma questa viene subito esclusa da Miller. L’opinione della detective verrà confermata poco dopo dalla scientifica: la scena del crimine è stata alterata per simulare un incidente, Danny però è chiaramente morto per soffocamento. Intanto sulla spiaggia è arrivata anche Beth: le riprese, oscillando, simulano lo sguardo della madre, in corsa sulla sabbia verso il cadavere del figlio, coperto da un telo che rivela però le scarpe da ginnastica di Danny, riconosciute dalla madre. Beth si dispera, abbiamo nuovamente una scena in ralenti: viene portata via dal luogo del delitto, scortata da tre agenti. Vediamo questa scena dal punto di vista della detective Miller, amica di Beth, che si mette le mani nei capelli, sconvolta, non sa cosa dire né come agire.

Figura 7.12 Episodio 1 (James Strong, Broadchurch, 2013)

La morte di Danny verrà ufficialmente confermata alla famiglia Latimer poco dopo: Ellie Miller e Alec Hardy si recano insieme a casa della vittima. L’ispettore fa sedere la famiglia, riunita, sul divano, e annuncia loro che la polizia ha trovato 245

un cadavere sulla spiaggia e crede sia quello di Danny. Beth chiede conferma a Ellie che, incapace di parlare, con gli occhi lucidi, fa un cenno affermativo con la testa. Mark Latimer prova a calmare le reazioni della moglie e della figlia, che però non riescono a trattenere il dolore. La sequenza, dal forte impatto emotivo, è girata con una camera a mano. Questa scelta stilistica, presente in numerose scene di Broadchurch, viene così giustificata dal regista, James Strong, il quale, insieme al direttore della fotografia, Matt Gray, ha voluto conferire alla serie un taglio innovativo, più documentaristico che televisivo: «a handheld camera allows you to be as physically close as you can be to [the actors] without feeling that you’re interfering with them»377. Successivamente, Mark si recherà all’obitorio per riconoscere il corpo del figlio, accompagnato dalla detective Miller: commosso, il padre si dispera per aver lasciato da solo il figlio, nel momento della morte. Lo vorrebbe toccare, abbracciare per un’ultima volta, ma non può, la scientifica deve ancora fare ulteriori rilevamenti sul cadavere. I medici legali scoprono infatti che l’omicidio, avvenuto per asfissia, è stato eseguito da un uomo: non è però presente alcun segno di violenza sessuale. Scopriremo che Joe, anche se innamorato di Danny, non ha mai abusato sessualmente del ragazzino, lo abbracciava solamente: Danny credeva però che, prima o poi, Joe lo avrebbe comunque violentato. La puntata prosegue con Chloe Latimer, primogenita della famiglia, che porta sulla spiaggia un peluche del fratello, in ricordo di Danny. Il reporter Olly assiste casualmente alla scena. Fino ad allora il riserbo sul delitto e sulla vittima era stato massimo da parte della polizia, e la stampa non ne sapeva ancora nulla, ma Olly telefona alla zia, Ellie Miller, per chiedere se il cadavere ritrovato fosse quello di

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M. Bell, Anatomy of a Hit, «Television», 9 dicembre 2014, p. 21.

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Danny. Ellie non può confermare nulla, ma Olly decide comunque di diramare la notizia della misteriosa morte di Danny Latimer attraverso il proprio profilo twitter: da questo momento, il delitto e il nome della vittima diventano di pubblico dominio, e ciò costringe il commissariato a condurre, la sera, una breve conferenza stampa. Il discorso di Broadchurch sul morboso ruolo dei media e della stampa, locale e nazionale, nella cronaca delle tragedie è uno dei temi portanti della serie, originale rispetto al racconto di Twin Peaks, in cui l’evento tragico è pubblico ma non mediatico, ed è forse anche uno dei maggiori punti di forza di Broadchurch: l’autore, Chibnall, ha voluto sottolineare il ruolo della stampa locale, nella serie, creando un quotidiano fittizio della cittadina, il Broadchurch Echo. Questo è un elemento attivo della storia, condotto da tre personaggi importanti per le vicende, Olly Stevens, Maggie Radcliffe e Karen White, una giornalista del quotidiano nazionale Daily Herald, in realtà, giunta a Broadchurch per fornire maggiore eco alla notizia. Grazie anche alla stampa, dunque, procede l’investigazione sui diversi sospettati, soprattutto, però, attraverso binari ciechi, che comportano irrimediabili conseguenze nella narrazione. L’attenzione mediatica al caso di Danny è il motore dirompente del clima di sospetto che colpisce la cittadina, in una frenetica e spesso sconclusionata caccia all’assassino, il quale può nascondersi dietro al volto di un vicino di casa qualunque. Il trauma dell’omicidio di Danny, dunque, non colpisce solo la famiglia Latimer, ma tutta la comunità, che si trova a dover riflettere su se stessa e a reagire alla morte del piccolo Danny. C’è chi riesce a reagire costruttivamente al trauma, chi invece soccombe sotto i suoi colpi, in una galleria di personaggi rappresentante i diversi modi e motivi della reazione umana al trauma. Su questi ritratti si soffermerà ora la nostra analisi, notando non solo come il trauma condizioni l’operato dei protagonisti, ma anche come questo funzioni da

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stimolo per un approfondimento della psicologia dei personaggi e per svelare i loro misteri, nascosti dietro la tranquilla apparenza del buon vicinato.

2.2 Un delitto che smaschera le apparenze Il primo personaggio a finire sotto la lente della nostra indagine e della polizia è Mark Latimer, il padre del defunto Danny. Infatti non basta il dolore della perdita e la scena straziante all’obitorio per fugare i primissimi sospetti su questo personaggio: Mark è il primo nome sulla lista degli inquirenti, soprattutto dopo le evasive risposte offerte all’ispettore Hardy sulla notte dell’omicidio del figlio. Mark infatti, nel finale della seconda puntata378, mente, dicendo al detective di trovarsi, tre giorni prima, a lavoro, ma viene subito smascherato: le telecamere l’hanno ripreso nel parcheggio della scogliera, alle sette e trenta di sera. Mark prova dunque goffamente a inventarsi un alibi, dicendo che era con un amico, di cui però non si ricorda il nome! Giustifica questa dimenticanza affermando di essere stanco, non è riuscito a dormire da quando il figlio è morto, ma un alibi così esile non può non destare sospetti sulla figura di Mark: perché nascondere cosa ha fatto la sera dell’omicidio di Danny, finendo così nella lista dei sospettati? La puntata successiva si apre con un sogno dello stesso Mark: è notte, Danny è ancora vivo: nella sua stanza, piange, seduto ai piedi del letto, inzuppato d’acqua da capo a piedi. Mark si siede accanto a lui, lo abbraccia, prima rincuordandolo, poi facendogli sapere, in lacrime, tutto il proprio dispiacere per la sua sorte. Il sogno indica senza dubbio l’affiorante senso di colpa del padre, già emerso nella scena all’obitorio, colpevole di non aver saputo difendere il proprio figlio dal Male che se l’è portato via. La mattina seguente Mark si reca in commissariato, dopo aver concordato tramite sms

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Cfr. Episode 2, J. Strong, s. I, ep. 2, prima tv UK 11 marzo 2013, in Broadchurch.

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con Nigel il proprio falso alibi, che però l’amico non riuscirà a sostenere. Nell’interrogatorio, Mark sostiene l’alibi, inventato il giorno precedente, davanti ad Hardy e alla detective Miller: si giustifica per non aver saputo il nome dell’amico con cui era, dicendo di essere sotto shock, confuso, i giorni dopo la morte del figlio gli sembrano tutti uguali. Anche in questo dialogo possiamo notare la sospensione temporale causata dal trauma, rafforzata anche dal ralenti finale della scena sui volti di Mark, Alec ed Ellie, che in questo caso però segnala anche il clima di sospetto creatosi attorno alla figura di Mark, il quale dice di conoscere il rifugio sulla scogliera - dove è stato ucciso Danny - e di possedere una barca - il cadavere del bambino è stato trasportato a riva proprio grazie ad una piccola imbarcazione. Nel corso della puntata la posizione del padre si fa sempre più oscura e sospetta: Alec ed Ellie trovano una macchia di sangue sulla barca di Mark; Nigel, interrogato da Hardy, non riesce a sostenere l’alibi dell’amico; Tom, figlio di Joe ed Ellie Miller, interrogato dal detective Hardy in compagnia del padre, rivela che Mark ha picchiato un paio di volte il piccolo Danny. Tracce di un rapporto non proprio idilliaco fra padre e figlio emergono anche dall’indagine dei tabulati dei profili social di Danny, nei quali il ragazzino spesso si lamentava delle poche attenzioni paterne. Mark, che continua ostinatamente a sostenere il proprio alibi, viene dunque arrestato dal detective Hardy per intralcio alle indagini. Sarà Becca Fisher, la proprietaria dell’hotel di Broadchurch, a scagionare Mark, rivelando l’intimo segreto che questi voleva nascondere: Becca e il signor Latimer sono amanti, la sera dell’omicidio di Danny si sono incontrati ed hanno avuto un rapporto extraconiugale. Mark viene dunque costretto a confermare quanto detto dall’amante: davanti ad Alec ed Ellie confessa il tradimento. Mark aveva paura dei possibili pettegolezzi, in città, di rovinare la propria vita, quella della moglie Beth

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e della loro stessa figlia: chiede di non svelare a Beth l’adulterio, si vergogna di quanto fatto e si pente amaramente di aver dato per scontata la propria famiglia. Mark viene quindi rilasciato e può finalmente tornare dai familiari, ma a casa lo aspetta il terzo grado della moglie. La sera stessa, a letto, Beth chiede al marito di guardarla e di dirgli se ha ucciso lui loro figlio. Mark, incredulo, deluso e rabbioso abbandona il letto ed esce, nella notte. Si reca quindi da Becca Fisher: i due, nonostante riconoscano l’impossibilità della loro relazione, si baciano appassionatamente. Mark non si è accorto però che Beth l’aveva seguito, osservando da lontano la scena. Il rapporto fra marito e moglie, che già risultava travagliato prima della morte di Danny, sembra qui raggiungere il fondo, con la scoperta del tradimento di Mark. Beth, proprio per il suo ruolo di madre, sembra essere il personaggio che subisce maggiormente la morte del figlio: «mi sento come se fossi lontanissima da me stessa»379 dice nella prima puntata, in un toccante dialogo sulla spiaggia con l’amica detective Ellie, dopo aver ricordato i bei momenti d’infanzia di Danny, trascorsi con la madre sul bagnasciuga, a saltare le onde. Il sentirsi lontano da se stessi è un chiaro sintomo traumatico, indica la depersonalizzazione, l’allontanamento dalla realtà causato dall’impatto del trauma, troppo potente per essere assorbito. Il percorso di elaborazione del lutto di Beth è il più complesso e descritto con maggior dovizia di particolari dalla serie: passa attraverso l’iniziale depersonalizzazione e l’incredulità di fronte alla realtà del trauma, affronta il tradimento del marito, e si confronta inoltre con l’avvento in lei di una nuova vita. Nella seconda puntata, infatti, veniamo a sapere che Beth è incinta. La donna inizialmente vuole tenere nascosto il proprio intimo segreto, ne parla solo col reverendo Coates. Beth è infatti indecisa, non sa se tenere il bambino,

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Cfr. Episode 1, J. Strong, s. I, ep. 1, prima tv UK 4 marzo 2013, in Broadchurch.

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soprattutto in una situazione instabile come quella che sta vivendo, dopo la morte del secondogenito e il tradimento del marito:

io odio che una vita cresca dentro di me quando io non la voglio. Non è giusto, io vorrei poter crescere Danny, è così che dovrebbe essere, voglio lui! Uno dei doveri di una madre è di prepararlo per il mondo, insegnandogli a vivere, cercando di ricavare il meglio, e io ho fallito e l’ho lasciato morire!380

Beth parla così delle proprie sensazioni al reverendo, sul lutto, il senso di colpa e la nuova gravidanza: Beth sente il peso della morte di Danny sulle proprie spalle, crede di non aver fatto abbastanza per proteggere il proprio figlio; sente fortemente la mancanza di Danny, che l’arrivo di un nuovo bambino non potrà mai colmare. Beth desidera solo che il suo amato figlio torni a casa, ma questo non può succedere. La madre cerca ovunque un contatto col figlio defunto: nelle fotografie, nei ricordi felici, nell’abbraccio di Tom, l’amico di Danny che tanto le ricorda suo figlio381. L’occasione di un insperato e paranormale contatto, per Beth, con Danny, avviene grazie alla mediazione di Steve Connelly, un elettricista che in precedenza aveva parlato coi detective Hardy e Miller: le sue teorie sull’omicidio, che egli sostiene provengano dalle stesse parole di Danny, messosi in contatto con lui dopo la morte, non vengono ascoltate, gli agenti lo ritengono un fanatico.382 Steve troverà invece attenzione da parte della disperata Beth: l’elettricista paranormale riesce a convincere la donna delle proprie capacità di medium ultraterreno. Le dice che Danny sta bene, e vuole che la madre non cerchi chi l’ha ucciso, perché ciò la 380

Cfr. Episode 5, E. Lyn, s. I, ep. 5, prima tv UK 1 aprile 2013, in Broadchurch. Cfr. Episode 4, E. Lyn, s. I, ep. 4, prima tv UK 25 marzo 2013, in Broadchurch. 382 Cfr. Episode 2, J. Strong, s. I, ep. 2, prima tv UK 11 marzo 2013, in Broadchurch. 381

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sconvolgerebbe, essendo l’assassino una persona vicina alla famiglia. Le intuizioni di Steve si rivelano esatte, sappiamo infatti che Joe, vicino di casa dei Latimer, è l’autore del delitto. La credibilità dell’elettricista, però, viene discussa dalla polizia, che avvisa Beth del fatto che Steve è in bancarotta ed è stato condannato per furto e associazione a delinquere, e viene dunque accusato di voler approfittare del momento di debolezza di Beth. Egli viene allontanato da casa Latimer383, e invitato caldamente a non intromettersi più nel caso dell’omicidio di Danny: sarà poi Alec, a corto di tempo per risolvere il caso a causa dei propri problemi di salute, a rivolgersi a Steve, alla disperata ricerca di un indizio384. L’elettricista ripeterà ad Alec quanto sostiene di aver sentito da Danny, ovvero che l’assassino è una persona vicina alla famiglia Latimer. Steve si rivela così, nella narrazione di Broadchurch, una figura simile a quella del gigante e del vecchio cameriere di Twin Peaks, un aiutante paranormale che rompe il meccanismo razionale e deduttivo dell’investigazione: un delitto come quello di Danny, d’altronde, esige anche un confronto con una dimensione che non sia soltanto quella della razionalità, ma che si richiami all’inspiegabile, così come risulterà incomprensibile, per Ellie ed Alec, l’innamoramento di Joe per Danny e il relativo omicidio. Beth, delusa da Steve, decide di rivolgersi alla giornalista Karen White: questa aveva seguito da vicino il caso Sandbrook, e Beth le chiede dunque di metterla in contatto con una delle madri delle vittime, per capire come poter superare il dolore della perdita.385 Nella sesta puntata, dunque, Beth incontra Cate, la quale la avverte dell’incapacità del detective Hardy. Le due donne si confrontano sul lutto, sul trauma e la perdita, Beth riesce a trovare finalmente una persona che riesca a comprendere il proprio dolore:

383

Cfr. Episode 4, E. Lyn, s. I, ep. 4, prima tv UK 25 marzo 2013, in Broadchurch. Cfr. Episode 7, J. Strong, s. I, ep. 7, prima tv UK 15 aprile 2013, in Broadchurch. 385 Cfr. Episode 6, J. Strong, s. I, ep. 6, prima tv UK 8 aprile 2013, in Broadchurch. 384

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pensavo al dolore come un qualcosa interna a te, che combatti e poi sparisce… invece è una cosa esterna, è un’ombra, non puoi scappare, devi abituarti a conviverci, devi solo imparare ad accettare che ci sia. Io mi ci sono quasi affezionata.386

Così dice Cate a Beth: il trauma viene descritto come un accadimento esterno, una visione freudiana387, questa, che vede l’evento traumatico come un fattore esterno che torna continuamente a perseguitare la vittima, per cui bisogna abituarsi, secondo la donna, a conviverci, rassegnandosi all’impossibilità di superare positivamente la situazione traumatica. Cate illustra a Beth come ha reagito al trauma della perdita della figlia: la donna dice di aver divorziato, cosa che capita a molte coppie con un figlio assassinato; ha perso il lavoro, ma non le importava, perché il peggio, per lei, era già successo con la morte della figlia; Cate infine dice di passare le proprie giornate dormendo, bevendo per non ricordare la figlia, e guardando la televisione. L’omicidio della figlia ha segnato la fine della stessa vita della madre. Ma il personaggio di Beth, al contrario di Cate, nonostante la comprensione reciproca esistente fra le due donne, sceglie una via diversa di reazione al lutto: nonostante il dolore e lo sconforto, non si lascia piegare passivamente dal lutto, e nel corso della serie si riavvicina al marito, difende il proprio matrimonio, prima minacciando l’amante del marito, Becca, poi accettando di rivolgersi al reverendo, con Mark, per sedute di consulenza matrimoniale. Nonostante gli alti e i bassi, il rapporto fra marito e moglie riesce a riequilibrarsi e a consolidarsi contro ogni aspettativa, nel cordoglio per la morte del figlio e

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Cfr. ibidem. Cfr. capitolo I, sottocapitolo 3.

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nell’attesa di un nuovo dono di vita, il bambino che Beth deciderà infine di tenere e portare nel proprio grembo. Quello della famiglia Latimer, e soprattutto del personaggio di Beth, è un esemplare modello di working through388: per quanto il trauma subìto sia stato sconvolgente e non possa essere superato, esso viene comunque elaborato e la famiglia riesce a reagire positivamente, ad andare avanti, a rimanere unita. Il finale di stagione, in questo senso, è significativo perché conciliante: dopo la confessione di Joe Miller, finalmente il funerale di Danny può essere celebrato; al rito funebre segue una fiaccolata della popolazione lungo le strade di Broadchurch, in memoria del bambino. Nell’ultima sequenza, la famiglia riunita si abbraccia, accanto al fuoco del ricordo di Danny, sostenuta da tutta la comunità di Broadchurch. La stessa comunità, trovato dunque finalmente il colpevole, il capro espiatorio, ritorna a stringersi compatta e ad unirsi.

Figura 7.13 Episodio 8 (James Strong, Broadchurch, 2013)

Precedentemente, però, il clima non era sicuramente idilliaco: il trauma della morte di Danny aveva aperto profonde crepe nella tranquilla vita della cittadina, gettando sinistre ombre su diversi abitanti. Il più colpito da questo clima di sospetto è l’anziano giornalaio Jack Marshall. Le indagini della stampa e della polizia si concentrano su di lui, subito dopo aver depennato il nome di Mark Latimer dalla

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Cfr. capitolo II, sottocapitolo 7.

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lista degli indagati. Nella quarta puntata scopriamo infatti, grazie al lavoro investigativo di Olly, il reporter del Broadchurch Echo, che Jack ha scontato in passato una pena per abusi sessuali su minore. Olly consegna il fascicolo d’inchiesta sul giornalaio ad Hardy, e Jack Marshall viene dunque interrogato dalla polizia: il giornalaio rimane sulla difensiva, restio nel rivelare il proprio passato, afferma comunque che il processo di cui fu vittima fu una farsa, e che era stato condannato ingiustamente. I sospetti sulla figura di Jack, però, vengono alimentati fortemente dalla stampa, sia locale, sia nazionale. Il volto dello scontroso giornalaio pare quello giusto da affidare all’identikit del killer, e i media gettano quindi sempre più sospetti su Jack, che in realtà è innocente, scavando senza pietà nel suo passato. La stampa espone pubblicamente la propria opinione su Marshall, segnalandolo come il maggiore indiziato per il delitto di Danny, dal momento che nel suo passato sarebbe stato condannato per un analogo caso di violenza su minore. La risposta popolare di Broadchurch non si lascia attendere e presto piovono minacce nei confronti del giornalaio, il quale gestisce anche un’associazione giovanile, i Giovani Marinai, frequentata da tutta la gioventù della città. La notizia che uno dei bambini dell’associazione di Jack era stato allontanato perché si rifiutava di abbracciare il giornalaio fa scattare la rivolta popolare: un gruppo di genitori ed abitanti di Broadchurch si reca alla sede dell’associazione, per linciare Jack. Prima che possano attaccare fisicamente l’innocente giornalaio, però, vengono fermati da Mark: il signor Latimer, nonostante nutra qualche dubbio sulla figura di Jack, decide così di difenderlo dal linciaggio. In un colloquio fra i due scopriamo dunque che Jack era stato condannato ad un anno di carcere per aver intessuto, a quarant’anni, una relazione con un’allieva quasi sedicenne del suo corso di musica, che sposò dopo aver scontato la propria pena. I due ora sono divorziati, a seguito

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della morte del loro unico figlio, a soli sei, in un incidente automobilistico provocato dalla madre. Per questo motivo Jack chiede ai ragazzini dei Giovani Marinai di abbracciarlo, perché gli manca suo figlio, gli manca poterlo toccare, abbracciarlo. Le parole del giornalaio commuovono Mark, che sta vivendo la stessa situazione di perdita vissuta da Jack: gli consiglia comunque di allontanarsi dalla città, almeno fino a quando la morsa della stampa non troverà un altro sospettato con cui nutrire il morboso interesse dei propri lettori. Un vigliacco attacco notturno alla proprietà di Jack e l’ennesimo, falso articolo scandalistico sul suo passato gettano però il giornalaio nella disperazione più buia: Jack si suicida buttandosi dalla scogliera. Il mattino seguente il suo corpo senza vita verrà ritrovato sulla stessa spiaggia in cui è stato rinvenuto quello di Danny. Il delitto di Danny viene così utilizzato dalla serie anche come espediente narrativo, per aprire squarci sulle vite e sul passato degli abitanti dell’apparente tranquilla cittadina di Broadchurch. Ci sono almeno altri tre casi interessanti a riguardo, rappresentati dalla serie. Il primo è quello del reverendo Paul Coates: le indagini della polizia andranno a violare anche la sua moralità, rivelando un trascorso traumatico anche nell’insospettabile reverendo, accusato di aver picchiato un ragazzino in passato - un ragazzino due volte più grande di lui, dalla cui aggressione si era in realtà difeso; un passato segnato anche dalla dipendenza da alcol, ormai però superata dal reverendo.389 Interessanti per la nostra analisi sulla violenza sui minori sono anche i casi di Susan Wright, la misteriosa signora della spiaggia, e Nigel Carter, collega di Mark nonché legittimo figlio della signora Wright: i sospetti delle indagini caleranno infatti anche sul loro traumatico passato. Susan, interrogata sulla morte di Danny, rivela di aver visto il suo cadavere, la notte

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Cfr. Episode 6, J. Strong, s. I, ep. 6, prima tv UK 8 aprile 2013, in Broadchurch.

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dell’omicidio, alle 3 o alle 4 del mattino. Non ha voluto chiamare però la polizia, perché non si fida delle forze dell’ordine. Questa forte diffidenza ha radici nel suo passato traumatico, che racconta alla detective Miller. Susan aveva due figlie, ma il marito, a sua insaputa, stuprava la più grande. Una volta che il genitore aveva provato ad abusare anche della figlia più piccola, la maggiore non glielo permise: il padre si scagliò quindi contro la figlia più grande, uccidendola. Scoperto, fu dunque condannato all’ergastolo, che evitò col suicidio, non prima di aver detto agli inquirenti che la moglie era complice del suo delitto; la figlia minore venne affidata ai servizi sociali, e il figlio di cui Susan era in attesa le venne sottratto dopo il parto. Costui era Nigel Carter.390 Susan afferma dunque di aver visto un uomo calvo, la notte dell’omicidio di Danny, lasciare il cadavere sulla spiaggia: dice di aver riconosciuto in lui il figlio. Ma il sospetto su Nigel è in lei alimentato dalla sua passata esperienza traumatica: afferma infatti di temere che il figlio possa aver preso gli stessi geni e la stessa indole malvagia e violenta del padre stupratore. Nigel verrà però scagionato391: a commettere l’omicidio è stato sì un uomo calvo, come il figlio di Susan, ma il suo volto è quello di Joe Miller, l’insospettabile marito della detective Ellie, padre di Tom e vicino di casa dei Latimer. Joe non viene scoperto dalla polizia, ma si rivela lui stesso, azionando il segnale gps del cellulare che usava per contattare privatamente Danny. Alec trova Joe nel capanno in legno del suo giardino: dice al detective che si è stancato di scappare. Qui comincia il flashback che ci mostra l’omicidio di Danny, avvenuto 59 giorni prima della confessione di Joe. Danny e il signor Miller si stanno abbracciando, all’interno del rifugio sulla scogliera. Il piccolo Latimer dice a Joe che è l’ultima volta che si vedranno, prova

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Cfr. Episode 7, J. Strong, s. I, ep. 7, prima tv UK 15 aprile 2013, in Broadchurch. Cfr. Episode 8, J. Strong, s. I, ep. 8, prima tv UK 22 aprile 2013, in Broadchurch.

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a uscire dal rifugio, ma Joe, che sostiene che non fanno nulla di male, lo ferma. Danny allora promette di dire tutto al padre, Mark. Il signor Miller minaccia il ragazzino, dice che non può andare a dire né al padre né a nessun altro cosa fanno nel rifugio, perché la gente non lo capirebbe: Danny rovinerebbe così la sua stessa vita, quella di Joe e delle loro famiglie. Il ragazzino riesce comunque a scappare dal rifugio, inseguito da Joe; raggiunge il precipizio della costa e minaccia di gettarsi. Joe allora si scusa con Danny, e lo invita a tornare nel rifugio. Una volta rientrati, il signor Miller sigilla l’uscita. Ciò suscita i timori del ragazzino, che immagina quali siano i reali desideri di Joe. I due hanno un deciso confronto e Joe, sentitosi attaccato nell’intimità della sua più profonda natura, sbatte Danny contro il muro e lo strangola, in preda ad un accesso d’ira:

Danny: «Io lo so che cosa vuoi da me!» Joe: «Io non voglio proprio niente!» Danny: «Sì invece, ma hai paura di chiederlo!» Joe: «Non devi dire queste cose, Dan». Danny: «Perché non lo fai con Tom, allora?» Joe: «Io non sono quel tipo di uomo! Non ti ho mai toccato, non ho mai toccato Tom e mai lo farò! Hai capito? Non osare dire quelle cose su di me! Io ti ho aiutato, e tu non rovinerai la mia vita!»392

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Cfr. Episode 8, J. Strong, s. I, ep. 8, prima tv UK 22 aprile 2013, in Broadchurch.

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Figura 7.14 Episodio 8 (James Strong, Broadchurch, 2013)

Joe si pente subito amaramente del proprio delitto, e, disperato, prova a nascondere le prove: pulisce il rifugio, depone il corpo di Danny sulla riva, simulando un’accidentale caduta del ragazzino dalla scogliera con lo skateboard. Tornato a casa, in bagno, il luogo per eccellenza dell’intimità, si lava agitatamente davanti allo specchio, ma certe macchie, quelle sulla coscienza, non possono sparire con acqua e sapone: alcuni flash del volto del piccolo Danny cominciano già a disturbare i ricordi dell’assassino che, dopo aver dato in lacrime la buonanotte al figlio Tom, già dormiente, si stende nel letto matrimoniale, piangendo, accanto alla moglie, anche lei addormentata da diverso tempo. Il flashback termina con un primissimo piano dinamico del volto di Joe, devastato dalla propria colpa, in lacrime, inquadrato attraverso un inusuale angolo di ripresa. In commissariato, Joe Miller confessa ad Alec Hardy di essere innamorato di Danny: racconta che questa sua anomala infatuazione era iniziata nove mesi prima. Il piccolo Latimer era stato picchiato dal padre, che gli aveva spaccato il labbro; andò dunque a casa di Tom, Joe lo medicò e parlò con lui. Danny gli diceva che col padre non riusciva a parlare, così i due entrarono in confidenza, una confidenza che si fece sempre più morbosa e sempre più segreta: infatti Ellie e il figlio Tom non sapevano nulla degli incontri fra Joe e Danny. «Volevo qualcosa che fosse solo mio. Ellie ha il suo lavoro, Tom ha i suoi amici, ma Danny… aveva bisogno di me. [...]

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Io gli chiedevo solo di abbracciarmi. [...] Volevo che mi amasse». Il rapporto fra Joe e Danny rimane incomprensibile: «La mente umana è un mistero, e nessuno sa quello che avviene davvero dentro il cuore di qualcuno» dice Alec a Ellie, per consolarla. La detective è stata avvisata da Hardy subito dopo la confessione del marito: incredula, sbigottita e fortemente turbata, sia psicologicamente sia fisicamente, la donna raggiunge il marito Joe nella stanza degli interrogatori. Joe prova a scusarsi, si giustifica nei confronti della moglie, dice di non aver mai toccato né Danny né i propri figli, e afferma di amarla, chiedendo di poter vedere Tom: Ellie non riesce a trattenersi e, con una reazione rabbiosa si scaglia contro il marito, nonostante avesse promesso ad Alec che non avrebbe aggredito Joe. Il delitto di Danny si risolve così, con la confessione di Joe Miller e la rivelazione della sua incomprensibile e vergognosa relazione sentimentale con la piccola vittima innocente. La stampa può infine annunciare la risoluzione del caso e la città torna a stringersi attorno al cordoglio della famiglia Latimer, scandalizzata dalla scoperta del nome dell’assassino, ma sostenuta da un’intera comunità che, finalmente unita, partecipa commossa ai funerali e alla commemorazione del piccolo Danny.

2.3 Il trauma come indagine antropologica seriale In Broadchurch abbiamo potuto dunque assistere ad un’altra sfumatura della rappresentazione della violenza sui minori. La figura dell’assassino, Joe Miller, risulta problematica e di difficile categorizzazione: non è un serial killer, né è posseduto da un demone, come Leland. Il suo delitto sembra determinato più dalla fatalità, che da una consapevole volontà di far del male. Lo stesso Joe afferma di non riuscire a comprendere i propri sentimenti: essi sono incomprensibili anche per

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lo spettatore, che si trova spiazzato dal colpo di scena del finale di stagione. Joe è un killer atipico, apparentemente innocuo, ma capace di uccidere un bambino. La sua perversa relazione con Danny risulta per noi ancor più incomprensibile e scandalosa perché non si consuma in un prevedibile atto di violenza sessuale. L’ossessione per il ragazzino probabilmente è nata in Joe a causa di una vita professionale e personale ricca di frustrazioni, di un rapporto matrimoniale solo apparentemente felice, in realtà castrante e insoddisfacente. La vera personalità di Joe emerge infine solo grazie alle indagini: la detective Miller, sua moglie, non aveva mai potuto notare la depravazione nascosta nell’anima di suo marito. La rappresentazione del trauma proposta da Broadchurch ci invita dunque a vedere oltre le apparenze, a cercare la più intima e oscura verità che si può celare nel cuore dell’uomo, anche del più insospettabile. La sconvolgente morte di Danny e le indagini sul suo delitto aprono scenari inquietanti su tutta la cittadina di Broadchurch, le cui apparenze vengono travolte dalla traumatica realtà dei fatti. Una realtà che viene messa in discussione e amplificata dai media e dalla stampa, alla ricerca di una verità sfuggente che, anche quando si rivela in tutta la sua sconcertante autenticità, rimane comunque incomprensibile. Questo è il trauma per Broadchurch: una realtà sconcertante ed inafferrabile. Esso viene quindi usato come espediente narrativo, per approfondire le personalità coinvolte nella tragica storia e per rivelare le paranoie, gli affetti e i segreti più oscuri che ruotano attorno alla cittadina. Il delitto di Danny avvia quindi un’indagine antropologica delle reazioni al Male, un’indagine riguardante il modo in cui l’omicidio di un bambino può colpire una piccola comunità e i suoi abitanti, in un clima di reciproco sospetto alimentato dall’attenzione mediatica. Chibnall ha descritto così il suo intento, ciò che ha voluto mostrare attraverso la propria serie:

261

[Broadchurch] It’s [...] about [...] how that murder makes victims of the whole community in all sorts of different ways. Some of them are able to deal with that and recover from that and build something from it; for some people it means they’re destroyed by that so I wanted to look basically at a whole set of characters affected by this one devastating event and the different effects it had on people, so It really made sense of that and played straight into that central idea.393

La serie pone dunque al proprio centro l’omicidio di un ragazzino innocente, descrivendo così un campionario interessante e variegato di reazioni umane allo sconvolgente trauma della perdita.

3. Stranger Things Stranger Things è una serie televisiva fantascientifica di Matt e Ross Duffer, approdata sulla piattaforma di streaming Netflix nell’estate del 2016 e diventata in brevissimo tempo un fenomeno di culto, raggiungendo, nei primi 35 giorni dal rilascio, un'audience di più di 14 milioni di persone394. La storia è ambientata in una piccola e tranquilla città americana degli anni Ottanta, Hawkins, in Indiana. Una piccola comunità cittadina fa da sfondo sia alle storie di Twin Peaks sia di Broadchurch, come abbiamo potuto vedere in precedenza: è un ambiente ideale per sviluppare narrazioni riguardanti il trauma, poiché permette di indagare le reazioni

393

Cit. C. Chibnall in D. Hunt, Chris Chibnall on Broadchurch, Doctor Who and The Great Train Robbery, «Inside Media Track», 15 maggio 2013, www.insidemediatrack.com 394 Cfr. D. Holloway, Stranger Things Ratings: Where Series Ranks Among Netflix's Most Watched, «Variety», 25 agosto 2016, www.variety.com

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all’evento traumatico di un numero relativamente ampio e controllato di soggetti di una ristretta comunità. Stranger Things, però, non ci parla direttamente di una violenza o di un omicidio, come ad esempio abbiamo visto nel caso di Broadchurch. La serie americana narra gli eventi relativi alla scomparsa di un ragazzino, Will Byers, e la coincidente apparizione di una ragazzina dai poteri soprannaturali. La bambina, chiamata Undici (Eleven nella versione originale) per il numero identificativo tatuato sul suo braccio, aiuterà gli amici di Will (Mike, Dustin e Lucas) nella ricerca del ragazzino scomparso, finito, per mano di una terrificante creatura, in un mondo parallelo, sottosopra, creato in un misterioso laboratorio governativo, mentre il capo della polizia di Hawkins, Jim Hopper, la madre di Will, Joyce, e il fratello maggiore del piccolo di casa Byers, Jonathan, conducono le proprie personali indagini sulla scomparsa del bambino. Apparentemente, la serie sembrerebbe un semplice racconto di fantascienza, che pone al centro della narrazione un mostro proveniente da un’altra dimensione. Al genere sci-fi unisce atmosfere tipiche da racconto di formazione, sia spielberghiane sia alla Stephen King, tutti e due autori ampiamente citati in Stranger Things: la serie si presenta infatti come un emozionante mix di generi, dal teen drama alla commedia, dall’horror alla detective story, attraverso un nostalgico ritorno allo stile cinematografico dei blockbuster americani degli anni Ottanta. Rifacendoci però alla categoria della referenzialità del trauma, che abbiamo visto nei precedenti capitoli,395 possiamo riconoscere, nelle pieghe di una narrazione di genere multilineare, numerosi riferimenti, più o meno espliciti,

395

Cfr. capitolo IV, sottocapitolo 5; capitolo VI, sottocapitolo 4.

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all’esperienza traumatica della violenza sui minori, declinata in due modi diversi nelle figure principali su cui ruota la quête del racconto: Will Byers e Undici.

3.1 Cose strane accadono fra le mura domestiche La sera del 6 novembre del 1983396, il giovane Will Byers torna a casa, dopo un’epica partita a Dungeons & Dragons con gli amici Mike, Dustin e Lucas. Sulla via di bosco atro, una foresta, così soprannominata da Will ed i suoi amici nerd, situata in un’area adiacente ad un laboratorio nazionale di energia, il ragazzino, imbattutosi in una creatura spaventosa, cade dalla sella della bicicletta e prosegue a piedi la fuga verso casa, inseguito dal mostro. Will riesce a raggiungere illeso la propria abitazione, ma non trova né la madre, né il fratello, a cui poter chiedere aiuto. Intanto l’orribile creatura riesce ad entrare in casa: Will si nasconde nel capanno sul retro del giardino, ma da qui scompare nel nulla: scopriremo, nel corso della narrazione, che Will è stato portato dal mostro in un mondo parallelo, una copia tetra, grigia, sottosopra del nostro mondo. Nelle prime sequenze abbiamo quindi già un’idea dei temi e dello stile trattati dalla serie: la nostalgia per gli anni Ottanta e i suoi film di culto, di cui vediamo continue citazioni; il tema dell’amicizia, rappresentato da un gruppo di dodicenni, ispirato alle vicende di Stand By Me397 e de I Goonies398; le atmosfere di orrore, influenzate dai film di Carpenter, come La Cosa399, o dal cult di Raimi, La casa400. La serie, però, non si richiama filologicamente agli anni Ottanta soltanto attraverso il citazionismo

396

Cfr. Chapter One: The Vanishing of Will Byers, M. Duffer- R. Duffer, s. I, ep. 1, prima tv USA 15 luglio 2016, in Stranger Things, M. Duffer - R. Duffer, USA, Netflix, 2016 - in produzione. 397 Stand By Me, R. Reiner, USA, 1986. 398 The Goonies, R. Donner, USA, 1985. 399 The Thing, J. Carpenter, USA, 1982. 400 The Evil Dead, S. Raimi, USA, 1981. La pellicola viene omaggiata esplicitamente da un poster nella camera di Jonathan Byers.

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cinematografico, ma tenendo ben presente anche il riferimento al piano storico: siamo ancora nel clima della Guerra Fredda, giunta alle sue fasi più avanzate; il laboratorio di energia della città, in realtà, è una copertura per un progetto federale, vòlto a creare una potente arma contro i russi. C’è un altro elemento di quel periodo, però, che viene descritto ampiamente dalla serie, un aspetto spaventosamente reale per l’America negli anni Ottanta: il rapimento e la scomparsa di bambini. Come è stato fatto notare dalla rivista Newsweek, «Byers goes missing during a time of national panic over the disappearances or abductions of children»401. Negli anni descritti da Strangers Things, infatti, il fenomeno dei missing kids, delle misteriose sparizioni di bambini, occupava le testate di giornali e telegiornali: famoso fu il caso di Etan Patz, bambino di soli sei anni misteriosamente scomparso dal quartiere di SoHo, a New York, nel 1979. Di Etan non si ebbe più notizia: la sua scomparsa originò il movimento per le persone scomparse e diede impulso a nuove leggi e nuovi metodi di ricerca per ritrovare i bambini scomparsi, come le foto sui cartoni del latte, simbolo di questa disperata ricerca. Patz fu proprio il primo bambino il cui volto fu posto sui cartoni del latte, e nel 1983 il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan dichiarò il giorno della scomparsa di Etan, il 9 ottobre, come Giornata nazionale dei bambini scomparsi. La storia di Stranger Things fa dunque riferimento anche a questi avvenimenti traumatici, su cui l’opinione pubblica si concentrò proprio negli anni descritti dalla serie, ma che ancora oggi continuano a verificarsi. Stando alle stime dell’FBI, solo nel 2015 è stata dichiarata negli Stati Uniti la scomparsa di quasi mezzo milione di bambini402, e considerando i casi non denunciati, la cifra potrebbe salire a più di 1,3 milioni. In quasi la metà dei casi si

401

M. Kutner, How ‘Stranger Things’ Captures ’80s Panic Over Missing Kids, «Newsweek», 8 ottobre 2016, www.newsweek.com 402 Cfr. www.missingkids.com

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tratta di ragazzi che sono scappati o sono stati cacciati da casa, oppure bambini abbandonati dalla famiglia; il 3% dei casi, invece, vede coinvolto il rapimento da parte di figure estranee. Paula Fass, professoressa emerita di Storia all’Università di Berkeley, confermando il clima paranoico di grande ansia presente negli anni Settanta e Ottanta in America nei confronti dei casi di missing kids, alimentato soprattutto dai media, ha sostenuto che

the paranormal monster that abducts Byers sounds like an embodiment of the “stranger danger” panic of the era, someone “having no face, coming from somewhere else.” The show’s main victim is also consistent with those from that time, she says - a prepubescent boy. And Fass says his mother, Joyce (played by Winona Ryder), fits an aspect of the panic at the time, which was that because of the rising divorce rate and women increasingly entering the workforce, parents were no longer around to look after their children 24/7.403

Il mostro di Stranger Things, dunque, rappresenterebbe, secondo questa analisi, la paura del rapimento dei bambini da parte di un estraneo. Tenendo presente questa interpretazione e ritenendola comunque valida, dobbiamo però notare diversi particolari nella serie che ci fanno propendere per altre possibili vie interpretative. Will Byers vede per la prima volta nel bosco la creatura, dunque all’esterno, ma è nella sua abitazione che avviene il rapimento. «99 volte su cento, quando un ragazzo scompare, il ragazzo è con un genitore o un parente» afferma in commissariato il detective Hopper a Joyce, venuta ad informare la polizia della scomparsa del

403

M. Kutner, How ‘Stranger Things’ Captures ’80s Panic Over Missing Kids, «Newsweek», 8 ottobre 2016, www.newsweek.com

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proprio figlio.404 La violenza sul minore, dunque, potrebbe non provenire dall’esterno, ma dall’interno: è nella casa, infatti, che avvengono alcuni degli episodi paranormali più eclatanti. La prima inquadratura dopo la sigla del Capitolo primo - La scomparsa di Will Byers405 mostra un establishing shot del salotto di Hopper, addormentato, nonostante sia mattina inoltrata, dopo una notte piccola. Il particolare che ci preme sottolineare, in questa sequenza, è il primo piano iniziale sul disegno infantile di una casa ed una famiglia felice, illuminata da un grande sole giallo: scopriremo nel corso della serie che Hopper ha divorziato in seguito alla morte per leucemia della figlia, l’autrice del disegno conservato in sua memoria sul muro del salotto dal padre. La macchina da presa si sofferma volutamente sul disegno archetipico ed esemplare della casa e della famiglia perfetta, che si pone così in contrasto con quanto abbiamo visto in precedenza, prima della sigla, ossia l’abitazione dei Byers buia e deserta, violata dalla creatura che rapisce Will. È un segnale, gli autori ci mettono subito al corrente di uno dei temi principali della serie: il ruolo della casa e della famiglia. Non è un caso o una mera questione di citazionismo anche il poster del film La casa (che però in inglese si intitola Evil Dead), che pone al centro della propria rappresentazione una casa maledetta. La casa, luogo per eccellenza della sicurezza, della tranquillità, del caloroso rapporto familiare, diventa, invece, per Will e per l’intera famiglia Byers, un posto da incubo. Il ribaltamento del tradizionale topos della casa come luogo sicuro non è una novità, infatti abbiamo già visto che, in Twin Peaks, Sarah Palmer afferma «cosa sta succedendo in questa casa?», in riferimento alle azioni anomale del marito; questa

404

Cfr. Chapter One: The Vanishing of Will Byers, M. Duffer- R. Duffer, s. I, ep. 1, in Stranger Things. 405 Ibidem.

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è una citazione che potremmo adattare bene anche a Joyce Byers in Stranger Things: è infatti nella casa che accadono alcune delle cose più strane della serie. Joyce scopre attraverso la corrente alternata delle lampade di poter comunicare col figlio, il quale si trova sì in casa, ma in un’altra dimensione: dopo aver ricevuto due telefonate da Will, che però hanno fulminato la cornetta406 a causa del sovraccarico energetico prodotto dalla comunicazione fra le due diverse dimensioni, Joyce si accorge quindi della presenza del figlio nella luce delle lampadine e nel volume dello stereo, il quale comincia improvvisamente a riprodurre Should I Stay or Should I Go, grande classico dei Clash e canzone preferita dei fratelli Byers, nonché chiaro riferimento alla condizione del piccolo Will, intrappolato in un mondo da incubo. È in questa occasione407 che Joyce percepisce per la prima volta la presenza del mostro: la parete accanto allo stereo sembra deformarsi come un telo spinto dalla forza di una creatura soprannaturale. Questa apparirà più volte in casa, nel corso della narrazione, in un primo tempo deformando le pareti, poi addirittura sfondandole408.

Figura 7.15 Chapter Three: Holly, Jolly (Shawn Levy, Stranger Things, 2016)

406

Cfr. Chapter One: The Vanishing of Will Byers, M. Duffer- R. Duffer, s. I, ep. 1; Chapter Two: The Weirdo on Maple Street, M. Duffer- R. Duffer, s. I, ep. 2, in Stranger Things. 407 Cfr. Chapter Two: The Weirdo on Maple Street, M. Duffer- R. Duffer, s. I, ep. 2, prima tv USA 15 luglio 2016 in Stranger Things. 408 Cfr. Chapter Three: Holly, Jolly, S. Levy, s. I, ep. 3, prima tv USA 15 luglio 2016 in Stranger Things.

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Possiamo ipotizzare che, per questo suo rapporto fortemente legato all’habitat casalingo, la creatura rappresenti una metafora della violenza domestica, che perseguita sia la madre, sia i figli. L’ipotesi può essere confermata dal ritratto controverso del padre di Will, Lonnie Byers, fornito dalla serie. Egli è divorziato da diverso tempo dalla moglie, con la quale alzava spesso la voce, anche in presenza dei figli409; non si è mai curato dei problemi e delle esigenze dei propri bambini, tant’è che dopo il divorzio è fuggito in città insieme ad una donna molto più giovane di lui, senza più avere contatti con la propria famiglia. Le prime ipotesi sull’identikit di un rapitore, formulate da Hopper, cadono proprio sulla figura paterna: Joyce però esclude che Lonnie possa aver rapito il figlio, dal momento che non se ne è mai interessato.410 Nello stesso dialogo con l’amico detective, Joyce rivela che Will «è un ragazzino sensibile, Lonnie diceva che era strano, gli dava del finocchio»: il signor Byers non è certo un padre modello, come possiamo intendere. Dopo la scoperta del finto cadavere di Will, creato ad arte dagli agenti del laboratorio per non destare sospetti sulle proprie attività, essendo la scomparsa di Will legata ai loro esperimenti dimensionali, Lonnie tornerà ad Hawkins, per partecipare al funerale del figlio e apparentemente sostenere la famiglia411. In realtà Joyce scopre che l’unico interesse di Lonnie è il potenziale risarcimento da richiedere alla ditta che gestisce la cava in cui è stato ritrovato il corpo di Will: la moglie scaccia dunque da casa l’ex marito, il quale non si farà più vedere nel corso della stagione. Il trauma infantile di Will può dunque essere sia riconducibile ad un estraneo, sia ad una violenza domestica. La sua presenza nel mondo sottosopra indica

409

Cfr. Chapter Two: The Weirdo on Maple Street, M. Duffer- R. Duffer, s. I, ep. 2, in Stranger Things. 410 Cfr. Chapter One: The Vanishing of Will Byers, M. Duffer- R. Duffer, s. I, ep. 1, in Stranger Things. 411 Cfr. Chapter Five: The Flea and the Acrobat, M. Duffer - R. Duffer, s. I, ep. 5, in Stranger Things.

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l’approdo ad una dimensione altra, anomala: il ragazzino non vive, come i suoi coetanei, un’infanzia normale, ma si trova imprigionato in un incubo, in un mondo per lui inconcepibile, braccato da un mostro di cui non può comprendere le intenzioni. La violenza subita da Will potrebbe non essere, come appare, solamente psicologica, determinata dal fatto di essere catapultato in una dimensione oscura, perseguitato da un’entità malvagia, che strappa al ragazzino la serenità della sua età infantile e ne segna la perdita dell’innocenza: la violenza subita da Will potrebbe essere interpretata anche come relativa all’abuso sessuale. Infatti, nell’ultima puntata della prima stagione412, Will viene ritrovato, da Joyce ed Hopper, in una zona della dimensione sottosopra corrispondente alla scuola, assieme ai cadaveri consumati dalla putrefazione di altri ragazzi. Will ha gli occhi chiusi, è legato a una parete da un’intricata tela di mostruosi filamenti alieni. Il particolare più raccapricciante, però, è il lungo tubo organico che gli sigilla la bocca, penetrandogli nelle interiora. Un tubo che richiama nella mente di Hopper il respiratore che aveva in ospedale la sua bambina, ma che può anche essere anche visto come un elemento fallico, per la sua forma e la sua composizione materiale, dichiarando così una possibile interpretazione sessuale della natura delle violenze subite dal bambino. Nel finale, Will si risveglia in ospedale, circondato dall’affetto dei familiari (ad eccezione del padre) e degli amici. I primi che assistono al suo risveglio sono la madre Joyce e il fratello Jonathan, a cui il bambino, uscito dal coma, stordito e confuso e ancora impaurito, chiede dove si trovi, al momento: «sei a casa, sei a casa adesso, sei al sicuro», gli risponde il fratello. Il trauma infantile può essere superato solo con un ritorno alla normalità, con l’affetto caloroso della propria famiglia e creando nuovamente attorno al bambino un clima di sicurezza e di serenità. Il

412

Cfr. Chapter Eight: The Upside Down, M. Duffer - R. Duffer, s. I, ep. 8, in Stranger Things.

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racconto della prima stagione si chiude con un salto temporale di un mese, alla vigilia di Natale: Will, Mike, Dustin e Lucas stanno giocando a Dungeons & Dragons, come nella prima scena del Capitolo primo. Tutto sembra tornato alla normalità. Stavolta Will non tornerà a casa da solo, ma verrà accompagnato dal fratello. Prima di sedersi a tavola per saziarsi del cenone natalizio preparato con amore dalla madre, Will va in bagno, per lavarsi le mani. Abbiamo già detto che il bagno rappresenta il luogo per eccellenza dell’intimità, usato anche in una delle scene finali di Broadchurch per situare la presa di coscienza della colpa dell’assassino Joe Miller. In questo caso, Will, davanti allo specchio, comincia a tossire fortemente, fino a vomitare nel lavabo una piccola ed inquietante creatura dall’aspetto di lumaca, che scivola nello scarico. Improvvisamente in bagno cala l’oscurità, la stanza si riempie di cenere fluttuante e le pareti di strane ragnatele organiche, proprio come nel sottosopra.

Figura 7.16 Chapter Eight:The Upside Down (Duffer Brothers, Stranger Things, 2016)

Nell’intimità del bagno, Will prova a liberarsi delle scorie della propria esperienza traumatica - rappresentate dalla viscida creatura fuoriuscita dalla sua bocca - ma il trauma non può essere superato con una semplice rimozione: esso infatti torna così a infestare l’interiorità del ragazzino, che si ritrova nuovamente in un’atmosfera da incubo. La stanza torna quindi ad illuminarsi, alla solita normalità, ma Will rimane fortemente scioccato dalla visione: il trauma, soprattutto se subito 271

in tenera età, lascia tracce profonde, che tornano a tormentare i pensieri e la vita quotidiana di chi ha vissuto un’esperienza traumatica. La sequenza finale non rappresenta soltanto un efficace cliffhanger per la prossima stagione, ma svela una delle caratteristiche del trauma che abbiamo visto nei precedenti capitoli, ovvero il ritorno dell’evento, la sua ripetizione, la condizione di rimanere ancorati ad una realtà traumatica, intrappolati in essa.

3.2 L’infanzia violata di Undici Se da una parte, nell’incipit, vediamo la scomparsa di Will, dall'altra abbiamo invece la misteriosa apparizione di Undici, la vera protagonista della serie, una ragazzina dotata di poteri soprannaturali e di un passato fortemente traumatico. Le prime immagini che abbiamo della ragazzina la vedono introdursi di nascosto in una tavola calda, dopo essere fuggita dal laboratorio in cui era rinchiusa, approfittando del caos avvenuto con l’incidente che ha aperto un varco dimensionale e ha liberato in città un’orribile creatura. La ragazzina ci viene presentata come vestita solo di una camicetta ospedaliera sgualcita e con la testa rasata, impaurita ed affamata: entrata di nascosto nella tavola calda - un luogo tipicamente americano, ma anche lynchiano, molto presente nella narrazione di Twin Peaks - ruba delle patatine fritte in cucina, di cui si ciba voracemente, ma viene scoperta dal proprietario del locale, Benny Hammond. Questi rappresenta il primo contatto di Undici col mondo esterno, col mondo al di fuori dell’esperienza traumatica degli abusi subiti in laboratorio. Benny le offre un primo soccorso, una felpa, un hamburger, ma non riesce a comunicare con la ragazzina, la quale dimostra di essere molto sulle difensive e diffidente. L’atteggiamento di Undici lascia intendere ad Hammond, e allo spettatore, che la ragazzina possa essere stata vittima

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di abusi: il proprietario della tavola calda avverte dunque le autorità della comparsa della strana ragazzina, chiamando i servizi sociali. Undici, intanto, continua a mangiare il proprio hamburger, ma il rumore di una ventola sferragliante la infastidisce: vediamo qui per la prima volta all’opera i poteri telepatici della bambina, che spegne con la forza del pensiero la ventola. Abbiamo prima citato la tavola calda come ambiente tipico di Twin Peaks, ma un’altra citazione palese all’opera di Lynch e Frost è anche questa ventola, in azione nonostante sia il 6 novembre: non può dunque essere una casualità. La ventola, simbolo lynchiano per indicare una presenza demoniaca e la metafora dell’incesto subìto da Laura Palmer, viene citata in questa scena dai fratelli Duffer, che non hanno nascosto l’influenza del lavoro di Lynch sulla propria opera413, probabilmente per indicare un possibile abuso sessuale subìto dalla ragazzina nel laboratorio.414 A raccogliere la richiesta di aiuto di Benny Hammond, però, arriverà una finta assistente sociale, la quale si rivela essere un’agente del laboratorio di Hawkins che, dopo aver ucciso Hammond, insieme ad altri colleghi insegue la bambina. Undici riesce a scappare nel bosco, dove, in una notte buia e tempestosa, incontra Mike, Lucas e Dustin, alla ricerca del proprio amico scomparso. Grazie alla relazione, al legame di amicizia che questo gruppo di ragazzini crea con Undici, cambierà l’esperienza di vita della ragazzina, che scopre così un mondo diverso, oltre quello del laboratorio, oltre la violenza. Nella serie gli abusi subiti da Undici ci vengono proposti attraverso 413

«It seems like more and more inspirations for “Stranger Things” are being discovered every day, and Wednesday’s notable — and confirmed — influences is none other than David Lynch. And he could factor into the series’ finale, too. “We love David Lynch,” co-creator Matt Duffer said during the series’ TCA panel. “We’re big David Lynch fans. […] So many of these guys, we grew up watching and idolizing. They were big influences on us. They’re part of our DNA now, I think.” “What connects Lynch to Spielberg is […] how ordinary people encounter extraordinary — or strange — things,” Ross Duffer added. “That was really the threat that connected all of our favorite things in the world”». Cfr. B. Travers, ‘Stranger Things’: Season 2 Plans & How David Lynch Could Control the Ending, «IndieWire», 27 luglio 2016, www.indiewire.com 414 D. Rox, 'Stranger Things' and the Rage, Loneliness and Upside Down Horror of Child Sexual Abuse, «BlogHer», 29 luglio 2016, www.blogher.com

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numerosi flashback, scatenati da trigger traumatici. Il primo avviene durante la seconda puntata415: Mike ospita Undici, all’insaputa dei genitori, nella taverna di casa Wheeler. Il ragazzino, approfittando dell’assenza dei genitori, conduce Undici in un tour dell’abitazione, e lei rimane affascinata dalle foto di famiglia e dai trofei di scienze di Mike. L’arrivo improvviso della madre, però, obbliga Mike a nascondere in uno sgabuzzino Undici. Non ci soffermiamo sulla palese citazione spielberghiana tratta da E.T.416, che comunque, come al solito, non è fine a se stessa, ma ci rivela l’alienazione della bambina, che si muove per la casa di Mike come se fosse un extraterrestre, come se non avesse mai avuto modo di sentire il calore di una vera casa. L’ambiente chiuso, buio, claustrofobico dello sgabuzzino scatena in Undici un ricordo traumatico: la ragazzina ricorda un’esperienza nel laboratorio, nella quale venne portata a forza da due energumeni in una cella di isolamento, mentre colui che Undici chiama papà, il dottor Brenner, direttore del laboratorio, la osservava da lontano, senza scomporsi alle richieste d’aiuto della bambina, la quale viene quindi gettata, piangente, in una stanza buia, e qui rinchiusa, disperata. In un’altra ispezione di casa Wheeler417, stavolta in solitaria, Undici si sofferma nuovamente affascinata davanti alle fotografie di famiglia: chiaramente la felicità di questi ritratti è in forte contrasto col concetto di famiglia che finora ha vissuto Undici, bambina-cavia a cui è stata negata l’infanzia. L’attenzione di Undici viene colpita anche dalla televisione, davanti al cui schermo rimane incantata, almeno fino alla pubblicità della Coca Cola: la visione della lattina, infatti, funge da trigger, scatenandole un nuovo ricordo traumatico. Nel flashback vediamo Undici in una stanza del laboratorio: seduta dietro una scrivania, con degli elettrodi posizionati 415

Cfr. Chapter Two: The Weirdo on Maple Street, M. Duffer- R. Duffer, s. I, ep. 2, in Stranger Things. 416 E.T. the Extra-Terrestrial, S. Spielberg, USA, 1982. 417 Cfr. Chapter Three: Holly, Jolly, S. Levy, s. I, ep. 3, in Stranger Things.

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sulla nuca per registrare le onde cerebrali, la ragazzina viene costretta dal presunto padre, il dr. Brenner, e dalla sua equipe di scienziati, nella stanza adiacente, separata da un vetro, a piegare con l’utilizzo della telecinesi una lattina di Coca Cola. La bambina, con grande impegno, riesce grazie alla sola forza della mente ad accartocciare la lattina, ma lo sforzo le causa un episodio di epistassi. Brenner, pur notando l’uscita di sangue dal naso della bambina, le sorride, soddisfatto, dall’altro capo del vetro. Nella stessa puntata assistiamo ad un ulteriore ricordo traumatico di Undici: in attesa di Mike, Dustin e Lucas, sul retro della casa dei Wheeler, Undici vede un gatto rosso. L’innocente presenza del gattino scatena però in lei un attacco di panico ed un relativo flashback traumatico: vediamo Undici nuovamente nella stanza del laboratorio, con gli elettrodi sulla nuca, mentre gli scienziati la costringono ad uccidere con la forza della mente un gatto in una gabbietta. Undici si rifiuta di uccidere l’animale, allora il dr. Brenner la fa rinchiudere nella cella d’isolamento, ma la ragazzina si ribella e, con i propri poteri paranormali, uccide i due agenti che l’avevano buttata nella cella, usando la forza della mente. Il presunto padre, il dr. Brenner, incredulo ed orgoglioso, più che della propria bambina, della propria arma, abbraccia Undici, svenuta a causa dello sforzo, e la porta via dalla stanza d’isolamento. Nei flashback di Undici osserviamo dunque il processo evolutivo della bambina, da semplice ragazzina innocente a potente arma: nella quarta puntata418 vediamo come essa riesca a mettersi in contatto e a trasmettere, nella propria stanza, le parole di un agente del laboratorio che parla dall’altro capo dell’edificio. Questo potere di comunicazione a distanza verrà usato poi, come vediamo nella puntata successiva419, per individuare e captare i messaggi di una

418

Cfr. Chapter Four: The Body, S. Levy, s. I, ep. 4, in Stranger Things. Cfr. Chapter Five: The Flea and the Acrobat, M. Duffer - R. Duffer, s. I, ep. 5, in Stranger Things.

419

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spia russa. Il flashback viene scatenato, in questo caso, dalla preoccupazione di Undici: essa infatti sta seguendo Mike e i suoi amici, che hanno scoperto dalla ragazzina che Will potrebbe trovarsi in un’altra dimensione, che ha causato l’apertura di un portale nella zona del laboratorio di Hawkins. Undici ha avvertito gli amici che stanno andando incontro a un pericolo, ma questi vogliono a tutti i costi trovare Will, quindi la ragazzina si trova quasi costretta a seguirli. La preoccupazione di Undici, che si avvicina alla dimensione parallela che lei già conosce e da cui è fortemente turbata, a causa della nota presenza del mostro in essa, scatena il ricordo della prima volta in cui Undici ha incontrato l’orribile creatura. Il dr. Brenner è seduto sul letto nella stanza della bambina, mentre Undici è rannicchiata, con le gambe strette al petto dalle braccia, in una posizione difensiva ed impaurita. Brenner le mostra la foto di una spia russa, e la convince a cercare tale uomo, sperimentando l’uso di una vasca di deprivazione sensoriale, con questo semplice ma significativo dialogo:

Undici: «Quanto lontano, papà?» Dr. Brenner: «Più lontano di quanto ci siamo mai spinti». Undici: «Il bagno?» Dr. Brenner: «Sì, sì, il bagno. Per te va bene?» Undici: «Okay».420

Le relazioni col presunto padre sono caratterizzate da questo linguaggio criptico, in codice, sia verbale, sia non verbale, che insinua nello spettatore l’idea dell’abuso sessuale. Nel seguito di questa scena, poi, vediamo Undici che, attraverso la vasca

420

Cfr. ibidem.

276

di deprivazione, riesce a raggiungere una dimensione parallela, ma diversa dal sottosopra: una dimensione semplicemente vuota, nera, apparentemente mentale, nella quale Undici individua la figura della spia russa che era stata costretta a cercare. La spia sta parlando, viene rappresentata anch’essa nello spazio vuoto e nero, decontestualizzata. Undici osserva la figura dell’uomo russo, ma essa svanisce non appena la ragazzina sente un sinistro ruggito, dal quale prova a fuggire. La comunicazione dimensionale si interrompe qui, con Undici che grida aiuto nella vasca di deprivazione. Nella puntata successiva421 vediamo un nuovo flashback: il dr. Brenner si presenta nella stanza di Undici, svegliandola e portandole in dono un vaso di fiori: «Questo è un giorno speciale, sai perché? - le dice, trionfante - Perché oggi faremo la storia, oggi stabiliremo il contatto». Il contatto è quello con il mostro, ma possiamo chiaramente interpretarlo come un contatto fisico con una mostruosa aberrazione, il che ci fa ancora propendere per l’ipotesi dell’abuso sessuale nell’interpretazione del rapporto padre e figlia. Nel proseguimento del flashback vediamo il padre accompagnare la figlia alla vasca di deprivazione, stringendo la mano della bambina: i due sfilano davanti ad una moltitudine di agenti e di scienziati del laboratorio: «Non avere paura, sono tutti amici. Sono qui solo per osservare. Non pensare a loro. Resta concentrata, come prima» dice il dr. Brennan a Undici. Anche in questo caso, sotto la superficie del testo, possiamo notare l’allusione ad un rapporto incestuoso e per di più voyeuristicamente esibito, data la presenza degli sguardi degli «amici» del dottore - notevole è il fatto che siano tutti uomini. Brennan dunque fa immergere Undici nella vasca di deprivazione, per stabilire il primo contatto con la creatura. Il dottore rassicura così la piccola: «Qualunque cosa sia, non può farti del male. Non da qui.

421

Cfr. Chapter Six: The Monster, M. Duffer - R. Duffer, s. I, ep. 6, in Stranger Things.

277

Perciò non devi avere paura. Ti sta venendo a cercare, perché ti vuole! Sta chiamando te. Quindi questa volta non scappare, io voglio che lo trovi, hai capito?». Per l’ennesima volta, possiamo notare che

Eleven's interactions with "Papa" are laden with coercive, coded language, intentionally leading viewers to make sexual abuse connections beneath the surface of the experiments we are shown. Eleven, vulnerable in a thin hospital gown, is told to "go deeper" and to ignore the men watching her perform. She is told the monster wants her, to go farther, "not to turn away from it." This language is intentionally loaded.422

Undici torna dunque nella dimensione vuota e oscura: qui trova la creatura, intenta a divorare qualcosa. La ragazzina si avvicina al mostro, allunga cauta la mano verso il suo orribile dorso, e infine la tocca: la creatura si gira improvvisamente, aprendo con un ruggito la sua enorme bocca, che ricopre tutto il suo volto, simile ad una grande pianta carnivora. Undici, spaventata a morte, grida di terrore nella vasca di deprivazione: un urlo tale che manda in tilt i rilevatori delle sue onde cerebrali e squarcia un muro del laboratorio, aprendo il varco dimensionale da cui uscirà il mostro.

422

D. Rox, 'Stranger Things' and the Rage, Loneliness and Upside Down Horror of Child Sexual Abuse, «BlogHer», 29 luglio 2016, www.blogher.com

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Figura 7.17 Chapter Six:The Monster (Duffer Brothers, Stranger Things, 2016)

Il mostro e gli abusi subiti da Undici in laboratorio possono essere ricondotti alla sfera della violenza sessuale sui minori. L’interpretazione è suffragata da altri particolari interessanti presenti nella narrazione. Ad esempio, l’agente Hopper scopre, nella terza puntata423, facendo delle ricerche in biblioteca, che il dr. Brenner è stato accusato di presunti esperimenti ed abusi, nel laboratorio (un’ulteriore, esplicita conferma dell’ipotesi di lettura relativa alla violenza sessuale), e che una madre ha intentato una causa al dottore, accusato di aver rapito sua figlia, dopo il parto. La figlia di cui stiamo parlando è Undici, e la madre naturale è Terry Ives, una donna ora in stato catalettico che aveva frequentato, negli anni Settanta, alcuni esperimenti del progetto MKULTRA condotti dallo stesso Brennan. «The MKULTRA project, identified by name in Sheriff Hopper's microfiche hunt, is associated with using sexual abuse to break and control subjects»424. Ancor più esplicitamente legata alla sfera sessuale è una delle prime apparizioni del mostro e del sottosopra: nella seconda puntata425, Nancy Wheeler, sorella maggiore di Mike, e la sua amica Barbara Holland sono invitate ad un’improvvisata festa in casa del ragazzo di Nancy, Steve Harrington, i cui genitori sono fuori città. Barbara si trova

423

Cfr. Chapter Three: Holly, Jolly, S. Levy, s. I, ep. 3, in Stranger Things. D. Rox, 'Stranger Things' and the Rage, Loneliness and Upside Down Horror of Child Sexual Abuse, «BlogHer», 29 luglio 2016, www.blogher.com 425 Cfr. Chapter Two: The Weirdo on Maple Street, M. Duffer- R. Duffer, s. I, ep. 2, in Stranger Things. 424

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a disagio, perché è l’unica ragazza non accoppiata alla festa: a metà serata abbandonerà dunque la casa, fermandosi un poco sul bordo della piscina di Steve, da sola. Una goccia di sangue, proveniente dal dito di Barb, tinge di rosso l’acqua della piscina. Il mostro, che, essendo un predatore, è attratto dal sangue, fa sparire la ragazza, rapendola e portandola nel sottosopra. La puntata successiva426 si apre col grido di aiuto di Barb che, dal fondo della piscina nell’altra dimensione, chiama l’amica. Nancy però, che sta consumando il suo primo rapporto con Steve in camera da letto, non può sentire l’amica, persa nel sottosopra. Attraverso un significativo montaggio parallelo, le immagini del rapporto amoroso fra Nancy e Steve vengono messe in contrasto con la violenza subita da Barb da parte della creatura: il mostro appare così, esplicitamente, come una metafora della violenza sessuale. Il mostro verrà apparentemente neutralizzato, nel finale di stagione427, dalla stessa Undici, che sparirà insieme alla creatura, polverizzandosi con essa, in un estremo atto di sacrificio, per salvare i propri amici dalle grinfie del mostro. Un’ipotesi plausibile e suggestiva per il nostro discorso ha riconosciuto nella creatura un doppio di Undici: è la stessa ragazzina, confessando a Mike e Dustin di aver aperto il portale dimensionale, a definire se stessa il vero mostro.428 Inoltre, per spiegare a Mike, Dustin e Lucas dove fosse finito Will, nel sottosopra, in balìa del mostro, si è servita della plancia del gioco Dungeons & Dragons, rivolta al contrario, ponendovi al centro la miniatura del demogorgone, un mostruoso e potente demone a due teste. La parola demone non può che farci subito venire in mente la figura di Bob in Twin Peaks, e il fatto che il demogorgone sia dotato di due teste potrebbe non essere affatto casuale, indicando metaforicamente la dualità

426

Cfr. Chapter Three: Holly, Jolly, S. Levy, s. I, ep. 3, in Stranger Things. Cfr. Chapter Eight: The Upside Down, M. Duffer - R. Duffer, s. I, ep. 8, in Stranger Things. 428 Cfr. Chapter Six: The Monster, M. Duffer - R. Duffer, s. I, ep. 6, in Stranger Things. 427

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del mostro che non rappresenterebbe altro che la doppia personalità di Undici. L’orribile creatura, dunque, potrebbe essere interpretabile come la coscienza traumatica dissociata di Undici, al pari del demone Bob per Leland Palmer in Twin Peaks.

3.3 Una paranormale elaborazione del trauma infantile È importante notare, per il nostro discorso sulla referenzialità del trauma, che, come abbiamo visto nel secondo capitolo della tesi429, negli anni Ottanta, l’epoca in cui è ambientato Stranger Things, è stata pubblicata una grande ondata di libri di psicologia riguardanti i traumi conseguenti agli abusi sessuali sui minori: «that decade was a time of rapid understanding and concern about the issue and about how to help survivors heal (the emblematic Courage to Heal430 was published in 1988)»431. È proprio negli anni descritti dalla serie che aumenta la consapevolezza sulla raccapricciante problematica della violenza sui minori. Stranger Things è sì una serie fantascientifica, incentrata sull’orribile apparizione di una mostruosa creatura in una piccola cittadina americana. La rappresentazione, però, degna di far parte del novero delle serie della complex television, può presentare diversi livelli di lettura: la creatura, infatti, come abbiamo potuto vedere, è interpretabile come metafora della violenza sessuale. Ma la serie non è una rappresentazione metaforica solamente

degli

abusi

sessuali:

essa

infatti,

attraverso

l’evoluzione

comportamentale di Undici, narra come una vittima di violenze possa elaborare il proprio trauma e ricominciare a vivere, entrando in contatto con il mondo e con

429

Capitolo II, sottocapitolo 6. E. Bass - L. Davis, The Courage to Heal: A Guide for Women Survivors of Child Sexual Abuse, Harper & Row, New York 1988. 431 D. Rox, 'Stranger Things' and the Rage, Loneliness and Upside Down Horror of Child Sexual Abuse, «BlogHer», 29 luglio 2016, www.blogher.com 430

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l’amore, instaurando legami di lealtà ed amicizia, rompendo le mura claustrofobiche dell’esperienza traumatica:

Through relationships with important attachment figures, children learn to trust others, regulate their emotions, and interact with the world; they develop a sense of the world as safe or unsafe, and come to understand their own value as individuals. When those relationships are unstable or unpredictable, children learn that they cannot rely on others to help them. When primary caregivers exploit and abuse a child, the child learns that he or she is bad and the world is a terrible place.432

Quella che compie Undici è una rieducazione sentimentale: quando la vediamo per la prima volta, è una ragazzina impaurita e diffidente. Ma poi riesce a creare legami di amicizia con un gruppo di pari, formato da Mike, Dustin e Lucas; comincia a provare le emozioni e le esperienze proprie della sua età, di quell’infanzia che il dr. Brenner le ha sottratto; incontra finalmente gente che si cura di lei, e di cui si possa fidare. La scena nella vasca di deprivazione fai da te, costruita nella palestra della scuola di Hawkins da Mike, Dustin, Lucas, Nancy, Jonathan, Hopper e Joyce per mettersi in contatto con Will e Barb attraverso l’aiuto e i poteri di Undici, è esemplare433: Undici non viene chiusa in un cilindro colmo d’acqua, come nel laboratorio, ma galleggia in una piscina da giardino; Joyce le tiene stretta la mano, tranquillizza la ragazzina, le dice di non avere paura; quando Undici rimane da sola nella dimensione vuota, dopo aver visto il cadavere di Barb ed essere riuscita ad entrare in contatto con un agonizzante Will, e comincia a urlare di terrore,

432

Effects of Complex Trauma, «The National Child Traumatic Stress Network», www.nctsn.org Cfr. Chapter Seven: The Bathtub, M. Duffer - R. Duffer, s. I, ep. 7, in Stranger Things.

433

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prevedendo il ritorno della creatura, Joyce fa terminare la sessione di contatto dimensionale, scuotendo la ragazzina ed abbracciandola, proteggendola come solo una vera madre sa fare: «è tutto ok - le dice, stringendola fra le sue braccia - ci sono io, ci sono io».

You’re okay is the sound of security often ringing in the ears of people who were raised in secure environments while those who weren’t find only silence or self-hate. You’re okay, once adapted into the traumatized individuals mindset, can rewrite the mental gymnastics that has led them to experience a near-constant sense of shame and fear.434

Undici, dopo aver vissuto un’infanzia di abusi, impara finalmente cosa sia l’amore, che non è quel sentimento mostrato dal presunto padre: nell’ultima puntata, infatti, Undici non chiamerà più papà il dr. Brenner, ma «cattivo, cattivo, cattivo»435: il mostro attaccherà dunque lo scienziato, uccidendolo. Undici riconosce la propria esperienza traumatica, sa che questa non potrà mai essere definitivamente superata, o cancellata, ma prova ad andare oltre, elaborando il trauma e ricominciando a vivere come una bambina normale - che però non è -, iniziando a nutrire fiducia verso l’umanità grazie ai legami di amicizia ed affetto che è riuscita a creare: «relationships and interactions [...] shape our minds and brains when we are young and [...] give substance and meaning to our entire lives»436. Quello di Undici è un chiaro tentativo di working through, che ci viene proposto attraverso un’efficace narrazione di genere: in Stranger Things la fantascienza si unisce così al racconto

434

G. Branstetter, ‘Stranger Things’ Is An Amazing Depiction of Trauma, «Medium», 20 luglio 2016, www.medium.com 435 Cfr. Chapter Eight: The Upside Down, M. Duffer - R. Duffer, s. I, ep. 8, in Stranger Things. 436 B. van der Kolk, The Body Keeps the Score, p. 142.

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di formazione, ma, sotto un’apparenza ingenua e dietro al patinato citazionismo degli anni Ottanta, si nasconde una profondità degna dei migliori esempi della complex television. Tale complessità tematica, rivolta in particolare alla sensibile problematica della violenza sui minori, è una delle caratteristiche che accomuna Stranger Things con i serial esaminati in precedenza, Broadchurch e Twin Peaks, e che ci ha permesso di analizzare queste serie, e il loro rapporto con gli abusi infantili, attraverso l’efficace lente della trauma theory.

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Conclusione La serialità televisiva è per noi un’importante fonte di studio, colma di spunti di riflessione sul rapporto fra il trauma e la rappresentazione audiovisiva dell’esperienza traumatica. La produzione di serie televisive è ricca di contenuti e continua ad arricchirsi, di anno in anno, grazie a una moltitudine quasi incontrollabile di nuove ed interessanti storie, guidate da tematiche sempre più realistiche e seguite da un pubblico sempre più vasto, globalizzato ed eterogeneo. Siamo d’altronde entrati, già da diverso tempo, in quella che John Ellis ha definito età dell’abbondanza televisiva437, e forse l’abbiamo già superata ampiamente, tant’è che l’abbondanza è diventata sovrabbondanza: la disponibilità di serie statunitensi nel solo 2015 ha raggiunto il numero incredibile di 409 prodotti originali.438 Potremmo dunque individuare, documentare ed analizzare numerosi altri esempi di rappresentazioni traumatiche nella serialità televisiva, ma il nostro lavoro, in questa sede, non può essere enciclopedico, per quanto interessato a dare una definizione generale del fenomeno che abbiamo nominato trauma series. Una definizione da noi elaborata per lo più per comodità espositiva, dal momento che non possiamo, né intendiamo imprimere un’etichetta definitiva sui prodotti

437

J. Ellis, Seeing Things: Television in the Age of Uncertainty, I.B.Tauris, Londra 2000, p. 162. C. Littleton, Peak TV: Surge From Streaming Services, Cable Pushes 2015 Scripted Series Tally to 409, «Variety», 16 dicembre 2016, www.variety.com

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televisivi che abbiamo analizzato, marchiandoli esclusivamente come esempi di serialità traumatica, una definizione che sicuramente va stretta a queste serie, assai complesse e certamente non articolate soltanto attorno al tema del trauma, anche se abbiamo comunque potuto notare quanto il richiamo alla sfera traumatica sia importante per tutte quelle serie che abbiamo avuto modo di analizzare. Il panorama seriale è dunque ancora vasto ed esplorabile attraverso la trauma theory, lo strumento teorico di cui ci siamo serviti per la nostra analisi del rapporto fra esperienza traumatica e serialità; il nostro percorso di ricerca, però, può qui ritenersi concluso, con la consapevolezza di poter ancora approfondire i temi, le scelte stilistiche, le narrazioni e le rappresentazioni di numerose e diverse trauma series. Siamo partiti da molto lontano, addirittura dal concetto di trauma nella lingua greca, per giungere infine ai giorni nostri, a rintracciare quello stesso tema in quell’espressione massima della cultura pop contemporanea che è oggi la serialità televisiva: una forma narrativa da intendersi come popolare per il raggio di diffusione che possiede nella nostra contemporaneità, non certo per la qualità espressiva che, come abbiamo visto nel corso di questi ultimi capitoli della nostra tesi, spesso, in questi anni, ha raggiunto vertici di complessità tali che non a caso hanno fatto parlare di complex television. Tali livelli di complessità sono stati raggiunti grazie ad un racconto televisivo di fiction sempre più attento all’attualità e rivolto al realismo: alla complessità narrativa si è quindi accompagnata la complessità tematica, e la forte presenza del trauma nel racconto televisivo è un indice di questo genere di televisione, che si pone come specchio della realtà. Per indagare il tema del trauma nella serialità televisiva siamo dovuti inevitabilmente partire da una definizione dell’esperienza traumatica, guardando dunque con interesse al campo della psicologia, della psichiatria e delle neuroscienze. Ci siamo

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serviti in particolar modo delle ultime ricerche di uno dei maggiori esperti della realtà traumatica, Bessel van der Kolk, medico, ricercatore e docente in materia di stress post-traumatico e fenomeni correlati, attivo sin dagli anni Settanta nel campo della psichiatria e della psicodinamica. Abbiamo visto che il trauma è una ferita nel corpo, nella mente e nel cervello del soggetto traumatizzato, causata da accadimenti esterni ed evocabile continuamente da eventi interiori che alterano il normale stato psico-fisico di una persona: mente e corpo subiscono insieme l’urto del trauma, reagiscono insieme al colpo e trovano insieme i modi per dimenticare, superare o elaborare l’esperienza traumatica. L’evento traumatico continua a perseguitare la memoria del traumatizzato che non riesce ad elaborare tale esperienza, rendendo così evidente il rapporto fra trauma, dimensione mentale e memoria: è infatti un’esperienza che lascia profonde tracce nei ricordi, tracce anche fisiche, che possono essere riattivate da percezioni, sensazioni e ricordi. Dalla definizione di trauma come evento mentale e fisico, storico-culturale ed in individuale, siamo quindi passati ad un breve excursus storico sulla teoria e gli studi del trauma, partendo dalle prime indagini condotte da Charcot e Janet alla Salpêtrière, passando per i fondamentali studi psicoanalitici di Freud e dei suoi epigoni, fino a raggiungere il vero e proprio sviluppo di una teoria del trauma come metodo culturalista negli studi umanistici a partire dalle denunce sociali generate negli anni Settanta dal femminismo e dai movimenti (originati soprattutto in ambito statunitense) contro la guerra del Vietnam e contro l’abuso sui minori. Siamo quindi giunti a individuare alcune delle questioni principali sollevate dalla teoria del trauma e gli elementi peculiari dell’esperienza traumatica da essa indagati, come la dissociazione, la depersonalizzazione, l’empatia, l’elaborazione del trauma e la relativa testimonianza. Dopo questo focus psicologico sul concetto e sulla teoria del

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trauma, siamo andati ad esaminare un altro aspetto teorico fondamentale per il nostro studio delle forme seriali televisive: abbiamo approfondito il rapporto fra cinema e mente grazie all’osservazione, in ordine cronologico, delle più note teorie del film, indagando come la relazione fra meccanismi filmici e processi mentali sia stata affrontata dai diversi indirizzi della filmologia. Siamo quindi partiti dalla visione del cinema delle origini, il cosiddetto cinema delle attrazioni, che catturò l’attenzione delle masse grazie allo shock percettivo che rappresentava la proiezione di immagini in movimento sul grande schermo per i primi fruitori del medium cinematografico. Questo incredibile successo di pubblico che subito ebbe il cinema è stato spiegato attraverso il ricorso alla psicologia di Hugo Münsterberg, il quale fu il primo vero teorico del cinema ad individuare un’analogia fra i meccanismi cinematografici e i processi della mente umana, rivelando una forte similitudine fra alcune proprietà linguistiche del cinema - il flashback, il flashforward e il primo piano - e i procedimenti mentali della memoria, dell’immaginazione e dell’attenzione. Dallo studio della psicologia del cinema siamo quindi passati alla teoria psicoanalitica, scoprendo in questo caso un’analogia (parziale) delle pratiche linguistiche cinematografiche anche con l’inconscio dello spettatore e con il suo mondo onirico. Grazie al cognitivismo abbiamo visto quanto sia fondamentale il ruolo della mente e degli schemi in essa presenti per l’interpretazione del film da parte dello spettatore. Questo primato della mente, della cognizione e dello sguardo è stato ridimensionato grazie alla prospettiva fenomenologica, che ha sottolineato, per l’esperienza spettatoriale, l’importanza della percezione e del corpo come luogo di conoscenza e di incontro, affermando l’inalienabilità della dimensione fisica dalla dimensione mentale, un’affermazione che peraltro vale sia per l’esperienza filmica, sia per l’esperienza traumatica. Alla dimensione mentale e fisica abbiamo

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unito quella emozionale, ritornando nuovamente ad indagare il cinema con la lente della psicologia, in particolare la psicologia delle emozioni, in riferimento all’esperienza spettatoriale. Attraverso questo studio delle emozioni abbiamo anche sottolineato il ruolo cruciale delle modellizzazioni, del coinvolgimento emozionale dello spettatore e dell’empatia. Proprio l’empatia ci ha offerto l’occasione di osservare le teorie del film più recenti, in cui lo studio dell’esperienza spettatoriale viene condotto attraverso l’interessante ausilio delle neuroscienze, grazie alle quali le opposte prospettive del cognitivismo e della fenomenologia sono state conciliate in una visione dello spettatore non più solo come mente o solo come corpo, ma come organismo allo stesso tempo cognitivo e percettivo. In questo vasto panorama filmologico abbiamo quindi inserito la teoria filmica del trauma. La trauma theory si è rivelata assai interessante per la sua multidisciplinarietà, che chiama in causa, nell’analisi del film, diversi campi di studio, dalla psicologia alla psicoanalisi, dalla sociologia alla storiografia, dalla narratologia alla drammaturgia. A partire dalla prima autrice della trauma theory cinematografica, Janet Walker, passando per altri importanti studiosi, come E. Ann Kaplan e Thomas Elsaesser, abbiamo individuato numerose tematiche filmiche dibattute, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, all’interno della teoria del trauma, dalla rappresentabilità dell’evento traumatico fino al suo rapporto con la memoria e la storia. Lo studio analitico proposto dalla trauma theory permette di superare le difficoltà che altre teorie hanno avuto nell’approcciare il rapporto fra memoria, fantasia e realtà storica, individuando nel trauma stesso ciò che riesce a tenere unite queste tre differenti spinte nei testi filmici caratterizzati dalla presenza di eventi traumatici. La teoria del trauma privilegia dunque un’analisi testuale che interpreti i film ed evidenzi il rapporto fra il testo traumatico e il contesto storico e culturale di appartenenza. Tale

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rapporto si può notare sia nelle citazioni esplicite di una pellicola al trauma, culturale o individuale, che lascia così evidenti tracce di sé, sia nelle mancanze, nei luoghi del testo dove, apparentemente, non c’è traccia di trauma: è nelle assenze, fra le pieghe del testo, infatti, che traspaiono i concetti psicologici di dislocazione e di latenza. L’obiettivo della trauma theory è proprio quello di individuare il trauma presente nel testo di fiction per far luce così su un episodio, una realtà, un contesto storico, influenzati e colpiti da un evento traumatico. La trauma theory, quindi, si pone come terreno comune fra soggettività e realtà storica nell’analisi dell’esperienza traumatica proiettata sullo schermo. La teoria del trauma attiva così la referenzialità dei testi audiovisivi, i contesti storici e culturali a cui si riferisce più o meno esplicitamente la loro rappresentazione: a causa della natura del trauma, che rompe i normali meccanismi cognitivi e memoriali, i riferimenti all’evento, rappresentato nel testo filmico, possono essere recuperati solo attraverso il ricorso all’interpretazione. Proprio attraverso l’interpretazione del testo, guidata nel nostro caso dalla trauma theory, avviene la ricostruzione del senso distrutto dall’esperienza traumatica. Il ricorso alle potenzialità interpretative della teoria del trauma ci ha quindi permesso di rivolgerci al rapporto fra la serialità televisiva e l’esperienza traumatica. Abbiamo visto infatti che le serie televisive, specchio della nostra quotidianità, si sono occupate frequentemente del trauma, una condizione umana tipicamente moderna e per questo molto interessante per la rappresentazione della complex television. Il trauma è infatti uno dei temi preferiti dalla serialità televisiva, come abbiamo potuto notare nel corso degli ultimi due capitoli della nostra tesi. Come nella favola qualsiasi tipo di danneggiamento o di mancanza per l’eroe o l’eroina rappresentano l’ostacolo da superare e dunque l’espediente narrativo per il divenire del racconto, così nella rappresentazione televisiva di

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fiction un episodio traumatico viene spesso utilizzato per intraprendere una lunga narrazione seriale, come abbiamo visto nel caso dell’incidente aereo nell’incipit di Lost, o dell’epidemia zombie di The Walking Dead. Ma il trauma non è semplicemente un espediente narrativo per iniziare un lungo racconto seriale: nella nostra analisi del fenomeno delle trauma series abbiamo preso in considerazione diversi aspetti del trauma e la loro rappresentazione nel racconto televisivo. Ad esempio, abbiamo visto l’importanza dei cosiddetti trigger traumatici, in una serie come I Soprano, per rappresentare gli attacchi di panico del protagonista, Tony, e veicolare approfondimenti sulla personalità dei protagonisti e sul loro passato traumatico. Il meccanismo seriale e quello traumatico condividono anche altri aspetti caratteristici, fra cui la ripetizione, tema portante di una serie recentissima, Westworld, e la ricerca di un’elaborazione narrativa del trauma, che può portare a finali concilianti, che risolvono la situazione traumatica iniziale, come nel caso di Lost, oppure finali non conclusivi, come quello de I Soprano, con una sospensione del racconto che non solo sconvolge la narrazione, ma confonde e sciocca profondamente anche lo spettatore. Interessante, poi, è la caratterizzazione che un passato traumatico fornisce ai protagonisti delle serie, che contribuisce ad avvicinare empaticamente allo spettatore anche i personaggi più oscuri ed ambigui, come Walter White di Breaking Bad. Abbiamo quindi applicato il concetto di referenzialità della trauma theory ad alcuni serial, quali Lost, 24 e Game of Thrones, individuando per le prime due serie un riferimento, anche abbastanza esplicito, agli attentati dell’11 settembre, mentre nel Trono di Spade abbiamo svelato la presenza di un sottotesto riferibile alla traumatica situazione contemporanea del cambiamento climatico. Le serie televisive, dislocando traumi storici, culturali e contemporanei in una rappresentazione di genere, trattano

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discorsi rilevanti per l’attualità, a volte toccando anche temi scottanti o scomodi, come gli abusi sui minori, evidenziando così quanto la serialità televisiva, a partire dagli anni Novanta, abbia intrapreso un percorso di sviluppo unitario verso una sempre più elevata complessità sia narrativa che tematica. Proprio con il tema della violenza sui minori nella serialità televisiva abbiamo aperto il nostro ampio approfondimento finale, prendendo in considerazione tre serie differenti per periodo, contesto geografico e tecnico di produzione, tematiche e genere, ma accomunate tutte dal forte impatto che la violenza sui minori ha nel loro racconto: Twin Peaks, Broadchurch e Stranger Things. La serie di David Lynch e Mark Frost è stata una delle prime a iniziare il percorso della complex television, e lo ha fatto ponendo significativamente al centro della propria narrazione il tema della violenza sui minori e dell’incesto. Una narrazione, questa, che rappresenta la morte della giovane Laura Palmer per mano del padre Leland, dislocando la colpa dell’incesto e dell’omicidio nella figura demoniaca di Bob: un demone la cui presenza può essere letta come il frutto dello stato traumatico dissociativo in cui si trova Leland, un personaggio ambiguo, schizofrenico, che ha sperimentato lui stesso la violenza di Bob in tenera età. La serie di Lynch ha contribuito straordinariamente a tutta la successiva produzione seriale televisiva: ne abbiamo potuto apprezzare l’influenza anche negli altri casi esaminati nel nostro ultimo capitolo, Broadchurch e Stranger Things. La prima, una serie britannica del 2013, prende le mosse, proprio come Twin Peaks, dal ritrovamento sulla spiaggia del cadavere di un giovane, in questo caso quello di Danny Latimer. Come Twin Peaks, anche Broadchurch è una detective story che, procedendo all’individuazione di diversi sospetti, grazie al lavoro d’indagine dei detective Alec Hardy ed Ellie Miller, si conclude con la confessione spontanea e sorprendente dell’assassino, l’insospettabile Joe Miller,

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marito della detective. Broadchurch rappresenta un particolare caso del genere whodunit perché, pur interessato alla vera identità dell’assassino, sembra voler focalizzare maggiormente la propria attenzione sulla risposta di una piccola cittadina - altra analogia con Twin Peaks - nei confronti del trauma di una giovane vita spezzata violentemente, facendo così coincidere l’indagine sulla morte di Danny con l’esplorazione narrativa delle reazioni antropologiche di una piccola comunità colpita dal trauma e dal relativo, paranoico clima di sospetto. In questo discorso sul trauma un ruolo fondamentale assume anche la stampa giornalistica e mass-mediatica, locale e nazionale, di cui Broadchurch critica fortemente l’invadenza e la morbosità. L’ultima serie che abbiamo analizzato, Stranger Things, pur non ritraendo esplicitamente violenze sui giovani protagonisti, si serve della narrazione di genere per dislocare il tema degli abusi sessuali sui minori nella creatura mostruosa che invade la cittadina di Hawkins. Anche in questo caso, l’influenza del precedente lynchiano è importante, sia per il tema della piccola città sconvolta dal trauma, sia perché il mostro della serie, come Bob per Leland, può essere interpretabile come la controparte della protagonista, la piccola Undici, ragazzina dotata di poteri paranormali, prigioniera di un laboratorio di ricerca federale da cui riesce a fuggire approfittando del caos causato dalla fuoriuscita del mostro. In Stranger Things abbiamo potuto notare non solo un sottotesto traumatico riferibile alla piaga della violenza sessuale sui minori, ma anche diversi riferimenti storici al periodo descritto, pur attraverso la lente del genere e della fantascienza, dalla serie: abbiamo così potuto rilevare come la scomparsa del piccolo Will Byers, motore iniziale della narrazione, avvenga in un’epoca storica, gli anni Ottanta, in cui il fenomeno dei missing kids era all’ordine del giorno; lo stesso discorso dell’abuso sui minori cominciò ad affacciarsi prepotentemente nell’opinione

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pubblica e nei media in quegli anni. Possiamo così vedere Stranger Things oltre la tela di citazionismo nostalgico del cinema e delle atmosfere degli anni Ottanta, forse troppo aspramente criticata439, e, avvalendoci dell’aiuto analitico della trauma theory, indagare più a fondo il testo e scoprire quanto materiale traumatico, storicamente e culturalmente interessante, possa nascondersi sotto la pellicola lucida e patinata della serie. Per questo ci siamo serviti della tematica traumatica, per vedere oltre l’aspetto commerciale e pop dei prodotti televisivi seriali, ingaggiando un dialogo fra testo, contesto ed extratesto che ci ha aiutato a riportare in superficie il trauma culturale sommerso nelle rappresentazioni della serialità televisiva: nel sottotesto delle serie tv abbiamo così potuto apprezzare quanto, nello schermo televisivo, si rispecchino l’attualità e le realtà quotidiane di noi spettatori, anche quelle più traumatiche.

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Cfr. P.M. Bocchi, L’equivoco della Storia, «Cineforum», 26 agosto 2016, www.cineforum.it

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