Umanesimo e trascendenza

June 1, 2017 | Autor: Paolo Costa | Categoria: Charles Taylor, Charles Taylor; Età secolare, Secolarizzazione
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PAOLO COSTA

Umanesimo e trascendenza La dimensione religiosa nel pensiero di Charles Taylor

Istituto per le Scienze Religiose Trento 2000

a Emilia

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Indice

Introduzione § 1. Una modernità cattolica § 2. Identità morale, trascendenza di sé e trascendenza della vita § 3. Modernità e secolarizzazione § 4. Conclusione: un umanesimo cristiano

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Paolo Costa Umanesimo e trascendenza La dimensione religiosa nel pensiero di Charles Taylor

Introduzione Nella vasta e sfaccettata produzione teorica di Charles Taylor alle tematiche specificamente religiose viene riservato uno spazio assai ristretto. Ciò è per molti aspetti sorprendente, tenuto conto del ruolo centrale che la fede cattolica ha avuto e ha nella vicenda biografica del pensatore canadese1. Tale ritegno o, se vogliamo, reticenza a tematizzare esplicitamente questa dimensione del suo pensiero è in genere giustificato da Taylor nei termini di un vincolo di tipo argomentativo: come filosofo il suo obiettivo primario è infatti di convincere anche chi non condivide i suoi assunti di base che un certo modo di interpretare la situazione spirituale del nostro tempo è il più adeguato per venire a capo dei suoi dilemmi2. Benché sia verosimile che un simile riserbo sia stato motivato in passato almeno in parte anche dal clima radicalmente

antireligioso

che

domina

il

mondo

accademico

angloamericano3, è indubbio che in Taylor l’interesse per l’evoluzione storica e l’articolazione interna dell’identità moderna soddisfi e risponda anche a un’esigenza di tipo schiettamente apologetico: comprendere, cioè, in che misura gli ideali umanistici incarnati nella nostra cultura possano sopravvivere anche in assenza di un ancoramento di tipo religioso e più

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Charles Taylor è nato in Québec nel 1931 da padre anglofono e madre francofona. Ha ricevuto un’educazione cattolica in una provincia del Canada in cui l’istruzione di ogni grado era demandata pressoché in toto alle istituzioni ecclesiastiche e che, quantomeno fino alla Révolution tranquille, era rinomata per la devozione della sua gente. Il forte legame che unisce Taylor alla sua terra natia ha tra le sue componenti essenziali anche questa salda identità religiosa. 2 Cfr. Taylor 1989f: 29; Taylor 1999b: 13; Taylor 2000b.

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specificamente teistico. L’eclettismo, il relativismo e spesso la vera e propria confusione morale (o come Taylor ama definirla “inarticulacy”) che contrassegnano l’esistenza di gran parte degli individui contemporanei rappresentano per il filosofo di Montréal il punto di partenza per una riflessione tutt’altro che rassegnata sulle prospettive future della nostra civiltà. Ovviamente gli interrogativi suscitati dallo squilibrio esistente tra le convinzioni personali di Taylor in materia religiosa e il ruolo da esse svolto nella sua proposta teorica non sono e non possono essere solo di tipo biografico. A ben vedere, infatti, il nucleo religioso non tematizzato presente nell’opera del filosofo canadese ha un legame non estrinseco con alcuni degli snodi problematici più interessanti del suo pensiero, e una sua enucleazione potrebbe certamente favorirne una comprensione più adeguata. In particolare vi è un nesso diretto tra le convinzioni religiose di Taylor e la concezione antropologica schiettamente antinaturalistica e antiriduzionistica da lui difesa sin dagli esordi della sua carriera intellettuale, tra esse e la sua controversa ma reiterata professione di realismo morale (e, più in generale, la sua interpretazione in chiave antideontologica della dimensione etica) e, infine, tra esse e la sua aspirazione a un superamento della crisi spirituale della civiltà moderna, a una ricomposizione, ancorché non salvifica, dei suoi “orizzonti frammentati”.4 Se dunque l’identificazione e la chiarificazione dei presupposti religiosi della riflessione di Taylor possono certamente contribuire a una migliore comprensione del suo pensiero, va però preliminarmente osservato che un simile obiettivo è tutt’altro che a portata di mano. Non è, infatti, per nulla semplice ricostruire un ritratto dettagliato e coerente della concezione religiosa di Taylor a partire dai soli accenni e riferimenti episodici che si 3

In proposito cfr. Shea 1999: 39 sgg., Marsden 1999: 87 sgg. e Taylor 1999b: 118 sgg. Cfr. anche Taylor 1991d: 242. 4 “Fractured horizons”; cfr. Taylor 1989a: cap. XVII.

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trovano disseminati nei suoi scritti. Un aiuto a tal fine è senza dubbio fornito dai lavori più recenti di Taylor e in particolare dal saggio A Catholic Modernity?. Apparso in un volume edito nell’autunno del 1999, questo scritto riproduce la lecture tenuta da Taylor nel 1996 in occasione della consegna del premio mariano presso l’università di Daytona. In questa occasione, rispondendo alla sollecitazione dell’istituzione erogatrice che invita esplicitamente gli autori premiati a “spiegare in che modo la loro fede religiosa ha influenzato la loro ricerca e in che modo la loro ricerca ha influenzato la loro fede religiosa” (Taylor 1999b: 13), ha proposto una riflessione del tutto inedita e assai esplicita sul nesso esistente tra la sua ricerca e le sue convinzioni religiose. Questo saggio offre dunque un eccellente punto di partenza per una disamina di tale aspetto “nascosto” della riflessione tayloriana. Nel dettaglio l’indagine procederà così: il primo paragrafo sarà interamente dedicato a una ricostruzione sistematica delle tesi avanzate da Taylor in questo scritto, nell’intento di portare alla luce le questioni di maggiore interesse teorico. I paragrafi secondo e terzo si incentreranno invece, rispettivamente, sulla visione antropologica di Taylor e la duplice concezione della trascendenza che essa presuppone – trascendimento di sé (self-transcendence) e trascendimento della vita (life-transcendence) – e sull’interpretazione tayloriana dell’identità moderna, con particolare riferimento al fenomeno della secolarizzazione e alla diagnosi della crisi “spirituale” in cui secondo Taylor verserebbero le società contemporanee. Nel quarto e conclusivo paragrafo si cercherà infine di ricavare dal quadro interpretativo precedentemente delineato alcune ipotesi interpretative a carattere generale, con particolare riferimento al tipo di pluralismo non relativistico difeso da Taylor.

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§ 1. Una modernità cattolica All’inizio di A Catholic Modernity? è Taylor stesso, dopo aver ringraziato per l’occasione offertagli di dibattere delle questioni che sono state al centro dei suoi interessi per decenni, ad ammettere che “esse si trovano riflesse nei miei lavori, ma non nella forma in cui le discuto in questa circostanza, e ciò per via della natura del discorso filosofico [...] che ha il dovere di cercare di persuadere i pensatori seri di qualsiasi orientamento metafisico o teologico” (Taylor 1999b: 13). In effetti, come detto, in questo scritto Taylor è esplicito come mai in precedenza sui suoi intimi convincimenti e interessi religiosi e incline persino, proprio in apertura di saggio, a suggerire con le dovute cautele la propria personale interpretazione del significato profondo della fede cristiana. Nelle sue parole essa viene a coincidere di fatto con una professione di pluralismo: la sua prima critica al cattolicesimo storico è infatti di “aver mancato di cattolicità perché in difetto di totalità (wholeness)” (ivi: 14). A suo avviso, infatti, la promessa di redenzione contenuta nel messaggio evangelico, e mediata dall’incarnazione divina, chiede di essere pensata anzitutto nei termini di una conciliazione in un’unità (oneness) attraverso la complementarità - il combinarsi di differenze - più che nei termini di una pura e semplice identità. L’unità da raggiungere è per Taylor un’unità fondata sulla differenza e ciò per un triplice ordine di motivi: 1) perché l’umanità stessa è essenzialmente e costitutivamente diversa e plurale; 2) perché a questa si somma una diversità originaria tra uomini e Dio; e 3), soprattutto, perché lo stesso Dio cristiano, concepito come trinitario, porta in sé la differenza come un elemento primario e costitutivo5. Il principio autenticamente “cattolico”, ossia 5

Sul nesso tra visione trinitaria di Dio e diversità/pluralità Taylor ritorna in conclusione di libro rispondendo ad alcune sollecitazioni di Jean Bethke Elshtain. Qui Taylor sostiene candidamente che “quando si arriva a comprendere che ciò che vi è di importante nella vita umana è ciò che transita tra di noi, allora ci si approssima alla Trinità. Non è sorprendente che la pienezza della vita umana consista in ciò che transita tra gli uomini, se la pienezza

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universale, che Taylor ricava da questa dichiarazione preliminare di pluralismo è: “nessuna estensione della fede senza un aumento della varietà delle devozioni e delle spiritualità e delle forme liturgiche e delle risposte all’incarnazione” (ivi: 15). Secondo lui, infatti, il mancato rispetto di questo principio non solo ha indotto in passato la cristianità a compiere degli errori tragici di cui essa sconta ancora oggi le conseguenze, ma ai nostri giorni rischia persino di compromettere il suo stesso rapporto con la cultura moderna. Quest’ultima,

in

particolare

se

osservata

attraverso

il

prisma

dell’umanesimo secolare, manifesta agli occhi di Taylor un carattere ambiguo e ambivalente. In essa, come si legge in un passo, “si ritrovano, infatti, mescolati l’uno con l’altro, sia autentici sviluppi del vangelo, di un modo di vita coerente con l’incarnazione, sia una chiusura nei confronti di Dio, negatrice del vangelo” (ivi: 16). Ed è per questo che il compito di confrontarsi senza remore con la modernità è particolarmente arduo per i cristiani e richiede da parte loro un’acuta capacità di discriminare e di comprendere le ragioni dell’altro. Per esemplificare le difficoltà insite in un simile tentativo Taylor si serve in questo saggio della figura di Matteo Ricci, il missionario che nel secolo della Riforma si trovò di fronte all’arduo compito di adattare la fede cristiana a una cultura e una società non solo antica di secoli, ma per di più maturata nella completa ignoranza della rivelazione giudaico-cristiana, come la Cina del tempo. Ma a ben vedere, secondo Taylor, il compito dei cristiani contemporanei è persino più ostico di quello toccato in sorte al gesuita marchigiano, perché, se da un lato la civiltà con cui essi si confrontano non è una realtà a loro estranea, per altri versi essa si percepisce non solo come non cristiana, ma in molti suoi settori come apertamente anticristiana, come

della vita divina transita tra le persone e noi siamo fatti a immagine di Dio”. Cfr. Taylor 1999b: 110 sgg., qui 114; si veda anche Taylor 1998b: 215.

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fondata cioè sull’esplicito ripudio di un passato percepito come ingannevole e irrimediabilmente superato. Detto ciò, per un cristiano la presa d’atto che una civiltà del genere, a tal punto animata da sentimenti antireligiosi, rappresenta, per esempio nella diffusione di una cultura dei diritti umani universali, “un grande passo avanti nella penetrazione pratica del vangelo nella vita umana” (ivi: 18) costituisce secondo Taylor un’esperienza al contempo “umiliante e liberante”. Umiliante, perché mette a nudo un errore fatale del cristianesimo e che egli descrive come il “tentativo di coniugare la fede con una determinata forma di cultura e un certo tipo di società” (ivi: 17). (Il che equivale, in definitiva, al congedo dall’ideale della “Cristianità” (Christendom) e al riconoscimento che “non potrà mai esservi una fusione completa della fede e di una qualche particolare società e [che] il tentativo di conseguirla è pericoloso per la fede”)6. Mentre l’aspetto liberante di questo fenomeno storico consiste nella liberazione completa del potenziale spirituale insito nel messaggio evangelico.7 La conquista principale delle società liberali, ovvero l’affrancamento della sfera pubblica da ogni filosofia o visione del mondo che eserciti una funzione egemonica, ha un potere liberante anche per il cristianesimo che può riscoprire così la sua vocazione originaria che è di “emergere e di imporsi senza il peso delle armi” (ivi: 18).8 Perciò, come precisa Taylor, anche dai cristiani dovrebbe salire “un voto di ringraziamento” a Voltaire. Ma tutto ciò significa forse che in una civiltà pienamente secolarizzata la religione cessa di giocare alcun ruolo e la comunità dei fedeli è irrimediabilmente condannata al silenzio? Assolutamente no. Secondo 6

Ibid. Cfr. anche Taylor 1990a: 100. È interessante osservare come è a un ragionamento simile, ossia alla netta distinzione tra verità rivelata (dettame dottrinale) e contingente situazione storico-sociale, che fanno ricorso all’interno del mondo islamico gli intellettuali progressisti e i difensori della causa femminile. Cfr., a titolo di esempio, l’intervento di Azizah Y. Al-Hibri in Moller Okin 1999. 7 Su questi temi cfr., più avanti, il § 3. 8 Cfr. Taylor 1989f: 23.

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Taylor il fenomeno storico della secolarizzazione va letto in due sensi:9 da un lato come la progressiva affermazione di un modello di stato laico, rispettoso di ogni confessione religiosa, così come di ogni opinione non lesiva della dignità e libertà altrui, dall’altro come l’imporsi di una nuova cultura morale che rende più difficile, ma non impossibile, la fede in un Dio trascendente.10 È compito dei cristiani, dunque, di non cedere alla tentazione di chiudersi in un silenzio superbo e ostile e di affinare piuttosto la propria capacità di comprensione storica per “capire che cosa significa essere un cristiano oggi” (ivi: 15), in una civiltà in parte erede diretta del messaggio evangelico e in parte apertamente irreligiosa. Ma dove può inserire il suo cuneo critico un cristiano in una società a tal punto secolarizzata? Qui il ragionamento di Taylor si fa ancora più significativo e, per molti aspetti, più ambizioso. Secondo il filosofo canadese è infatti rispetto al tema della negazione della trascendenza che i cristiani possono instaurare un dialogo proficuo con i sostenitori di un umanesimo esclusivo e secolare. Nella negazione di ogni forma di trascendenza, così tipica della cultura moderna che subodora in ogni aspirazione oltremondana una possibile fuga dai doveri e dagli impegni morali nei confronti di questo mondo, Taylor intravede infatti il rischio, insito in ogni umanesimo esclusivo, di dare luogo contro le proprie intenzioni a un movimento di negazione immanente della vita. E ciò, sia per un classico fenomeno di eteronomia dei fini, di capovolgimento, cioè, delle buone intenzioni in esiti funesti, sia per la germinazione all’interno della stessa cultura moderna di una rivolta immanente contro la riduzione dell’esistenza umana ai fini e agli scopi della vita comune (ordinary life), che viene percepita in quest’ottica come degradante, riduttiva e soffocante (qui il riferimento è ovviamente a Nietzsche e a tutte le rivolte antimoderne Sull’interpretazione tayloriana della secolarizzazione avremo modo di tornare più estesamente nel corso del § 3. 10 Cfr. Taylor 1999b: 25. 9

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sorte nel seno stesso della civiltà moderna).11 Ma su ciò si avrà modo di tornare con più agio nelle pagine seguenti. Nello specifico, rispetto allo spinoso e controverso tema della trascendenza12 Taylor distingue tre diversi sensi in cui può essere compresa questa radicata aspirazione umana. Il primo di essi si riassume nell’idea che “la vita non è tutto”, che essa non esaurisca cioè tutto quanto può essere detto e pensato sulle nostre vite.13 E ciò non solo nel senso della postulazione dell’esistenza di qualcosa di simile a una “vita” dopo la morte, ma in virtù della convinzione che la pienezza della vita non possa essere l’unico metro per giudicare l’esistenza, e che nella sofferenza e nella morte non si nasconda solo negazione, ma “il più profondo significato umano, proprio perché esse hanno più che un significato umano” (ivi: 109).14 La seconda consiste invece in una visione più estesa della ‘vita’ che consenta di dare un volto anche a ciò che definiamo “la vita oltre la vita” (e qui il riferimento principale è all’invocazione neotestamentaria a una “nuova vita”, “una vita eterna”, “una vita piena”). La terza, infine, pone piuttosto l’accento su un’interpretazione del trascendente come condizione per un radicale mutamento d’identità, per un decentramento del sé rispetto a Dio, ovvero rispetto a qualcosa che va oltre se stessi e che si impone come nucleo autentico delle proprie esistenze. Un simile decentramento rispetto alla volontà divina, secondo Taylor, non comporta necessariamente la negazione del valore di “questa” vita posto che la volontà di Dio sia che l’uomo fiorisca e prosperi. Questa accezione di trascendenza che consente

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In proposito cfr. Habermas 1985: capp. IV e V. Che la questione della ‘trascendenza’ sia come tale spinosa e controversa è apertamente riconosciuto da Taylor nella sua replica finale a Rosemary Luling Haughton. Cfr. Taylor 1999b: 105-6, 109-10. 13 Cfr. Taylor 1999b: 20. 14 In questa tesi, rintracciabile anche in altri scritti di Taylor, si può riconoscere il carattere in ultima istanza non tragico della riflessione tayloriana. Cfr. Taylor 1989a: 521 (trad. it. 632). 12

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l’affermazione della vita tramite un decentramento del sé è definita da Taylor la “posizione dell’agape/karuna” (ivi: 22).15 Questo è un punto di particolare importanza. In Sources of the Self Taylor aveva interpretato l’emergere con l’età moderna di una cultura morale particolarmente attenta alle sofferenze individuali e ai dettami di una benevolenza universale come il prodotto di una generale affermazione della vita comune. Questa cultura, benché tradisse chiare origini cristiane e avesse trovato nella Riforma, e in particolare nei movimenti puritani, il suo terreno di cultura ideale, in un secondo momento aveva rivolto i suoi strali polemici proprio contro ogni genere di aspirazione all’oltrepassamento dell’esistenza terrena che giustificasse delle deroghe all’obbligo di alleviare le sofferenze presenti in questo mondo e di estendere universalmente la benevolenza e il benessere tra gli uomini. È il compimento di questa vera e propria rivoluzione nell’immaginario morale e sociale degli individui che spiega secondo Taylor il clima “postrivoluzionario” in cui vivremmo ai nostri giorni e che rende così arduo e di per sé sospettoso ogni discorso che faccia riferimento a un trascendente, a qualcosa che vada cioè oltre la vita e agli obblighi che tutti noi sentiamo verso di essa.16 Appurato ciò, e riconosciuto il valore e il significato intrinseci di questa trasformazione dei quadri di riferimento morali degli individui moderni, la convinzione di Taylor è che sia possibile, dall’interno della modernità (senza cioè rifiutarne le conquiste) e accettando il carattere ineluttabilmente “prospettico” del proprio punto di vista (senza aspirare cioè a un’impossibile neutralità ed esaustività), elaborare “un ritratto più sensato della vita che tutti noi viviamo” che ci consenta di venire a capo delle difficoltà e dei paradossi che un umanesimo esclusivo incontra sulla sua strada.17 L’idea 15

Karuna è il termine che i buddisti utilizzano per indicare la compassione. Cfr. Taylor 1999b: 23-24. 17 Cfr. ivi: 26-27, 30. Qui si rende chiaramente riconoscibile il paradigma del “resoconto migliore” (Best Account Principle) che è da molti anni al centro della riflessione tayloriana. Cfr. Taylor 1978a e Taylor 1989a: 58 sgg. (trad. it. 85 sgg.). 16

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generale è di mostrare “in che modo la negazione della trascendenza può mettere in pericolo le conquiste più preziose della modernità” (ivi: 30). In questo spirito Taylor interpreta la sfida nichilista e controilluminista alla modernità come una rivolta immanente contro la vita, una rivolta cioè contro l’incapacità della vita di giustificarsi da sé, di trovare un senso al proprio inesausto streben. Alla luce di ciò, il filosofo canadese interpreta la fascinazione di Nietzsche, e soprattutto dei neonietzschiani (Bataille, Foucault, Derrida), per il dolore e la violenza come l’espressione di un bisogno soffocato di andare oltre la vita, come “in ultima istanza una manifestazione della nostra natura di homo religiosus” (ivi: 28).18 L’antiumanesimo che matura nel ventre stesso dell’umanesimo secolare non è dunque per Taylor un fenomeno casuale, e la lezione che egli ritiene si debba trarre da ciò “è che il solo modo per sfuggire pienamente alla deriva verso la violenza si nasconde da qualche parte nella svolta verso la trascendenza” (ivi: 28-29; cfr. anche ivi: 33). Nel dettaglio viene da lui così descritta l’impasse in cui precipita un umanesimo secolare allorché è chiamato a confrontarsi con l’inadeguatezza delle proprie fonti motivazionali. Taylor muove dall’assunto che “la nostra epoca esige oggigiorno dalle persone dei livelli di solidarietà e di benevolenza mai richiesti in precedenza” (ivi: 31). Questi doveri non ammettono più limiti spaziali e temporali e pongono ciascuno di noi di fronte a un compito improbo.19 Per fare fronte a esso gli individui sono indotti o (1) a radicalizzare il proprio senso d’integrità, esponendolo però in tal modo (proprio per il suo carattere fortemente ideale) al rischio speculare dell’ipocrisia o del rigorismo inflessibile (il pericolo concreto, qui, è di condannarsi a un’oscillazione perpetua tra la tartuferia, o peggio il cinismo, e uno spirito missionario incapace di accettare alcun tipo di mediazione o 18

Cfr. anche Taylor 1996b e Taylor 2000a. Su questo tema del sovraccarico morale nell’epoca della globalizzazione si veda anche Tomlinson 1999: cap. VI. 19

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compromesso); oppure (2) a ricondurre simili obblighi incondizionati alla percezione del valore e della dignità degli esseri umani: in sostanza alle potenzialità degli individui. Ma così facendo essi si espongono costantemente al rischio di rimanere delusi dalle imperfezioni e dai limiti degli esseri umani in carne e ossa (ben diversi dalle loro immagini esemplari!). In questo modo la filantropia corre continuamente il pericolo di capovolgersi in dispotismo, e il risentimento può spingere il benefattore a diventare, magari con le migliori intenzioni, il carnefice del proprio prossimo (qui il riferimento principale del discorso tayloriano è ovviamente Dostoevskij).20 Oppure, infine, (3) gli individui cadono vittima di una vera e propria ossessione per la giustizia che ha per esito la trasformazione dell’universo in un campo di battaglia manicheisticamente diviso tra buoni e cattivi, in cui su questi ultimi (responsabili di ingiustizie che appaiono ancora più smisurate alla luce di un’aspirazione alla giustizia che non conosce più confini di sorta) viene riversata una rabbia e un furore ciechi.21 Rappresentato in questi termini, il mondo del moderno umanesimo secolare pare attraversato da tensioni non risolte e concreti rischi di degenerazione. La domanda cruciale che si presenta allora a chi non considera le conquiste della cultura morale moderna come qualcosa di cui ci si possa e ci si debba sbarazzare con noncuranza è “come avere il più alto grado di azioni filantropiche con la minima speranza nell’umanità” (ivi: 35), visto che quest’ultima può andare incontro alle delusioni più cocenti e pericolose. La risposta di Taylor, come prevedibile, va nella direzione di un umanesimo aperto e ancorato all’idea di un amore incondizionato che ha il suo fondamento ultimo in un Dio benevolente e trascendente, di cui noi

“L’ironia tragica è che quanto più è elevato il senso del potenziale, tanto più penosamente gli individui in carne e ossa si dimostrano non all’altezza e tanto più radicale è il mutamento di atteggiamento provocato dalla delusione” (Taylor 1999b: 19). Cfr. anche Taylor 1989a: 396 sgg., 448 sgg. (trad. it. 486 sgg., 548 sgg.). 21 Cfr. anche Taylor 1989a: 516-517 (trad. it. 627). 20

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saremmo fatti a immagine e somiglianza anche nella diversità e complementarità che ci caratterizza. Questo è l’auspicio personale di Taylor. Ma egli è pienamente consapevole “che il fatto di avere le credenze appropriate non è una soluzione” ai dilemmi della nostra epoca (ibid.). L’obiettivo realistico della sua ricerca è solo di proporre una rappresentazione più adeguata, più “sensata”, della situazione in cui tutti ci troviamo, nell’auspicio che gli altri la trovino illuminante. Nulla di più. Né un tentativo di dimostrare ab ovo la giustezza dei dettami cristiani, né tantomeno di provare l’esistenza di Dio. Per questo Taylor affronta il suo compito (arduo) di pensatore cristiano proponendo un viaggio nella modernità à la Matteo Ricci, e invitando tutti ad acquisire un po’ di distanza, se non geografica, quantomeno storica nei confronti del proprio tempo. Da questo viaggio alla scoperta delle fonti morali della cultura moderna emerge l’immagine di un panorama spirituale scisso in più fronti, “nessuno dei quali può essere respinto come semplicemente privo di significato” (ivi: 29). Da un lato vi sono gli umanisti secolari, sostenitori accesi di un’etica della benevolenza ma chiusi a ogni forma di trascendenza; dall’altro vi sono i neonietzschiani, antiumanisti secolari, scettici nei confronti delle speranze di rinnovamento morale e di trasformazione sociale incarnate dai primi e violentemente critici nei confronti dell’appiattimento indotto dalla cultura borghese moderna; da ultimo, poi, vi sono i difensori di un’apertura alla trascendenza, che non sono per Taylor un mero, e incomprensibile, retaggio del passato, bensì un’opzione tuttora valida alla crisi del moderno. Questi ultimi, a loro volta, si dividono tra fieri e irriducibili oppositori della modernità e suoi ammiratori con riserva (tra questi ultimi, ovviamente, si schiera il filosofo canadese). In questo panorama irriducibilmente plurale la proposta di Taylor non è di andare alla ricerca di un’unità che azzeri tutte le differenze, ma di

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realizzare una ricomposizione/riconciliazione delle fratture della modernità che la preservi dai rischi di una deriva o addirittura di un radicale capovolgimento degli ideali umanistici sorti nel suo grembo. Le alterne vicende di un secolo, il

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che ha conosciuto le vette delle battaglie per i

diritti umani universali e gli abissi dei totalitarismi, rendono le preoccupazioni di Taylor legittime e comprensibili. Ma per intendere appieno il senso generale della proposta da lui abbozzata in questo saggio è indispensabile rileggere tali considerazioni alla luce dell’insieme della sua opera. Nei paragrafi successivi si tratterà quindi di capire meglio su che cosa si fondi la convinzione tayloriana di avere proposto un ritratto più sensato della condizione moderna ricostruendo in maniera dettagliata la concezione dell’uomo che sta alla base dell’idea di trascendenza sviluppata da Taylor in questo saggio e esaminando in maniera accurata la sua interpretazione della modernità. Da ultimo, si potrà tornare sulla rivendicazione tayloriana del pluralismo e rileggerla alla luce delle nuove acquisizioni. A quel punto dovrebbe essere possibile apprezzare l’ispirazione profonda e anche i punti controversi della visione religiosa del pensatore canadese.

§ 2. Identità morale, trascendenza di sé e trascendenza della vita Come Taylor stesso ha avuto modo in più occasioni di ribadire il nucleo teorico della sua riflessione consiste in una specifica e articolata concezione dell’uomo: in una parola in un’antropologia filosofica.22 Nell’intento di sottrarsi ai dilemmi metodologici e concettuali in cui si è arenata l’antropologia filosofica novecentesca, la ricerca tayloriana si muove consapevolmente a cavallo delle due dimensioni del “fondamentale” e dello “storico”. Essa punta, cioè, a enucleare attraverso una strategia argomentativa ascendente di tipo fenomenologico-trascendentale delle costanti antropologiche universali, delle ipotetiche condizioni di senso e

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Cfr. Taylor 1985a: 1; cfr. anche Dunn 1990: 180-181.

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intelligibilità dell’esperienza che l’agente fa di se stesso23. Senza alcun intento fondativo, senza l’aspirazione cioè a fuoriuscire una volta per tutte dalla circolarità ermeneutica in cui si muove l’esperienza di sé dell’individuo per proporre un qualche genere di ragionamento apoditticodeduttivo, Taylor si serve dei risultati di questa argomentazione trascendentale innanzitutto in chiave critica - per smontare cioè i pregiudizi intellettualistici e coscienzialistici dell’epistemologia moderna - e in seconda battuta come punto di partenza per un’indagine storica sui contorni dell’identità moderna. L’essere umano per Taylor è infatti essenzialmente un agente, e più in particolare un essere culturalmente e storicamente radicato, dotato cioè di un’identità particolare che dev’essere intesa come una specifica modalità di orientamento in uno spazio morale. Trasponendo l’analisi della spazialità dell’être-au-mond proposta da Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione direttamente in ambito etico, Taylor considera l’esistenza di una qualche forma di orientamento in uno spazio morale - cioè in uno spazio 23

Uno degli aspetti più controversi, e da cui sono dipesi molti fraintendimenti, della concezione tayloriana dell’argomentazione trascendentale concerne proprio lo statuto teorico delle conclusioni a cui essa approda. Taylor stesso ha avuto modo in più occasioni di precisare che esse non possono essere ritenute nulla di più che enunciati fallibili che aspirano a essere riconosciuti come necessari, e che sono tanto più plausibili quanto più si mantengono a un livello di astrazione basso. Viceversa, quanto più l’argomentazione progredisce (o meglio retrocede, visto che si tratta di un’argomentazione “ascendente”) essa finisce per scontrarsi con i limiti stessi del linguaggio, che in questo ambito dev’essere necessariamente “immaginativo” giacché è chiamato a forzare i confini naturali della nostra esperienza. Un altro aspetto estremamente problematico della concezione tayloriana delle condizioni di senso dell’esperienza di sé dell’agente concerne il loro statuto per così dire “normativo”. È legittimo chiedersi, infatti, in che senso la descrizione tayloriana delle caratteristiche più generali dell’agente umano “vincoli” l’agente, e come possa conciliarsi tale ritratto con la straordinaria e talora spaventosa molteplicità di comportamenti e di scelte esistenziali che gli esseri umani in carne e ossa manifestano. Per di più, se esse sono a tal punto “formali” da poter essere conciliate con pressoché ogni scelta di vita, qual è il loro valore esplicativo e come possono servire per operare una distinzione normativa tra ciò che è umano, ciò che è ai limiti dell’umano e ciò che ha definitivamente cessato di essere umano? Ovviamente per risolvere una volta per tutte questi dubbi bisognerebbe capire pienamente qual è la differenza che passa tra delle condizioni trascendentali di possibilità e delle condizioni trascendentali di senso o intelligibilità. Su questi temi cfr. Taylor 1978a; Taylor 1986c; Taylor 1988g; Löw-Beer 1991; Guignon 1990; Rosa 1998: 72 sgg.; Costa 1996.

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strutturato secondo delle distinzioni qualitative, dei “beni” dotati di valore intrinseco - una condizione minima del buon “funzionamento” dello human being. In questo senso Taylor definisce l’uomo un “valutatore forte” (strong evaluator), e non solo perché esso esercita costantemente un’attività valutativa e riflessiva nei confronti dei propri desideri o “valutazioni deboli”24, ma in quanto esso si muove necessariamente in un universo articolato secondo distinzioni di valore dotate di uno statuto di realtà non meramente emotivo o proiettivo. Nei quadri di riferimento morale e culturale che ogni individuo di qualsiasi civiltà e cultura ha alle spalle sono infatti compresi dei beni, dei valori di riferimento, ossia una variante di ontologia morale, di articolazione quantomeno implicita dello spazio etico, che è la condizione minima perché possa esistere qualcosa di simile a un’articolazione riflessiva delle valutazioni e deliberazioni morali (il socratico logon didonai).25 L’uomo, nella prospettiva di Taylor, non è un valutatore forte in quanto sartrianamente “crea” il proprio universo morale sovrapponendolo a un mondo che come tale è assiologicamente neutro, bensì è un essere costitutivamente morale perché non può esistere che in uno spazio caratterizzato da distinzioni qualitative dotate di valore intrinseco. I quadri di riferimento morale che consentono all’agente di orientarsi e di deliberare sono per definizione metaindividuali. In questi moral frameworks gli uomini si inseriscono non come dei selves già precostituiti a cui viene chiesto solo di scegliere i propri valori di riferimento, bensì essi si definiscono come tali proprio attraverso l’accesso a questi universi di significato. In questo senso l’uomo è un self-defining being, non preesiste cioè a questa dialettica morale in una natura atemporale e identica a se stessa (l’uomo non è pertanto un 24

Questo era il senso originario della distinzione tra desideri di primo e di secondo grado introdotta da Harry Frankfurt nel suo articolo del 1971 (cfr. Frankfurt 1971: 6 sgg.) e da cui, per esplicita ammissione dello stesso Taylor, deriva la sua distinzione tra strong e weak evaluations. Cfr. Taylor 1977b: 15 sgg. 25 Su questi temi cfr. Taylor 1989a: cap. I e Rosa 1998: 98-126.

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puntiforme e disincarnato principio di scelta), ma viene a costituirsi come “persona” (una delle possibili traduzioni italiane del termine inglese self) attraverso i diversi gradi di articolazione in cui si struttura la sua esperienza di agente. Questa è l’intuizione fondamentale di quella che Taylor definisce la tradizione “espressivistica” e che ha in Herder il suo progenitore storico. Essa rientra in una costellazione concettuale che è stata rielaborata e precisata soprattutto dall’ermeneutica novecentesca. Secondo questa prospettiva l’uomo, più che un’entità fissa, atemporale, è un essere incarnato (embodied agency) che porta a espressione/manifestazione la propria identità in un processo circolare di articolazione che ha come fulcro le capacità linguistico-simboliche dell’uomo e come componenti essenziali la cultura, la tradizione, le pratiche sociali e le istituzioni (in una parola l’hegeliano “spirito oggettivo”), insieme a un universo emozionale tutt’altro che irrazionale in cui si incarnano al livello più basilare quelle distinzioni qualitative che definiscono lo spazio morale umano, l’apertura dell’uomo al mondo. Sono proprio le emozioni, d’altra parte, a esemplificare più di ogni altro aspetto dell’esistenza umana quello “stile di parzialità” che è la caratteristica primaria del modo di relazionarsi dell’uomo al proprio mondo26. L’uomo è quell’essere a cui le cose “importano”, che si presentano fin dall’origine come cariche di senso e significato27. L’uomo vive fin dall’inizio in un universo articolato in significances e imports, e non a caso “articolazione” è la vera parola chiave dell’antropologia filosofica tayloriana. Se è infatti in un lavoro di articolazione che in ultima istanza consiste l’attività della coscienza umana,28 forme di articolazione del senso sono da un punto di vista più generale anche le culture umane, così come le pratiche sociali (in cui trova espressione una forma di sapere quasi fisico, 26

Cfr. Taylor 1970: 72; Taylor 1977a: 59 sgg. Taylor 1985: 104. 28 Cfr. Taylor 1982: 41 sgg. 27

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“embodied” come dice Taylor),29 le narrazioni, i riti, le opere d’arte. E tutte queste modalità di articolazione delle differenze significative contribuiscono a quel processo circolare di definizione di sé in cui l’uomo in ultima istanza consiste. In questo circolo interpretativo-articolativo si deve muovere ovviamente anche l’interprete, e più in particolare chiunque sia interessato a identificare “ciò che vi è di perenne” nelle concrete manifestazioni storiche dell’identità umana.30 Qualsiasi forma di accesso al “fondamentale” è sempre e comunque mediata dallo “storico”, dalle concrete e parziali forme di definizione del senso di sé degli individui realmente esistenti.31 Pertanto la ricerca antropologica di Taylor sfocia senza soluzione di continuità, ed è anzi costantemente intrecciata a un’interpretazione storico-genealogica dei caratteri costitutivi dell’identità moderna, di quel sé che idealtipicamente Taylor attribuisce a tutti i membri delle società occidentali, eredi della cultura classica, cristiana e della rivoluzione scientifica e spirituale moderna.32 Non a caso lo scritto più famoso di Taylor, Sources of the Self, è un’opera allo stesso tempo di filosofia morale, di antropologia filosofica e di interpretazione storica. In essa Taylor cerca di chiarire in che senso gli uomini non possono prescindere da un’identità morale specifica e come essa consista in ultima istanza in una modalità di orientamento a dei beni che hanno una loro specifica consistenza ontologica. Questa identità morale si trova per lo più negli individui in una condizione di non “articolatezza” (inarticulacy), è per così dire un’identità di sfondo, implicita. Si trova cioè incarnata primariamente in reazioni viscerali, sentimenti, pratiche, consuetudini, disposizioni, in una forma di sapere incarnato che dà forma (non riflessiva) a una particolare ontologia morale. A ben vedere è proprio la particolare, complessa, stratificata e spesso riposta identità morale, e quindi 29

Cfr. Taylor 1992e: 173 sgg. In proposito cfr. Taylor 1971a. 31 Cfr. Taylor 1994c: 208 sgg.; e anche Taylor 1998c: 37 sgg. 30

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ontologia morale, degli individui moderni che Taylor ha cercato di portare alla luce nel suo opus magnum. Per raggiungere questo scopo egli ha dovuto articolare

un

resoconto

(account),

una

spiegazione/ricostruzione

dell’universo morale dei moderni che non può avanzare alcuna pretesa di “oggettività”. Esso è un resoconto che nasce parziale, situato, e che nondimeno aspira a essere convincente, a dimostrarsi una spiegazione più persuasiva della condizione degli individui moderni. Scegliendo di parlare di ontologie morali implicite Taylor avanza la tesi, impegnativa, che i beni a cui gli individui si orientano nelle loro esistenze non rappresentino affatto delle realtà illusorie, delle mere proiezioni emotive, creazioni “umane, troppo umane” in un mondo di fatti bruti, bensì realtà in senso pieno. Dal punto di vista di Taylor, infatti, i beni (nella loro duplice variante di beni della vita o di beni costitutivi) sono senza dubbio delle realtà che esistono solo in quanto esistono degli uomini (e in questo senso sono human-related), ma una volta posta l’esistenza dell’uomo, essi sono da intendersi come realtà allo stesso titolo dei fatti empirici e, quantomeno allo sguardo dell’agente, dotate della loro stessa consistenza. Essi rappresentano infatti una parte essenziale del mondo umano e come tali vanno considerati, non come mere proiezioni della (iper)sensibilità umana.33 Detto ciò, il Best Account Principle (il principio del “resoconto migliore”, in cui si riassume l’intera impostazione “metodologica” di 32

Cfr. Taylor 1991d: 237-239. Cfr. Taylor 1989a: 57: “Quale migliore criterio di realtà abbiamo negli affari umani di quei termini che sulla base di una riflessione critica e dopo la correzione degli errori che ravvisiamo ci consentono di comprendere meglio le nostre vite (make better sense of our lives)? ‘Comprendere meglio’ qui significa non solo offrire l’orientamento migliore, più realistico, rispetto ai beni, ma anche consentirci di dare senso compiuto e comprendere meglio le azioni e i sentimenti di noi stessi e degli altri”. Cfr. anche ivi: 59 (“è reale ciò con cui devi fare i conti, che non svanisce solo perché non si accorda con i tuoi pregiudizi. Da questo punto di vista è reale, o quantomeno è ciò che di più prossimo alla realtà ti è consentito di scorgere al momento, ciò a cui non puoi fare a meno di fare ricorso nella vita”) e 341-342; cfr. anche Taylor 1988g: 56. Il realismo morale di Taylor è quindi tutt’altro che un realismo “ingenuo” di stampo platonico, in proposito Taylor è stato in più occasioni del tutto esplicito. Cfr., ad esempio, Taylor 1991d: 245 sgg. e Taylor 1994c: 209 sgg. 33

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Taylor) afferma che è migliore (realisticamente migliore) quella spiegazione che ci consente di comprendere meglio (make better sense of) un determinato fenomeno storico-morale.34 Nel caso specifico di Sources of the Self il resoconto proposto da Taylor, che aspira a essere il (relativamente) più illuminante, spiega i dilemmi e la crisi spirituale della civiltà moderna alla luce dei diversi beni e delle diverse “fonti morali” che sono giunti a contendersi la lealtà degli individui moderni (complicandone in tal modo di molto i processi deliberativi), della diversa topografia del sé che si è venuta affermando a partire dal Seicento (svolta verso l’interiorità), del capovolgimento dell’ordine gerarchico tradizionale di vita comune e vita buona (affermazione della ordinary life) e della nascita di una nuova visione della natura (svolta espressivistica). Nel contesto del presente saggio il ruolo e la natura del BA Principle vanno tenuti ben presenti per un motivo preciso: Taylor ricorre, infatti, a esso

ogniqualvolta

è

sollecitato

a

esemplificare

un

modello

di

argomentazione che ammetta anche ai nostri giorni Dio come suo oggetto.35 La risposta offerta da Taylor, con qualche comprensibile esitazione, a tale quesito è che dal suo punto di vista anche un oggetto apparentemente metaesperienziale come Dio può rientrare a pieno diritto tra i presupposti che rendono meglio ragione della nostra condizione spirituale. In un’occasione, replicando a un saggio di Michael Morgan, Taylor ha esplicitamente sostenuto che “la mia prospettiva (account) attribuisce effettivamente una sorta di priorità alla nostra esperienza morale e spirituale. [...] Ciò in cui credo [è ciò che è reale] è ciò che figura nel mio resoconto migliore (best account) del mondo, della storia, e della mia esperienza come

34

Cfr. Taylor 1989a: 58 sgg. La nozione di Best Account in Taylor si sovrappone e per molti aspetti coincide con quella di argomentazione trascendentale. In particolare il BA potrebbe essere definito una forma di argomentazione fenomenologico-trascendentale. In proposito si veda l’analisi, peraltro non sempre convincente, di Yong Huang, in Huang 1998: 81 sgg. 35 Cfr. Taylor 1989a: 73-75.

21

essere spirituale e morale, ma ciò che figura in questo resoconto sono esseri che trascendono l’esperienza. Il Dio che figura nel mio resoconto non è una funzione della mia esperienza, benché naturalmente la mia fede (belief) in esso, il mio accesso a esso, lo sia. Analogamente, io credo nell’esistenza di alberi, rocce, macchine, perché essi figurano nel ‘resoconto migliore’ della mia esperienza. Tutto ciò risulta strano, solo perché manca un’ipotesi rivale anche solo remotamente altrettanto plausibile e non sopravviverei a lungo se coltivassi questa illusione” (Taylor 1994a: 226). Ovviamente questo genere di resoconto non va concepito come il frutto isolato dell’immaginazione dialettica di un individuo singolarmente dotato, ma come il parto anche di una comunità, di una tradizione, di un ‘noi’. Esso è peraltro quintessenzialmente moderno in quanto situa la porta di accesso a Dio nell’esperienza

personale

dell’individuo

(il

che

spiega

il

tenore

sorprendentemente kantiano della replica di Taylor) e non fissa dogmaticamente, bensì tende a moltiplicare le possibili varianti di questo accesso, riconoscendo pertanto il contributo che a tal fine possono offrire tutti coloro che si interrogano su un ambito dell’esperienza che negli ultimi secoli è diventato incerto, confuso, problematico. Come vedremo più precisamente in seguito, secondo Taylor, ciò che si è verificato nella nostra civiltà, a seguito di una profonda trasformazione culturale che va generalmente sotto il nome di “secolarizzazione”, è che Dio ha cessato di essere ciò che era all’apice della cristianità, ossia una componente evidente del mondo morale degli individui, la cui negazione doveva apparire come tale particolarmente aberrante.36 Ai nostri giorni, viceversa, è piuttosto la rivendicazione dell’esistenza di Dio ad apparire ardua, difficile, controversa se non per alcuni versi paradossale. E nondimeno

Dio

rappresenta

ancora

un

riferimento

cruciale

nell’autorappresentazione morale di un gran numero di individui moderni, e

36

Cfr. Taylor 1989a: 309 sgg.

22

continua a esserlo in quanto realtà concreta, non mera proiezione della sensibilità umana. Ciò avviene, secondo Taylor, perché Dio per molti continua ad assolvere anche nella nostra civiltà il ruolo di fonte morale, vale a dire di principio architettonico dei beni dell’esistenza. Esso non ha smesso di fare parte di un universo morale “umanamente” reale, ultimo gradino in un percorso di trascendimento di sé che ha il suo ancoramento ultimo nella “natura” stessa dell’uomo, di un essere che si autodefinisce, che si dà forma orientandosi nelle sue scelte morali a partire dal presupposto che esistano “dei desideri, dei fini, delle aspirazioni che sono qualitativamente superiori rispetto ad altri” (Taylor 1994a: 249), e che non sono il mero prodotto di un “soppesamento” del tutto arbitrario o di una mossa decisionistica. In questo senso lo human being è un essere che costitutivamente si autotrascende, trascende cioè i suoi desideri egoistici in quanto li sottopone a un giudizio a partire da ciò che considera dotato di valore intrinseco, e quindi, per certi versi, trascende la propria “fatticità”37. Si tratta ora di capire meglio come ciò avvenga e perché.  Nel corso di una discussione con Paul Ricoeur, Taylor ha sostenuto che la cultura moderna, proprio perché negatrice di alcuni di quei tratti antropologici che Taylor ritiene invece universali (embodied agency, valutazione forte e necessario riferimento ai beni, dialogicità costitutiva del sé, etc.), offrirebbe per certi versi lo sfondo ideale per sottoporre a una 37

La tentazione di interpretare la concezione antropologica di Taylor alla luce della distinzione tra fatticità e valore (cfr. Habermas 1992), tra la presunta naturalità dell’uomo e la sua spiritualità è forte, ma rischia di ingenerare pesanti fraintendimenti spiritualisti che nel caso di Taylor non hanno alcuna ragione d’esistere. In verità in Taylor la capacità dell’uomo di autotrascendersi è tutt’altro che una prestazione eccezionale e rientra pienamente nella “fatticità” dell’essere umano. Una cosa che si deve assolutamente evitare se si vuole comprendere adeguatamente la concezione antropologica tayloriana è di reintrodurre surrettiziamente una distinzione rigida tra fatti e valori che il filosofo canadese ha fatto di tutto per contrastare sin dai suoi esordi (cfr. Taylor 1957b). In effetti il ricorso alla distinzione tra fatticità e valore è utile nel caso di Taylor solo per mettere in luce quella dinamica di autotrascendimento che è propria dell’uomo e che Taylor enfatizza in chiave antinaturalistica e antiriduzionistica. Su questi temi cfr. Costa 1999.

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verifica stringente il best account tayloriano: riuscire ad attestarne la validità anche in un contesto così sfavorevole rappresenterebbe infatti un successo di proporzioni indiscutibili, qualcosa di assai prossimo a una ratifica definitiva.38 D’altra parte è difficile negare che nelle teorie di molti dei suoi interpreti più autorevoli (ma anche nel senso comune diffuso) la cultura morale moderna si presenti come soggettivistica, emotivistica, antirealistica. I richiami ai valori, ai beni, appaiono ai più “irrazionali” (o quantomeno non razionali), retorici, non giustificabili se non, al limite, attraverso il ricorso a una razionalità meramente procedurale che paga però un dazio consistente in termini di contenuti all’obiettivo dell’universalizzabilità dei principi dell’agire. L’idea stessa di “valore” rimanda senza soluzione di continuità all’attività di un soggetto che valuta, che, come nella prospettiva di Nietzsche - il massimo rappresentante della cultura moderna del valore conferisce in totale libertà valore a un universo in sé privo di significato.39 Analogamente, a sua volta, l’idea del “dovere”, su cui si basano molte delle etiche procedurali di derivazione kantiana, presuppone storicamente l’immagine di una divinità legislatrice40 che, una volta scomparsa dall’orizzonte dei moderni, ha finito per lasciare alle proprie spalle il simulacro di un nomos anonimo e infondato (e, peggio ancora, per certi aspetti persino insensato). Nella ricostruzione storica proposta da Taylor in Sources of the Self questa deriva al contempo soggettivistica e formalistica appare anzitutto il prezzo che l’uomo moderno deve pagare all’interiorizzazione delle fonti morali, quel processo di ridislocazione dei punti di riferimento etici che ha messo fuori causa l’idea di un logos ontico - l’idea, cioè, che la ragione sia in primis nel mondo (kosmos), o quantomeno nella sua intelaiatura ideale, e 38

Taylor 1998c: 37-39, 45. Cfr. Taylor 1998c: 38. Sul tema cfr. Heidegger 1961: 404 sgg. 40 Cfr. Anscombe 1958: 6. 39

24

non nella testa degli individui - e che ha situato nelle profondità interiori dell’uomo l’accesso a ciò che va al di là della sua mera naturalità (e quindi la ragione, le fonti della creatività artistica, lo stesso Dio). Una simile trasformazione ha per Taylor degli svantaggi, ma anche dei vantaggi. I vantaggi consistono nella scoperta di nuove fonti morali (più direttamente legate alle facoltà umane), nella valorizzazione di dimensioni della spiritualità individuale prima inesplorate e nella conseguente ridefinizione dell’universo delle priorità morali. Gli svantaggi, invece, sono connessi alle aporie che questa nuova cultura morale genera, alle “aberrazioni”41 cui conducono alcune delle sue intuizioni e “scoperte”. Si pensi, per esempio, agli ideali di razionalità distaccata, di autocontrollo o autodeterminazione, che hanno un indubbio valore, ma che una volta dispiegati senza limiti rischiano di ritrovarsi sospesi su un pericolo abisso nichilistico.42 O si pensi all’ipersoggettivismo, all’amoralismo, al narcisismo a cui può condurre un’etica dell’autenticità priva di vincoli.43 A

questa

visione

ipersoggettivistica

dell’uomo,

Taylor

oppone

l’immagine di un essere che si costituisce sì come self, ossia come soggetto riflessivo in senso forte, ma solo e sempre nella relazione con l’alterità, con qualcosa che trascende la mera soggettività.44 L’uomo è per Taylor un essere che si autotrascende costitutivamente: in un certo senso è giusto dire che esso è sempre “fuori” di sé. Lo è in quanto acquisisce un’identità significativa riferendosi

a degli orizzonti di senso, a dei quadri di

riferimento morali, che non sono una sua creazione, che gli preesistono e in cui esso si trova immerso prima ancora di dare inizio a quell’attività consapevole di autoarticolazione che è propria del soggetto morale

Sulla particolare accezione del termine “aberrazione” in Taylor cfr. Taylor 1994a: 231. Cfr. Taylor 1989a: parte II; Taylor 1979: cap. III e Taylor 1989d: 65 sgg. 43 In proposito cfr. Taylor 1991a: cap. II. 44 In questo senso non appaiono del tutto giustificate le critiche mosse a Taylor da Schweiker e Dussel in Schweiker 1992: 568 sgg; Schweiker 1993; Dussel 1996. 41 42

25

responsabile.45 L’articolazione degli orizzonti morali è quella prima mappa di “significanze” su cui si basa il futuro lavoro di definizione di sé dell’individuo maturo.46 Essa si incarna originariamente nel linguaggio, pensato sia come langue che come parole, ovvero né come una semplice “cosa” nel e del mondo, né come un’entità per così dire “metafisica”, piuttosto come un’apertura del senso storica e culturalmente specifica, come la via d’accesso a un universo di significati che giunge a espressione secondo le molteplici modalità in cui si estrinsecano le facoltà simboliche dell’uomo (e quindi oltre a riflessioni, teorie, discorsi, anche arte, riti, istituzioni, pratiche, narrazioni, etc.).47 Si può dunque legittimamente sostenere che nella prospettiva di Taylor l’individuo è sempre originariamente “fuori” di sé, perché la sua identità non preesiste alle relazioni in cui si trova fin dai suoi primi passi inserito e in cui matura la sua personalità.48 I beni davvero significativi, e perciò letteralmente “costitutivi” del sé, sono come dice Taylor, “irriducibilmente comuni”;49 non sono, cioè, dei beni semplicemente “condivisi” (shared), ossia che esistono indipendentemente dalla nostra azione comune e che esigono unicamente che gli individui combinino le loro forze per poterne fruirne con maggiore facilità (un esempio per tutti il bene della sicurezza).50 Questi beni, al contrario, esistono solo se li condividiamo, sono un tutt’uno con la relazione. L’esempio massimo di questi beni comuni è ovviamente la comunità politica che nella prospettiva repubblicana difesa da Taylor non è un bene strumentale (funzionale, per dire, alla salvaguardia della libertà

45

Cfr. Taylor 1977b: 28 sgg. e Taylor 1991a: cap. IV. Cfr. Taylor 1977b: 35 sgg. 47 Cfr. Taylor 1978b: 232 sgg. Si veda anche Descombes 1994: 113 sgg. e Taylor 1994a: 238-240. 48 Cfr. Taylor 1991b: 310 sgg.; Taylor 1989a: 35 sgg. e Taylor 1991a: cap. V. 49 Cfr. Taylor 1990b: 134 sgg. 50 Cfr. ivi: 128 sgg. Sulla nozione di “common” o “dialogical action” cfr. Taylor 1991b: 310 sgg. e Taylor 1999b: 113. 46

26

negativa),51 ma è un bene intrinseco, ovvero è parte costitutiva dell’identità individuale.52 Nelle istituzioni repubblicane i cittadini vedono infatti non solo un ausilio indispensabile per le loro vite di individui autonomi, ma una vera e propria parte di sé, qualcosa per cui vale la pena di sacrificarsi e, al limite, morire.53 Già a questo livello si può riscontrare un elemento per così dire “religioso” (nell’accezione originaria, latina, del termine) all’interno della concezione dell’uomo di Taylor. Il legame sociale può infatti essere visto come una prima manifestazione assai significativa di quella capacità di autotrascendimento che è essenziale nell’uomo e senza la quale gli individui rischiano di precipitare in una profonda crisi di orientamento, se non nella completa insignificanza.54 Riassumendo: secondo Taylor i quadri di orientamento morale, in quanto condizioni non soggettive di un’autentica individualizzazione, le relazioni dialogiche e le dinamiche di riconoscimento (e talvolta misconoscimento) in quanto

requisiti

indispensabili

dell’identità

individuale,

i

beni

irriducibilmente comuni in quanto fulcro dell’esistenza umana, le emozioni e l’embodied understanding (sapere incarnato) in quanto primo accesso all’universo delle significanze, sono tutte delle evidenze “fenomenologiche” che attestano la natura costitutivamente self-transcending degli individui, persino degli individui moderni che dell’autonomia e libertà individuale hanno fatto il proprio principale bene di riferimento. Nel sostenere simili tesi, in verità, Taylor non si distacca dalle concezioni difese da una corrente importante, benché minoritaria del pensiero moderno che a partire da Vico e Herder, attraverso Humboldt, Hegel, fino all’ermeneutica novecentesca, al

In proposito cfr. invece Pettit 1997, in cui viene proposta un’interpretazione assai diversa della tradizione politica repubblicana. 52 Cfr. Taylor 1989b: 200 sgg. e Taylor 1989g: 67 sgg. 53 Cfr. Taylor 1992g e Taylor 1996d. 54 Su questa accezione durkheimiana di legame sociale cfr. Taylor 1970: 103-109; e Taylor 1997a: x. 51

27

secondo Wittgenstein e a Habermas (per fare solo qualche nome), ha difeso le ragioni di un approccio, se non olistico, quantomeno intersoggettivo all’esistenza umana. Secondo questa prospettiva esiste una relazione essenziale, di circolarità e mutua implicazione, tra i singoli individui e il mondo umano in cui essi si trovano sin da principio situati (lo spirito oggettivo hegeliano, la Welt heideggeriana, la tradizione gadameriana, i giochi linguistici e le pratiche wittgensteiniane, la Lebenswelt husserliana e poi habermasiana). Questa relazione di mutua implicanza è stata spesso rappresentata sul modello strutturalista della relazione tra la langue e la parole o della lingua come al contempo energeia e ergon, che si deve principalmente a Humboldt. In questo ritratto gli uomini non appaiono come i passivi recettori di un’entità che li sovrasta e domina, ma neanche come i creatori assoluti del mondo in cui vivono e operano. Essi sono al contempo soggetti attivi e passivi della storia e della realtà sociale, in particolare sono sempre agenti radicati in un contesto, anche se mai mere “emanazioni” di esso. Detto ciò, va nondimeno osservato che Taylor non si limita a prendere atto di questa capacità umana di autotrascendimento e a usarla, ad esempio, in funzione critica nei confronti di alcuni assunti del senso comune “atomistico” e naturalistico di ampi settori della filosofia moderna, ma ne fa il punto di partenza per un discorso sul trascendimento della vita in quanto possibile (e dal suo punto di vista auspicabile) passo ulteriore rispetto al trascendimento del sé. Si tratta ora di comprendere pienamente il senso di questa mossa argomentativa.  Un modo per impostare la discussione di tale tema è di muovere dalla distinzione che Taylor propone in Sources of the Self tra “beni della vita” (life goods) e “beni costitutivi” (constitutive goods) o, altresì, fonti morali

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(moral sources).55 Questa distinzione risponde nel caso di Taylor a un’esigenza architettonica: ovvero al bisogno di definire un ordine di priorità tra i beni (inevitabilmente plurali) che nel corso della nostra esistenza (che è pur sempre una) ci troviamo ad eleggere a fini degni delle nostre azioni o scelte.56 In realtà la definizione di tale priorità non risponde solo a un’esigenza di tipo deliberativo (tantomeno fondativo, non è questo il senso in cui Taylor concepisce la funzione dei constitutive goods), ma piuttosto al bisogno di chiarire ciò che in ultima istanza rende i beni perseguiti nelle nostre vite dei fini degni. In sostanza i beni costitutivi rappresentano il centro di gravità di quei quadri di riferimento ontologici che rendono comprensibile la “bontà” (goodness) dei suddetti beni vitali: in definitiva indicano la ragion d’essere di una vita buona.57 Chiarirsi le idee su di essi non è indispensabile solo in situazioni di crisi o quando ci si trova di fronte a scelte particolarmente difficili tra beni parimenti degni, ma più in generale contribuisce a rendere la nostra vita morale più ricca e autentica.58 Se esempi di beni della vita possono essere considerati la benevolenza, il coraggio, la devozione, l’autonomia, l’espressione di sé, esempi di beni costitutivi che “giustificano”59 il valore di simili beni sono l’idea della dignità e del valore della vita umana, l’immagine dell’uomo come unica fonte di senso del cosmo, Dio, la visione della natura come fonte espressiva, etc. Ciascuno di questi beni costitutivi, che per la gran parte degli individui rimane a uno stadio di bassa articolazione riflessiva, non si limita ad 55

In questo contesto è preferibile prescindere dalla ulteriore distinzione che Taylor pure opera in Sources of the Self tra beni costitutivi e iperbeni (hypergoods; cfr. ivi: 63 sgg.). Essa, oltre a non essere essenziale per la comprensione della posizione difesa in questo ambito da Taylor, complica inutilmente la trattazione ed è a dir poco oscura. In proposito cfr. Hittinger 1990; Rosa 1998: 117 sgg.; Taylor 1991d: 243-244. 56 In proposito cfr. Taylor 1982a: 244 sgg. 57 Cfr. Taylor 1997b: 173. In due saggi precedenti a Sources of the Self Taylor aveva significativamente scelto di distinguere i due livelli parlando rispettivamente di “beni interni” alle pratiche e di “beni trascendenti” tutte le pratiche (cfr. Taylor 1985f: 40 e Taylor 1986b: 355-357). 58 Cfr. Taylor 1989a: 91 sgg. 59 Sul senso specifico di questa “giustificazione” cfr. Taylor 1989a: 77.

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adempiere una funzione per così dire di “orizzonte di senso”, ma assolve un compito motivazionale fondamentale: non agisce solo sulla ragione umana, bensì opera sul cuore degli individui, chiedendone un’adesione non parziale, ma completa.60 In un certo senso, nella prospettiva articolata da Taylor, i beni costitutivi sono il termine ultimo di un processo di autotrascendimento che è potenzialmente infinito.61 Ma la riflessività umana, o meglio la capacità umana di articolare delle distinzioni qualitative a partire da “un profondo ma non strutturato senso di ciò che ha importanza”,62 non può procedere all’infinito; il processo di orientamento morale è infatti anche un’esigenza umana vitale e le valutazioni forte necessitano di una qualche forma di “ancoramento”. Taylor fissa questo “terminus ad quem” del processo di articolazione delle distinzioni qualitative proprio in quelle moral sources che storicamente hanno offerto alla pluralità apparentemente irriducibile di beni cui gli uomini orientano le proprie esistenze una qualche forma di ordine e unità. Quest’ordine e questa unitarietà sono per Taylor l’indice di un aspetto della condizione umana altrettanto fondamentale e irriducibile quanto la pluralità.63 Gli uomini vivono vite complesse, che conoscono in alcuni casi conflitti anche aspri, se non tragici, tra aspirazioni parimenti degne (in questo senso commensurabili, ma talvolta non conciliabili),64 ma sono pur sempre singole vite che richiedono, per quanto possibile, di essere ricondotte a una forma di unità e coerenza. Quest’ultima, ovviamente, non può che essere un’unità dinamica - come l’identità stessa degli individui,

60

Cfr. Taylor 1996a: 13-18. Questo è il problema insito nella concezione della moralità proposta da Frankfurt e a cui Taylor cerca di porre rimedio proprio con l’immagine delle fonti morali. Su questo tema cfr. Rosa 1998: 120 sgg. 62 Taylor 1977b: 41. 63 Cfr. Taylor 1997b: 170-171. 64 Cfr. Taylor 1989a: 64-68; Taylor 1994a: 213-214; Hittinger 1990: 119-126; Rosa 1998: 119-122. 61

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identità ipse e non idem per dirla con Ricoeur65 - cioè un’unità raggiunta attraverso un complicato processo di bilanciamento che può basarsi solo su una razionalità di tipo fronetico (e non apodittico-deduttivo), ma che rimane pur sempre un’unità. Per dirla nei termini utilizzati da Taylor in un recente saggio: “La vita etica reale è ineludibilmente condotta tra l’uno e i molti. Non possiamo fare a meno né della diversità dei beni [...] né dell’aspirazione all’unità implicita nel modo in cui conduciamo le nostre vite” (Taylor 1997b: 183). È proprio a partire da questo ulteriore aspetto “strutturale” della vita morale degli individui che Taylor introduce la questione del trascendimento della vita. Con ciò va inteso specificamente il problema dello status, della “natura” delle fonti morali. La domanda che bisogna porsi è, cioè, fino a che punto per poter adempiere appieno la loro funzione esse debbano essere situate oltre i fini che contribuiscono a ordinare e motivare. Che debbano trascendere il sé, i meri desideri e le preferenze soggettive, in una parola la “fatticità” umana, è del tutto scontato per Taylor, ma è poi davvero indispensabile che esse trascendano anche la “vita umana”? 66 La questione si pone con particolare forza all’interno della cultura morale moderna perché, come abbiamo visto in precedenza, essa è una cultura morale “eccezionalista”,67 ossia estremamente esigente negli standard morali che impone agli individui, e allo stesso tempo restia a esplicitare le possibili 65

Cfr. Ricoeur 1992: 76-79 e Ricoeur 1997: 64 sgg.. Per un confronto tra la concezione del sé di Ricoeur e quella di Taylor cfr. Dauenhauer 1992. 66 Cfr. Taylor 1989a: 73. Ma si veda anche questo significativo passo a p. 342: “il semplice fatto di riconoscere che vi può essere un bene costitutivo che trova posto non nell’universo an sich, ma che emerge nella nostra esperienza di esso, non implica che effettivamente vi sia un simile bene; indica solo che la questione non può essere risolta a priori. È una questione di fatto (a) se la nostra interpretazione migliore, più lucida (illusion-free), comporti a tutti gli effetti un riconoscimento del valore (significance) della vita umana, e (b) se questo valore venga spiegato meglio in termini non teistici, non cosmici, puramente immanenti. La risposta ad (a) pare a me senza dubbio ‘sì’, ma la mia impressione (hunch) è che la risposta a (b) sia ‘no’. Ma tutto dipende da quali sono le fonti morali più libere da illusioni (illusion-free), e a mio avviso queste richiedono un Dio. Ma questa tesi va supportata con argomenti convincenti”. 67 Sulla nozione di “eccezionalismo morale” cfr. Taylor 1989a: 397 sgg.

31

fonti motivazionali di una visione così ambiziosa della moralità, a chiarire, cioè, quali fini possano legittimamente aspirare allo status di beni costitutivi. Come vedremo più avanti l’intera indagine portata avanti da Taylor in Sources of the Self è volta a tematizzare questo dilemma così cruciale per le sorti della nostra civiltà. Per molti aspetti l’indagine tayloriana sui beni ha un classico andamento che potrebbe essere definito platonico-aristotelico. Per ‘bene’ (ossia per l’oggetto di una valutazione forte) viene inteso “qualsiasi cosa, di qualsiasi genere o categoria, che sia reputato prezioso, degno, ammirevole” (Taylor 1989a: 92). Ma tra le cose degne della nostra attenzione che si impongono come fini intrinsecamente desiderabili, ve ne sono alcune che appaiono incomparabilmente superiori, valide, preziose e il cui compito è di conferire valore agli altri beni della nostra esistenza (i cosiddetti “beni della vita”).68 Come detto, questi beni sono definiti “costitutivi” in quanto in un certo senso “costituiscono” la “bontà” degli altri beni. Rispetto alla pluralità di questi ultimi il bene costitutivo appare come un bene più originario, un fine più alto, un bene architettonicamente sovraordinato. Tutto ciò non suona particolarmente originale alle nostre orecchie. Ciò che rende la riflessione morale di Taylor interessante e significativa per noi è l’abilità con cui il filosofo canadese rideclina questa classica teoria dei beni a partire dalle trasformazioni che hanno accompagnato e promosso lo sviluppo di una sensibilità morale tipicamente moderna. Anzitutto i beni costitutivi sono concepiti come plurali e, più specificamente, come irriducibilmente plurali.69 La loro maggiore o minore adeguatezza a svolgere il ruolo di fonti morali, ossia di beni il cui amore o rispetto ci motivano a compiere delle azioni morali, può essere oggetto di discussione, non però il loro status per così dire “ontologico” di beni costitutivi. Un altro elemento Ovviamente questo passaggio è parso tutt’altro che scontato a molti interpreti; cfr., ad esempio, Williams 1990: 48. 69 Cfr. Taylor 1989a: 313, 317. 68

32

di novità è poi l’internalizzazione e l’immanentizzazione di tali fonti morali, che cessano di essere concepite come parte della “fabbrica” dell’universo e vengono rappresentate piuttosto come essenziali facoltà o potenzialità umane (la razionalità in Kant, la creatività nei romantici), o come realtà non umane l’accesso alle quali deve comunque passare attraverso le profondità interiori dell’individuo. È con una simile, storicamente inedita, prospettiva secolare e umanistica che Taylor entra in dialogo nell’intento di ridefinire e difendere su nuove basi una posizione teistica. Ma quest’ultima non potrà in ogni caso reiterare il modello platonico-cristiano. Le trasformazioni intercorse hanno infatti modificato in maniera irreversibile il contesto. Ora, al bene costitutivo prescelto non potrà essere più affidato alcun compito fondativo. Nella prospettiva di Taylor esso potrà fungere al massimo da termine ultimo di una ricostruzione ragionevole della nostra esperienza morale che non può sensatamente proporsi come una teoria apoditticamente dimostrata, e che non è altro che l’esito di un itinerario argomentativo ascendente (che va cioè dal particolare al generale) che aspira a essere particolarmente chiarificatore e illuminante (illusion-free). In questa prospettiva il bene costitutivo non rappresenta affatto una “basic reason”, un principio primo da cui derivare deduttivamente delle conclusioni certe, bensì il fulcro di un best account.70 A ben vedere la strategia argomentativa messa in campo da Taylor ha un risvolto duplice. Da un lato essa sottrae all’autorappresentazione dei moderni la convinzione di essere il frutto di una trasformazione epocale che ha sovvertito l’ordine del discorso morale precedente. In verità, malgrado i loro proclami, neanche essi possono fare a meno del riferimento a dei beni e fini ultimi, neanche essi si sottraggono alla “logica” dell’identità e della costituzione del sé. Per altro verso, però, l’emergere della cultura moderna ha cambiato radicalmente le carte in tavola, e con essa per il discorso morale

70

Cfr. Taylor 1989a: 75 sgg.

33

si è definitivamente aperta un’epoca di pluralismo, di rifiuto del fondazionalismo, di incertezza: in poche parole un’epoca di irriducibile complessità in cui non sono più ammesse scorciatoie di sorta.71 È proprio su questi presupposti che si basa il tentativo di Taylor di testare la consistenza della visione morale dell’umanesimo secolare. Il punto centrale, qui, come detto, è rappresentato dalla questione del trascendimento della vita. Un umanesimo secolare ha secondo Taylor dei pregi evidenti che non è sua intenzione contestare, esso ha però anche dei limiti. Per lo più questi sono limiti ben noti che Taylor ha segnalato in maniera non sistematica all’interno dei suoi lavori.72 In particolare una visione del mondo che pone l’uomo al centro dell’universo dei significati morali si trova di fronte a dei dilemmi etici di difficile soluzione quando è costretta a confrontarsi con realtà che paiono dotate di un valore intrinseco al di là del loro riferimento all’universo umano. Si pensi per esempio alla natura, pensata in una prospettiva non umanocentrica, non strumentale, di ecologia “profonda”: come si può giustificare da una prospettiva umanistica il rispetto per qualcosa che trascende radicalmente l’uomo, sia in spazio che in tempo, al punto da metterne in discussione la stessa significatività? 73 I dilemmi suscitati dall’assunzione di un’attitudine prometeica, trasformativa, nei confronti della natura esteriore appaiono poi con forza forse ancora maggiore nei casi in cui essa viene rivolta verso gli uomini stessi, com’è storicamente avvenuto nei sogni utopici di trasformazione radicale perseguiti dai regimi totalitari novecenteschi (dalla Germania di Hitler alla Cambogia di Pol Pot), e come pare prospettarsi nelle distopie (bio)tecnologiche che traspaiono da un’evoluzione scientifica incapace di identificare a partire dal proprio punto prospettico un’istanza legittimata a fissare dei limiti significativi alla sua marcia apparentemente inarrestabile. 71

Nella sua bella recensione di Sources of the Self Martha Nussbaum ha esplicitamente sostenuto che il tema centrale del libro è “la complessità” (Nussbaum 1990a: 29). 72 Cfr. in particolare Taylor 1985c.

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Più in generale, come peraltro già segnalato, è il pericolo nichilistico che pare minare come un tarlo la cultura umanistica e secolare; è, cioè, l’apparente incapacità della vita di giustificare se stessa che minaccia di innescare una rivolta immanente contro la vita stessa il cui approdo non può che essere il nulla o una volontà di affermazione e potenza assolutamente fine a se stessa. A questi pericoli la cultura umanistica secolare è tentata in molti casi di rispondere con una strategia del riccio, rifugiandosi nella inarticulacy, nell’eclettismo morale, nel pluralismo superficiale, nella continua dilazione della crisi, in definitiva in una strategia di eterno basso profilo, piuttosto che confrontarsi apertamente con le ragioni della propria insufficienza. Ma detto ciò, in ogni caso, non è chiaro se esista effettivamente un’alternativa a questa condizione d’impasse.74 Come detto, Taylor è personalmente persuaso di ciò, ma non ha a disposizione per provarlo alcun tipo di argomento conclusivo, solo “impressioni” (hunches)75 e la via non apodittica della proposta di un resoconto migliore. Ma i resoconti possibili sono per definizione molteplici e la domanda se abbiamo davvero bisogno d’altro è destinata inevitabilmente a ripresentarsi. Nel dialogo che Taylor ha intrecciato con Martha Nussbaum a proposito del libro di quest’ultima The Fragility of Goodness è possibile ritrovare questa controversia esemplificata in maniera illuminante. È opportuno quindi soffermarsi un attimo a esaminarla.

73

In proposito cfr. Taylor 1992b e Taylor 1993a. Questa è in fondo l’obiezione che accomuna tutti i critici di Taylor schierati sul fronte “secolare”. Perché può anche essere vero che Dio, e in particolare un Dio benevolo come quello lasciato intravedere da Taylor, rappresenti la fonte morale “più adeguata” per supportare una vita con degli standard etici molto alti, ma è poi l’esistenza o meno di questo Dio a rappresentare il vero nodo della questione. Cfr., a titolo di esempio, Williams 1990: 47; De Sousa 1994: 119-122; Skinner 1994: 47-48. 75 Come ha giustamente osservato Martha Nussbaum nella sua recensione di Sources of the Self (cfr. Nussbaum 1990: 31), il termine “hunch” (sensazione, impressione) assurge quasi a termine tecnico nelle dichiarazioni a sfondo “religioso” di Taylor. Cfr., a titolo di esempio, Taylor 1989a: 342, 518. 74

35

Concludendo la sua elogiativa recensione del volume della Nussbaum apparsa nel dicembre del 1988 sul “Canadian Journal of Philosophy”, Taylor esprimeva pacatamente dei dubbi sul fatto che una piena affermazione dell’umano possa davvero prescindere dall’aspirazione alla trascendenza, che appare un’esigenza fortemente radicata nell’animo degli uomini, e si domandava,

poi,

se

essa

rappresenti

effettivamente

un

ostacolo

all’affermazione dell’umano o non piuttosto una sua precondizione indispensabile.76 Il suggerimento di Taylor era di non comprendere l’aspirazione alla trascendenza e l’affermazione dell’umano come due fini radicalmente alternativi: “Si può intendere lo sforzo di andare oltre se stessi - scrive egli in un passo - come qualcosa di essenzialmente umano, e, cosa ancor più importante, si può vedere il trascendente come un’istanza che incoraggia e afferma il valore della cura e dell’impegno ordinario degli uomini, com’è stato indubbiamente il caso della tradizione giudaicocristiana, con conseguenze decisive per la nostra intera prospettiva morale” (Taylor 1988a: 813). Nel saggio Transcending Humanity, direttamente ispirato da questa recensione tayloriana, la Nussbaum ha provato ad articolare quello che a ben vedere potrebbe essere definito un best account integralmente umanistico, alternativo al resoconto tayloriano. La sua è infatti a tutti gli effetti una difesa dell’intrascendibilità della condizione umana, il rifiuto, in quanto incoerente, “dell’aspirazione a lasciarsi completamente alle spalle le condizioni costitutive della nostra umanità e a ricercare una vita che sia effettivamente la vita di un altro tipo di essere - come se fosse una vita superiore e migliore per noi” (Nussbaum 1990b: 379). La Nussbaum, a essere precisi, rivolge una vera e propria accusa di insensatezza, e in un certo senso di incoerenza, all’aspirazione a un radicale trascendimento della 76

Cfr. Taylor 1988a: 813. In merito allo scambio Taylor-Nussbaum merita di essere consultato, nonostante la non nascosta antipatia dell’autore per l’umanesimo radicale della filosofa americana, Kerr 1997: 1-22.

36

condizione umana, ma non estende tale addebito hic et nunc all’idea del trascendimento di sé in quanto tale. Ella, come si legge in un passo, è pienamente disposta a riconoscere che “vi sono forme diverse di trascendenza e che vi è molto spazio, nel contesto della vita umana [...] per un certo tipo di aspirazione a trascendere la nostra umanità ordinaria” (ivi: 378), ma ciò che le preme ribadire è che una simile visione del trascendimento “interno” della vita presuppone una “vaga e nondimeno potente nozione delle possibilità della specie umana come tale” (ivi: 373), che fissi i limiti all’interno dei quali l’aspirazione al trascendimento mantiene una significatività umana, i confini al di là dei quali le categorie sulla cui base stabiliamo ciò che ha umanamente valore e ciò che non ne ha semplicemente smettono di funzionare: questi non sono altro, poi, che i confini - invero virtuali e mobili - dell’umano. Tali limiti definiscono allo stesso tempo la fragilità e l’eccellenza umana e rappresentano gli ingredienti essenziali che rendono le storie degli uomini così affascinanti e ricche di pathos, le traversie dei loro personaggi così coinvolgenti e significative. In definitiva essi tracciano i confini di quell’universo emozionale e narrativo che contribuisce più di ogni altra cosa all’educazione morale e al raffinamento dell’umanità e che ha come sua condizione essenziale, secondo la Nussbaum, l’amore per la particolarità e la finitezza.77 I confini dell’umano non possono però essere rigidi e fissati una volta per tutte. Essi sono infatti soggetti a un limitato ma costante processo di ridefinizione mano a mano che le conoscenze e le competenze anche tecniche dell’umanità progrediscono. In sostanza, il termine ultimo, il punto di riferimento normativo di questa lotta per il trascendimento non assoluto dei limiti dell’umanità andrebbe collocato secondo la Nussbaum in una sorta di “equilibrio riflessivo”78 tra l’aspirazione all’eccellenza e i confini “strutturali” delle possibilità umane, che a sua volta presuppone come

77

Cfr. Nussbaum 1990b: 389-390.

37

correlato essenziale una nozione analoga a quella greca di hybris che consenta di stabilire la soglia delle condizioni minime di significanza dell’esistenza. Da questo punto di vista, quindi, coloro che peccano di hybris si dimostrerebbero in un certo senso incapaci “di vivere entro i propri limiti (che sono anche possibilità), di essere mortali, di pensare pensieri mortali” (ivi: 381), ignari o incuranti di ciò che in ultima istanza rende uomo un uomo.79 La percezione dei limiti dell’uomo su cui si basa questa nozione “normativa” di hybris è soggetta anch’essa a un processo di apprendimento che ha come suoi principali tramiti, più che le grandi e astratte costruzioni filosofiche o scientifiche, quell’autoesplorazione indulgente che è promossa dalla grande poesia, dai romanzi e da un certo tipo di filosofia disposta a riconoscere il primato, negli affari degli uomini, del punto di vista umano.80 In questo tipo di sapere le emozioni, in quanto modalità di apertura al mondo caratteristicamente umana, sono destinate a giocare un ruolo cruciale e a nutrire quel senso di indulgenza nei confronti della finitudine e costitutiva ambiguità degli uomini che rappresenta un ulteriore antidoto contro i sogni prometeici degli individui di tutti i tempi.81 Un umanesimo del genere, ragionevolmente scettico ma non disperato nei confronti delle possibilità umane di autotrascendimento, pare un’opzione del tutto coerente e senza dubbio non ha mancato di esercitare un certo fascino sullo stesso Taylor.82 Nel suo umanitarismo benevolo sembra però 78

Cfr. Nussbaum 1990a: 33. Nella sua critica all’interpretazione integralmente umanistica della nozione di selftranscendence offerta dalla Nussbaum (e fatta propria almeno in parte anche da Taylor), David Dawson ha suggerito però che anche la kenosis divina, ossia l’incarnazione, può essere legittimamente intesa come una forma di autotrascendimento non life-denying ma life-affirming. Cfr. Dawson 1994: 2, 4, 19. Su questo tema cfr. anche Kerr 1997: 12-14. 80 Cfr. Nussbaum 1990b: 390 e anche Nussbaum 1986: cap. I. 81 Cfr. Nussbaum 1990a: 239-240. L’obiezione che Taylor potrebbe muovere a questa tesi della Nussbaum, e che viene peraltro apertamente formulata da Fergus Kerr (Kerr 1997: 2122), è che storicamente il modello di autoesplorazione indulgente da lei propugnato deve in realtà moltissimo, se non tutto, alla visione dell’uomo cristiana. Su questo tema dell’autoesplorazione indulgente si dovrà tornare comunque, più avanti, nel corso del paragrafo conclusivo. 82 Cfr. Taylor 1989a: 344 sgg. e cap. X, nonché Taylor 1994b: 129. 79

38

esposto a un duplice ordine di critiche. Innanzitutto gli si può rinfacciare uno sguardo troppo indulgente nei confronti

dei pericoli insiti

nell’umanesimo, i suoi lati per così dire più oscuri, e di abbandonarsi a una retorica della “terribile grandezza” umana in cui l’aggettivo, per la verità, pare avere soprattutto la funzione di enfatizzare il sostantivo. I tratti meno solari e benevoli dello scetticismo dell’uomo disincantato (che traspaiono per esempio in certi passi dei Diari di Montaigne) dovrebbero quantomeno destare il sospetto che nella prospettiva tratteggiata dalla Nussbaum l’elemento tragico sia in qualche modo edulcorato da uno sguardo altamente selettivo, ottimisticamente selettivo. Altri pensatori, non a caso, hanno richiamato l’attenzione anche sugli elementi di pessimismo che non possono mancare in una visione secolare e umanistica, che non deve essere per forza di cose sentimentale o vagamente “umanitaristica”.83 Ovviamente una simile accusa di generico “ottimismo” può essere rivolta (ed effettivamente è stata rivolta) anche a Taylor, benché il suo ottimismo, il suo “collocarsi sempre dal lato più soleggiato della strada”, secondo l’icastica espressione utilizzata da Judith Shklar,84 abbia un duplice esplicito ancoramento nella visione di un Dio benevolo che non solo è oggetto dell’amore degli uomini ma che ama (agape) la sua creazione85, e in una concezione non irrealistica delle potenzialità umane.86 La seconda possibile obiezione a una simile Weltanschauung radicalmente umanistica è strettamente collegata alla prima ed è stata suggerita con discrezione anche dallo stesso Taylor.

87

Mi riferisco al

sospetto che una simile visione “tragica” (ovvero chiusa a ogni forma di

83

Cfr., ad esempio, Shklar 1982. Anche Hannah Arendt è una pensatrice che ha cercato costantemente di temperare il suo umanesimo politico con abbondanti dosi di una visione del mondo realisticamente scettica (ma mai cinica). Questa è d’altra parte la funzione che storicamente l’antropologia filosofica ha cercato di assolvere in opposizione ai facili ottimismi delle filosofie della storia (su questo tema cfr. Marquard 1973). 84 Cfr. Shklar 1991: 106. Cfr. anche Kerr 1997: 6, Taylor 1999a: 124.. 85 Cfr. Taylor 1989a: 93-94, 447 sgg.. Cfr. anche Buckley 1991. 86 Cfr. Taylor 1898d: 62.

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redenzione), ma in ultima istanza benevola della condizione umana sia segretamente debitrice nei confronti della prospettiva teistica giudaicocristiana che ha contribuito a plasmare l’universo morale dei moderni ben oltre i limiti generalmente riconosciuti dagli umanisti secolari. In essa l’immagine di un Dio trascendente che si fa uomo e si fa carico delle sofferenze (e anche delle gioie!) umane per riscattare gli uomini dalla loro condizione di peccato (e pena) sembrerebbe assolvere, ben più di quanto non appaia a prima vista, il ruolo di segreta e non riconosciuta fonte di ispirazione.88 A ben vedere, però, la convinzione espressa dalla Nussbaum che il senso profondo del mistero della finitudine umana non possa essere trovato al di fuori di essa e che le possibili risposte (né disperate né nichilistiche) alla sua condizione di irredimibile tragicità vadano ricercate nella capacità dell’esistenza umana di autotrascendersi non pare confutata da simili obiezioni. Con essa non viene avanzata una proposta incontestabile, ma nemmeno radicalmente difettosa: essa è a tutti gli effetti quello che Taylor definirebbe un best account, ossia un tentativo inevitabilmente prospettico di offrire un resoconto sensato della nostra esperienza di soggetti morali. Le obiezioni di Taylor e il suo tentativo di offrire un resoconto migliore che, basandosi sulla costitutiva capacità di autotrascendimento degli individui, giustifichi un (consistente) passo ulteriore in direzione del trascendimento completo della vita (che ha invero una duplice e simmetrica direzione da Dio all’uomo e dall’uomo a Dio) cercano di fare perno sulle debolezze delle posizioni contrarie, ma non possono in alcun modo rivendicare per sé una posizione di assoluta superiorità: quest’ultima oltrepassa, secondo il filosofo canadese, le possibilità del logos umano. In effetti, buona parte della capacità di persuasione del resoconto tayloriano si basa sulla forza di una tradizione che non ha affatto perso la sua presa sulle coscienze degli uomini

87

Cfr. Taylor 1989a: 319, 339 sgg., 396 sgg.; Kerr 1997: 10, 18 sgg..

40

moderni e che anzi ha contribuito a tal punto a plasmare le istituzioni e le pratiche in cui tutti noi viviamo che è pressoché impossibile sottrarsi completamente alla sua presa.89 In molti casi, infatti, è ancora essa a fissare, più o meno esplicitamente, le coordinate del nostro discorso morale. Ma così facendo si entra in un territorio minato giacché tale questione, com’è noto, è altamente controversa.90 Per il momento è quindi sufficiente limitarsi a osservare come la scelta di Taylor di incentrare il suo best account su un’interpretazione illuminante delle trasformazioni cui è andato soggetto l’orizzonte morale/culturale degli individui moderni è l’unica strada aperta a un simile tentativo prospettico di argomentare le buone ragioni che militano a favore di una prospettiva “teistica”.91 Il vero scoglio che si profila su tale via è, ça va sans dire, il problema della secolarizzazione. Infatti, per essere davvero credibile l’interpretazione della modernità di Taylor, che punta a incrinare la radicata

88

Su questo aspetto cfr. però Nussbaum 1990b: 370, 375-376 Come riconosce esplicitamente Taylor nella sua replica a Morgan: “Invero, io parlo del ‘mio’ resoconto migliore, ma esso potrebbe essere altrettanto legittimamente definito il ‘nostro’ resoconto. Nessuno pensa mai completamente da solo; l’ideale cartesiano è irrealizzabile nella sua totalità. Io penso con, talvolta contro qualcuno, ma in larga misura quantomeno nei termini offerti dalla mia comunità. In particolare vi è una gran dose di fiducia nella vita spirituale di ognuno, credenti e non credenti. Per esempio, noi siamo ispirati dalle vite di persone che consideriamo eccezionali, e siamo spinti ad accettare, nella prospettiva di un ulteriore approfondimento ed esplorazione, ciò che essi propongono come i loro resoconti migliori. Oppure abbiamo un senso più vago che vi sia della saggezza, una comprensione più profonda della vita umana, nelle pratiche di una determinata comunità, la nostra o un’altra. Noi vi aderiamo, o rimaniamo in essa, nella speranza e con la fiducia di poterci radicare ancora di più in questa comprensione. Così quando parlo del mio ‘resoconto migliore’, non mi riferisco a un resoconto che intendo comprendere come totalmente autoprodotto. Mi riferisco solo al resoconto che di fatto mi appare il più convincente (makes most sense to me)”. 90 Mi riferisco, ovviamente, alla questione della natura più o meno cristiana della civiltà moderna. Tale questione si intreccia spesso con quella, altrettanto controversa, della secolarizzazione, intesa al contempo come scristianizzazione del mondo moderno e sua dipendenza dalla cultura religiosa da cui afferma di essersi separato. Dovendo scegliere nell’amplissima bibliografia sul tema si può fare riferimento soprattutto a Lübbe 1965 e Rémond 1999, per una introduzione generale al tema di carattere, rispettivamente, concettuale e storico, e a Blumenberg 1966 e Löwith 1953 per due letture filosofiche opposte del fenomeno. 91 Questo è il modo in cui Taylor definisce a partire da Sources of the Self una prospettiva etica che postula l’esistenza di Dio come bene costitutivo e principale fonte morale. 89

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convinzione della civiltà moderna di essere l’esito ultimo di un processo di affrancamento da pregiudizi e illusioni millenarie, deve riuscire a rendere conto del fenomeno della secolarizzazione secondo categorie diverse da quelle con cui da Weber sino a Habermas si è interpretato il presunto disincantamento del mondo moderno,92 oppure da quelle nietzschianoheideggeriane della “morte” di Dio,93 o ancora da quelle löwithiane che tracciano un filo di continuità diretta tra la visione cristiana della storia della salvezza e la credenza profana in un’evoluzione progressiva dell’uomo.94 La scommessa teorica di Taylor sta tutta nel riuscire a dimostrare che con la modernità si è effettivamente affermata una nuova cultura morale, ma che essa non ha affatto messo fuori gioco la religione, semplicemente ha aperto le porte a nuove fonti morali di stampo umanistico, cambiando così in profondità le dimensioni dello spazio etico in cui si orientano gli individui. Tali fonti morali rimangono però delle alternative commensurabili che si contendono l’adesione degli individui e che non possono essere ritenute aprioristicamente incompatibili o mutuamente esclusive. Esse esigono piuttosto una riarticolazione delle nostre mappe morali in grado di rendere giustizia alla complessità dell’universo morale moderno. Ed è proprio questo l’obiettivo che Taylor si è prefisso scrivendo un’opera come Sources of the Self.

§ 3. Cultura moderna e secolarizzazione Secondo il ritratto proposto da Taylor, quindi, nessun uomo è mai privo di un’identità morale; essa consiste poi in un orientamento più o meno riflessivo, più o meno “articolato”, a dei beni dotati di valore intrinseco. L’uomo è un essere a cui le cose importano,95 per cui hanno un significato, e questo significato presuppone in molti casi una distinzione dotata di valore 92

Cfr. Weber 1920 e Habermas 1981: cap. II. Cfr. Heidegger 1950. 94 Cfr. Löwith 1953. 93

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intrinseco. In questo senso l’uomo può essere definito un “valutatore forte”. Più in particolare l’uomo si muove secondo una mappa morale più o meno precisa e dettagliata che non è il prodotto di un suo mero atto di scelta, né va vista come un’arbitraria proiezione di senso su un mondo di bruti fatti, assiologicamente neutro e omogeneo. L’universo in cui si muove l’uomo è infatti sin da principio un universo carico di significati, di distinzioni qualitative.96 Queste distinzioni si trovano organizzate in un insieme coerente in primo luogo all’interno della “cultura” in cui gli individui si trovano a operare.97 Nella prospettiva di Taylor una cultura coincide nella sostanza con quell’insieme di “valutazioni forti”, di discriminazioni qualitative che, incarnate in pratiche, istituzioni, storie e riti, teorie e senso comune, rappresentano i moral frameworks cui molte persone per un periodo di tempo consistente finiscono per orientare le proprie esistenze.98 Poiché non possono essere circoscritti come degli oggetti del mondo, come dei semplici fatti empirici, tali quadri di riferimento morali spesso sfuggono alla presa di quelle (non poche) scienze umane che hanno elevato a proprio modello normativo di scienza quello offerto dalle scienze naturali.99 La loro è quindi una realtà che più che dimostrata, dev’essere inferita, postulata e

“A being to whom things matter” (Taylor 1985d: 104). Questa è un’idea che compare sin dai primi lavori di Taylor e rappresenta, per così dire, il suo “retaggio” fenomenologico. Cfr., ad esempio, Taylor 1964: 62, 121, 195; Taylor 1959: 92 sgg.; Taylor 1967. 97 Il termine cultura è ovviamente un termine oltremodo generico e problematico, e Taylor è ben consapevole dei problemi che tale genericità può comportare (cfr. Taylor 1995b: 104). Nella sua prospettiva esso di fatto viene ad assumere la funzione di concetto “contenitore” che, al fine di una sua adeguata comprensione, presuppone l’intera costellazione concettuale elaborata da Taylor nei suoi saggi di antropologia filosofica. In proposito cfr. Rosa 1998: 126 sgg. 98 Il riferimento al numero delle persone e alla quantità del tempo è indispensabile per poter distinguere tra culture vere e proprie e pseudoculture, scimmiottamenti di culture, mere “ideologie” nel senso deteriore del termine. Questa distinzione, benché non sufficientemente definita, è di grande importanza nella prospettiva tayloriana; cfr. Taylor 1995b: 104. 99 In proposito cfr. Taylor 1991e; Taylor 1992a: 215-220, 242-247. 95 96

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pensata nei termini dell’apertura heideggeriana: le culture sono in effetti un modo di dischiudere il mondo.100 Detto ciò, la convinzione di Taylor - discutibile ma non ingiustificata - è che esista qualcosa di simile a una “cultura moderna” storicamente specifica e strutturata intorno a una certa “topografia” morale.101 In questa topografia le fonti morali, o l’accesso a esse, sono situate nell’interiorità umana, concepita come una paradossale profondità inestesa; la vita ordinaria e comune degli individui è vista come dotata di un valore intrinseco; al fianco dell’antico bene costitutivo di matrice teistica si sono affermate altre fonti morali di natura esclusivamente secolare (la visione della rational agency come architrave della dignità umana e quella della natura come potenza espressiva) che hanno moltiplicato le dimensioni secondo cui si struttura l’universo morale degli individui moderni. La cultura morale moderna appare pertanto come una cultura strutturalmente e irriducibilmente plurale. Geograficamente parlando essa si estende ai paesi dell’ex cristianità latina e alle sue emanazioni storiche oltre Oceano (Stati Uniti, Canada, Australia).102 Il viaggio tayloriano alla scoperta dell’identità moderna rappresenta pertanto un tentativo di delineare i contorni di questa cultura morale in modo tale che i suoi membri vi si possano riconoscere. Esso cerca di rispondere alla domanda “chi siamo noi?” e aspira a proporre un ritratto illuminante della nostra condizione. In un certo senso tale ricostruzione eleva uno specchio di fronte ai nostri occhi e confida che ci riconosciamo nell’immagine che esso riflette: essa è a tutti gli effetti un’impresa ermeneutica. Trattandosi di un soggetto dai confini così labili, il “chi” di cui essa va alla ricerca è ovviamente una sorta di “chi” idealtipico, ma non per questo immaginario o arbitrario. Più che come un macrosoggetto esso 100

Cfr. Taylor 1993c: 325-329. Sulla nozione di “topografia morale” cfr. Taylor 1988b e Taylor 1989a: cap. V. La presentazione che seguirà a breve dei tratti fondamentali dell’identità moderna si basa ovviamente su Taylor 1989a. 102 Cfr. Taylor 1991d: 237; Taylor 1994a: 222. 101

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andrebbe pensato come un orizzonte di identificazione, un punto di equilibrio riflessivo tra le nostre credenze esplicite e una riarticolazione innovativa delle nostre più profonde intuizioni morali. Secondo la lezione di Clifford Geertz essa vorrebbe essere una descrizione “thick” (specifica e ricca) e non “thin” (astratta e schematica) della nostra condizione.103 Essa non aspira cioè a ridurre la complessità della nostra situazione a un qualche tipo di modello universale, bensì ad articolarla in tutta la sua densità. Essa vorrebbe essere un lavoro di “recupero”104 di ciò che è stato messo ai margini del nostro ordinario quadro interpretativo e non, viceversa, di ulteriore semplificazione. In opposizione alle numerose letture “aculturali” della modernità, che leggono le vicende degli ultimi secoli sulla base di uno schema di sviluppo neutrale rispetto alle condizioni storiche o culturali (secolarizzazione, razionalizzazione, etc.), essa vuole essere un’interpretazione volutamente “culturalistica” della modernità;105 vuole cioè comprendere la nascita della cultura moderna come l’emergere di una cultura storicamente specifica; contingente, benché non assolutamente contingente. Essa è vista, altresì, come il prodotto di una vicenda storica specifica e unica, ma i suoi tratti costitutivi non sono rappresentati come astrattamente contingenti, ossia come fungibili.106 La storia raccontata da Taylor è sicuramente una storia dotata di senso, benché non si esaurisca in esso. Per lui esiste infatti qualcosa di simile a un progresso morale; esistono cioè dei guadagni epistemici nella storia degli individui, così come dei popoli e delle culture.107 Quantunque non possano essere pensati sul modello lineare di una storia dotata di un telos trasparente,

103

Cfr. Taylor 1989a: 80. “An exercise in retrieval” è il modo in cui Taylor definisce il lavoro intrapreso in Sources of the Self all’inizio e alla fine del libro; cfr. Taylor 1989a: xi, 520. 105 Sulla distinzione tra interpretazione “culturale” e “aculturale” della modernità cfr. Taylor 1988d: 601-606 (trad. it. 4-9) e Taylor 1992a: 205-215. 106 Su questo tema si veda il dibattito tra Taylor e Skinner in Tully 1994: 37 sgg. e 222-226 e soprattutto Taylor 1988e. 104

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tali progressi esistono ed è uno dei compiti del ragionamento pratico di valutarne lo statuto e la consistenza specifica.108 Per Taylor la cultura moderna rappresenta, in tutta la sua complessità e ambivalenza, uno di questi progressi storici, di questi guadagni epistemici. Ma, per l’appunto, in tutta la sua complessità e ambivalenza. Letture ipersemplificate o schematiche della modernità, letture “thin” della modernità, rischiano infatti di creare aspettative e miti infondati e di chiudere chi li condivide in una sorta di “prigione etnocentrica” da cui diventa impossibile percepire le differenze che davvero contano allorché si è chiamati a operare delle scelte. Tanto più che le modernità sono diventate molteplici e plurali da quando la cultura occidentale ha esportato e imposto alcuni dei suoi assets in tutto il globo e si è innestata su tradizioni e storie anche profondamente diverse. E tra i compiti di un’interpretazione illuminante della cultura moderna vi è proprio anche quello di rendere consapevoli delle differenze che esistono tra le diverse modernità che si stanno sviluppando sotto i nostri occhi in tutto il mondo. Chiudersi in una prigione etnocentrica significa anzitutto diventare ciechi e sordi di fronte alla diversità per poi sorprendersi quando essa, com’è inevitabile, prima o poi si impone come tale. Le reazioni nei confronti dei fondamentalismi contemporanei, dei nazionalismi e dei tribalismi riemergenti, dei diversi modelli economici che si stanno affermando più o meno spontaneamente in vaste aree del globo sono lì ad attestare la nostra scarsa lungimiranza.109 Per tratteggiare i caratteri portanti della cultura in cui viviamo Charles Taylor ha scritto un libro di più di seicento pagine. La storia che esso racconta è assai dettagliata e complessa e non facile da riassumere. Come accennato, essa è al contempo la storia di un processo di soggettivizzazione Sull’esistenza di un progresso negli affari umani cfr. Taylor 1989f: 24 e Taylor 1999c. Sull’idea di “guadagno epistemico” cfr. Taylor 1989a: 312-313 e Taylor 1991c: 240. 108 Cfr. Taylor 1989a: 72-75; Taylor 1989c e Nussbaum 1993. Per una prospettiva critica su questo aspetto del discorso tayloriano cfr. Rosa 1998: cap. IX. 109 Su questi tempi cfr. in particolare Taylor 1992a. 107

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e di interiorizzazione (da altri definito di “individualizzazione”), di trasformazione e nascita di nuove fonti morali, del capovolgimento della visione tradizionale di che ciò fa di una vita una vita buona, una vita degna di essere vissuta (affermazione della ordinary life). Ma, in aggiunta a ciò, è anche la storia dell’affermarsi di un nuovo modello di razionalità, distaccata e disincarnata, strumento potentissimo a disposizione di un self concepito come punto inesteso e centro di controllo e dominio. E, ancora, è la storia del progressivo emergere a partire dal Settecento di un ideale espressivistico di autorealizzazione che ai nostri giorni ha assunto le fattezze di un vero e proprio ideale morale - quello dell’autenticità - in cui però i confini tra dimensione estetica e morale sfumano sino a diventare quasi impercettibili. Questo ideale espressivistico è radicalmente pluralistico, prende le mosse dall’idea che ogni individuo, come dice Herder, “ha una propria misura” e che essa per diventare pienamente tale ha bisogno di giungere a espressione nel mondo. L’espressivismo è una visione delle cose che ha al suo centro l’idea di potenzialità e che pone una particolare enfasi sui mezzi in cui queste potenzialità si incarnano e grazie ai quali giungono a espressione.110 In particolare la natura, nell’ideale espressivistico, appare come un’enorme potenza produttrice di senso che chiede di essere individualizzata attraverso dei “linguaggi” sempre più sottili, degli embodiments sempre più personali. La cultura espressivistica moderna è infatti anche una cultura degli “spazi epifanici”; sua è l’idea che l’accesso alle realtà che veramente contano nella vita dell’uomo non possa essere mai diretto, ma debba passare attraverso uno sforzo estremo di immaginazione e creazione che prepari il terreno a una manifestazione di senso che sfugge al controllo dello stesso artista. La coesistenza nella cultura moderna di queste due diverse correnti spirituali, una che pone l’enfasi sulle facoltà razionali dell’uomo, sulla sua capacità di conoscere e manipolare il mondo dei fatti empirici, di costruire

110

Cfr. Taylor 1989a: 368 sgg.; Taylor 1991a: cap. III.

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società sempre più ricche, tolleranti e giuste, l’altra che va alla ricerca delle fonti di senso, di un’esistenza più autentica, che cerca il modo per entrare in contatto con la propria natura interiore e attraverso di essa con la natura esteriore, che pensa la comunità politica più come un unione di destini che come un mero aggregato di individui, ha creato nel corso degli ultimi due secoli numerose occasioni di conflitto e tensione. A entrambe le correnti va però riconosciuto, secondo Taylor, il merito di essere espressione di due esigenze autentiche dell’uomo, di due potenzialità preziose della spiritualità umana. La negazione unilaterale di una delle due rischia pertanto di condurre la nostra civiltà in un vicolo cieco. Il compito principale, dunque, di chi cerca di interpretare e, attraverso un’interpretazione illuminante, di fronteggiare questa crisi che pare connaturata alla cultura moderna stessa consiste proprio nella ricerca di una forma di conciliazione o composizione di queste due correnti profonde della spiritualità degli ultimi due secoli. L’obiettivo ultimo non può però essere un semplice modus vivendi fondato sulla inarticulacy, la dilazione e la compartimentazione di questi fondamentali bisogni umani - obiettivo che d’altra parte le società liberali sono già riuscite meritoriamente a conseguire e che, senza dubbio, oltre agli innegabili benefici, nasconde anche dei costi non irrilevanti - bensì una forma, per esprimersi con le parole dello stesso Taylor, “meno mutilante” di riconciliazione.111 Come si è già avuto occasione di osservare Taylor intravede in una variante di umanesimo religiosamente connotato una possibile soluzione ai dilemmi caratteristici della modernità. Nel presente contesto è ovviamente impossibile, e peraltro non indispensabile, analizzare nel dettaglio il ritratto che Taylor propone della cultura moderna. Ciò su cui vale la pena di soffermarsi è piuttosto l’interpretazione che egli fornisce del fenomeno della secolarizzazione. Come detto, infatti, l’ostacolo maggiore in cui ci si

111

Cfr. Taylor 1989a: 520-521.

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imbatte sulla strada che conduce a un simile umanesimo non esclusivo è la convinzione, tipicamente secolarista, che la religione sia una cosa del passato, che appartenga all’infanzia dell’umanità; che essa sia stata messa fuori gioco dagli sviluppi della scienza e irreparabilmente disonorata dagli orrori di cui le religioni storiche si sono macchiate o che comunque non sono riuscite a impedire; che essa sia da reputare, al massimo, un orpello superfluo, da demandare alla sfera privata degli individui e a quella zona oscura delle domande ultime a cui la scienza non ha saputo (o quantomeno non ha saputo ancora) offrire una risposta convincente. A una simile visione liquidatoria dei bisogni religiosi Taylor ha però alcuni argomenti da opporre. Vediamo quali.  Nei suoi scritti Taylor distingue di norma due diversi aspetti del fenomeno della secolarizzazione, come esso viene generalmente inteso. Il primo ha a che fare con “il declino della credenza e pratica religiosa nel mondo moderno”, e il secondo più specificamente col “ritrarsi della religione dallo spazio pubblico” (Taylor 1997a: ix). Sono, questi, due fenomeni diversi, benché indubbiamente collegati e Taylor è solito affrontarli con strumenti concettuali distinti. In un caso si ha a che fare infatti con le trasformazioni verificatesi nell’universo morale e spirituale degli individui moderni che hanno reso nelle nostre società problematica, se non addirittura ardua, la fede in Dio; nell’altro, invece, si ha a che fare con un problema tipicamente politico che concerne la coesione interna delle società liberali e la gestione delle differenze, della pluralità infra e interculturale. In effetti l’espressione ‘secolarizzazione’, nel significato più comune che essa è venuta assumendo nel corso degli ultimi due secoli, rinvia a una sorta di filosofia della storia o di teoria dell’evoluzione dell’umanità. Non solo nella ristretta cerchia degli specialisti delle scienze umane, ma in quella ben

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più vasta delle classi colte delle società occidentali, per secolarizzazione si è soliti intendere, infatti, qualcosa di simile a una trasformazione epocale, se non un vero e proprio conflitto di civiltà.112 La secolarizzazione è stata infatti per lo più letta come un processo orientato di disincantamento (Entzauberung) e di razionalizzazione delle immagini del mondo, di presa di coscienza e di illuminazione (di maturazione, Mündigkeit, secondo la celebre espressione kantiana), grazie al quale gli uomini sono stati condotti dalle credenze magiche originarie, attraverso la fede in un principio trascendente tipica delle grandi religioni monoteiste, alla visione lucida e disincantata (magari disperata) offerta dalle scienze naturali moderne. In questa prospettiva la secolarizzazione coincide con la storia di un disvelamento. È proprio contro questa interpretazione processuale e “aculturale” del fenomeno della secolarizzazione, in cui essa viene presentata come un “guadagno epistemico”, l’esito di un’inevitabile presa d’atto, un “giungere a vedere” (coming to see) come stanno effettivamente le cose,113 che si indirizza la lettura tayloriana. Secondo Taylor né l’interpretazione che pone al centro di questa trasformazione il progresso scientifico, né quella che sottolinea invece soprattutto le trasformazioni sociali di tipo strutturale innescate dalla rivoluzione industriale spiegano in maniera esaustiva e adeguata ciò che è avvenuto nelle società occidentali. L’esistenza nel mondo contemporaneo di “modernità alternative”, di culture e forme di vita che recuperano cioè dalla storia occidentale sia i progressi tecnologici che le innovazioni istituzionali (ad esempio l’urbanizzazione e un modello di stato nazionale) senza che esse modifichino in maniera drastica il panorama spirituale di quelle comunità, stanno a dimostrare secondo Taylor che la strada presa dalla civiltà occidentale non era di per sé inscritta in questi 112

In proposito cfr. Lübbe 1965. Recentemente nelle sue Gifford Lectures (1999) Taylor ha definito questa interpretazione la “subtraction story”. In proposito cfr. anche Taylor 1989a: 316. 113

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fenomeni: c’è qualcosa d’altro che richiede di essere spiegato. Ed è per questo che Taylor sceglie di leggere il fenomeno della secolarizzazione non come l’esito di un processo di razionalizzazione culturalmente neutro,114 ma come la storia, culturalmente specifica, della trasformazione di un intero universo spirituale, del background understanding degli individui, e in particolare della mappa dei beni di riferimento (sia beni della vita che beni costitutivi) a cui essi orientano le proprie esistenze. L’assunto da cui prende le mosse l’analisi di Taylor è che “il posto occupato dalla religione nelle società moderne è complesso e ambivalente” (Taylor 1990a: 112), ben più complesso e ambivalente di quanto non appaia nelle ricostruzioni storiche dei partigiani della secolarizzazione. Questi ultimi, secondo Taylor, raccontano solo una parte della storia. Benché la celebre diagnosi della “morte di Dio” sia effettivamente l’espressione di una trasformazione storica e culturale profonda, essa non andrebbe presa alla lettera e considerata come un mero fatto storico che non richiede ulteriori interpretazioni. Tutt’altro. Per il filosofo canadese ciò che è avvenuto, in realtà, è che una precedente cultura morale è stata progressivamente soppiantata da una nuova cultura morale che è di per sé tutt’altro che scontata e irresistibile, e che, soprattutto, deve ancora fare pienamente i conti con quell’aspirazione umana al trascendente che, quantomeno dal punto di vista di Taylor, rimane qualcosa di ineliminabile.115 Taylor è quindi pienamente disposto a riconoscere che negli ultimi tre secoli all’interno delle società occidentali l’atteggiamento degli individui nei confronti della religione è cambiato drasticamente. Egli prende atto del fatto che si è verificato un “calo della fede in Dio e ancor più un declino delle pratiche religiose al punto che da centrale che era nella vita privata e pubblica delle società occidentali, la religione è diventata una sottocultura, una delle molte forme private di coinvolgimento a cui alcuni individui

114

In proposito cfr. Taylor 1989a: 403, 491.

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indulgono” (Taylor 1989a: 309), e che pertanto è corretto dire che “viviamo in un clima totalmente diverso”.116 Ciò che Taylor contesta è che questo mutamento possa essere interpretato come un evento lampante e ineluttabile, come se si trattasse semplicemente della sostituzione di una credenza esplicita dimostratasi falsa e di cui è quindi opportuno e legittimo sbarazzarsi. La tesi di Taylor è invece che ciò che si è verificato è innanzitutto una complessa trasformazione dei quadri di riferimento degli individui moderni, di quel sapere incarnato (embodied understanding) che sta normalmente alle spalle degli uomini e che struttura il loro universo morale.117 In particolare, secondo Taylor, ciò che è accaduto con l’avvento della civiltà moderna è che Dio, il Dio della tradizione teistica giudaico-cristiana, ha cessato di essere considerato l’unica fonte morale adeguata a una vita retta, l’unica in grado di offrire in ultima istanza senso allo spettro mutevole di beni vitali a cui gli individui di ogni epoca hanno orientato e tuttora orientano le proprie esistenze. Tale perdita di centralità della fonte teistica ha coinciso ed è il frutto della scoperta di nuove “frontiere” dell’esperienza morale,118 di nuove fonti morali più direttamente legate all’esperienza concreta degli uomini, per così dire più “umanocentriche”.119 Ciò che è davvero cambiato secondo Taylor è dunque la conformazione stessa dell’universo morale degli individui moderni. Tale cambiamento ha senza dubbio reso Dio meno centrale, l’accesso a lui meno diretto, ma non equivale in alcun modo a una dichiarazione di morte presunta. Quella dell’individuo moderno è infatti una condizione di esplorazione permanente. La pluralizzazione delle fonti morali (che più che essere singole fonti morali

115

Cfr. Taylor 1989a: 520 e Taylor 1989d: 76. È il clima che in A Catholic Modernity? Taylor definirà poi “postrivoluzionario”; cfr. Taylor 1999b: 23-24. Si veda sopra il § 1. 117 In proposito cfr. Taylor 1989a: 401-403, 413, 491. 118 Cfr. Taylor 1989a: 317. 119 In proposito cfr. Taylor 1989a: 309-320, 401 sgg.; Taylor 1990a: 105. 116

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sono delle vere e proprie nuove dimensioni dello spazio etico in cui si orientano gli individui) ha reso l’universo morale moderno estremamente complesso e ciascuno di noi esitante e incerto. Ben pochi nella nostra civiltà possono infatti fruire della saldezza e dell’evidenza dei riferimenti morali di cui godeva la quasi totalità degli individui premoderni e che spesso ci colpisce e ci spaventa nei membri di altre civiltà il cui universo morale è assai meno conflittuale del nostro.120 La particolarità, poi, delle fonti morali scoperte dalla cultura moderna, che peraltro Taylor reputa un “guadagno” epistemico in quanto le ritiene espressioni di potenzialità umane autentiche,121 è che sono in un certo senso tutte immanenti, sono cioè emanazione diretta dell’umanità degli individui o a essa strettamente correlate (come nel caso di un ordine benefico o della natura vista come potenza creatrice di senso), e non dipendenti da un principio trascendente, totalmente “altro”. Ciò conferisce a queste nuove fonti morali un vantaggio di posizione quantomeno iniziale. La loro immanenza (che non esclude, e anzi presuppone, come si è visto, una forma di autotrascendimento - si pensi solo alla visione kantiana della razionalità umana) gli rende infatti più agevole il compito di integrarsi con quei beni della vita comune che sono venuti assumendo un ruolo così centrale nell’esistenza degli uomini moderni. D’altra parte, però, questa stessa immanenza delle fonti morali moderne è destinata a suscitare una serie di interrogativi sulla loro effettiva “adeguatezza” a fungere da beni costitutivi e a sostenere il peso motivazionale sempre crescente che l’etica della benevolenza universale riversa sugli individui moderni, dubbi da cui, secondo Taylor, andrebbe invece esente la fonte teistica.122 Quest’ultima,

120

Cfr. Taylor 1989a: 10. Cfr. Taylor 1989a: 313. 122 Cfr. Taylor 1989a: 317. È questa affermazione di Taylor, spesso erroneamente interpretata come una dichiarazione di legittimità o illegittimità delle fonti morali moderne, che ha attirato su di lui gli strali dei suoi colleghi non credenti. Cfr. ad esempio De Sousa 1994; Skinner 1991; Williams 1990. 121

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però, per parte sua, è maggiormente esposta, proprio per il suo carattere trascendente rispetto all’esperienza,123 ai dubbi sulla sua realtà, sulla sua esistenza, sulla sua effettiva veridicità,124 tanto più in un’epoca in cui il ritrarsi nel privato della dimensione religiosa ha reso ancora più soggettivi, idiosincratici e quindi “volatili” gli accessi a essa.125 Resta comunque il fatto che, una volta letta in questi termini, la secolarizzazione non appare più come l’esito ultimo di un processo storico di evoluzione necessaria, ma come il prodotto di una storia culturalmente specifica aperta a esiti diversi. L’identità moderna, nella lettura proposta da Taylor, manifesta una complessità e un’ambivalenza senza precedenti perché è il frutto di un processo di pluralizzazione delle fonti morali. In questo processo si verificano secondo Taylor dei progressi effettivi e dimostrabili (nei limiti in cui simili progressi sono dimostrabili all’interno di un ragionamento pratico), ma il suo esito è tutt’altro che scontato, esso è piuttosto strutturalmente aperto. La crisi in cui versa la civiltà moderna, e su cui bisognerà tornare in seguito, non contiene in sé i germi di un destino ineluttabile, ma rappresenta piuttosto uno scenario in cui ha luogo una “lotta continua” tra opzioni e strategie diverse.126 Ciò che permane saldo in questo ritratto è la struttura per così dire “formale” dell’esperienza morale degli individui127 ed è proprio essa, come detto, che garantisce alla religione un ruolo anche nella modernità, che non consente cioè di dichiararla aprioristicamente fuori gioco. I beni a cui si orientano inevitabilmente gli individui, vale la pena di ricordarlo ancora una

123

In proposito cfr. Taylor 1994a: 226. Cfr. Taylor 1989a: 317; Taylor 1991d: 241. Non a caso Quentin Skinner comincia il suo saggio su Sources of the Self citando il detto dello storico Alexander Kinglake: “importante purché vero”. 125 Taylor non è peraltro affatto tenero con la tendenza contemporanea verso una sorta di religiosità “fai da te” tipica, per esempio, di certe forme di spiritualità new age. Cfr., a titolo d’esempio, Taylor 1996b. 126 Cfr. Taylor 1991a: cap. VII. 127 Tra gli interpreti è stato soprattutto Rosa a sottolineare giustamente la natura formale della riflessione antropologica e morale di Taylor. 124

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volta, sono valutazioni forti “incarnate”, espressioni della struttura ontologica dell’uomo in quanto animale morale, in quanto essere che può vivere solo in un universo articolato in distinzioni qualitative dotate di valore intrinseco. In quanto tali, essi esprimono una forma di trascendenza rispetto alla fatticità, rispetto al sé, e, quantomeno potenzialmente, anche rispetto alla vita. In questo senso, per Taylor, l’apertura alla trascendenza è “garantita” antropologicamente, anche nella sua forma più radicale e assoluta e più difficile da accettare per una cultura cresciuta nel sospetto verso ogni forma di aspirazione alla trascendenza della vita. Ma il fenomeno della secolarizzazione, inteso in senso generale come progressiva perdita di centralità della dimensione religiosa nell’identità degli individui moderni, nasconde al proprio interno altri aspetti meritevoli di considerazione. Alcuni di essi hanno a che fare in particolare con l’origine in

parte

paradossalmente

cristiana

del

fenomeno

stesso

della

secolarizzazione. Uno di questi è stato segnalato in diverse occasioni da Taylor ed è la ben nota esistenza all’interno del cristianesimo della distinzione tra un tempo sacro e un tempo secolare/profano, ovvero tra il tempo sovraordinato della storia della salvezza e quello a esso intrecciato, ma indipendente, della storia umana.128 Secondo Taylor, che in merito fa proprie analoghe considerazioni svolte dallo storico Benedict Anderson,129 solo con la modernità si sarebbe affermata infatti l’idea di un tempo “radicalmente secolarizzato” (Taylor 1992d: 267), cioè di un unico flusso temporale costituito da istanti identici, qualitativamente indifferenziati. Solo in virtù di una simile visione del tempo “spazializzata”, che esclude ogni forma di trascendenza, di verticalità all’interno del tempo, si sarebbe potuta poi sviluppare, ad esempio, l’idea tipicamente moderna di una fondazione radicalmente storica della comunità politica, priva di rinvii a un tempo mitico, più originario, che

128

In proposito cfr. Taylor 1992a; Taylor 1992d: 267 sgg.; Taylor 1998a: 31-32.

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tradizionalmente ha avuto il compito di conferire alle azioni collettive umane una legittimità e una durabilità altrimenti loro sconosciuta. Nel caso dell’idea tardo moderna di common agency tutto è dunque ricondotto al saeculum. E, a ben vedere, anche in questa trasformazione trova conferma quella tendenza, comune a tutta la Neuzeit, verso un’affermazione dell’ordinario che nega progressivamente qualsiasi ruolo privilegiato a quelle istituzioni, come lo Stato e la Chiesa, a cui tradizionalmente era stata attribuita una funzione di mediazione tra presente ed eternità, tra tempo sacro e tempo profano. Mentre le concezioni premoderne del tempo erano tendenzialmente pluridimensionali e verticali, quella moderna è orizzontale e omogenea, in definitiva unidimensionale. Ed è proprio questo fatto che ha reso possibile la nascita del concetto moderno di simultaneità130 che, a sua volta, come ha mostrato nei suoi lavori Benedict Anderson, è all’origine dell’idea moderna di nazione come entità geografica e storica che raccoglie in sé eventi e persone che appartengono a uno spazio e a un tempo comune e omogeneo.131 Da questa trasformazione in senso radicalmente secolare della percezione del tempo, da cui è derivata anche la possibilità di figurarsi spazi metatopici non ideali ma profani (come l’idea tipicamente moderna di sfera pubblica),132 hanno avuto quindi origine i nazionalismi ottocenteschi e novecenteschi, ma insieme a essi anche quella variante tipicamente moderna della tradizione repubblicana che si incarna nel modello ancora oggi influente della democrazia deliberativa.133 È in questa ambivalenza originaria che va ricercata secondo Taylor la ragione della strutturale

129

Cfr. Anderson 1991: cap. II. Per simultaneità, come dice Taylor, dobbiamo intendere specificamente il fatto che “eventi completamente slegati in termini di causazione e significato sono tenuti insieme semplicemente dal loro verificarsi allo stesso punto in una singola linea temporale profana”; cfr. Taylor 1992a: 240. 131 Cfr. Anderson 1991: 37 sgg.; sulla questione dell’origine moderna dei movimenti nazionalisti cfr. anche Taylor 1997c. 132 In proposito cfr. Taylor 1992a e 1992d. 130

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ambiguità dei movimenti nazionalisti moderni, che oscillano costantemente tra l’ideale positivo dell’autodeterminazione democratica e quello funesto della purificazione etnica o addirittura del messianismo politico.134 A ogni buon conto per Taylor la distinzione tra le due dimensioni sacra e profana della temporalità umana è una componente specifica e originale della fede cristiana che storicamente ha contribuito a preservarla dalle varianti più estreme di tentazione teocratica e che dovrebbe renderle invisa anche ogni forma di clericalismo, con i suoi tradizionali corollari di paternalismo e pessimismo antropologico.135 Ma se le cose stanno così è chiaro che la fine di ogni genere di sanzione divina delle comunità politiche, la loro completa secolarizzazione, di per sé non comporta in alcun modo l’esaurimento della dimensione religiosa. Al contrario, secondo Taylor, a prescindere dal fatto che “vi sono anche motivi religiosi per sposare la separazione tra stato e chiesa” (Taylor 1995a: 309), in quanto tale la radicale secolarizzazione del tempo storico “non è affatto incompatibile con le credenze religiose, [...] essa comporta solo una trasformazione della coscienza del tempo che ridefinisce in maniera massiccia le relazioni tra Dio (e non solo di Dio) e la società, ma non è in quanto tale una negazione di Dio” (Taylor 1992a: 246).136 Per certi versi, quindi, è legittimo persino interpretare la secolarizzazione come un processo inscritto nella storia stessa della cristianità. Come si può capire, anche in questo ambito più specifico la conclusione raggiunta da Taylor non è poi così diversa da quella già espressa in Sources of the Self. Con essa, però, siamo posti di fronte al côté più specificamente politico, oltre a quello prettamente spirituale, della secolarizzazione. Come prevedibile, anche nel tradizionale principio liberale della neutralità dello 133

In proposito cfr. Habermas 1992: cap. VII e Elster 1998. Cfr. Taylor 1970a: 102, 110; Taylor 1997c: 39 sgg.. 135 Cfr. Taylor 1960b: 168. 136 Si veda anche Taylor 1964: 5 e Taylor 1990a: 103; cfr. anche ivi: 100, a proposito del carattere per molti versi “antipolitico” della religione cristiana. 134

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stato e della distinzione netta tra stato e chiesa Taylor vede all’opera una trasformazione culturale più complessa e ambivalente di quanto non sia generalmente riconosciuto.137 In primo luogo tale principio ha secondo Taylor un’origine cristiana che merita di essere rimarcata anche per spiegare perché esso ben difficilmente venga accettato dalle altre civiltà come un dispositivo culturalmente neutro.138 Comunque, e ciò va tenuto ben presente, il riconoscimento dell’origine storica e culturale del principio non deve impedirci di coglierne la valenza quantomeno potenzialmente universale.139 Ma tale significato potenzialmente universale può essere apprezzato, secondo Taylor, solo se di questo principio non se ne fa un idolo, non lo si eleva cioè a dogma intoccabile, ma se ne riconosce la natura di bene tra altri beni, di strumento prezioso ma non sacro e inviolabile.140 Solo una simile messa in prospettiva consente infatti di porre questo bene al servizio delle difficoltà concrete con cui si è chiamati volta a volta a confrontarsi nelle moderne società liberali, applicandolo con quell’attitudine negoziatoria e fronetica che è peraltro per Taylor l’unica appropriata alla sfera politica.141 L’altro motivo che induce Taylor a mettere in discussione il “culto” per la neutralità tipico di molte posizioni liberali contemporanee è che egli ritiene del tutto irrealistica, anzitutto per ragioni strettamente antropologiche, la pretesa di confinare la dimensione religiosa a una sfera puramente privata. Il perché è presto detto. In primo luogo, secondo Taylor, vi è una dimensione irriducibilmente “religiosa” nella politica, che si rende visibile in particolare nel suo inevitabile orientamento a dei beni comuni che trascendono i singoli

137

Cfr. Taylor 1970a: 102. In proposito cfr. Taylor 1998a: 31; Taylor 1992c: 249. 139 Taylor intende l’universalità in un’accezione analoga a quella walzeriana di universalità per reiterazione, per cui un contenuto culturale nato in un contesto storicamente determinato può essere recuperato e rideclinato alla luce della propria storia e dei propria assunti lato sensu ontologici anche dalle altre culture (cfr. Walzer 1988: 93,188, 295 e Walzer 1994: 119). In proposito cfr. la nozione di “universale de facto” in Taylor 1990c: 151, o quella di “universalità del particolarismo” in Taylor 1988c: 139. 140 Cfr. Taylor 1994a: 249-250; Taylor 1998a: 52. 141 Cfr. Taylor 1994a: 250-253. 138

58

individui, ma al contempo contribuiscono a definirne in maniera essenziale l’identità.142 Nella politica, intesa nella sua accezione originaria, non c’è infatti spazio per una concezione della libertà esclusivamente negativa.143 In secondo luogo, in questo ambito, secondo Taylor, non c’è modo di sfuggire alla condanna alla particolarità, non c’è modo cioè di convincere dei credenti che il principio in nome del quale devono sacrificare le proprie convinzioni più profonde sia effettivamente “neutrale” e non esprima, in verità, un’altra visione dell’uomo e del mondo che per parte sua aspira a una completa egemonia, ancorché mascherata da imparzialità. A questo paradigma politico della neutralità, Taylor, come ha avuto occasione più volte

di

ribadire,

preferisce

quello

incentrato

sulla

idea

di

“complementarità”, che egli rintraccia principalmente nell’opera di Herder e Humboldt.144 In Taylor, quindi, il problema della neutralità dello stato si intreccia costantemente con quello della composizione delle differenze, della mediazione “virtuosa” tra individui e comunità, o comunità e sottocomunità. In proposito va rilevato che rispetto a questo tema la posizione espressa dal filosofo canadese ha conosciuto nel corso degli ultimi dieci/quindici anni delle lievi, ma significative variazioni, per cui si può legittimamente parlare di un lento ma progressivo spostamento di enfasi dal bene comune alla differenza. Mentre negli scritti della fine degli anni ’80 l’accento cadeva infatti per lo più sui temi della libertà civica o positiva, sui bisogni di coesione delle comunità politiche democratiche, e così via, nel corso degli ultimi anni l’attenzione di Taylor si è incentrata soprattutto su quei fenomeni, da lui definiti di “esclusione democratica”,145 in cui si

Qui è esplicita l’adesione di Taylor a uno dei principi basilari della tradizione politica repubblicana: la visione delle “leggi” come ricettacolo della dignità dei cittadini (cfr. Taylor 1989g: 68) cfr. anche Taylor 1970a: 100 sgg. 143 In proposito cfr. Taylor 1979b. 144 In proposito cfr. Taylor 1988b: 218-219 e, più avanti, il § 4. 145 In proposito cfr. Taylor 1998a: 40 sgg.; Taylor 1998d. 142

59

evidenziano le difficoltà che anche le democrazie deliberative incontrano allorché si trovano a dover mediare delle differenze davvero profonde. In questo modo è emersa con maggiore chiarezza la predilezione di Taylor per un modello di composizione delle differenze assai simile a quello proposto nei suoi ultimi lavori da John Rawls. Nello scritto del 1998 Modes of Secularism, ad esempio, Taylor, analizzando l’evoluzione del pensiero politico moderno, ha identificato e descritto due soluzioni idealtipiche a tale questione, esplosa non a caso con estrema virulenza nella storia europea con le guerre di religione del

XVII

secolo. La prima è quella che egli definisce in questo saggio strategia del “common ground” e che presupponeva per l’appunto l’individuazione di un insieme di principi e dottrine comuni a tutte le sette e confessioni cristiane (senza peraltro escludere di principio da questo consensus gentium anche gli agnostici e i non credenti). Nel caso in questione, com’è chiaro, la composizione delle differenze non richiede affatto un’estromissione della dimensione religiosa dalla vita pubblica, ma semplicemente un’opera di mediazione tra le possibili fonti di conflitto dottrinario. È evidente, però, che un simile obiettivo è reso più agevole dalla comune radice cristiana delle prospettive religiose (e anche non religiose) a cui è consentito l’accesso allo spazio pubblico.146 L’altro grande prototipo storico di mediazione delle differenze viene definito invece da Taylor modello dell’“etica politica indipendente”. Qui il fine (portato avanti esemplarmente in origine da Grozio) è piuttosto di definire un’etica politica indipendente da ogni credenza religiosa, e vincolante anche nell’ipotesi estrema della non esistenza di Dio. Quest’ultima strategia esige dunque da parte dei cittadini un’astrazione così radicale dalle proprie credenze religiose che, anche alla luce dei suoi assunti antropologici, appare a Taylor particolarmente implausibile. Essa deve

146

Cfr. Taylor 1998a: 35.

60

infatti di necessità accompagnarsi a una richiesta di assoluta privatizzazione della fede che ha molte probabilità di entrare in conflitto con un’esperienza religiosa autentica e che per di più ha come esito naturale una visione della religiosità che finisce per relegarla tra i bisogni accessori e puerili dell’uomo. In aggiunta a ciò, con l’incremento nella società del numero di individui che vive questa etica indipendente non come un semplice experimentum mentis, un artificio intellettuale indispensabile per temperare i conflitti religiosi e consentire agli uomini di vivere in pace, ma come una vera e propria “dottrina comprensiva”,147 essa è destinata a essere vissuta sempre più dai credenti “come un’esclusione gratuita della religione nel nome di una credenza metafisica rivale, e non come un semplice atto di protezione e controllo dei confini di una sfera pubblica comune e indipendente” (Taylor 1998a: 36). Detto ciò, tutto farebbe pensare che Taylor personalmente propenda per un modello di composizione delle differenze che stia in continuità con la strategia del common ground, la strategia che valorizza di più la particolarità e la complementarità. Ma, tenuto conto del livello di diversità che si manifesta nelle società contemporanee, e del fatto che “l’unica cosa che si può sperare di condividere in esse è un’etica puramente politica, non il suo radicamento in una qualche visione religiosa” (ivi: 37), egli finisce per parteggiare per una sorta di combinazione delle due prospettive rivali del common ground e della independent ethics, il cui fine realistico è un consenso per intersezione su una serie di principi politici che, benché comuni, saranno però giustificati e accettati a partire da concezioni “metafisiche” anche radicalmente diverse. Volendo, la si potrebbe anche interpretare come una visione centrata sull’idea di complementarità delle particolarità, che prende però sul serio la loro aspirazione all’universalità. Ed è anche un modello che, secondo Taylor, può legittimamente aspirare a

147

Sulla nozione di dottrina comprensiva cfr. Rawls 1993: 5 sgg.

61

essere “riappropriato” in contesti anche molto diversi: in definitiva un adeguato bilanciamento delle aspirazioni parimenti legittime all’unità e alla differenza. Ovviamente tale bilanciamento è un’operazione tutt’altro che semplice e garantita in partenza. Esso, al contrario, non esclude un ampio margine di conflitto nell’interpretazione e attuazione delle tavole dei valori e principi comuni. Tale conflitto non potrà però essere solo strategico e il suo esito non potrà in ogni caso consistere unicamente nel raggiungimento di un “modus vivendi” (ivi: 51). In questa importante postilla si renda ben visibile la permanenza in Taylor di un modello non strumentale di comunità, dell’idea, cioè, di un bene comune condiviso e non puramente convergente. Ciò che Taylor pare volerci dire, infatti, è che benché sui principi è probabile che si debba convergere anche da prospettive molto diverse, in ultima istanza essi dovranno essere sentiti come vincolanti perché propri; dovranno cioè essere vissuti come dei veri e propri impegni etico-religiosi, dei commitments. Osservato da questo punto di vista il fenomeno della secolarizzazione, e in particolare il principio della secolarità dello stato, non potrà che palesare tutto il suo carattere storicamente positivo e persino la sua indispensabilità. Come Taylor

precisa in un passo di Modes of Secularism: “esso è

necessario per la vita democratica di società religiosamente diverse. Tanto il vincolo comune che i punti di riferimento cruciali del dibattito politico devono essere infatti accessibili a cittadini che aderiscono a confessioni religiose diverse o che non vi aderiscono affatto. Se il ‘popolo’ [inteso come agente collettivo] fosse definito in termini confessionali, allora tutti coloro che non aderiscono a tale confessione verrebbero esclusi di fatto dalla piena partecipazione all’autogoverno. [...] È la moderna epoca democratica che rende i regimi secolari necessari, in virtù degli stessi requisiti della legittimità democratica” (Taylor 1988a: 46-47). Ma nemmeno questo

62

principio è una garanzia assoluta di salvezza. Esso non ci fornisce cioè un grimaldello universalistico, un “asso” (trump) secondo la fortunata espressione di Ronald Dworkin,148 per risolvere i conflitti che nascono intorno all’identità di una concreta comunità politica. Questi ultimi vertono infatti spesso su elementi particolari (di storia, lingua, cultura e religione) che inevitabilmente sfuggono alla presa del consenso per intersezione. Ciò non toglie, comunque, che il consenso intorno a un nucleo di principi eticopolitici possa costituire il nucleo di quel “moderno patriottismo democratico” in cui si esprime l’eredità migliore del liberalismo concepito come una cultura morale, come un “fighting creed”.149 È del tutto evidente, poi, che per Taylor rappresenta un motivo di orgoglio la consapevolezza che alla base di questa importante e preziosa evoluzione delle democrazie liberali vi è un tratto peculiare della religione cristiana: il suo essere originariamente una religione “senza armi” (Taylor 1999b: 18), “senza potere” (Taylor 1989f: 23), una fede costretta sin dalle origini a fare i conti con la pluralità. Da questo punto di vista il vantaggio principale che deriva alla fede cristiana dal processo di secolarizzazione è proprio l’impulso a una riscoperta delle proprie origini e, nel pieno riconoscimento del ruolo e del valore del saeculum, a una riaffermazione della propria radicata ispirazione umanistica. Qualcosa di molto prossimo a un esercizio di kenosis. A dire il vero una simile prova di umiltà è richiesta su entrambi i fronti della controversia sulla secolarizzazione e presuppone la capacità di aprirsi a una visione più complessa e sfumata di tale fenomeno storico. Ai laici “secolaristi” è chiesto infatti di non limitarsi a vedere nella religione un semplice retaggio del passato, l’espressione di un irriducibile infantilismo dell’uomo, mentre ai credenti è chiesto di non chiudere gli occhi di fronte alle proprie colpe passate e alla grandezza degli ideali umanistici della

148

Cfr. Dworkin 1978: 136.

63

cultura secolare.150 Da entrambi ci si aspetta quindi anzitutto un atto di “carità”, di generosità interpretativa; di partire cioè dal presupposto che l’orizzonte di riferimento del proprio interlocutore sia spiritualmente ricco e degno della massima attenzione. Questa è d’altra parte la precondizione minima per qualsiasi operazione di “fusione degli orizzonti”.151  Prima di passare al quarto e conclusivo paragrafo resta ancora un tema da discutere per quanto concerne l’interpretazione tayloriana dell’identità moderna, ed è la questione della sua “diagnosi” della crisi contemporanea. Il ritratto che Taylor propone della civiltà moderna è senza dubbio il ritratto di un’epoca di crisi. Ma questa non è certamente una novità. Tradizionalmente la modernità è stata rappresentata come l’età della crisi per antonomasia, un’epoca in perenne squilibrio, alla continua ricerca di un possibile centro di gravità.152 Questa è ovviamente una conseguenza diretta di uno dei tratti più caratteristici della cultura moderna: la sua costante proiezione verso il futuro, verso il nuovo. Nello specifico, la crisi in cui versano le società contemporanee, benché presenti alcuni tratti peculiari, viene interpretata da Taylor pur sempre alla luce della costellazione concettuale moderna. Per sua stessa ammissione Taylor è infatti un partigiano della “lunga durata”,153 e la tesi che l’età moderna sia in verità finita e sia stata soppiantata da qualcosa di non ben precisato ma definibile come un’età “postmoderna”154 non lo ha mai pienamente persuaso. Per 149

Cfr. Taylor 1992c: 249; Taylor 1992g; Taylor 1998a: 49. Questo è chiaramente il senso del passo che si legge in conclusione di Sources of the Self: “E anche i non credenti, se non lo soffocano sul nascere, sentiranno il fascino potente del vangelo, semplicemente lo interpreteranno in un’ottica secolare. Analogamente i cristiani, se non si rinchiudono in una cieca presunzione, riconosceranno le terribili distruzioni operate nella storia nel nome della fede” (Taylor 1989a: 519-520; trad. it. 630631). 151 Cfr. Taylor 1992c: 252 sgg. 152 In proposito cfr. Koselleck 1959; Koselleck 1979; Habermas 1985; Rosa 1998: 15 sgg. e cap. V. 153 Cfr. Taylor 1989a: 393 e Taylor 1988f: D2. 154 Cfr. Lyotard 1979 e Lash 1990. 150

64

molti aspetti, come recita il titolo di un importante capitolo di Sources of the Self, per Taylor noi siamo ancora contemporanei dei vittoriani.155 Le discussioni in cui ci troviamo ancora oggi impegnati, i nostri riferimenti culturali fondamentali, gran parte dei termini stessi in cui diamo forma alle nostre polemiche sono rimasti quelli maturati nel corso della grande crisi settecentesca e ottocentesca. La polemica tra illuministi e controilluministi, tra umanisti e antiumanisti, scientisti e critici della scienza moderna, domina ancora la nostra scena intellettuale in vesti solo lievemente modificate. Paradossalmente, ma significativamente, l’unico tra i protagonisti di questo dibattito a essere pressoché scomparso dalla nostra discussione pubblica è proprio il marxismo, che ha rappresentato negli ultimi due secoli il principale tentativo di offrire una risposta esaustiva alla crisi moderna attraverso una sintesi, che si è dimostrata in ultima istanza insostenibile, delle due culture fondanti della modernità: quella razionalistica, naturalistica, illuministica e quella espressivista, vitalista, romantica.156 La verità è che una sintesi di queste istanze diverse si è dimostrata impossibile nelle nostra società e proprio in questa frattura va ricercata secondo Taylor la ragione ultima della loro crisi permanente. Certo, esiste e si è imposta come unica soluzione praticabile una sorta di compromesso liberale per cui gli individui contemporanei si scoprono “romantici nella propria vita privata o interiore (imaginative), e utilitaristi o strumentali nella propria vita pratica o pubblica” (Taylor 1975a: 541). Com’è noto questo compromesso è destinato ad andare incontro a delle crisi cicliche a seconda delle diverse congiunture economiche o culturali e, benché non si sia ancora materializzata un’alternativa plausibile a esso, vi sono chiari segni nelle nostre società che il disagio, il malessere che lo accompagna sin dalle sue origini non ha ancora trovato una cura definitiva.157 155

Cfr. Taylor 1989a: cap. XXII. Cfr. Taylor 1974 e Taylor 1979a: 140-154. 157 Cfr. Taylor 1991a: cap. I. 156

65

Ma, nel dettaglio, come viene rappresentato da Taylor il “disagio” della civiltà moderna? In effetti nel corso degli anni Taylor ha proposto delle descrizioni lievemente diverse, ancorché non incompatibili, di questo malaise.158 Volendo comunque raccogliere in un quadro sinottico gli elementi portanti di tale crisi si potrebbe suddividerli in tre grandi gruppi. Vi è innanzitutto una crisi di tipo lato sensu morale (1) che è l’oggetto primario dell’analisi svolta in Sources of the Self. Questa crisi, com’è noto, è in primo luogo il portato di un deficit autointerpretativo degli individui moderni, è in primis una crisi di inarticulacy. Di essa sono responsabili le culture morali dominanti nella nostra civiltà; culture morali soggettiviste, proceduraliste, monologiche, e in generale incapaci di pensare fino in fondo la complessità dell’esperienza morale degli individui. Di qui lo scetticismo, il formalismo, la vacuità di gran parte del pensiero morale contemporaneo che, proprio perché incapace di rispondere alle effettive domande di senso degli individui, li condanna a fare un uso eclettico e spesso disordinato delle risorse morali di cui dispongono, lasciando nella più assoluta opacità la relazione tra quelli che essi pure percepiscono come degli obblighi morali ineludibili e le fonti morali che dovrebbero motivarli ad agire di conseguenza. Vi è poi una crisi legata alla proliferazione nella nostra società di una forma di razionalità di tipo strumentale e anonimo (2).159 Essa domina molte delle nostre istituzioni, dagli ospedali alle scuole, dall’amministrazione pubblica ai luoghi di lavoro, e dà forma a gran parte delle pratiche della nostra vita quotidiana, finendo così però inevitabilmente per scontrarsi con altre esigenze profonde dell’animo umano. Da qui i fenomeni ben noti della perdita del senso (con i disagi sociali che a essa sono necessariamente correlati: crisi dell’autorità a ogni livello, diffusione delle patologie 158

Si confrontino ad esempio i ritratti proposti in Taylor 1985g: 77-80 e Taylor 1989a: 498499 (trad. it. 606-608). 159 Cfr., in particolare, Taylor 1991a: 4-8; 94-108; Taylor 1994d.

66

psichiche,

anomia),

dell’individualismo

estremo

e,

soprattutto,

dell’intensificarsi della crisi ecologica con l’ipoteca che essa pone sul futuro dell’intera umanità Vi è infine una crisi più specificamente politica (3) che non ha mai smesso di suscitare l’interesse di Taylor fin dai suoi esordi sulla scena pubblica.160 Essa si manifesta con maggiore evidenza nei processi di crescente atomizzazione delle società moderne, nel declino dell’idea stessa di un bene comune, nel calo progressivo della partecipazione ai processi decisionali. Col diffondersi tra gli individui di un atteggiamento strumentale nei confronti dello stato si sono poste le condizioni per quei fenomeni di crisi di legittimità, di cui il più celebre resta quello connesso alla grave crisi fiscale seguita alla crisi petrolifera degli anni ’70 che ha posto le basi per il successivo tentativo (in parte fallito) di smantellare il modello del welfare affermatosi nel dopoguerra nelle democrazie occidentali.161 A questi conflitti di tipo economico si sono affiancati nel corso degli ultimi anni i problemi legati alle lotte per il riconoscimento che si moltiplicano senza sosta nelle nostre società multiculturali.162 Da qui il rischio del riemergere di fenomeni come il razzismo, il nazionalismo estremo, addirittura di forme di neotribalismo che rendono i conflitti interculturali dei nostri tempi sempre più violenti e ingestibili. Ovviamente questi tre gruppi di problemi e disagi sono tutt’altro che slegati tra di loro e rappresentano piuttosto un ensemble di motivi culturali e sociali che Taylor ha cercato di raccogliere sotto l’etichetta assai generica di identità moderna. Trovare delle risposte plausibili a questa crisi di tipo globale naturalmente non rappresenta un compito agevole. Taylor ha provato nel corso degli anni a suggerire delle possibili vie d’uscita dalla crisi politica delle nostre società puntando il dito principalmente contro 160

Cfr., ad esempio, Taylor 1958 e Taylor 1970: cap. V. In proposito cfr. Taylor 1976 e Taylor 1981. 162 Cfr. Taylor 1992c. 161

67

l’interpretazione inadeguata della comunità politica che a suo avviso si ritroverebbe in gran parte delle dottrine liberali contemporanee, ossessionate dalle questioni della giustizia distributiva e dal rispetto di un’idea astratta di eguaglianza, e cieche invece nei confronti delle differenze significative e del valore della partecipazione e dell’autogoverno.163 La sua è una precisa scelta di campo a favore di un’idea né fondativa né costruttivista di politica, bensì fronetica e negoziale.164 Essa punta a recuperare e riarticolare le componenti repubblicane che sono presenti all’interno della tradizione politica liberale, rinunciando però alla parte più integrazionista e nemica del conflitto dell’eredità dell’umanesimo civico.165 In proposito si sarebbe tentati di parlare di una rinuncia a Rousseau in favore di Tocqueville e Montesquieu. Da qui deriva anche la predilezione di Taylor per un modello di organizzazione statuale di tipo federale, ritenuta la più rispondente a quell’identità a cornici concentriche che è tipica degli individui moderni che riconoscono appartenenze a livelli anche molto diversi: dalle più prossime e personali a quelle più anonime e distanti.166 Rispetto invece alla più generale crisi spirituale che investe la nostra civiltà Taylor ha delle proposte meno precise da avanzare. La sua convinzione, qui, è che una riarticolazione del nostro universo morale, un viaggio alla scoperta dei tratti portanti e spesso misconosciuti della nostra identità personale possa essere empowering per gli individui, possa cioè rappresentare

un’inalazione

di

energie

spirituali

nei

polmoni

“semicollassati” degli individui contemporanei.167 L’idea di Taylor è che la filosofia possa svolgere un ruolo importante in questo “esercizio di recupero” e di riarticolazione del nostro universo spirituale solo se mantiene

163

Cfr. Taylor 1985g: 87 sgg. In proposito cfr. Laforest 1994. 165 Cfr. Taylor 1990d; Taylor 1988f: 26-30; Taylor 1989g: 76. 166 In merito cfr. Taylor 1993b e Taylor 1995c. 167 L’immagine è suggerita dallo stesso Taylor in conclusione di Sources of the Self; cfr. Taylor 1989a: 520 164

68

un legame diretto con le altre “forme simboliche” e in particolare con le arti: le vere potenze epifanico-espressive del nostro tempo. Taylor è persuaso che la svolta moderna verso l’interiorità e la perdita irreversibile di un ordine cosmico di significati condivisi che essa ha comportato costringano chiunque abbia come obiettivo di “esplorare l’ordine in cui siamo posti nell’intento di definire le fonti morali” (Taylor 1989a: 512) a farlo ricorrendo a immagini dotate di forte risonanza personale. In ragione di ciò arte e filosofia assolvono un compito similmente epifanico (benché, ovviamente, con risorse espressive assai diverse!). Entrambe devono infatti portare in qualche modo alla luce qualcosa per cui non si hanno ancora le parole adatte e per cui, in ogni caso, non si potranno trovare mai le parole che siano adeguate per tutti. L’aspirazione alla conciliazione finale in questo ambito non potrà essere pertanto nulla di più di un ideale regolativo, una sorta di asintoto morale. Ma come può adempiere la filosofia un compito così arduo? In parte lo si è già visto: portando alla luce le fonti morali che, pur in molti casi celate, continuano a motivare le scelte etiche degli individui; articolando un’idea di soggettività più ricca: meno monologica e più dialogica, meno puntiforme e più incarnata, meno distaccata e più indulgente, meno frammentaria e narrativamente più unitaria; e infine riportando in piena luce quelle tendenze al trascendimento di sé e al trascendimento della vita che secondo Taylor costituiscono parte essenziale del bagaglio di ogni uomo. Ma tutto ciò non è comunque sufficiente per rispondere alla crisi spirituale in cui versano i moderni. Qui incontriamo la domanda fondamentale che rimane in definitiva inevasa in Sources of the Self. Verso la fine del libro Taylor avanza con prudenza l’interrogativo se la cultura moderna con la sua scoperta di nuove fonti morali, con il suo umanesimo radicale ed esclusivo non si sia infilata in un vicolo cieco, se essa non sia in

69

definitiva un’identità autodistruttiva.168 Ma Taylor non risponde a questa domanda. In ultima istanza egli è convinto che sia impossibile offrire una risposta sensata a questo tipo di domande. E ciò per ragioni strettamente filosofiche che hanno a che fare con la costitutiva finitezza, non trasparenza e situatezza dell’esperienza umana. In proposito la visione che Taylor ha dei limiti costitutivi dell’impresa filosofica si avvicina molto a quella di Hegel. Come la hegeliana Eule der Minerva anche la riflessione tayloriana sull’identità moderna non può infatti fare molto di più che prendere il volo sul far del crepuscolo.169 Per questo, quando si trova a dover porre degli interrogativi sul futuro delle nostre società, Taylor si limita a esprimere delle sensazioni, delle impressioni (hunches). Senza dubbio Taylor nutre il dubbio che la cultura morale moderna possa far fronte alle richieste che essa stessa avanza nei confronti dei suoi membri in assenza di una fonte morale di tipo teistico che trascenda la vita pur nell’intento di affermarla con ancora maggiore forza. C’è qualcosa nelle prospettive umanocentriche che lascia Taylor insoddisfatto; c’è in esse secondo lui qualcosa di inadeguato se confrontato con le potenzialità autodistruttive dell’uomo, con la radicalità di alcune espressioni della sua malvagità. È evidente che sotto questa impressione si nasconde qualcosa di più di una semplice speranza di ricomposizione delle fratture della modernità, qualcosa di assai prossimo a una vera e propria aspirazione alla riconciliazione. D’altra parte nient’altro potrebbe spiegare la paradossale simpatia che, per sua stessa ammissione,170 Taylor prova nei confronti delle interpretazioni più “pessimistiche” della dialettica dell’illuminismo. Egli è infatti pienamente consapevole che gli iperbeni sono spesso fonte di conflitti,171 che la loro articolazione può essere causa più di pericoli che di benefici, che nell’homo religiosus si annida qualcosa di oscuro e di 168

Cfr. Taylor 1989a: 504. In proposito cfr. Taylor 1999c: 162; Taylor 1994a: 214. 170 Cfr. Taylor 1989a: 506. 169

70

perturbante,172 ma ciò non gli impedisce di pensare che la posta in gioco sia a tal punto alta, che la scommessa meriti in definitiva di essere giocata. In questo senso è giusto dire che la diagnosi tayloriana della crisi moderna non è né ottimista, né pessimista, ma acutamente vigile. Alla sua base vi è qualcosa di simile a un realismo della speranza che ha numerosi antecedenti

nella

storia

della

spiritualità

cristiana.

L’aspirazione

conciliatoria che le è sottesa non ha ovviamente nulla a che fare con qualsivoglia forma di reductio ad unum e l’immagine che la nutre è piuttosto quella della complementarità, dell’intreccio di una pluralità che escluda ogni forma di “mutilazione” spirituale.173 ‘Speranza’ è qui ovviamente la parola chiave. Ed è sicuramente la speranza che ha indotto Taylor a chiudere Sources of the Self con un riferimento tanto schietto quanto sorprendente alla “promessa di un’affermazione divina dell’umano insita nel teismo giudaico-cristiano”, e in un’altra occasione a rispondere a un’osservazione critica di Isaiah Berlin con queste significative parole con cui non è inopportuno concludere il paragrafo: “mi pare che il nostro disaccordo stia tutto nel fatto che per quanto mi riguarda sono restio a ritenere che ciò [ossia l’inconciliabilità tra i diversi beni] rappresenti l’ultima parola. Credo ancora che noi possiamo e dobbiamo lottare (per usare un’espressione di Nietzsche) per quella ‘trasvalutazione’ che potrebbe dischiudere la strada a un modo di vita, individuale e sociale, in cui queste diverse domande possano trovare una conciliazione. Per parte mia non credo che questa sia una speranza del tutto chimerica” (Taylor 1994a: 214).

§ 4. Conclusione: un umanesimo cristiano Ma che cosa esattamente comporta nella prospettiva di Taylor questa speranza di riconciliazione? 171

Cfr. ivi: 64. Cfr. ivi: 519 e Taylor 1996b. 173 Cfr. Taylor 1989a: 521. 172

71

Si può procedere inizialmente per esclusione. Ciò a cui ci si trova di fronte non di certo è la proposta di una nuova architettonica dei beni sul modello, per fare un esempio ovvio, della grande sintesi tomistica. A rendere una simile sintesi impraticabile ai nostri giorni c’è, tra i molti motivi plausibili, anche il carattere irriducibilmente epifanico e personale del discorso morale moderno. Né d’altra parte, si può sensatamente ritenere che in Taylor si ripresenti sotto mentite spoglie il modello hegeliano della totalità dialettica, che presuppone una visione teleologica della storia che Taylor certamente non condivide (benché, come detto, nella sua prospettiva vi sia senza dubbio spazio per un’idea di progresso storico e morale “settoriale” o parziale). Nei suoi scritti non vi è poi traccia di speranze “messianiche” in possibili trasformazioni della struttura economico-sociale che pongano fine alle contraddizioni presenti, né attesa per il ritorno di un passato che è ormai irrimediabilmente alle nostre spalle. A ben vedere, non è facile capire che cosa precisamente intenda Taylor con i suoi episodici accenni a questa speranza di una “conciliazione” o “trasvalutazione” futura, e nei suoi testi è impossibile trovare risposte dirette a un simile interrogativo. Non resta quindi che cercare di ricavarle dai suoi scritti forzando magari un po’ il suo pensiero. Da una cosa si può senza dubbio partire: Taylor è un cristiano convinto. In un’intervista è arrivato persino a definire la propria teologia “ortodossa”.174 Il che fa ovviamente pensare che egli non abbia difficoltà a fare propria la tradizionale speranza cristiana nella Parusia e nel Giudizio finale. Ma ciò è ovviamente troppo generico e dottrinario per essere davvero significativo per chi ha come obiettivo una chiarificazione della specificità teorica della prospettiva articolata da Taylor. C’è bisogno di altro. Conviene forse allora prendere le mosse da un altro aspetto caratteristico della riflessione di Taylor: la sua marcata caratterizzazione pluralista. In più

174

Cfr. Taylor 1989f: 24; si veda anche Taylor 1998f: D2.

72

di un’occasione Taylor ha ricondotto questo tratto evidente del suo pensiero alla sua passione di antica data per Herder, senza però chiarire mai nel dettaglio le ragioni profonde di questa affinità. In un’occasione Taylor ha fatto un cursorio riferimento alla “visione della divina provvidenza di Herder, secondo la quale tutta la varietà di culture esistenti non è un mero accidente, ma è destinata a generare una ancor più grande armonia” (Taylor 1992c: 256). Recentemente Taylor è tornato su questo tema chiarendo che alla base di questa visione vi è una concezione teologica della vita umana da lui riassunta in questi termini: “è l’idea dell’umanità come qualcosa che dev’essere realizzato non in ogni singolo essere umano, ma piuttosto nella comunione tra tutti gli uomini. L’essenza dell’umanità non è qualcosa che, nemmeno di principio, una singola persona potrebbe realizzare nel corso della sua vita. E ciò non per via della finitezza e della limitatezza di questa vita, giacché noi non potremmo rimediare ai limiti di una vita, mettendole, per così dire, un’altra vita al fianco fino a esaurire la varietà umana. La pienezza dell’umanità non deriva dalla somma di differenze, ma dallo scambio e comunione tra di esse. Esse raggiungono la pienezza non separatamente, ma insieme. L’immagine usata da Herder è quella di un coro, o potremmo dire di un’orchestra. La ricchezza definitiva sopraggiunge quando tutte le differenti voci o strumenti convergono. È qualcosa che essi creano nello spazio che sta tra di loro (La teologia che sta alle spalle di questa concezione trova le sue fonti in certe cruciali dottrine cristiane, ad esempio, quella della Trinità e della Comunione dei Santi)” (Taylor 1998b: 214-215). Questo riferimento alla dottrina trinitaria, e all’immagine del coro, come già accennato, ritornerà con ancora maggiore forza all’interno di A Catholic Modernity? e in particolare nella replica di Taylor a Jean Bethke Elshtain. Da questi cenni (giacché non sono mai più che rapidi cenni) e da altri disseminati qui e là nell’opera tayloriana sembrerebbe emergere un’idea

73

guida che si potrebbe essere tentati di indicare come l’elemento più caratteristico della riflessione tayloriana. Nelle pagine seguenti vorrei cercare in qualche modo di dare forma e sostegno a questa intuizione. Nel saggio Living with Difference Taylor parla esplicitamente di un modo di pensare l’associazione tra le persone alternativo a quello liberale, in cui “le persone possano associarsi e unirsi nella differenza, senza astrarre da queste differenze” (Taylor 1998b: 214). L’idea che sta alla base di questa concezione della convivenza umana è che “le persone possano unirsi non a dispetto della differenza, ma per via della differenza; perché sentono, cioè, che la differenza arricchisce ciascuna delle parti, che le loro vite sono più anguste e meno piene quando sono soli di quando sono associati ad altri. In questo senso la differenza definisce un complemento” (ibid.). Ed è proprio questa idea della complementarità a stare particolarmente a cuore a Taylor. La cosa è attestata anche dal forte interesse che Taylor nutre e non nasconde per l’immagine gadameriana della fusione degli orizzonti. In una comunità gli individui possono scoprire di non bastare a se stessi. Sperimentando dei beni autenticamente comuni possono rendersi conto che la pienezza della vita non passa all’interno di ciascuno di loro, ma accade tra le persone.175 Nella piena comprensione di questo elemento essenziale della condizione umana Taylor intravede la chiave per giungere anche alla comprensione del mistero cristiano della trinità. Esso equivale per lui al riconoscimento della originarietà, della priorità, della diversità, e in particolare della relazionalità, sull’unità monologica. Nell’immagine di un Dio al contempo uno e trino sarebbe incarnato dunque il principio stesso della pluralità. Ed è questa la ragione per cui Taylor vede ed esalta nell’esperienza cristiana soprattutto questa dimensione plurale.176 Ma primato della differenza e della relazionalità significa anche primato della particolarità rispetto a un’astratta universalità, una paradossale “universalità del particolarismo” (Taylor

175

In proposito cfr. Taylor 1999b: 113.

74

1988c: 139). Ma che cosa significa tutto ciò? Taylor fa forse propria una prospettiva relativistica? E, se sì, come può conciliarsi una simile assunzione con l’adesione a una religione rivelata? In effetti Taylor ha ripetutamente negato che la sua prospettiva pluralistica possa essere interpretata come l’adesione a una forma di relativismo177. Ma questo non basta a dissipare i dubbi e d’altra parte le cose non sono poi così chiare. Non a caso la questione che ha più impegnato Hartmut Rosa nella sua eccellente ricostruzione del pensiero di Taylor è proprio il tentativo di capire come possano conciliarsi nel filosofo canadese la sua antropologia filosofica esplicitamente culturalista e il suo realismo morale (con annessa concezione del ragionamento pratico). La conclusione a cui approda Rosa è qui ci si trovi di fronte a due elementi inconciliabili e che, per non peccare di incoerenza, Taylor dovrebbe operare una scelta tra i due. Da un lato vi sarebbe dunque il Taylor dei saggi di antropologia filosofica, sostenitore di una visione radicalmente ermeneutica dell’uomo, e dall’altra il filosofo morale cattolico a cui una visione relativistica non può che apparire assai poco attraente178. Nonostante le straordinariamente dettagliate e persuasive argomentazioni messe in campo da Rosa credo vi siano comunque dei validi motivi per cercare una conciliazione di tipo filosofico tra le due esigenze che si manifestano nella ricerca teorica tayloriana, evitando in questo modo di espungere radicalmente dalla sua riflessione, in quanto non pertinente, la sua fede religiosa.179 Se si esamina con attenzione il modello espressivista (o costitutivoespressivista)180 che Taylor ha da alcuni decenni elevato a punto di 176

Cfr. Taylor 1999b: 15; Taylor 1989f: 23. Cfr., da ultimo, Taylor 2000b. 178 Cfr. Rosa: 94-98; 230-238; 487 sgg. 179 Questo è un rischio in cui credo incorra Rosa quando sostiene che la fede cattolica di Taylor “non svolge alcun ruolo nei suoi argomenti (Begründungen) sistematici” (ivi: 234) e non ha quindi rilevanza per la comprensione del pensiero di Taylor. 180 Questa è la formula che Taylor utilizza in Taylor 1992b: 101. 177

75

riferimento del suo lavoro teorico, si può forse intravedere la via d’uscita da questa

apparente

impasse

teorica.

Nella

prospettiva

espressivista,

idealmente, esiste una fonte (che possiamo ritenere una fonte di senso o di verità) che per giungere a manifestazione, e quindi a una piena realtà ontologica, ha bisogno di incarnarsi in qualcosa di particolare. Questa particolarità non esaurisce in sé la fonte espressiva, ma ne costituisce, per così dire, l’indispensabile rifrazione, materializzazione, in assenza della quale l’altra non “sarebbe” in senso pieno. Qui ci troviamo di fronte a una relazione di costitutiva reciprocità. Esprimendoci in un gergo heideggeriano, che non è affatto estraneo a Taylor, la fonte espressiva è una sorta di Lichtung, di apertura, che costantemente si sottrae (ha quindi una realtà ontologica sui generis), ma che nel sottrarsi al contempo si rivela, perché è essa a consentire che le cose vengano alla luce.181 Nella prospettiva di Taylor sembra effettivamente operante una concezione del genere che, per essere chiari, si direbbe presupporre un’idea dialettica e personalista di verità. In effetti Taylor ha fatto esplicitamente cenno a una simile concezione della verità in un solo saggio, pubblicato nel 1975, in cui, non a caso, discute il nesso esistente tra neutralità (o imparzialità) e particolarità.182 Secondo questa idea di verità non esiste un punto di vista assoluto, neutrale, situato in “nessun luogo”, da cui la verità possa essere detta. Invero la fonte della verità si sottrae costantemente alla presa delle sue possibili formulazioni. Essa può manifestarsi solo in quello spazio, che con un voluto anacronismo si potrebbe definire “epifanico”, originato dall’interazione delle diversità, delle particolarità. Queste singole parzialità in sé non sono mai completamente vere (anche se, senza dubbio, sono più vere o più false l’una rispetto all’altra), e possono esserlo solo nella

181

Cfr. Taylor 1992b: 114 sgg.; Taylor 1989a: 374 sgg. Cfr. Taylor 1975b: 133-137, 146-148. Non a caso questo è un saggio dedicato al nesso tra neutralità (o imparzialità) e particolarità. Su questo tema cfr. anche Arendt 1961: 48-54 (trad. it. 55-60). 182

76

loro complementarità, nel dialogo, nell’interazione tra di loro.183 Questa idea di verità, poi, oltre che dialogica, è personalista perché per natura la verità si rifrange in maniera differente in vite differenti, subisce, per così dire, un’indicizzazione personale che, come tale, è inevitabile nel mondo umano. Alla luce di una simile costellazione concettuale dovrebbe risultare più chiaro perché Taylor possa considerare la propria posizione pluralista, ma non relativista. Nell’ambito delle domande di senso fondamentali, e quindi anche nell’ambito morale, esiste senza dubbio una verità, ma essa è, come tale, inaccessibile agli uomini: le spetta, per così dire, una caratterizzazione ontologica radicalmente diversa. Volendo la si potrebbe definire radicalmente trascendente. Certamente noi abbiamo una qualche forma, inevitabilmente parziale, di accesso a essa attraverso la nostra vita morale e il modo in cui questa è strutturata, ma nella sostanza essa ci sfugge e in questo suo sottrarsi funge piuttosto da ideale regolativo a cui si orientano le nostre esistenze, insondabile garanzia che il nostro lavoro di articolazione morale non è fine a se stesso, ma si ancora in qualcosa di reale. Questo qualcosa di reale è per l’appunto tale verità ultima, questa fonte ultima di senso, a cui si potrebbe legittimamente dare il nome di Dio. Come si è visto nel corso del secondo paragrafo, nella prospettiva articolata da Taylor non c’è un accesso diretto a Dio, così come non c’è un accesso diretto alla Verità. Dio è nondimeno postulato (forse sarebbe meglio dire “ipotizzato”) come qualcosa di reale a partire da una disamina della nostra esperienza morale. Quest’ultima è invero una postulazione molto debole. Il Dio che emerge nella prospettiva tayloriana è un principio a tal punto trascendente, a tal punto ridotto alla sua funzione di mera fonte morale, che una sua affermazione non può in alcun modo pregiudicare l’assunto pluralistico di base e far precipitare di nuovo in quella tentazione

Un’analoga concezione “dialogica” della verità la si può ritrovare in un altro autore amato e spesso citato da Taylor, ovvero il critico russo Michail Bachtin. Cfr. Bachtin 1968: 183

77

monistica che ha dominato in lungo e in largo la nostra cultura. Il Dio di Taylor appare piuttosto come una sorta di orizzonte degli orizzonti di senso, un meta-framework, la cornice ultima di ogni possibile quadro di riferimento, e una cornice talmente estesa da poter far posto a ogni genere di differenza, a ogni forma significativa delle potenzialità umane. Essa è l’apertura di senso originaria, intesa come condizione di ogni altra possibile apertura di senso. Il Dio che si ritrova, a dire il vero a fatica, negli scritti di Taylor, è quindi un Dio al contempo benevolo e distante. Talmente distante che l’immagine che possiamo farcene è strettamente personale e la sua, ancor più che un’epifania, è una sorta di diafania, la manifestazione senza contorni netti di un qualcosa che deve essere anche se non trova espressamente posto tra le cose del nostro mondo: componente eccentrica ma essenziale del nostro universo esperienziale. Non dovrebbe sfuggire la risonanza non solo heideggeriana, ma anche kantiana di una simile interpretazione.184 Invero si tratta però di un Kant molto particolare. Un Kant senza teoria della conoscenza, privato della concezione noumenica della libertà umana, e, per così dire, chiamato in soccorso per ovviare all’inevitabile deriva panteistica e immanentista della sintesi hegeliana.185 Dovendo stilare un bilancio semplicistico del pantheon filosofico tayloriano è indubbio che Hegel resta il vero ispiratore segreto della sua opera, ma è nel Kant della dialettica trascendentale e della dialettica della ragion pura pratica, nonché della Critica del Giudizio, così come ovviamente in Herder, Humboldt e nel secondo Heidegger, che Taylor ricerca le categorie per pensare un modello di totalità non conchiusa, che

39, 44, 47, 143-144. Taylor si ricollega a Bachtin per esempio in Taylor 1991b: 314; Taylor 1991a: 127 (trad. it. 40); Taylor 1991c: 99. 184 Tra gli interpreti di Taylor non sono molti quelli che hanno notato l’affinità in questo ambito della sua riflessione con quella del pensatore tedesco. Tra di essi cfr. in particolare Schweiker 1992: 570. 185 Sul panteismo di Hegel cfr. Taylor 1989f: 23.

78

possa coesistere con la natura irriducibilmente prospettica e finita delle nostre esistenze.186 Il vero obiettivo di Taylor è di preservare il delicato equilibrio tra queste due esigenze: l’esigenza di salvaguardare la particolarità, ma una particolarità significativa, che può essere tale solo se si orienta a qualcosa che la trascende e le conferisce un senso che non sia il semplice prodotto di una scelta, proiezione, o affermazione del sé. In ultima istanza questa “entità” (uso questa espressione in mancanza di un’alternativa migliore pur consapevole dei rischi di fraintendimento cui essa va incontro) che trascende gli uomini per adempiere appieno la sua funzione di apertura del senso, di condizione stessa (insensata?) del senso dev’essere qualcosa di radicalmente altro dagli uomini.187 Che questa trascendenza/differenza radicale possa essere pienamente compresa a prescindere dalle forme “rappresentative” (come le avrebbe definite Hegel) in cui essa si è storicamente incarnata è però per Taylor, presumibilmente, assai improbabile.188 In ciò trova un’ulteriore conferma quell’aspetto essenziale della condizione umana che è la sua costitutiva situatezza e finitudine. E così diventa forse più comprensibile anche l’“ortodossia” della teologia tayloriana.189 Se non vi è altro accesso alla trascendenza se non attraverso le forme che storicamente ha assunto il nostro universo morale e spirituale, è a esso che dobbiamo guardare anche per trovare le parole e le immagini necessarie per andare “oltre la vita”. In questo senso la trascendenza, che è per definizione qualcosa che si situa oltre l’esperienza, può essere concepita come

“experience-related”,

come

inevitabilmente

mediata

dall’esperienza.190

186

Cfr. Taylor 1975a: 563-569. Sui paradossi connessi all’assoluta alterità divina cfr. però Ruggenini 1991. 188 In proposito vale la pena di consultare la sezione dedicata alla religione nella monografia del 1975; cfr. in particolare Taylor 1975a: 485 sgg.. 189 In proposito si tenga ben presente quel passo, già citato, in cui Taylor sostiene che “nessuno pensa mai totalmente da solo” e che il suo “best account” può essere altrettanto legittimamente definito il nostro “best account”. Cfr. Taylor 1994a: 227. 190 Cfr. Taylor 1994a: 226. 187

79

 È in un’originaria “intuizione” pluralista che può essere quindi individuato un tratto essenziale della stessa religiosità tayloriana. Ma gli interessi intellettuali di Taylor più che andare nella direzione della teologia o della “filosofia prima” vanno, com’è noto, in direzione della politica. E a un tema politico cruciale del nostro tempo come la possibile definizione di un terreno comune tra le diverse culture in vista del riconoscimento universale della carta dei diritti umani fondamentali, Taylor ha dedicato nel corso degli ultimi anni alcuni saggi in cui è possibile ritrovare all’opera tale intuizione pluralistica in un contesto più concreto e per lui più familiare. In saggi come Human Rights: The Legal Culture (1986), A World Consensus on Human Rights? (1996), Conditions of an Unforced Consensus on Human Rights (1999), Taylor ha progressivamente affinato le sue categorie interpretative nell’intento di offrire una risposta alla questione spinosa della mediazione delle differenze culturali in ambito internazionale. Ovviamente tale questione si è imposta con forza all’attenzione del mondo a seguito di una serie di fatti storici ben noti. L’aumento della mobilità e più in generale delle possibilità di comunicazione consentito dai tumultuosi progressi della scienza e della tecnologia degli ultimi due secoli; i processi di globalizzazione economica che ne sono derivati; l’egemonia di una cultura aggressiva e con pretese universalistiche come quella occidentale; la diffusione in tutto il mondo di un unico modello di organizzazione statuale imperniato sull’idea di sovranità nazionale, etc., sono eventi fin troppo noti per dover essere anche solo menzionati. In ogni caso, tali fatti storici hanno innescato un paradossale processo al contempo di omogeneizzazione e di differenziazione radicale (in un’alternanza continua di tendenze di segno opposto) che ha complicato oltremodo il quadro internazionale e spesso anche messo a nudo la scarsità delle risorse di cui in generale disponiamo per rispondere ai nuovi problemi che periodicamente affiorano. Questi

80

problemi, che vengono spesso ricondotti sotto l’etichetta vaga di “multiculturalismo”, hanno quantomeno un duplice volto. Da un lato si presentano nelle vesti di un aumento esponenziale della differenza culturale all’interno dei singoli stati, che, tra l’altro, ha messo severamente in crisi i modelli tradizionali con cui è stata pensata la coesione di una comunità politica e, più in generale, l’idea stessa di cittadinanza. Dall’altro, invece, assumono i tratti spesso tragici della complicata gestione di un ordine mondiale che appare il più delle volte ingovernabile e rispetto al quale gli strumenti offerti dal diritto internazionale si dimostrano in molti casi inadeguati. Se sul primo tema Taylor ha molte cose da dire e parte di esse sono state, anche se solo tangenzialmente, discusse nelle pagine precedenti, sul secondo egli ha investito negli ultimi anni parecchie energie. Il suo discorso parte da una premessa esplicita: nel mondo contemporaneo esistono numerose espressioni di diversità “profonda” con cui dovremo convivere ancora per molto tempo.191 Per “diversità profonda” Taylor intende non semplicemente differenze di credenze in qualche modo commensurabili, ma differenze tra quadri di riferimento morali, saperi incarnati, profondi assunti culturali, in una parola identità, che esprimono modi diversi di stare e dare senso al mondo.192 Differenze del genere sono ovviamente molto più difficili da comporre e richiedono una capacità di mediazione e una disponibilità a comprendere l’altro - e così facendo a modificare la comprensione di se stesso - che è incompatibile con ogni forma di etnocentrismo radicale.193 È per questo motivo che negli scritti in cui riflette sulle possibilità effettive di un consenso mondiale su una lista di diritti umani fondamentali Taylor prende le mosse sempre da una lettura culturalista e storica di uno dei capisaldi della civiltà occidentale: la cultura e la pratica dei diritti 191

Cfr. Taylor 1989e: 121. Cfr. Taylor 1991f: 181-184. 193 Su questo tema è fondamentale soprattutto Taylor 1983; cfr. anche Taylor 1999a: 144. 192

81

“soggettivi”, personali. Per poter comprendere meglio gli altri è infatti indispensabile avere ben presente la complessità della propria storia. E così nel ricondurre l’idea moderna di diritto soggettivo alle sue radici filosofiche - che si nascondono secondo Taylor nell’idea cristiana (e poi umanista) della dignità di ogni essere umano (o agente razionale) - e a quelle storiche - che risalgono all’idea medioevale delle esenzioni spettanti a particolari categorie di individui e a quella primo moderno di Natural Law - ciò che Taylor ha in vista è soprattutto la piena esplicitazione di tutta la complessità della cultura moderna dei diritti.

194

Oltre a delle norme esplicite (nelle loro diverse

possibili formulazioni) essa presuppone infatti delle forme giuridiche in cui tali norme si incarnano e soprattutto una certa visione dell’uomo che dà loro sostanza. Se si tiene presente tutto ciò, si comprende facilmente che esiste una stratificazione di livelli che rende ardua l’esportazione, per usare una tipica

espressione

tayloriana,

dell’intero

“pacchetto”

della

cultura

occidentale dei diritti soggettivi, ma che al contempo - e questo è il lato positivo della questione - rende possibile la negoziazione volta a volta di compromessi differenziati a partire da prospettive anche radicalmente diverse. Ciascuno dei livelli, infatti, con l’esclusione ovviamente del livello delle norme esplicite che richiede una qualche forma di “identità” nella formulazione, ammette infatti modalità di accomodamento che rendono possibile un consenso per intersezione, in cui l’accordo sui diritti da rispettare non comporti cioè l’adesione a un unico prototipo di sistema giuridico e tantomeno di giustificazione “filosofica” degli stessi.195 La convinzione di Taylor è che i diritti umani fondamentali, che peraltro rispecchiano a suo avviso delle imposizioni presenti in tutte le grandi culture e religioni mondiali,196 possano essere accettati anche a partire da tradizioni molto diverse: più individualiste o più comunitarie, che riconoscano o meno 194

Cfr. Taylor 1986a: 51, 53-55; Taylor 1999a: 127-129, 135-136; Taylor 1990d: 211-212. Cfr. Taylor 1999a: 129 sgg. 196 Cfr. Taylor 1989a: 4 sgg.; Taylor 1999a: 27. 195

82

la separazione tra stato e religione, che abbiano un’idea più o meno rigida dell’ordine sociale, che valutino in maniera anche molto diversa ciò che contribuisce essenzialmente al benessere umano. Non sempre ciò sarà possibile, in particolare non sarà possibile quando il riconoscimento di uno di questi diritti metterebbe a rischio uno dei pilastri su cui si fonda l’identità dei membri della cultura in questione (e in tal caso sarà inevitabile un confronto tra i due diversi orizzonti morali nella speranza che esso contribuisca a ridefinire l’identità dell’altro nella direzione auspicata),197 ma l’esistenza di queste varianti di diversità profonda deve in ogni caso prepararci a una sorta di rinegoziazione permanente che esclude qualsiasi forma di risoluzione salomonica del tipo che molti di noi sono soliti attendersi dall’applicazione della legge. In questo ambito, secondo Taylor, rimane ben poco spazio per la logica spietata del prendere o lasciare. Il consenso (per intersezione) su una lista di diritti umani fondamentali è per Taylor un obiettivo anzitutto politico e risponde a una logica per così dire “prudenziale”, ma esso ha qualcosa da insegnarci anche sul modo in cui la differenza può essere mediata in una qualche forma di totalità non omologante (per altro l’unica forma di totalità propriamente umana). Questa totalità non può, se non vuole mettere a rischio la sua stessa esistenza, e in ogni caso la sua legittimità, prefiggersi una forzatura, e tantomeno una negazione, delle differenze significative. L’unico obiettivo auspicabile è quindi una totalità senza unità, una totalità di particolarità complementari capaci di arricchirsi reciprocamente. Nelle parole di Taylor: “la convergenza mondiale non avverrà attraverso una perdita o una negazione delle tradizioni esistenti, ma piuttosto attraverso delle reimmersioni creative di gruppi differenti, ciascuno con la propria eredità spirituale, percorrendo strade diverse verso lo stesso fine”. E per noi occidentali ciò significa che “solo se sapremo riappropriarci di una visione più adeguata della nostra storia

197

In proposito Taylor ricorre all’esempio della percezione della condizione femminile

83

potremo imparare a comprendere meglio le idee spirituali che si sono intersecate nel nostro sviluppo e quindi ci prepareremo a comprendere simpateticamente i percorsi spirituali compiuti da altri verso il fine convergente” (Taylor 1999a: 144).  In conclusione, volendo riassumere quanto detto nelle pagine precedenti si può notare come il pluralismo appaia in Taylor al contempo come un fatto della condizione umana, e come un valore, un fine, un bene, persino un bene costitutivo. È un fatto perché gli uomini sono self-defining beings,198 esseri che definiscono la specificità della loro esistenza in un circolo che comprende in sé ogni forma di articolazione del senso: la lingua, le emozioni, le pratiche sociali, i riti religiosi, etc. - in una parola la cultura. E così come gli uomini sono molti e dispersi in ogni angolo del globo, inevitabilmente numerose sono anche le culture e le forme di vita sviluppatesi sulla terra. Per citare una tesi molto nota di Hannah Arendt: la pluralità è la norma della condizione umana.199 Ma la pluralità, la differenza, sono anche il requisito essenziale per la piena umanizzazione dell’uomo. Se per la Arendt la pluralità è, insieme alla natalità, la condizione necessaria dell’azione umana, e quindi dell’attività più alta dell’uomo, per Taylor essa è la condizione che permette agli uomini di assurgere a una forma di universalità fondata sulla complementarità. La pluralità e la differenza sono al contempo la condizione e il bene fondamentale in cui si compendia l’umanità dell’uomo. Non va infatti dimenticato che se la prospettiva difesa da Taylor può essere considerata a tutti gli effetti espressione di un umanesimo religioso, in particolare di un umanesimo cristiano, l’accento in questo caso va fatto cadere anche, e forse soprattutto, sul sostantivo.

nelle diverse culture in Taylor 1999a: 139-140. 198 Cfr. Taylor 1977a. 199 Cfr. Arendt 1958: 7-8 (trad. it. 7-8).

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Che a Taylor stia e sia sempre stato particolarmente a cuore il ruolo che gli uomini possono giocare nella storia è attestato in numerosi scritti, e fin dai suoi lavori giovanili. Ad esempio nel saggio del 1957 Marxism and Humanism, intervenendo nel dibattito sull’umanesimo socialista innescato dall’omonimo libro di Edward Thompson, Taylor richiamava l’attenzione degli intellettuali socialisti sulla questione ineludibile del significato ultimo di una piena affermazione dell’uomo. Si domandava in proposito Taylor criticando la morale di classe marxista: “Qual è il valore di un uomo, anche non rigenerato e che si oppone ostinatamente ai più elementari principi di giustizia sociale? [...] E che dire di quei singoli uomini e donne che non hanno alcun ruolo nello sviluppo del potenziale umano, o di quelli che persino si oppongono a questo sviluppo nel nome di un qualche pregiudizio o privilegio?”. E la sua risposta senza esitazioni era: “L’uomo ha valore in quanto uomo, a prescindere dal ruolo che assolve o manca di assolvere nello sviluppo delle potenzialità umane” (Taylor 1957: 96-97). E in un saggio di pochi anni posteriore, Clericalism (1960), tra l’altro uno dei pochi saggi di carattere strettamente teologico mai scritti da Taylor, il filosofo canadese criticava le posizioni clericali proprio nel nome di una “‘dottrina umanista’” che riconosce agli uomini una funzione importante nell’edificazione di un mondo più a misura d’uomo.200 Il clericalismo è attaccato come una forma di antiumanesimo, una concezione pessimista dell’uomo (“iperagostiniana” si potrebbe dire),201 che finisce per negare ai laici ogni ruolo nel periodo che separa l’incarnazione dalla Parusia e priva di ogni valore l’impegno personale a una trasformazione in senso cristiano del mondo. Così facendo, aprendo cioè un solco profondo tra sé e il mondo

200

Cfr. Taylor 1960a: 170. Cfr. ivi: 175, 179. L’espressione “iperagostinismo” viene utilizzata da Taylor in numerosi passi di Sources of the Self per indicare una concezione cristiana ossessionata dalla natura peccaminosa e dalla inanità dell’uomo. Cfr., ad esempio, Taylor 1989a: 246, 401, 443. 201

85

profano,202 la Chiesa finisce però inopinatamente per favorire la montante secolarizzazione, e contribuisce a decristianizzare il mondo negando la propria originaria ispirazione umanistica e perdendo così di vista il fatto che “la Chiesa richiede che vi sia un umanesimo o degli umanesimi affinché il cristianesimo prosperi [...] e se vogliamo che il suo sforzo missionario penetri nella società moderna e raggiunga i milioni di uomini che ai nostri giorni sono fuori di essa” (ivi: 178 e 180).203 Neanche in questo contesto l’umanesimo difeso da Taylor è però trionfalistico.204 Alla sua base vi è l’idea che si debba giungere a una qualche forma di conciliazione dei due corni del dilemma (affermazione dell’umano e dipendenza dell’uomo da risorse morali che vanno oltre di lui, umanesimo moderno e teismo, impegno secolare e orientamento alla trascendenza). Nell’importante saggio del 1985 Humanismus und moderne Identität, dopo aver identificato tre diverse varianti della critica all’umanesimo moderno, Taylor esprime il dubbio che sia davvero possibile aderire unilateralmente a una sola di queste posizioni. La sua tesi è che ciò di cui abbiamo effettivamente bisogno è “un linguaggio o una prospettiva da cui commisurare queste alternative” e che un simile obiettivo possa essere raggiunto solo “lentamente, procedendo in circolo”, attraverso la correzione degli errori, ossia delle unilateralità contenute in ciascuna di queste refutazioni radicali dell’umanesimo moderno, e l’accettazione degli

202

Cfr. Taylor 1960: 179. Cfr. ivi. 178 e 180; il riferimento agli umanesimi appare particolarmente interessante tenuto conto del futuro sviluppo della riflessione tayloriana. Cfr. anche ivi:178: “vi sarà una quantità di modi, di stili di vita per cui si sarà pienamente uomini e cristiani allo stesso tempo”. 204 A conferma di ciò si leggano le seguenti considerazioni di Taylor: “Lo sviluppo ‘naturale’ dell’uomo o di ogni parte della creazione non è sufficiente, per di più non è nemmeno inequivoco, è per così dire a tal punto intrecciato col peccato che ogni cosa e ogni misura si dimostrano ambivalenti, ogni progresso provoca un regresso o quantomeno lo rende un pericolo incombente” (ivi: 169). Oppure, più avanti (172), “poiché ogni cosa nel mondo presenta una certa ambiguità, è in un certo senso corretto dire che non vi è una soluzione cristiana alla maggior parte dei problemi temporali [...] non vi è bene non mescolato col male”. Cfr. anche ivi: 178. 203

86

elementi validi presenti nelle loro rispettive critiche.205 In definitiva Taylor è convinto che l’umanesimo moderno rappresenti una parte costitutiva della nostra identità, e che sia impossibile e sbagliato desiderare di liberarsene completamente, come se esso contenesse solo mere credenze e opinioni errate e non piuttosto una fetta consistente di noi stessi.206 Il vero obiettivo dev’essere in realtà di emendarlo integrandolo, arricchendolo, cioè, attraverso un lavoro di articolazione dei suoi presupposti e un’adeguata presa di coscienza di ciò che può renderlo davvero “spiritualmente” effettivo. L’attrazione che Taylor prova per l’ideale umanistico moderno, inteso come “una dottrina delle potenzialità umane che possono suscitare la nostra ammirazione morale” (Taylor 1989d: 61), non è mai così evidente come quando prende in esame quell’umanesimo del limite e dell’autoesplorazione che egli associa soprattutto ai nomi di Montaigne e, almeno in parte, di Hume. Questo particolare umanesimo invece di concentrare la sua attenzione sulle capacità della razionalità umana di esercitare un saldo controllo sulla natura interna ed esterna, esalta soprattutto le facoltà autoesplorative dell’uomo, la sua capacità di riconoscere i propri limiti, la propria ambiguità, la propria intrascendibile situatezza e finitudine, e di raggiungere in tal modo una forma di equilibrio fondata sull’accettazione di sé, indulgente e priva di orgoglio.207 Il modello di questo genere di autoesplorazione indulgente è “l’amicizia profonda”, in cui si manifesta al massimo livello l’amore per il particolare.208 E l’accettazione della particolarità in tutta la sua complessità e ambivalenza, come abbiamo visto, è per Taylor una condizione essenziale per la piena affermazione dell’umanità dell’uomo. In essa non si manifesta uno scetticismo

205

Cfr. Taylor 1985c: 119. Cfr. ivi.120. 207 Cfr. Taylor 1989a: 343-347. 208 Cfr. Taylor 1989a: 183. 206

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epistemicamente disperato,209 ma l’accettazione dei limiti dell’individuo contro ogni concezione irrealistica delle sue potenzialità che rischia di condurre l’uomo ad atti di vera e propria hybris capaci di scatenare tutta l’autodistruttività umana. Ma se in autori come Hume e Montaigne a dominare è una certa sensibilità pagana, mondana, persino “terrigna”,210 la vera epitome della visione dell’uomo tayloriana la si può ritrovare piuttosto in Dostoevskij. L’importanza della figura del grande romanziere russo per la ricerca del filosofo canadese non è stata sufficientemente rimarcata dai suoi interpreti, ma a ben vedere essa fa costantemente capolino negli snodi cruciali della riflessione di Taylor. Nel saggio giovanile Clericalism, ad esempio, la “Leggenda del Grande Inquisitore” è richiamata in più di un’occasione per ribadire la centralità della libertà quale nucleo della dignità dell’uomo, ma anche dell’amore di Dio per esso.211 In Sources of the Self la prospettiva di Dostoevskij assurge addirittura a prototipo di un umanesimo non autocentrato, aperto alla trascendenza.212 Nonostante il suo apparente pessimismo, in Dostoevskij, secondo Taylor, l’affermazione dell’uomo non è affatto esclusa a priori, semplicemente viene enfatizzata la sua dipendenza a tal fine da Dio. L’affermazione della vita da parte dell’uomo, il suo “vedere che essa è buona”, non può infatti prescindere dalla grazia divina che si manifesta attraverso una particolare forma di amore disinteressato. È l’amore degli altri, immagine diretta dell’agape divino, che può infatti salvare l’uomo da quel vortice di odio per il mondo e per sé in cui

209

Cfr. ivi: 567, n. 44. In un passo di Sources of the Self (cfr. Taylor 1989a: 345-346) Taylor chiarisce però bene perché, per quanto prossima, la prospettiva “epicureo-lucreziana” articolata da Hume e Montaigne gli rimane comunque in ultima istanza estranea. È proprio la limitatezza degli orizzonti di questi pensatori, il loro rinchiudersi nello spazio ristretto dell’umano e accontentarsi di esso a non convincere pienamente Taylor. Come dovrebbe essere ormai chiaro, in Taylor l’accettazione della finitudine e particolarità umana è sempre bilanciata dall’aspirazione a un suo trascendimento. 211 Cfr. Taylor 1960: 170-171, 173. 212 Cfr. Taylor 1989a: 451-452, 516-517. 210

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precipitano talvolta anche gli animi più nobili (e su tutti Ivan, il protagonista assoluto dei Fratelli Karamazov) quando mossi dall’orgoglio, da una sorta di hybris del risentimento, cedono alla tentazione di aprire un solco incolmabile tra sé e il mondo, di proclamarne l’irredimibilità.213 È principalmente contro il pericolo di precipitare in questo circolo vizioso di odio autodistruttivo nei confronti di sé e del mondo, anche e soprattutto a partire dalle migliori e più alte intenzioni morali, che Taylor ribadisce la necessità di un’apertura al trascendente e in particolare a una fonte morale il cui inesauribile amore per gli uomini e il mondo sia la garanzia di una piena affermazione della vita. Nella prospettiva di Taylor per potersi pienamente affermare all’uomo è quindi richiesto di decentrarsi, di trascendere la propria particolarità, ancorché a partire da questa particolarità e più precisamente dallo stupore che essa suscita. In uno scritto poco noto Taylor ha espresso questo atteggiamento con parole eloquenti: “se focalizziamo la nostra attenzione non sui nostri scopi e le nostre aspirazioni, ma sul fatto che siamo giunti all’essere e ci consentiamo di sentire che cosa vi sia di grandioso in tutto ciò, penso che ci ritroveremo a provare qualcosa di simile a un sentimento di gratitudine. L’esistenza è un dono, inatteso, ben oltre ciò che potremmo esprimere a partire da una comprensione del mondo senza di noi. Da questo punto di vista le diverse storie, comprese quelle teiste, possono essere lette come tentativi di offrire senso a una risposta che viene prima di esse: la gratitudine” (Taylor 1993a: 22). Una prospettiva del genere presuppone ovviamente una visione della vita come qualcosa di prezioso che esige una qualche forma di risposta che vada oltre l’originaria gratitudine. Questa risposta non potrà essere unica. Non c’è infatti spazio nella nostra epoca “pluralistica” per una coscienza

213

Cfr. Taylor 1989a: 452; Taylor 1985c: 165.

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autenticamente priva di dubbi.214 C’è invece molto spazio per la complementarità. Taylor è personalmente convinto che la risposta più adeguata a quel sentimento originario comporti l’idea di un Dio, ma non è sordo al fascino e agli insegnamenti che possono giungere da un umanesimo del limite come quello elaborato al loro tempo da pensatori come Montaigne e Hume e ai nostri giorni da una pensatrice come Martha Nussbaum. D’altra parte chi può francamente stabilire se siano espressione di una visione umanistica o religiosa le parole con cui Rilke introduce la nona delle Elegie Duinesi?

Ma perché essere qui è molto, e perché sembra che tutte le cose di qui abbian bisogno di noi, queste effimere che stranamente ci sollecitano. Di noi, i più effimeri. Ogni cosa una volta, una volta soltanto. Una volta e non più. E anche noi una volta. Mai più. Ma quest’essere stati una volta, anche una volta sola, quest’essere stati terreni pare irrevocabile.215

Rilke rappresenta nella lettura tayloriana il prototipo del poeta “epifanico” che non si rassegna, dopo la perdita di un ordine cosmico di significati, a un mero compito autoespressivo, ma che cerca di andare oltre, di dire delle cose su un mondo che è ormai raggiungibile solo passando attraverso di sé.216 Credo non sia scorretto dire che anche per Taylor l’obiettivo primario è in definitiva la salvaguardia di questa tensione 214

In proposito cfr. Taylor 1989a: 10, 318. La presente traduzione dei versi di Rilke è di Enrico e Igea De Portu. 216 Cfr. Taylor 1989a: 482, 491, 506, 513; Taylor 1985c: 165 215

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all’oltrepassamento di sé che per molti versi coincide con la difesa della sfera morale. La sua personale convinzione è che questo sia poi solo il primo passo, ma il più essenziale, in vista di un passaggio ancora più ambizioso. Ma è nel primo passo che è in gioco a tutti gli effetti la dignità dell’uomo. Ed è in relazione a essa che si spende la scommessa intellettuale e personale del pensatore canadese.

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