Verga, verismo e neorealismo

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Verga, verismo e neorealismo

di Enrico Bernard

La discussione sul naturalismo e l’imitazione della natura (o realtà storico– sociale) è antica. Per restringere il discorso al verismo e all’opera di Verga che, come vedremo, è alla base di ogni discorso sul neorealismo di Bernari e Zavattini, bisogna considerare che l’equivoco della verità, un personaggio di Cervantes si chiede se è vero quello che scrivono i libri, è insito nel nome stesso del movimento letterario. Verismo dovrebbe infatti significare rappresentazione di ciò che è vero, pur nella finzione letteraria. Le cose non stanno però così. Pur non volendo ricostruire l’opera verghiana, bisogna tener presente che il capolavoro dello scrittore catanese, I Malavoglia, è introdotto dallo stesso autore con una prefazione teorica che ha avuto una genesi complessa. L’intervento definitivo datato

“Milano, 19 gennaio”

(un paradosso: Verga “manifestandosi”

nell’introduzione sostiene che l’autore dell’opera deve celarsi dietro di essa!)1 si conclude con queste parole apparentemente chiare, ma che in relatà celano un piccolo rebus: Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.2 Gli occhi del lettore e della critica si sono concentrati soprattutto sulla penultima frase dell’autoprefazione di Verga, ossia su quel “dare la rappresentazione della realtà com’è stata” che riporta la novità stilistica dello scrittore siciliano                                                                                                                 1

Per accennare ad un percorso del realismo verso il neorealismo attraverso il verismo, segnaliamo che Manzoni, ne I promessi sposi, con l’invenzione del manoscritto ritrovato, adotta uno stratagemma diverso da Verga per giungere allo stesso risultato dell’occultamento dell’autore dietro la sua opera. Lo stesso stratagemma torna nell’ultimo romanzo di Carlo Bernari Il giorno degli assassinii (cit.) in cui all’autore perviene per posta un manoscritto anonimo. 2 V ERGA G IOVANNI, Prefazione a I Malavoglia, in Id., Opere, a cura di L. Russo, Milano–Napoli, Ricciardi, 1965, p. 179.

 

1  

nell’ambito di un naturalismo o tutt’al più di un realismo alla Zola. Non ci si è invece adeguatamente soffermati sull’ultima e rivelatrice frase con cui Verga conclude il pensiero: “o come [la realtà] avrebbe dovuto essere.” Il fatto è che, nel primo caso (la realtà com’è stata), siamo appunto nell’ambito della rappresentazione realistica, ma quando Verga parla di “realtà come avrebbe dovuto essere”, ebbene veniamo posti di fronte ad un vero e proprio superamento del realismo. Così si è partiti, nel giudicare I Malavoglia fraintendendo Verga, o non comprendedolo interamente3, col piede sbagliato. La conseguenza è stata che col termine “verismo” si è finito con l’appiattire, spalmare la “forma” della rappre– sentazione, ossia la forma artistica, sul “contenuto” della rappresentazione stessa, svalorizzando o posponendo in secondo piano la prima e amplificando, valorizzandolo a dismisura, il secondo in senso oggettivo. Quanto più vera è la rappresentazione di un contenuto, ecco il malinteso sul verismo, tanto più scarna è la forma che tenderebbe allora a sostituire l’arte formale con la semplice forma del documento o del documentario. Così il “superamento del naturalismo”, per usare un concetto di Hermann Bahr 4 , in senso letteralmente “veristico” avverrebbe, ma vedremo che le cose non stanno proprio così, non sul piano della forma, ma su quello della rappresentazione critica di una realtà non più astrattamente “naturalistica” ma umana, storica, sociale. In questo modo al “verismo” viene principalmente attribuita una funzione di disvelamento e palesamento della realtà sociale nei suoi contrasti, sofferenze, condizioni e lotte di classe, eccetera.

Insomma, stiamo parlando di

“contenuti” che si paleserebbero in tutta la loro verità (e denuncia) non tramite una                                                                                                                 3

La critica è sempre stata ambivalente per non dire ambigua sul rapporto tra fotografia e letteratura nell'opera verghiana. Secondo Vincenzo Consolo, ad esempio: «non c’era insomma nessun rapporto tra la scrittura e le fotografie di Verga [...]» , salvo poi aggiungere «senonché, fotografando, l’uomo Verga fatalmente riportava nelle immagini quello che era l’“occhio,” il sentimento, il modo di essere e di sentire dello scrittore. Riportava quell’occhio “fotografico,” quell’obiettivo ‘impersonale’ che guarda come dall’alto i personaggi dei Malavoglia ...» e quindi concludendo «secondo noi, semplicemente le foto di Verga, dell’uomo Verga ritornato, prima idealmente e sentimentalmente, poi anche fisicamente, dopo anni di lontananza, alla sua Catania... e qui deponendo la penna, si mette a fotografare, per passatempo.» C ONSOLO V INCENZO , prefazione a Verga fotografo, a cura di G.G. Garra, Catania, Giuseppe Maimone Editore, 1990, p. 6. L'analisi sbrigativa di Consolo è la cartina di tornasole dell'impostazione critica seguita anche da Leonardo Sciascia, Alberto Asor Rosa, Gino Tellini, le posizioni dei quali sono riassunte in un saggio di Giuliana Minghelli, che si conclude con una frase assolutamente incomprensibile e che denota serie difficoltà interpretative: «lungi dall’essere memento innocui, le foto per Verga sono oggetti inquietanti.». M INGHELLI G IULIANA , L’occhio di Verga. La pratica fotografica nel Verismo italiano, online http://ebookbrowsee.net/003-minghelli-verga-x-doc-d132393274 4 B AHR H ERMANN , Il superamento del naturalismo, scritti 1888–1904, a cura di Giovanni Tateo, Milano, SE, 1994.

 

2  

forma artistica, bensì come abolizione dell’arte come forma. Il tutto in nome della ricerca della verità che Bahr, contemporaneo di Verga, spiega come una pericolosa reazione alle esagerazioni del tardoromanticismo.

[...] Le cose, non appena si toccano con la pretesa della verità, ecco! improvvisamente si trasformano tutte in menzogna e chi cerca la realtà trova soltanto apparenze dappertutto. Allora non si potè evitare che venisse proclamata questa parola d’ordine: essa fu imposta inesorabilmente dall’evolversi dei fatti e quando avvenne quell’improvviso allontanamento dal generale gusto romantico, non ci fu nessun’alternativa. Verità – questa sembrò una soluzione così semplice, chiara e affidabile, a tutti comprensibile [...] E di certo nessuno si sarebbe mai sognato che essa si trasformasse nelle mani di chi aveva tentato soltanto di afferrarla, e che costui venisse poi accusato da tutti gli altri di aver perpetrato un’odiosa truffa.5

Se i concetti che circolano in Europa alla fine dell’Ottocento sono quelli, gli scritti di Bahr qui citati risalgono al 1888–1904, del “superamento del naturalismo”, “la crisi del naturalismo” e ancora “c’è naturalismo e naturalismo”, “la nuova psicologia”, “verità! verità” va da sé che l’idea di un’arte “impersonale” proposta da Verga – ne parleremo presto – nel supporre la tesi di un occultamento dell’autore dietro l’opera, non intendeva certo affermare l’arte informale, né tantomeno l’annullamento

dell’artista creatore di forme

in un

“fotografo” di

contenuti

oggettivi. Vedremo che Verga è ben al corrente di questa dialettica e disbriga intelligentemente la pratica del “naturalismo” in alcune battute, rifiutando, per quel che lo riguarda, l’arruolamento tra i post–naturalisti e gli eredi del, pur da lui ammirato e studiato, Zola. Prima di continuare dobbiamo riflettere sul fatto che le teorie di Bahr, il quale pubblica nel 1902 un saggio dal titolo filosofico Critica della critica contenuto nella raccolta appena citata, apre le porte ad una forma di dialettica metaletteraria che si richiama ad un antico problema epistemologico. Scrive infatti Bahr:

                                                                                                                5

 

Iibid. B AHR , Verità! Verità!, in Il superamento del naturalismo, cit., p. 69.

3  

A questo punto ebbe inizio la grande ricerca della verità, e giravano per strada tante verità quanti erano i giovani autori: il meno che si potesse pretendere dal principiante se fosse voluto diventare famoso, era che si facesse rilasciare il brevetto per una verità completamente nuova.6

Bahr descrive qui una situazione artistica che presenta non poche analogie con quella del secondo dopoguerra e, a ben guardare, anche un po’ con quella attuale, dove il termine “neorealismo” sembra tornato in auge, ma in una accezione – ancora una volta – realistica e contenutistica. Senonchè, come concludeva – e sembra di leggere Zavattini o Alvaro7 – Bahr nel 1902:

Ma la verità, per quanto seducente possa sembrare la soluzione, è una faccenda delicata e pericolosa. Che cos’è la verità? Dov’è la verità? Come si può definire la verità? Come un fuoco fatuo sembra sempre di averla di fronte, ma si spegne ogni qual volta le si rivolge lo sguardo. Dapprima la combattiva compagnia partì con gagliardia alla sua conquista. REALTA’, REALTA’ gridavano incessantemente a se stessi, e in questa esclamazione c’era qualcosa che spronava, che rassicurava [...] con la penna, con lo scalpello, con il pennello, ognuno avrebbe dovuto raccontare il mondo là fuori, tutto quello che esisteva – era così semplice ed era irresistibile. Un po’ di filosofia li avrebbe dovuti confondere.8

Questo è il punto: un po’ di filosofia! Non è infatti comprensibile come si possa affrontare criticamente, e mi rivolgo una volta di più alla critica letteraria, autori come Verga, Bernari, Zavattini – che furono teorici e artisti dai molteplici interessi e attitudini – senza una preparazione scientifica nel settore delle nuove arti visive, ma anche e forse soprattutto negli studi filosofici. Infatti, seppure la millenaria questione filosofica della realtà fenomenica meriterebbe una più ampia trattazione a partire da Platone per finire a Ponzio Pilato9, impossibile in questa sede, bisogna ricordare che uno dei punti cruciali del Manifesto Uda (1929) di Bernari, Pierce e Ricci sta proprio                                                                                                                 6

Ibid. B AHR , Verità! Verità!, in Il superamento del naturalismo, cit., p. 71. «[...] non credano gli scrittori d’essere artisti perché hanno qualcosa da dire; tutto sta nel modo di dire...» A LVARO C ORRADO, La politica teatrale, sta in I maestri del diluvio, a cura di D. Manera e M. Sinibaldi, Massa, Memoranda Edizioni, 1985, p. 45. 8 Ibid. A LVARO , La politica teatrale, sta in I maestri del diluvio, cit., p. 72. 9 Che cosa è la verità? è la domanda platonica rivolta da Ponzio Pilato a Gesù. Cfr. Giovanni 18, 37. 7

 

4  

nel rapporto tra il soggetto e l’oggetto dell’arte sulla base del concetto feuerbachiano della sensibilità. Del resto, la riproposizione in campo letterario di una questione filosofica che risale alla notte dei tempi e al mito platonico della caverna riguardo alla “verità oggettiva” e alla fenomenologia non è un anacronismo o una semplificazione intellettualistica. Infatti, l’invenzione della tecnica fotografica mette per la prima volta gli artisti di fronte al problema della rappresentazione della realtà; alle possibilità di utilizzare la nuova tecnica che permette di fissare in un’immagine il mondo; e di partire da questa stessa immagine in un percorso di finzione drammatica. In questo modo fotografia e racconto verrebbero a trovarsi, nell’ambito del verismo in un rapporto sinergico e dinamico, nonchè dialettico. È bene allora ricordare il punto 3 del Manifesto Uda: «L’arte è mutevole simpatia verso un oggetto il quale cambia col cambiare della simpatia.»

 

5  

Si è visto precedentemente come il neorealismo di Bernari germogli dalle radici nel movimento udaista del 1928–1929. Il che significa che, fin dalle prime

 

6  

mosse teoriche degli scrittori che stanno per far nascere il nuovo genere letterario, non s’intende rappresentare la realtà oggettiva (in questo caso lo stesso verismo e il neorealismo

poco si differenzierebbero dal naturalismo, come sostiene anche

10

Verga ), ma anteporre all’oggetto (o contenuto) dell’opera d’arte la simpatia o sensibilità del soggetto–autore della rappresentazione, che è quindi sempre soggettiva. Tra i tanti indizi a favore di questa tesi c’è, ad esempio, da ricordare che, parallelamente alla stesura di Tre operai, cioè a partire dal 1929 fino al 1934, Carlo Bernari raccoglie un pamphlet di pensieri intitolati 32 pensieri sulla paura11. Dal manoscritto emerge il fondamento filosofico del rapporto soggettivo dell’artista nei confronti della realtà concetto

che vede il concetto di paura come motore dell’arte, un

che Bernari teorizza

– occorre precisarlo – quando Kafka è ancora

sconosciuto in Italia. Nel dopoguerra Bernari propose a Gastone Manacorda, allora direttore di «Società» (rivista legata al Partito Comunista), la pubblicazione col titolo L’arte è paura? dei 32 pensieri sulla paura. Però Manacorda, che si aspettava invece da Bernari un saggio realistico sulla condizione operaia, trovandosi sulla scrivania uno scritto antirealistico, in contrasto con la visione del realismo socialista, rifiutó la proposta e respinse al mittente il manoscritto iconoclasta e totalmente estraneo alla linea politico–culturale del PCI.12 Questi episodi dovrebbero essere ben noti a storici e critici, dato che gli archivi sono aperti e a disposizione di tutti da anni e che perfino il «Corriere della Sera» se ne è occupato con diversi scoop. Ciò nonostante, l’opinione superficiale che insiste sul verismo come forma di rappresentazione “oggettiva” e sul neorealismo come una rappresentazione immediata della realtà, si è trasformata in un luogo comune, una specie di notte hegeliana dove tutte le vacche sono grigie. Questo avviene perché, come ci ricorda Bahr, quella della realtà è la strada più comoda per tutti. Ma c’è, ammonisce il filosofo tedesco, realtà e realtà. Infatti, se si prendesse per buona l’interpretazione del verismo come rappresentazione oggettiva del vero, la letteratura italiana di fine Ottocento con Capuana, De Roberto e naturalmente Verga,                                                                                                                 10

Le citazioni riguardanti la posizione di Verga sul naturalismo sono presenti nelle pagine successive di questo capitolo 11 B ERNARD E., Bernari tra natura e paura, introduzione a: Carlo Bernari, 32 pensieri sulla paura, in «Forum Italicum», cit., pag. 403–15. 12 cfr. F ERTILIO D ARIO , Carlo Bernari, l’esiliato in casa, in «Corriere della Sera» del 26 novembre 2011, p. 57.

 

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non avrebbe fatto un solo passo in avanti rispetto alla definizione di Cervantes dell’impegno del poeta e del suo debito artistico nei confronti della realtà sociale:

Dico ora dunque che gli esercizii corporali del letterato sono questi: principalmente la povertà, non già perché tutti sono poveri, ma per supporre il peggio di siffatta condizione. [...] Battendo costoro (i letterati, ndr.) la strada difficoltosa che ho dipinta [...] pervengono pur finalmente a conseguire l’oggetto proposto [...]13

Cervantes affida peró questa modernissima considerazione, che anticipa quello che potremmo definire l’“impegno in letteratura”, non ad un saggio erudito di teoria letteraria, bensì alle parole di un pazzo come Don Chisciotte. Parole del resto scatenate da un discorso sulla verità in letteratura tra Cardenio, Dorotea, il Curato, il Barbiere e l’Oste – credulone, anche se meno svitato del Cavaliere dalla Triste Fugura, – che prende anch’egli per vero quello che legge nei libri. Al che Cardenio avverte: «Egli

(cioè l’oste, ndr.) tiene per indubitato che quanto raccontano quei suoi libri, sia

stato né più né meno come vi è scritto.» 14 E alle parole di Cardenio fa eco il Curato: «[...] non possa darsi uomo di sì crassa ignoranza che tenga per veritiera alcune delle istorie che vi si leggono.»15 Dunque solo un matto può pensare che l’arte esprima sempre la verità, poiché l’arte – e la letteratura in particolare, sembra voler suggerire Cervantes –, sono la trasformazione di un contenuto, non la sua rappresentazione. Sempre che il letterato, lo scrittore, questo il concetto espresso da Don Chisciotte, non si dìa a voli pindarici astratti senza tener conto della realtà. Ma questa è anche la “chiave di volta” del neorealismo e dell’opera di Carlo Bernari e Cesare Zavattini, opera che

non è

appunto mai “oggettiva”, cioè documentaristica, descrittiva o più semplicemente cronachistica, ma il risultato una creazione fantastica. Come si vede il concetto di “verità” in letteratura dà ancora adito ad una discussione

accesa e di certo non può essere ridotta, la verità,

ad una forma

                                                                                                                13

C ERVANTES M IGUEL DE , Don Chisciotte della Mancia, versione di Bartolomeo Gamba, Istituto Editoriale Italiano, Milano, s.d., vol I. p. 359–60. 14 Ibid. C ERVANTES, Don Chisciotte della Mancia, cit., vol I, p. 293. 15 Ibid. C ERVANTES, Don Chisciotte della Mancia, cit., vol I, p. 294

 

8  

scolastica e schematica di “verismo” oggettivo. Del resto, lo stesso titolo del film di Zavattini, La veritààààà, pone l’accento su un tema enorme della nostra letteratura: quello della “rappresentazione del vero” e del “vero come rappresentazione”. Un tema che è addirittura alle radici, alle origini della letteratura italiana, a partire da Dante che affronta l’argomento della verità nei versi 106–142 del XVII canto del Paradiso della Divina Commedia, dove fa dire a Cacciaguida in risposta ai dubbi ed angosce del Poeta circa la sua missione di verità:

[...] indi rispuose: «Coscienza fusca o de la propria o de l’altrui vergogna pur sentirà la tua parola brusca. Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, tutta tua vision fa manifesta; e lascia pur grattar dov’è la rogna. Chè se la voce tua sarà molesta nel primo gusto, vital nodrimento lascerà poi, quando sarà digesta. Questo tuo grido farà come vento, che le più alte cime più percuote; e ciò non fa d’onor poco argomento.

Su questi versi che affrontano la missione di “verità” del Poeta si sono spesi fiumi d’inchiostro. È piuttosto utile insistere sul fatto che la questione non viene posta da Dante nell’ambito di un’analisi teorica, bensì compare in un’opera

di

fantasia e, per di più, arriva da un personaggio, in questo caso Dante stesso, che ha smarrito la retta vita e si è ritrovato in una selva oscura. Ecco allora che scatta la preoccupazione del Poeta di risultare indigesto raccontando la verità («ho io appreso quel che s’io ridico, / a molti fia sapor di forte agrume»); oppure di passare per pazzo e di essere allontanato dalla comunità. Dante così lega il tema della verità a quello della follia, proprio come farà secoli dopo Cervantes che affida al suo personaggio di

 

9  

fantasia la missione di verità del letterato: quella di raccontare la realtà degli umili. Verità e follia sono allora i principali elementi dialettici della letteratura – italiana in particolare. Per esempio Ariosto fa capire come l’invenzione, cioè la mediazione letteraria e fantastica, crei una seconda realtà che, parafrasando i versi ariosteschi, tende più al falso che al vero:

Fu quel ch’io dico, e non v’aggiungo un pelo: io ‘l vidi, i’ ‘l so: né m’assicuro ancora di dirlo altrui; che questa maraviglia al falso più ch’al ver si rassimiglia. 16

L’Orlando furioso, al pari del successivo Don Chisciotte, al di là di più ampi significati, accende un faro metaletterario sul tema della verità: solo un pazzo può esprimerla. Così l’ Enrico IV e il Ciampa de Il berretto a sonagli

di Pirandello

fanno ricorso alla pazzia come mezzo artistico del vero, che resta altrimenti indicibile, inconfessabile. Una situazione che non cambia negli anni Sessanta: L’onorevole di Sciascia (in questo caso, la fuga nella follia di Beatrice, rea di confessare la mafiosità del marito politico) e Ditegli sempre di sí di Eduardo de Filippo, un titolo che parla da sé, sono gli esempi più a portata di mano. Ecco dunque che la verità oggettiva del poeta si trasforma, nell’opera d’arte, in una forma “soggettiva” del vero: proprio quello che sembra dire il personaggio zavattiniano di Antonio, a sua volta scappato dal manicomio, ne La veritaaaà di Zavattini. Forse non si è tenuto sufficientemente conto che la problematica della rappresentazione della verità non è sbocciata solo in ambiti teorici, ma anche in capolavori di fantasia; ed è suggerita da personaggi “border line” (Orlando, Don Chisciotte, Enrico IV, Ciampa ecc.), in preda alla follia e ai margini della società. Con un eccesso di superficialità si è così impresso il marchio della realtà sulla verità letteraria, come se la rappresentazione della realtà fosse o potesse essere certificata come una sorta di “vera realtà” solo perché, appunto, rappresentata. E qui il Curato di Cervantes fa bene a rimbrottare il Barbiere che prende per vera la realtà letteraria!                                                                                                                 16

 

A RIOSTO L UDOVICO , Orlando furioso, Canto secondo – 54, Garzanti, Milano, 1982, p. 48.

10  

La questione che può, a prima vista, sembrare abbastanza banale e facilmente risolvibile, ha invece – per diversi motivi, non ultimi tra i quali

le ideologie

dominanti che, nel Novecento, si sono riconosciute e hanno imposto una concezione propagandistica del realismo, cioè il fascismo e il comunismo sovietico – si è invece avvitata su se stessa generando confusioni e ripercussioni nel corso degli anni. La visione realistica (leggi: contenutistica) del verismo (inteso come rappresentazione di una verità oggettiva) interventi

ha

del resto procurato diversi affanni e necessità

di

e spiegazioni allo stesso Verga. Lo scrittore siciliano nella lettera a

Salvatore Farina, che precede la novella L’amante di Gramigna compresa nella raccolta Vita dei campi, lettera premessa come Manifesto Verista, osserva spiegando il concetto di “illusione completa della realtà”:

[…] Il semplice fatto umano farà pensare sempre: avrà sempre l’efficacia dell’esser stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne; il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, si maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contraddittorii, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narrow oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello di arrivo, e per te basterà, – e un giorno forse basterà per tutti. Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di codesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile dell’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i “fatti diversi”? Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà completa, che il suo processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così  

11  

evidente, il suo modo e la sua ragione di essere necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ad esser spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del suo peccato di orgine. 17

Ma il “peccato di origine” cui si riferisce Verga è proprio quello di una seconda realtà data dalla forma artistica come nuova creazione del mondo, seconda realtà che avrà la parvenza del vero, ma non potrà mai essere veramente vera in quanto creazione di un demiurgo–drammaturgo che pure celandosi dietro l’opera, la crea. Lo stesso Luigi Capuana in uno studio su La Lupa di Verga fornisce una definizione che potremmo paradossalmente definire antiveristica del verismo:

Più spesso si vedeva andare di qua e di là per la campagna “sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospetto della lupa” tale quale il Verga l’ha superbamente dipinta. Ora il pagliaio è distrutto, e quell’angolo di collina deserto. Io provavo un gran senso di tristezza nel guardare quella rovina. Ma non era il ricordo della vera Lupa che mi faceva evocare con tanta emozione la sua pallida figura dagli occhi neri come il carbone, dalle labbra fresche e rosee che vi mangiavano, no; era la Lupa dell’arte, la Lupa creata del Verga che sopraffaceva quella della realtà e me la metteva sotto gli occhi più viva della viva quand’era viva. Tanto è vero che l’arte non sarà mai la fotografia!18                                                                                                                 17

V ERGA G IOVANNI, L’amante di Gramigna, in Id., Tutte le novelle, vol. I, Milano, Mondadori («Gli Oscar» ), 1968, p. 200. Verga torna spesso sull’argomento. Si veda, ad esempio, la lettera a Felice Cameroni datata «Milano, 19 marzo 1881» nella quale lo scrittore siciliano mette in discussione le teorie naturaliste adducendo le seguenti argomentazioni: «No, io non limito i modi di sviluppo delle teorie naturaliste, per servirmi del vostro frasario, cercando di mettere in prima linea, e solo in evidenza l’uomo, dissimulando ed eclissando per quanto si può lo scrittore, dando all’ambiente solo quel tanto di importanza secondaria che può influire sullo stato psicologico del personaggio, rinunziando a tutti quei mezzi che sembrami più artificiosi che emanazione vera e diretta del soggetto, la descrizione, lo studio, il profilo. Tutto questo deve risultare dalla manifestazione della vita del personaggio stesso, dalle sue parole, dai suoi atti: il lettore deve vedere il personaggio, per servirmi del gergo, l’uomo secondo me, qual’è (l’apostrofo è originario della scrittura di Verga, ndr.), dov’è, come pensa, come sente, da dieci parole e dal modo di soffiarsi il naso. Io non ci sono riuscito, ma non vuol dire che il principio sia falso, altri riescirà; e il profilo, la descrizione, la presentazione, altro che sommaria e presentata di sbieco, parrà falsa e insopportabile come sembrano oggi le tirate e i soliloqui sulla scena.» V ERGA G IOVANNI, lettera a a Felice Cameroni datata «Milano, 19 marzo 1881», apparsa in Lettere inedite di Giovanni Verga raccolte e annotate, a cura di Maria Borgese, in «Occidente», IV, vol. X–XI, 1° gennaio–30 aprile 1935, pp. 7–22. Le sottolineature sono nel testo originale. 18 C APUANA L UIGI, Giovanni Verga, in Studi sulla letteratura contemporanea, a cura di P. Azzolini, Napoli, Liguori editore, 1988, pp. 75–6.

 

12  

Capuana conclude, anticipando un concetto su cui insisterà Pirandello (e altri dopo di lui, da Bernari a Calvino) secondo cui la forma, la drammaturgia dell’opera, non il bello stile è ovvio, prevale sul contenuto:

La forma si è anche qui, perfettamente compenetrata col soggetto [...] E quando dico forma, non intendo soltanto la frase, lo stile, ma qualche cosa di più elevato: la concezione, tutto l’organismo dell’opera d’arte, che funziona colla pienezza della vita, libero e indipendente dalla personalità che lo creò. È di questa forma che s’intende quando s’ha la fortuna di parlare d’un artista come il Verga.19

Tutto chiaro, dunque, per la cristallinità della visione di uno dei padri del verismo italiano che parla di “forma come organismo dell’opera d’arte”? Sembrerebbe di no, visto che la concezione desanctisiana dell’arte\vita e dell’artista\uomo sociale, intuita da Gramsci nella sua straordinaria importanza, una volta ridotta ad una formula schematica, finì per svuotare la forma a favore del contenuto; ridurre il realismo a documento (spesso e volentieri finalizzato alla propaganda ideologica fascista e comunista); impoverire la funzione dell’artista alla sua utilità sociale e, alla fine del processo, asservire l’arte agli interessi ideologici, sminuendo o annullando del tutto la fantasia creatrice dell’autore. Prova ne sia il travisamento del pensiero di Gramsci operato da Togliatti che non esitò a subordinare la concezione, ben più ampia e complessa dell’intellettuale “organico” alle esigenze del partito. Ecco perché, nonostante i richiami all’aspetto formale del verismo e del neorealismo, è prevalsa l’interpretazione “realistica” che Bahr definisce “più facile” e – aggiungiamo – anche più comoda, visto che carriere accademiche e collaborazioni editoriali passavano in buona parte attraverso la segreteria politica del Partito Comunista italiano. Per questo non c’è da stupirsi se ancora nel 1988, anno di ripubblicazione, dopo la prima edizione del 1882, della raccolta degli scritti di Capuana, si continua a                                                                                                                 19

 

Ibid., C APUANA , Giovanni Verga, in Studi sulla letteratura contemporanea, cit., p. 77.

13  

parlare di un

“caso Verga” 20 nella letteratura italiana, come recita la quarta di

copertina del libro: «Dell’opera di Giovanni Verga [...] Capuana fu l’insostituibile profeta, con ragioni che illuminano ancora tutte le nostre discussioni sul

“caso

Verga”.» Le discussioni in realtà nascono da alcune confusioni e molte amnesie che preciseremo in breve. Fatto sta che, partendo dal presupposto contenutistico, anche Verga e il verismo – e quindi non solo il neorealismo di Bernari e Zavattini – sfuggono da tutte le parti e resistono ad una così semplice (Bahr) sistemazione. In effetti il cosiddetto “caso Verga”, come lo definisce Paola Azzolini nella nota redazionale, è ancora oggi più ampio e contrastato di quanto si possa immaginare e, come si è detto, implica una reinterpretazione storico–critica del verismo e del neorealismo in funzione delle arti visive. Lo sostiene – aggiungendo però un errore abbastanza grave – la stessa Azzolini nell’introduzione agli scritti di Capuana:

Come la scienza registra i risultati di un esperimento nelle condizioni di massimo equilibrio, perché dalla serie di sperimentazioni nasca la possibilità di formulare la legge del fenomeno, così l’arte osserva il fatto umano e lo descrive, come un occhio che vede e non giudica e non sente. L’impersonalità postula un autore che è come l’occhio meccanico di una macchina fotografica (il Capuana, non meno di Verga, era un accanito fotografo dilettante) [...] L’autore si trova nella stessa condizione del pubblico immerso nell’oscurità della platea; osservatore, ma non partecipe, del “gioco delle parti” che si svolge davanti ai suoi occhi.21

Al di là del fatto che Pirandello è chiamato in causa impropriamente e avventatamente dal virgolettato («osservatore ma non partecipe del “gioco delle parti”»), proprio lui che prevede la partecipazione, addirittura a scena aperta,                                                                                                                 20

Il caso Verga è il titolo del volume apparso, a cura di Alberto Asor Rosa, nel 1972 per i tipi dell’Editore Palumbo di Palermo. Esso raccoglie saggi – per la maggior parte pubblicati dalla rivista «Problemi» tra il 1968 e il 1969 di A. Asor Rosa, V. Masiello, G. Petronio, R. Luperini e B. Biral. Una delle ragioni per cui gli scritti sono stati riuniti in volume è che la discussione: «non impegna genericamente critici di diverso orientamento ideale e metodologico ma critici che esprimono orientamenti ed interessi diversi all’interno dello stesso campo teorico, cioè il marxismo [...]». A SOR R OSA A LBERTO (a cura di), Il caso Verga, Palermo, Palumbo, 1972, p. 5–6. 21 AA.VV., Luigi Capuana, introduzione di P. Azzolini, cit., p. XXXII.

 

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dell’autore come vuole la tradizione del teatro–nel–teatro!22 – sembra che tra le fonti e le asserzioni della studiosa ci sia un abisso incolmabile, al limite dell’incomunicabilità. Infatti, Capuana sostiene testualmente che «l’arte non sarà mai fotografia!» (suo il punto esclamativo a ribadire), e Paola Azzolini fraintende parlando di «un autore che è come l’occhio meccanico di una macchina fotografica», prescindendo così del tutto dal vasto ed acceso dibattito svoltosi negli anni Cinquanta e Sessanta su riviste e quotidiani. Un dibattito cui, come vedremo nel capitolo dedicato al cinema, Bernari e Zavattini presero combattivamente parte parlando dell’impossibilità di un’arte cinematografica come riproduzione fotografica e\o imparziale della realtà. Definire poi Verga fotografo dilettante, adoperando cioè una formula purtroppo non isolata nel campo della critica letteraria – dimostratasi finora anche attraverso i suoi rappresentanti più insigni, del tutto inadeguata ad affrontare l’argomento con cognizione di causa e quindi con la necessaria competenza – significa andare incontro a gravi fraintendimenti. Minimizzando o disconoscendo23                                                                                                                 22

L’Autore è protagonista di diversi drammi di Pirandello, primo fra tutti Questa sera si recita a soggetto e naturalmente nei Sei personaggi in cerca d’autore che rappresentano la dialettica, l’incontro–scontro, tra la falsa verità dei personaggi reali e la vera falsità dei Signori Interpreti . 23 La ricerca bibliografica su Verga e la fotografia dà risultati alquanto desolanti. I pochi interventi su quello che dovrebbe essere un argomento centrale della letteratura italiana contemporanea sono racchiusi nello spazio di poche pagine o di un elzeviro. A parte qualche breve spunto originale di Sanguineti e di Sciascia si resta nell’ambito dell’interpretazione tradizionale del verismo come riproduzione mimetica o appunto fotografica della realtà a fini di studio per l’elaborazione narrativa. Nessuno parla di ”scatto”, non solo in senso meccanico, ma anche in senso fisico, dinamico, fisico, di movimento: ossia di messa in moto della realtà attraverso un processo di riscrittura finalizzato a quella ”drammaturgia delle immagini” cui fa cenno Verga. Cfr. S ANGUINETI E DOARDO, Ma com’è fotogenica la realtà... anche troppo, in «Infinito», n. 3, Torino, 1985; cit. in C. Marra, Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pp. 302–5. S ANGUINETI E DOARDO , Prefazione a G. Verga, I Malavoglia, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 7–16, ora in S ANGUINETI E DOARDO , Il mito verghiano, in ID., Il chierico organico. Scritture e intellettuali, a cura di E. Risso, Milano, Feltrinelli, 2000, pp. 157–65. S CIASCIA L EONARDO , Verismo e fotografia, in ID., Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983, pp.187–91. Nemiz Andrea, prefazione di L. Sciascia, Capuana, Verga, De Roberto fotografi, nota introduttiva di A. Di Paola, Palermo, edikronos, 1982, pp. 7–9. L OMBARDO M OSCHELLA O LGA , Fotografando il «reale»: «Mastro–don Gesualdo» tra letteratura e fotografia, in «Nuovi annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina», n. 7, 1989, pp. 283–91. F AVA G UZZETTA L IA , Itinerario della gestualità verghiana: tecnica dei piani, valore iconico, in ID., Quaderno verghiano: appunti di analisi narratologica, Messina, Prometeo, 1984. D I S ILVESTRO A NTONIO , Verga e Capuana: tra scrittura come fotografia e poetica della memoria. Appunti per uno studio, in «Annali della Fondazione Verga», XVI, 1999, pp. 7–24. D OLFI A NNA (a cura di), Letteratura e fotografia, 2 vol., Roma, Bulzoni, 2005. In particolare possiamo segnalare tre interventi nel primo volume: Irene Gambacorti, Ritratti verghiani; Michela Toppano, La configurazione dello spazio nella narrativa e nella fotografia di Federico De Roberto; Remo Ceserani, Il tema della fotografia nell’opera narrativa di Pirandello. C RISPOLTI F RANCESCO C ARLO (un programma TV1 di), Letteratura e fotografia. Capuana, Verga, De Roberto, Strindberg, Zola, Carrol, introduzione di G. Cattaneo, Roma, Appunti dell’ufficio stampa

 

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pertanto l’importanza del Verga fotografo, si perde, come nel caso indicato, anche l’occasione di leggere il Verga fotografo, tutt’altro che dilettante visti i risultati, in relazione alla sua opera letteraria. La verità è che la confusione24 nasce dal concetto di impersonalità dell’opera cui si riferiscono Capuana e Verga, i quali (come i loro posteri neorealisti) non intendono assolutamente trasformare l’autore in un occhio meccanico o fotografico della realtà, bensì fornire alla finzione dell’opera d’arte la forma dell’apparente realtà. Quindi, per fare un esempio astruso ma efficace (e che piacerebbe tanto a Zavattini), l’autore non deve essere paragonato ad una macchina da presa, ma semmai ad un proiettore di finte realtà o verità. Bahr, anticipando di oltre mezzo secolo le teorie di Roland Barthes25, parla di:

Sensazioni, nient’altro che sensazioni, immagini momentanee sconnesse di rapidi avvenimenti sui nervi – questo caratterizza l’ultima fase nella quale la verità ha fatto entrare la letteratura.26

Sembrerebbe dunque teorizzato un processo secondo il quale la realtà si fissa per immagini, fotogrammi, nel cervello dello scrittore che poi riproduce e proietta fuori di sé un’altra realtà, un’altra verità, attraverso la forma della finzione letteraria, della fantasia. Così il percorso dalla letteratura verista e dal neorealismo alla                                                                                                                                                                                                                                                                                                                             Rai, 1977. S ICILIANO E NZO , Verga fotografa i suoi personaggi, in «La Stampa», 2 aprile 1971. M UTTI R OBERTO (a cura di), Giovanni Verga scrittore fotografo, introduzione di G. Bezzola, Novara, De Agostini, 2004. 24

Il presunto metodo “oggettivo” verista viene addirittura attribuito con qualche forzatura allo stesso Pirandello da Giovanni Croce che, nella prefazione dell’Oscar Mondadori de I vecchi e i giovani afferma: «la narrativa si ispirava allora ai canoni del verismo. Teorico della scuola era il siciliano Luigi Capuana […] Il metodo verista, da lui sostenuto e applicato, si atteneva alle regole della rappreentazione obiettiva, alla descrizione attenta del particolare.» C ROCI G IOVANNI, Introduzione a I vecchi e i giovani, Milano, Mondadori Oscar, 1979, p XIX. Lo scritto di Croci prosegue col paragone critico con Zola, un paragone che però lo stesso Verga allontana, come stiamo vedendo, in maniera piuttosto decisa. 25 «Chiamo “referente fotografico”, non già la cosa “facoltativamente” reale a cui rimane un’immagine o segno, bensì la cosa “necessariamente” reale che è stata posta dinanzi all’obiettivo, senza cui non vi sarebbe fotografia alcuna [...] ciò che io vedo si è trovato là, in quel luogo che si estende tra l’infinito e il soggetto (operator o spectator).» B ARTHES R OLAND , La camera chiara, Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 1980, p. 77–8. 26 Ivi.

 

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letteratura fantastica dello stesso Zavattini e anche di Italo Calvino27, ma questo aprirebbe un altro discorso, potrebbe rivelarsi una giusta via interpretativa. Ne parla appunto Bernari in Non gettate via la scala del rapporto tra realtà e fantasia, un titolo che evoca l’albero di Calvino su cui sale il Barone rampante, ma le cui radici sono ben piantate in terra. Naturalmente, per tornare al nostro discorso, la critica è andata avanti, dal 1988, sul “caso Verga”. Così più di recente Giorgio Patrizi ripropone il tema del rapporto tra “naturalità” e “verità” nell’autore catanese con una prospettiva interessante:

La naturalità e la verità si fondano sul ruolo dell’opera letteraria come espressione di un mondo e di una cultura costituzionalmente, nell’ideologia verghiana, naturale e vera. Come da una causa deriva un effetto, dal dato materiale dell’evento colto dall’esperienza deriva la forma linguistica in cui l’esperienza si organizza e si esprime.28

Ma qui si cade in un altro equivoco abbastanza evidente. La domanda è se l’esperienza, nella concezione verghiana, si organizzi e si esprima sempre e solo in forma linguistica. Oppure non vi sia una fase pre–letteraria, non solo teorica ma soprattutto pratica, di formazione dell’opera (quella della “sensibilità” tra artista e oggetto della rappresentazione di cui parla tanto Verga stesso e che torna nel capo 5 del Manifesto Udaista di Bernari), ad esempio nella forma dell’arte fotografica che rappresenta il reale attraverso l’occhio dell’artista dietro l’obiettivo: attività che piuttosto precede, nel caso di Verga e, come si vedrà, di Bernari, l’operazione

                                                                                                                27

I primi scritti di Italo Calvino si inquadrano nell’ambito della ricerca della realtà. Questa parte della produzione dello scrittore è stata poco considerata dalla critica ed esclusa dall’opera completa. Andrea Dini, della Montclair State University, ha indetto, per l’annuale convegno dell’American Association for Italian Studies (AAIS) tenutosi a Filadelfia nel 2012 una sessione dal titolo Italo Calvino 1943–49: A Critical Reassessment. La sessione invitava all’esame e alla rivalutazione critica della produzione di solito meno studiata – racconti giovanili, racconti esclusi dalle raccolte principali, contributi per i fogli partigiani e per «L’Unità» , etc.– vista in relazione alla composizione de Il sentiero dei nidi di ragno (1946), all’epistolario 1941–49 e alla crisi compositiva degli anni 1947–49. 28

P ATRIZI G IORGIO , Prefazione a I Malavoglia, Roma, La Biblioteca di Repubblica, Supplemento al quotidiano «La Repubblica», 2006, p. XVII.

 

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linguistico–letteraria. La risposta di Patrizi sembra dettare una soluzione che non risolve il problema, anzi lo acuisce:

Si riformula così la tesi della mimesi verghiana non come rappresentazione verbale di un mondo, ma come rappresentazione dei modi di rappresentare verbalmente il mondo.29

Pur centrando la questione della non “immediatezza” della “rappresentazione del mondo” e della natura, che per Verga assume nell’arte una forma di “seconda realtà” – ovvero, come suggerisce Patrizi, di una “rappresentazione dei modi di rappresentare [verbalmente] il mondo” – si ricade nell’equivoco sul verismo. Patrizi infatti aggiunge arbitrariamente

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, nel suo ragionamento, l’avverbio

“verbalmente”, restringendo di conseguenza l’opera di Verga all’esclusivo campo verbale o, per meglio dire, letterario e saltando pertanto la fase pratica e preparatoria di ricerca dei materiali narrativi. Va segnalata qui la confusione terminologica, indice di una carenza logica del ragionamento: Patrizi, innanzitutto, avrebbe dovuto scrivere “letterariamente” e non “verbalmente” poiché l’opera di Verga è, non ci sarebbe neppure bisogno di dirlo, linguistico–letteraria e non genericamente verbale31 . Ma anche in questo caso – ammessa e non concessa la superficialità terminologica – non si dà la giusta importanza, nella valutazione dello scrittore siciliano, alla presenza di un’altra componente determinante: quella delle arti visive, in particolare della fotografia e, come analizzeremo successivamente, del teatro e del cinema: quelle forme cioè d’espressione artistica che hanno impegnato e non poco influenzato l’autore de I Malavoglia e, a maggior ragione, tenuto conto dello sviluppo di queste arti proprio nei primi tre decenni del secolo scorso, i neorealisti e in particolare Bernari e Zavattini.                                                                                                                 29

Ivi. Nella Critica della critica della filosofia del diritto di Hegel , Marx definisce “arbitrario” un concetto inserito senza la dimostrazione logica della sua necessità. In particolare Marx critica Hegel quando aggiunge al concetto di “proprietà”, che si deve intendere in senso generale e concernente l’intera umanità, l’attributo “privata”, che viene a restringere il concetto di proprietà con un passaggio non dimostrato dal genere all’individuo, dall’uomo al privato borghese. La critica di Marx alla critica di Hegel è per altro, più in generale, una critica alla critica nell’ambito delle scienze umane. Ogni passaggio concettuale (quindi logico) deve assumere validità scientifica, anche in letteratura. 31 La letteratura può essere orale, ma non certo “verbale”. 30

 

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Lo studio recente di Remo Ceserani32 sul rapporto tra fotografia e letteratura se da un lato rappresenta, come si legge nella la quarta di copertina, “una vastissima ricognizione comparatistica” del tema, dall’altro non dedica approfondimenti storici specifici al passaggio dal naturalismo al verismo e al neorealismo. Questo passaggio, tuttavia, è determinato proprio dall’uso pratico, e non solo teorico come proposto da Ceserani, della macchina fotografica da parte dello scrittore, e le sole tre citazioni – per Capuana e per Verga, così come la mancanza di un capitolo sul neorealismo e sulla Neue Sachlichkeit (entrambi termini che non vengono mai citati nello studio), non possono certo soddisfare l’esigenza di un approfondimento di questo aspetto. Gli scrittori del periodo che ci interessa, infatti, fanno del giornalismo fotografico, o documentarismo che dir si voglia, una “premessa” o un “supporto” alla loro creazione letteraria e a volte operano in questo campo addirittura per mera necessità economica, come nel caso di Bernari. Certo: questa pratica fotografica comporta uno sviluppo teorico, ma riteniamo che, quanto meno nel nostro caso, possa risultare fuorviante analizzare la teoria senza partire dall’esperienza concreta e umana da cui essa scaturisce. Bisogna dunque ribadire che l’approccio della critica alla narrativa italiana è stato pressoché unilateralmente letterario; mentre scrittori come Verga, Pirandello, e poi Alvaro, Moravia, Bernari e Zavattini sono stati – come si sa – veri e propri geni poliedrici alla stregua degli artisti rinascimentali

più eminenti, soprattutto per

l’interesse manifestato nei confronti delle arti visive (le quali, non dimintichiamo, necessitano anche di una discreta conoscenza e pratica tecnica). Del resto, solo nel caso di Pirandello la critica è riuscita ad analizzarne l’opera nella sua completezza, opera che dal teatro al cinema e alla letteratura (ma anche alla pittura, visto che la famiglia era una vera e propria fucina rinascimentale con i figli Fausto, pittore, e Stefano, drammaturgo e sceneggiatore) spazia in tutti i campi delle arti. 33                                                                                                                 32

Cfr. C ESERANI R EMO , L’occhio della Medusa. Fotografia e letteratura, Torino, Bollati Boringhieri, 2011. 33 Tuttavia, anche in questo caso, la critica ha agito, per i limiti culturali e di formazione settoriale che dicevamo – tranne alcune eccezioni, per altro marginalizzate nel campo critico e accademico, come ad esempio il poliedrico studioso Ruggero Jacobbi – in maniera unilaterale. Lo storico del teatro si è occupato del Pirandello drammaturgo, il critico letterario si è preso cura del narratore, mentre lo studioso di cinema – pur valorizzando le intuizioni cinematografiche di Pirandello nel romanzo Si gira! – ha trascurato il Pirandello cineasta. Lo dimostra il fatto che alcuni soggetti e sceneggiature di

 

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Tornando al tema della

“rappresentazione dei modi di rappresentare il

mondo”, non solo quindi “verbalmente”, come nota Patrizi a proposito di Verga, è invalso fin dall’origine un doppio malinteso che si è ripercosso sull’interpretazione del verismo prima, e, successivamente, del neoralismo. Il che ha comportato, come dicevamo, una minore attenzione per la forma artistica con conseguente sopravvalutazione del contenuto: l’etica dello scrittore, che non basta da sola a fare arte, ha preso così il sopravvento nella dialettica tra forma e contenuto. Va da sé che la critica abbia superato la visione schematica e un po’ ingenua di un verismo “oggettivo”, di una rappresentazione della realtà non filtrata dalla “forma” artistica. Ma questo superamento e aggiornamento della critica sono semmai avvenuti, come accennato, solo nell’ambito linguistico–letterario, stilistico e narrativo, senza tener conto che la letteratura già dalla fine del XIX secolo si confronta, si mescola e si arricchisce con le nuove tecnologie e le nuove forme della narrazione visiva e del documento fotografico. Il malinteso sul verismo34 e sul neorealismo si consolida proprio nel mezzo del ventennio fascista, la cui critica militante all’uscita di Tre operai di Bernari nel 1934 elogiò il romanzo come espressione del realismo fascista. Ci pensò Mussolini a redarguire i suoi censori, responsabili di non essersi accorti che il romanzo di Bernari era «comunista e disfattista». È noto del resto l’episodio della “velina”35 del Duce agli organi di informazione per bloccare le recensioni, tra cui quella di Pannunzio sul                                                                                                                                                                                                                                                                                                                             Pirandello siano ancora inediti. La sceneggiatura di Acciaio, scritta da Pirandello su incarico di Mussolini, per fare un esempio eclatante, è stata pubblicata dalla Eri Edizioni Rai solo nel 1991. Si può parlare quindi di una visione abbastanza superficiale e approssimativa delle influenze e delle sinergie nella produzione artistica di Pirandello. 34

C’è infatti un consolidamento negli anni Venti e Trenta del malinteso sul verismo come espressione di una realtà oggettiva. L’equivoco sul “naturalismo” inteso contenutisticamente e non, piuttosto come dovrebbe essere, “formalmente”, cioè come una forma dell’arte che ricrea una realtà, è il cruccio dello stesso Verga che ne parla abbondantemente nell’intervista concessa a Ugo Ojetti nell’agosto del 1894: «Ma non si vede – afferma Verga – che il naturalismo è un metodo, che non è un pensiero, ma un modo di esprimere il pensiero? Per me un pensiero può essere scritto, in tanto in quanto descritto, cioè in tanto in quanto giunge a un atto, a una parola esterna: esso deve essere esternato. [...] I due metodi [naturalismo e psicologismo] sono in fondo ottimi tutti e due, non si escludono; possono anzi fondersi e dovrebbero nel romanzo perfetto essere fusi. Inoltre osservi che noialtri detti, non so perché, naturalisti (sottolineatura dell’originale, ndr.) facciamo della psicologia con la stessa cura e la stessa profondità degli psicologi più acuti. [...] Il naturalismo è un metodo [...] il naturalismo è forma [...]». L’intervista, comparsa sul «Corriere della Sera» dell’8 agosto 1884, è pubblicata nell’appendice Verga intorno a I Malavoglia che chiude la ristampa del romanzo nella collezione Ottocento della Biblioteca di Repubblica, Roma sd., pp. 395–96. Cfr. O JETTI U GO , Alla scoperta die letterati, a cura di P. Pancrazi, Firenze, Le Monnier, 1967, pp. 112–24. 35 Nel gergo giornalistico per “velina” si intende una direttiva imposta dall’alto per guidare la linea politica e culturale di una testata.

 

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«Corriere della Sera». Il destino di Tre operai che rimase impigliato nelle maglie della censura fascista36 dopo aver ricevuto un primo “placet” dal regime

per la

struttura neoveristica, testimonia comunque che il malinteso circa la natura del realismo nasce già nella prima metà del Novecento. Scrive Giovanni Lanza:

Nel 1933 la rivista «L’universale» (1931–1936) pubblicò il Manifesto realista che chiamava la cultura italiana a dare il proprio contributo alla rivoluzione fascista, un contributo critico, cioè fatto anche di dissenso antiborghese, anticapitalistico, antiidealistico e dunque realistico, fuori della logica del Concordato con la chiesa. Anche gli intellettuali che lavorano alla terza pagina de «Il Bargello», settimanale della federazione fascista di Firenze, vogliono spazi di autonomia all’interno del fascismo, in nome della cultura popolare e del rilancio degli aspetti sociali del ‘primo’ fascismo. Gli intellettuali che si raccolgono intorno a «L’Universale» e a «Il Bargello» sono dunque fascisti, ma criticano la fisionomia che va assumendo il regime; essi sono contrari alla filosofia di Giovanni Gentile, che appare loro legata alla visione del mondo liberale, sono contro l’imborghesimento del movimento fascista, esprimono idee anticapitaliste (vorrebbero che le Corporazioni fossero un effettivo strumento di giustizia sociale), si richiamano alle origini rivoluzionarie del fascismo. Non si dimentichi che Mussolini, prima di diventare il fondatore del fascismo, era stato socialista rivoluzionario, e suggestioni socialisteggianti erano presenti nel primo fascismo (e ritornarono, dopo, nel fascismo della Repubblica sociale di Salò). La base sociale di tali atteggiamenti anticapitalistici era costituita dai reduci, da quelli che avevano duramente combattuto nella prima guerra mondiale e, al ritorno in patria, si trovavano a fare i conti con la miseria, con la disoccupazione, e a prendere atto del fatto che una ristretta classe di capitalisti si era invece arricchita grazie alla guerra. 37

È quindi evidente che il fascismo fosse più preparato ad accogliere piuttosto che a rifiutare e respingere l’ondata neorealista dei primi anni Trenta. Al punto che Vito Zagarrio scorge una continuità tra cultura fascista e cinema neorealista ponendosi la domanda su:                                                                                                                 36

Sulla censura libraria nel corso del Ventennio fascista cfr. B ONSAVER G UIDO , Mussolini censore. Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia, Roma–Bari, Laterza 2013. 37 perché.giovanni–lanza.de/appunti_sul_neorealismo.htm

 

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quali siano le eredità che il cosiddetto neorealismo si porta dietro dal cinema fascista, quali le radici che affondano nel cinema degli anni Trenta e dei primi Quaranta [...] quali gli elementi di continuità e conservazione? Quanto l’interventismo della cultura fascista applicato al cinema ha influito sulla nascita dei quadri del futuro neorealismo?38

Zagarrio scorge una continuità e contiguità del cinema neorealista con la politica culturale del fascismo che, del resto, come nota lo stesso Zagarrio riprende l’idea del cinema come arma più forte, secondo lo slogan di Mussolini mutuato da Lenin. Tuttavia l’analisi di Zagarrio non tiene conto del fatto che questa “continuità o contiguità” del neorealismo col fascismo è solo apparente e nasce da una distorta interpretazione del verismo prima e del neorealismo poi. Non è del resto difficile dimostrare come abbia a lungo prevalso una semplificazione eccessiva del rapporto tra verità e oggettività, nel realismo socialista, nel realismo fascista e, nel dopoguerra, nel ritorno al realismo sovietico. Operazione culturale che, col placet di Togliatti39, rende possibile il cosiddetto “cambio di casacca”, ossia il passaggio di alcuni intellettuali e autori fascisti o compromessi col fascismo (come Vittorini che fu un esponente “trasversale” alle ideologie del realismo: prima fascista, poi socialista e quindi sovietico!) all’area di influenza culturale del Partito Comunista. Tornando per un istante al tema del malinteso originario sul verismo e la mancata definizione del nucleo originario del neorealismo nei primi anni Trenta, va detto che le confusioni hanno finito per susseguirsi e autoalimentarsi, purtroppo fino ad oggi. Non è certo mancata un’analisi storicamente approfondita della polemica tra il gruppo ideologico fascista intorno a «Il Bargello», diretto dal gerarca Pavolini, e le altre riviste filofasciste come «Il Saggiatore» e «Oggi» che difendevano la cultura                                                                                                                 38

Z AGARRIO V ITO , Il neorealismo prima del neorealismo. Continuità o rottura?, in Inconri cinematografici e culturali tra due mondi a cura di Antonio C. Vitti, Pesaro, Metauro, 2012, pp. 288– 9. 39 Palmiro Togliatti fu ministro degli interni del primo governo italiano presieduto da De Gasperi all’indomani della liberazione che di fatto rinunciò alla epurazione dei quadri fascisti dagli apparati ministeriali. Si deve anzi a Togliatti il tentativo di recupero all’interno dei quadri del Partito Comunista degli intellettuali che sia pur cmpromessi col fascismo potevano dare un contributo alla spinta rivoluzionaria sulla base degli ideali “socialisti” della cosiddetta “prima ora”.

 

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realista e il “contenutismo” del fascismo, contro i cosiddetti “calligrafi”, in parte riuniti intorno a riviste come «Il Frontespizio» 40 e «Solaria», la rivista che portò avanti durante il ventennio la tesi dell’ermetismo, visto come soluzione poetica, lirica di fronte alle enormi problematiche della storia. Riassumendo brevemente l’argomento del contendere, i contenutisti accusavano i calligrafi di difettare di eticità e umanità, e di risolvere il loro atteggiamento di indifferenza morale e politica nel culto del bello stile e della bella pagina; nella loro nozione di realismo la funzione di rappresentare la nuova Italia mussoliniana, ora in maniera conformistica ora in maniera critica, ma comunque in aperta contrapposizione con quell’altra tendenza a una letteratura di contenuti, affermatasi già alla fine degli anni Venti.41 In realtà, accanto a questi due gruppi (e qui prende spunto il discorso sul ritardo della critica che non ne ha identificato con chiarezza l’attività, spessa svolta clandestinamente – ne parla giustamente Francesca Bernardini nell’Introduzione all’edizione critica di Tre operai), occorre segnalare la presenza di un movimento intellettuale neorealista e soprattutto antifascista che, per quanto debole o disorganiz– zato, creó una vera e propria rete di “intellighezia” dell’opposizione al fascismo. Del resto, che il fascismo stesse prendendo le misure sul neorealismo – cominciando a considerarlo meno amico di quanto precipitosamente supposto alla fine degli anni Venti (leggi Alvaro e Moravia) solo per contrapporlo alla corrente ermetica –

è testimoniato da un articolo meno sciocco e banale di come lo segnala

Zavattini a Bernari in una lettera del marzo 1933. Zavattini si lamenta del fatto che, nella polemica tra contenutisti e formalisti sfuggisse «quello che a me pare il dato più importante: una nuova generazione». In questo caso Zavattini, se non parla proprio di complotto della critica, certo ci si avvicina:                                                                                                                 40

Nota è la vicenda de «Il Frontespizio» che nasce il 26 maggio 1929 a Firenze come bollettino bibliografico della Libreria Fiorentina prima di passare nel 1930 all’editore Vallecchi. La rivista ha radici cattoliche e tenta di recuperare i valori religiosi, sia nell’arte che nella letteratura, cercando di rimanere autonoma rispetto al potere fascista. Nella rivista si formano due gruppi, uno di destra composto da Bargellini, Papini, Barna e Occhini, e l’altro di sinistra rappresentato da Carlo Bo e dagli amici di Mario Luzi, Oreste Macrí, Alessandro Parronchi, Leone Traverso. Il saggio Letteratura come vita che sarà il centro di accese polemiche, porterà Bo a lasciare «Il Frontespizio» nel settembre del 1938. Il saggio, che risulta uno dei documenti più validi della nuova stagione ermetica, accredita alla condizione letteraria il senso del fatto interiore, del movimento integro e vivo della coscienza proprio quando «Il Frontespizio», tra il 1937 e il 1938, inizia a ripiegarsi su posizioni di cronaca conformista. Con questo documento Bo e suoi amici dicono no a «Il Frontespizio» e al suo allineamento con la cultura fascista. 41 B ERNARI, Tre Operai , a cura di F. Bernardini, cit., introduzione p. XL.

 

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Presto vi scriverò dicendovi alla buona le mie idee su queste polemiche. In linea generale manca la buona fede. Il perché di tanta confusione è lí, di tanti accomodamenti, ecc. ecc., e sfugge quello che a me pare il “fatto” più importante: una nuova generazione. Le discussioni con i contenutisti e formalisti non poteva trovare un articolo più memorabilmente sciocco, cieco per noi giovani di quello di Gargiulo su «Espero».42

Per quanto memorabilmente sciocco l’articolo di Gargiulo fornisce peró la testimonianza storica di come il fascismo stesse cominciando ad operare dei distinguo tra la sua concezione del verismo e quel neorealismo che sembrava sfuggire all’ideologia culturale ufficiale del regime. Ecco infatti quanto scrive Gargiulo insistendo sul tema dell’umanità del cosiddetto neorealismo:

[...] L’umanità con la quale il neorealismo andrebbe ridando sostanza a questa nostra letteratura – sino a ieri, come dicono, troppo formale – deve consistere unicamente in una maggiore profondità psicologica [...] il verismo intendeva cogliere la genuina sostanza umana, soprattutto attraverso i primordiali istinti [...] [mentre] il neorealismo va in cerca della più ricca umanità, scendendo più giú ancora, dove non troverà mai nulla, dato che laggiú, in quella zona del passivo, le figure, le persone, addirittura non si formano.

E così termina il suo articolo deducendo che «[...] l’inconsistenza e la disperata uniformità delle persone, porta il neorealismo a presentare «un abulico» 43 Nel marzo del 1933 né Gargiulo né Zavattini (che non ha ancora ricevuto44 il dattiloscritto del romanzo di Bernari che gli viene spedito con una lunga lettera accompagnatoria il 29 febbraio, cioè due giorni prima della succitata lettera, dello                                                                                                                 42

Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata Rizzoli&C. Anonima per l’Arte della Stampa, Milano indirizzata Bernard–Peirce / via 4 Fontane 4 / Roma , data del timbro postale (Milano, I. III. 33 –XI), Archivio Carlo Bernari. 43 G ARGIULO , Profondità , in «Espero», cit., p. XI. 44 Zavattini riceve il dattiloscritto il 23 marzo del 1933 e ne dà notizia all’amico; «Ho ricevuto oggi il romanzo, faró miracoli per leggerlo entro quattro cinque giorni». Cartolina postale, manoscritta, autografa, carta intestata Rizzoli&C. Anonima per l’Arte della Stampa, Milano indirizzata Bernard/ via 4 Fontane 4 / Roma, data del timbro postale (Milano, 29. III. 33 –XI), Archivio Carlo Bernari.

 

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stesso anno), sanno che questa figura abulica del neorealismo sta per essere impersonata appunto dal giovane operaio che non vuol essere operaio: Teodoro, protagonista del romanzo Tre operai che Zavattini farà uscire nel febbraio del ‘34.

Una lettera di Verga all’amico Capuana del 26 dicembre 1881, per entrare in particolare nel merito della questione della fotografia, dimostra come la reinterpretazione del verismo e del neorealismo, appunto alla luce dei rapporti con le arti visive, fosse e sia ancora quanto mai necessaria:

Bisogna assolutamente che tu mi faccia o mi procuri gli schizzi e le fotografie di paesaggio e di costumi pel mio volume di novelle siciliane, tipi di contadini, maschi e femmine, di preti e di galantuomini, e qualche paesaggio della campagna di Mineo, ecco quanto mi basta, ma mi è necessario.45

La funzione determinante dell’arte fotografica nella formazione dell’opera narrativa di Verga è focalizzata da Ignazio Burgio che si spinge anche ad un collegamento diretto con lo stile neorealista successivo al verismo:

Nelle opere veriste di Verga, paesaggi, ambienti e personaggi vengono descritti facendo ricorso, proprio come nelle foto d’autore rigorosamente in bianco e nero, al sapiente gioco di luci ed ombre, del sole, della notte, dei fuochi, e via dicendo. Inoltre le trame dei racconti sembrano una sequenza di brevi scene neorealiste legate insieme dalla voce del narratore.

L’analisi di Burgio è tuttavia ancora, seppure in parte, legata al “vecchio” schema che vede nel verismo uno stile “oggettivo”:

                                                                                                                45

 

R AYA C IRO , Carteggio verga-Capuna, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1984, p. 164.

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All’interno di tali scene, i personaggi per lo più umili risaltano come figure in chiaroscuro sullo sfondo di un paesaggio rurale ed umano, gretto e spesso ostile, ritratto fedelmente come nelle fotografie che ci ha lasciato.

Agli occhi di Burgio appare, nonostante tutto, la novità che slega il verismo di Verga da una forma di riproduzione fotografica “verbale”, poiché il racconto verghiano comincia ad assumere l’aspetto di un movimento dinamico dell’immagine attraverso lo strumento della drammaturgia (che sarà poi evidente quando torneremo a parlare del teatro in rapporto con la letteratura verista e neorealista, a partire da Cavalleria Rusticana di Verga).

E proprio perché la struttura di ogni racconto è immaginata come una sequenza di istantanee, chi ritrae, cioè lo scrittore, riesce a restarne più facilmente al di fuori, come dietro la sua macchina, al momento di aprire l’obiettivo sulla realtà.

Ed ecco la conclusione del ragionamento di Burgio:

Tutto ciò ha il sapore di una sceneggiatura cinematografica ante litteram [...] questo poiché se è vero che le novelle e i romanzi di Verga avevano in qualche modo il loro modello ideale nell’arte fotografica, ma finivano per evidenziarne i limiti – poiché le fotografie non possono narrare – l’evoluzione tecnologica delle fotografie, ovvero il cinema, avrebbe potuto sopperire a questa mancanza.46

L’analisi stilistica dell’uso dei colori nella narrativa di Verga – caratterizzata, oltre che dal bianco/nero fotografico che utilizza giochi di luci ed ombre, come un’anticipazione del cinema espressionista del primo Novecento, anche da squarci di colore, rosso, verde e blu – potrebbe rivelare un collegamento diretto col neorealismo                                                                                                                 46

B URGIO I GNAZIO , Raccontare in bianco e nero: Giovanni Verga fotografo e il suo stile verista, cfr. sempre dello stesso Autore, Giovanni Verga e i suoi racconti in bianco e nero, entrambi questi articoli in si leggono formato PDF, in perché.cataniacultura.com, 2011.

 

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di Tre operai, in cui si individua chiaramente una forte accentuazione cromatica ed espressiva che non può non far pensare allo stile dello scrittore siciliano. Così basta accostare le riflessioni di Ignazio Burgio sul cromatismo in Verga e lo studio di Rocco Capozzi dei colori nelle opere di Bernari, per trovare un denominatore comune – formale e stilistico prima ancora che contenutistico (il mondo degli umili eccetera) – dei due scrittori, dal che si può facilmente dedurre che verismo e neorealismo siano strettamente correlati. Un rapporto tra i due movimenti, di fine Ottocento l’uno e della prima metà del Novecento il secondo, che troverà formalmente nel cinema e nel teatro – attraverso il “trait d’union” di un altro scrittore che opera proprio nel mezzo tra la generazione di Verga e dei veristi e quella di Bernari e dei neorealisti, cioè Pirandello – il “tavolo di lavoro” in comune. Il semplice fatto che dopo il 1905, e fino alla morte, Giovanni Verga non sia rimasto inoperoso, ma abbia anzi lavorato alacremente alla stesura di soggetti e sceneggiature cinematografiche (proprio come il suo più giovane conterraneo Pirandello), spiega come l’evoluzione dal verismo al neorealismo avvenga sulla base della tecnica fotografica prima e del suo sviluppo nel cinema poi. Tutto questo processo è stato, salvo alcune eccezioni nel campo degli studiosi e salvo le dichiarazioni pressochè unanimi degli stessi autori che hanno sempre rivendicato il loro processo creativo basato sulla forma piuttosto che sul “contenuto” ideologico e sociale, insufficientemente considerato dalla critica, o “dimenticato” come nel caso dei materiali fotografici di Verga. Tale critica, come accennavo, si è mossa nell’ambito di uno schema fittizio e di un’equazione falsante: verismo e neorealismo = oggettivismo e contenutismo sociale. Questa interpretazione, che si è comunque consolidata fino a trasformarsi in una forma mentis e in giudizi stereotipati difficili da estirpare anche a livello di insegnamento scolastico (soprattutto dagli anni Cinquanta agli anni Settanta dello scorso secolo), non ha peró tenuto conto di alcuni risvolti elementari, tra cui spicca quello per cui si considera la forma narrativa del verismo, ad esempio, sotto il punto di vista dell’azione drammatica del reale, mentre la fotografia sarebbe una “istantanea”, una posa, insomma un “fermo immagine” della realtà, capace sì di rappresentarla, ma di per sé non sufficiente a descrivere appunto la drammaturgia delle forze che spingono la realtà stessa al movimento, all’azione, al dramma e alla

 

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tragedia del vivere. Questa concezione cozza però con la constatazione che il “fermo immagine” fotografico racchiude una forza narrativa ben superiore al documento: l’arte fotografica consiste nel riuscire ad esprimere con una sola immagine, o con una serie di immagini, proprio quella drammaturgia del reale che si ritiene comunemente appannaggio esclusivo della letteratura e del teatro. Per questo, come vogliono i surrealisti a partire da Man Ray, la fotografia e il cinema sono un’arte e non una tecnica. Ovviamente dobbiamo fin d’ora tener presente che la fotografia racchiude in sé una potenzialità narrativo–drammatica che trova il suo naturale sviluppo nell’arte cinematografica. Cos’è infatti il cinema se non fotografia o fotogramma “in movimento”, dove il movimento è dato dall’elemento letterario del dialogo, comunque dal “fine” narrativo e/o espressivo dell’artista che traduce in immagini la forma drammatica, cioè il racconto? È utile ora osservare come, fin dal suo esordio, la fotografia determinò un nuovo modo di rappresentare la realtà, molto al di là del semplice dato descrittivo. Ciò non vale solo per la pittura, il che sarebbe scontato, nel suo rapporto con la rappresentazione naturalistica, ma anche in campo strettamente letterario, a cominciare dal “presunto” verismo di Verga: perché “presunto” lo si vedrà tra poco da un intervento di Massimo Bontempelli. Il dato è che il verismo, nonostante il termine stesso faccia pensare ad una documentazione della realtà “così com’è” e si porti dietro come un’ombra dai contorni imprecisi questo suo rapporto riproduttivo o addirittura mimetico con la realtà, altresì procede ben oltre il semplice “oggettivismo” per entrare piuttosto in quelle dinamiche psicologiche e soggettivistiche che sono alla base della letteratura del Novecento: una letteratura che ha dovuto fare i conti, esercitando su di esse a sua volta una forte influenza, con le arti visive come la fotografia, il teatro, il cinema. La critica ha tuttavia preferito, con qualche eccezione, considerare l’attività fotografica di Verga come un passatempo, un vezzo, un elemento biografico tutt’al più utile a studiare interessi e ambientazioni della sua opera narrativa. Eppure la fotografia, come sostiene Giovanni Sorbello, è il primo strumento narrativo dello scrittore catanese nel decennio del ciclo de I Vinti:

 

28  

[Verga] blocca la sua attenzione sulle caratteristiche percettive dell’immagine e sulla sua precarietà semantica, dimostrando una più o meno inconsapevole assimilazione di alcuni valori estetici peculiari del nuovo medium. Le considerazioni di Verga oltrepassano, di fatto, la comune accezione veristico–documentaria in cui l’immagine analogica era di solito relegata nel sistema delle arti ottocentesco. [...] uno “stile Verga” che definisce la sua prassi di costruzione dell’immagine lontano da quel semplicistico e riduttivo intento documentario in cui essa è di solito sbrigativamente confinata.47

Dunque Verga aveva a disposizione, proprio nella fotografia, uno strumento diverso, e ben più potente, dalla penna per rappresentare la realtà, qualora di essa avesse voluto fornire

una descrizione “veristica”: cosa che per altro fece,

fotografando la realtà con grande impegno e passione. Tuttavia, ecco il nodo centrale della questione,

la critica non sempre ha dato risposte esaurienti su come la

fotografia abbia influito

sulla formazione dello stile “verista”, né si è

sufficientemente studiato il Verga fotografo48 nonostante il consistente materiale da lui realizzato. Altro che

passatempo utile semmai a vagliare il rapporto tra le

immagini e le ambientazioni e i personaggi romanzeschi. Come se Verga avesse avuto bisogno di porsi davanti agli occhi dei quadretti più o meno veristici per poterli dipingere come un pittore dilettante fa davanti ad un panorama! La risposta giusta sarebbe semmai un’altra: Verga affidando il lato descrittivo all’immagine fotografica, riesce con la prosa a scardinare la superficie del reale per entrare nella “vera” tragedia umana, in una drammatica antidescrittiva, antioggettiva, ma tutta incentrata sulle dinamiche interiori dei personaggi in lotta sia

tra loro che contro un elemento

assolutamente antirealistico e antinaturalistico come il Fato. Non è questa la sede per un vaglio critico dell’opera di Giovanni Verga in rapporto con la fotografia. Ma certo è che si può considerare quella di Verga una forma narrativa che prende dalle fotografie – da lui stesso realizzate – gli elementi drammatici e tragici del reale da trasfigurare su un piano metafisico, surreale; ovvero, come ebbe a dire Massimo Bontempelli, “omerico”. Tra i pochi ad accorgersi di                                                                                                                 47

S ORBELLO G IOVANNI, L’Io pittore di Giovanni Verga: lacrymae rerum e l’immaginario visivo dell’ottocento. Si legge in formato PDF, in perché.italianisti.it. 48 Cfr. G ARRA A GOSTA G IOVANNI, Verga fotografo, Catania, Maimone Editore, 1990. L’edizione riproduce un centinaio di “scatti” eseguiti da Giovanni Verga.

 

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questo superamento della fotografia del reale in direzione di una tragedia “irreale” o “surreale”, per usare un termine che assumerà forte significato simbolico alla fine del primo ventennio del Novecento, è stato proprio Massimo Bontempelli che sembra parlare, a proposito dello stile “verista” di Verga, di un procedere come per immagini fisse, rapide, sintetiche, in altre parole fotografiche:

La brevità estrema di Verga [...] non dà l’impressione di velocità, di vertiginoso, che davvero è un gusto molto mediocre. Essa vale a suscitare il senso di apparizione, e un súbito solidificarsi d’ognuna delle immagini per cui si viene costruendo l’avvenimento. Siamo proprio agli antipodi della maniera cinematografica. Ci accostiamo invece alla poetica del Leopardi, che sta nel fare immobili le immagini.49

Naturalmente lo stile di Verga non può aver ancora ricevuto l’influsso del cinema come invece accadrà esplicitamente ad uno scrittore della generazione successiva come Luigi Pirandello, a partire da Si gira! del 1915. Verga infatti smette di scrivere nel 1905 e il suo periodo “verista” va dal 1880 col racconto Vita dei campi al romanzo Mastro don Gesualdo del 1889, un decennio in cui il cinema non aveva ancora mosso i primi passi. Senonchè la fotografia sembra assumere nella narrativa verista una funzione guida di primaria importanza, in quel fare “immobili le immagini” di cui parla Bontempelli. Ma non si tratta, ripetiamolo fino alla noia, in Verga di una “verità” da riprodurre fotograficamente, – a ciò gli basta appunto la fotografia – ma da reinterpretare cogliendo nel reale la presenza di forze “irreali” e tragiche come il Fato. In questo senso non può essere considerato paradossale che nel discorso su Verga del 1940 Bontempelli, quasi presentendo quello che sarebbe avvenuto di lì ad un decennio, lanci una frecciata alla critica che, soprattutto nella seconda metà del Novecento, continuerà per lunghi anni ad appioppare al verismo, come accadrà anche

                                                                                                                49

B ONTEMPELLI M ASSIMO , Verga , Discorso pronunziato il 15 febbraio 1940 Accademia d’Italia in Roma, in Sette discorsi, Milano, Bompiani, 1942, p. 137.

 

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nella Reale

al neorealismo, l’etichetta di uno stile volto alla «comprensione e rappresentazione dei conflitti di classe»50 (Salinari). Secondo Bontempelli:

Veduto a questo modo il mondo di Verga, siamo ben lontani da una tesi molto comune tra i suoi lettori, e da lui stesso accettata: la tesi che la sua opera intenda rappresentare la vita degli umili, e ne sia in certo modo la protesta e la difesa. 51

Bontempelli è stato il primo e forse anche l’ultimo, almeno fino ad ora, a definire già nel 1940 il termine “verismo” usato a proposito di Verga come una etichetta falsante, difendendo la “primordialità” dell’opera verghiana, un concetto che va molto oltre l’idea di verità oggettiva della rappresentazione appunto veristica della realtà:

Primordiale è ciò che in fondo a tutti gli stadi della storia rimane immutabile, è esso la sorgente costante delle variazioni che succedendosi la creano; è il fermo che governa il mobile.52

Parrebbe dunque, secondo Bontempelli, che Verga, proprio in concomitanza con l’inizio della sua attività di fotografo, sviluppi il nuovo stile narrativo del ciclo de I Vinti: dallo scatto fotografico, evitando la descrizione letteraria, lo scrittore entra nella tragedia di quel mondo primordiale di cui appunto parla Bontempelli ricorrendo a due aggettivi che non hanno bisogno di ulteriori spiegazioni: “omerico” ed “eschileo”. Perciò Bontempelli rifiuta l’etichetta di verista parlando di Verga. Il concetto stesso di verismo ci riporta ad una dimensione meno primordiale, come lui direbbe,

                                                                                                                50

S ALINARI, Storia della letteratura italiana, cit. p. 139. B ONTEMPELLI, Verga, in Sette discorsi, cit. p. 145. 52 Ivi.

51

 

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ossia meno omerica ed eschilea, ovvero ad una dimensione documentaristica, oggettiva e critica della società – come direbbe in aggiunta Salinari53. Nel denunciare questa linea interpretativa che già intuisce delineata nel 1940, Bontempelli, in un brano che merita di essere citato per esteso perché ci dà la chiave di lettura interpretativa del cosiddetto verismo e dello stesso neorealismo, precisa :

Sono dunque stato bene attento, parlando del nucleo di quel mondo verghiano, a non dire primitivo, ma primordiale, o elementare. Anche all’infuori di questa interpretazione elementarista dei protagonisti di Verga (la quale abbatte il pregiudizio del suo verismo, ch’era una involontaria condanna capitale contro il poeta) pensate che per un’altra ragione dopo aver letto I Malavoglia o le tre novelle non rimane affatto in voi l’impressione d’aver avuto a che fare, come dicono, con un mondo piccolo. Una famiglia in lotta col destino, la cui arma è la potenza del mare, quale mondo più grande di questo? La grandezza si genera dalle distanze create. C’è di più: sventura su sventura, nasce naturale l’impressione della legge oscura di persecuzione, nasce il senso di fato come inesorabilità e inconoscibilità [....] Ulisse o Antigone premuti dal destino avverso, non sono maggiori di padron ‘Ntoni e di Rosso Malpelo.54

Bontempelli passa quindi a chiarire anche l’origine del fraintendimento:

Lui stesso il Verga – come avvenne più volte ai poeti – non se n’è reso conto. Nella prefazione a I Malavoglia, che doveva preludere a tutta la serie, mostra chiaro di aver avuto in mente qualche cosa di meno vasto e tragico di quel che poi ha fatto. Pensava di scrivere uno studio, gli è venuta una trasfigurazione.                                                                                                                 53

«La scoperta di un contenuto nuovo (o, se si preferisce, di una nuova visione del mondo) permette al Verga di comprendere, assai meglio degli storici ufficiali, la società che lo circondava. E innanzitutto gli permette di comprendere nella sua vera essenza il moto risorgimentale, che si spoglia nelle sue opere di ogni orpello retorico e si rivela per quello che fu realmente: un moto guidato dalla borghesia per i propri interessi di classe nel quale venivano realizzate alcune conquiste comuni ed utili a tutti (come l’unità e un regime rappresentativo), ma venivano eluse le questioni fondamentali, le trasformazioni profonde delle strutture economiche e dei rapporti politici.» S ALINARI, Storia della letteratura italiana, cit., p. 141–2. 54 B ONTEMPELLI, Verga, in Sette discorsi, p. 145.

 

32  

Credeva aver presentato un certo numero di umili, ha rappresentato l’umanità nelle sue necessità e leggi fondamentali. Badate che qui si può vedere una cosa importante. Quando Verga passò dai suoi primi romanzi, di ambiente mondano, ai racconti siciliani, credè candidamente di aver accettato l’incitamento della scuola verista, e primo tra i veristi italiani fu subito proclamato dalla critica. Noi non possiamo più cadere in questo errore. Lui non è verista come non è verista Goldoni...55

A questo punto Bontempelli introduce un elemento che acuisce la differenza tra Verga e il suo presunto verismo: lo sfondo scenografico o decorativo, ma se vogliamo anche fotografico. Il verismo si esaurisce nella rappresentazione oggettiva e fotografica (cosa che Verga ha già fatto con le sue eloquentissime fotografie), mentre l’opera di Verga va ben oltre l’oggettività e la descrittività:

[...] e dico Goldoni con intenzione, c’è del goldoniano nelle trame serrate con cui si disegna la vita di sfondo paesano de I Malavoglia; e anche nel fatto che questo sfondo non è decorativo, ma è un personaggio, viene continuamente in primo piano insieme con i protagonisti. Tutti quelli che han preso le mosse da lui, tra essi il primo D'Annunzio, han fatto il contrario, in loro gli stessi protagonisti sono assorbiti dallo scenografia, tutto diventa decorativo balletto folclore.56

Bontempelli non concorda, insomma, con la definizione di un Verga verista, o di precursore di una nuova visione storico sociale come pensa Salinari:

Se d’un tratto Verga chiamato dal Dio ha abbandonato le donne fatali gli esteti la cortigiana squisita, non lo ha fatto come tutti dicevano, per ubbidire alla consuetudine verista di dedicarsi alle classi povere; no, lui parlava di pescatori proprio per uscire dalla attualità, dal costume; avendo intuito che la trasfigurazione poetica è quella che da qualunque aspetto vivo risale alle origini, lui ci è corso dritto, all’origine; per lui i pescatori di Aci Trezza                                                                                                                 55 56

 

Ibid., B ONTEMPELLI, Verga, in Sette discorsi, p. 145–6, Ivi.

33  

non sono umili su cui suscitare compassione, ma individui umani presentati in tono di primordio.57

In conclusione, Bontempelli esprime il suo imbarazzo nei confronti della linea critica che fin dalla prima metà del Novecento – ma anche nel corso della seconda metà del secolo, continuando ad insistere su una certa visione schematica del verismo, prima, e del neorealismo poi – ha travisato il presunto verismo di Verga e l’altrettanto presunto neorealismo di Bernari e Zavattini come stili narrativi che avrebbero sviluppato una visione oggettiva, al limite del documento sia pur con intenti critici, della realtà e della società italiane:

Per questa ragione il piglio, il modo della rappresentazione, in quel periodo che solo nella sua opera conta, è un modo tra eschileo (penso alla Lupa) e omerico (penso ai Malavoglia). I primi critici, e non i primi soltanto, si sono affannati a cercargli per forza qualche parentela; han tentato il metallo credendo di sentirlo risonare ora con quello di Flaubert ora di Zola, che non c’entravano affatto, e poi con Tolstoi e Manzoni e altri. Ma sono tutti accostamenti che oggi quando li pronunci senti che non reggono; quello che meglio regge è appunto quando dici Omero.58

Quella che può sembrare una lunga digressione sul verismo e su Verga – l’opera del quale anticipa di circa mezzo secolo l’esordio con Tre operai di Carlo Bernari e la prima fase dell’attività letteraria e narrativa di Cesare Zavattini – è invece un punto di partenza essenziale del discorso sul neorealismo. Ma anche Bontempelli, che pure da Verga trae tanta linfa, è riferimento per Bernari59 (e certamente anche per Zavattini) già nel 1929 come ricorda Capozzi:                                                                                                                 57

Ibid., B ONTEMPELLI Verga, in Sette discorsi, cit., p. 146–7. Ivi. 59 Nell’ottobre 1960 Carlo Bernari commemora Massimo Bontempelli, scomparso due mesi prima, il 21 luglio, esaltando il diciottennismo del fondatore del realismo magico. Bernari insiste sul termine coniato dallo stesso Bontempelli rinforzandolo con svariati aggettivi (funambolico, notturno, distruttivo, imprudente, eccetera) e richiamandosi testualmente a un brano di Meditazioni e pensieri dello scrittore lombardo: «C’è chi nasce diciottenne e chi nasce quarantenne. Diciottennismo è la tendenza a vivere soltanto di ciò che si sta creando di nuovo... Il diciottenne distrugge di continuo, perché fida di poter continuamente rifare. Nell’intervento Bernari ricorda l’amicizia con Bontempelli scaturita dagli incontri nella libreria Novecento nel 1929 e poi proseguita negli anni Trenta. B ERNARI, Commemorazione di Massimo Bontempelli in «L’europa Letteraria» cit., pp. 100–5. 58

 

34  

Naturalmente il momento storico, la cultura e la censura allora vigente ebbero un notevole ruolo nella scelta delle tecniche adottate dall’autore. E quindi la fusione di realismo, simbolismo e allegoria surrealistica va vista innanzitutto come mezzo per analizzare la realtà sociale e onnipolitica nei suoi aspetti più ambigui e poliedrici. Inoltre va ribadito che queste due componenti della narrativa bernariana, quella realistica (storico–saggistica) e quella inventiva (fantastico-simbolico – allegorica) sono complementari e intrinseche al realismo nell’intera opera dello scrittore. L’uso di elementi fantastici all’epoca avrebbero fatto pensare giustamente a delle possibili influenze del realismo magico di Massimo Bontempelli. E se consideriamo che il giornalista e aspirante scrittore Bernard conosceva molto bene le opere metafisiche di Bontempelli quando lo intervistò a Napoli nel 1929, è ancora più facile assumere che tra il realismo magico e il realismo spettrale ci siano dei nessi. 60  

                                                                                                                60

C APOZZI, Il realismo spettrale nelle prime opere di Carlo Bernari, in «Rivista di Studi Italiani», cit., pp. 50–74.

 

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