Viaggiatrici italiane tra Ottocento e Novecento

June 6, 2017 | Autor: Tatiana Calmasini | Categoria: Letteratura italiana moderna e contemporanea, Letteratura Odeporica
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VIAGGIATRICI ITALIANE TRA OTTOCENTO E NOVECENTO

L’importante ruolo che le scritture di viaggio di mano femminile rivestono all’interno della letteratura odeporica è stato compreso solo in tempi recenti, quando studiosi e critici hanno iniziato a dedicare le loro attenzioni anche a questa tipologia di testi. I resoconti delle viaggiatrici si dimostrano infatti capaci di mettere in luce aspetti inediti dei luoghi visitati e di proporre ai lettori una prospettiva differente e, per certi versi, complementare a quella maschile. A tale proposito, Luca Clerici, nella prefazione al volume Spazi Segni Parole – che propone interessanti, e talvolta poco conosciuti, profili di viaggiatrici dell’Ottocento e del Novecento italiano – scrive: “Proprio proiettando le caratteristiche del viaggio al femminile e delle sue protagoniste su quelle dei colleghi maschi – per differentiam ma pure per analogia – emergono alcune significative specificità, non di carattere “antropologico”, ideologico e prospettico […], ma piuttosto sociale, motivazionale ed espressivo, nonché relative al circuito della comunicazione istituito dalle loro testimonianze.”1 Muovendo da queste considerazioni e premettendo la vastità dell’argomento, si prenderanno qui in esame tre testi odeporici di tre diverse viaggiatrici italiane e distribuiti lungo un arco temporale che va dalla metà dell’Ottocento agli anni 60 del Novecento, cercando di evidenziarne le molteplici particolarità in quanto scritti di viaggio “al femminile”. Questo comunque non dimenticando la primaria necessità di contestualizzare le opere e i viaggi, nello spazio e nel tempo, e di considerare inoltre la personalità specifica di ogni autrice. Se, da un lato, si può affermare che in realtà le donne, nel corso dei secoli, abbiano sempre viaggiato – basti pensare, ad esempio, alle pellegrine o alle attrici – dall’altro è solo con il XIX secolo che iniziano a spostarsi più frequentemente (lungo la Penisola così come verso mete più lontane) e, soprattutto, cominciano a scrivere e pubblicare i propri resoconti di viaggio. Generalmente, come avveniva anche durante il Settecento, le donne che avevano maggiori occasioni di viaggiare erano mogli che avevano la possibilità di seguire il marito nei suoi spostamenti, 1

Luca Clerici, Prefazione. Letteratura di viaggio e quote rosa, in Frediani Federica, Ricorda Ricciarda, Rossi Luisa (a cura di), Spazi Segni Parole. Percorsi di viaggiatrici italiane, Milano, FrancoAngeli, 2012, p. 13

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come accadde, ad esempio, a Cecilia Stazzone De Gregorio, che fu la prima, nel 1847, a pubblicare in un volume di una certa ampiezza le sue impressioni e i suoi ricordi del viaggio compiuto in Italia con la famiglia.

Cristina di Belgiojoso Nel panorama italiano di metà Ottocento va tuttavia segnalata un’eccezione di non poca rilevanza, rappresentata dalla principessa Cristina di Belgiojoso. La figura della Belgiojoso (nata a Milano, nel 1808, da una delle famiglie storiche dell’aristocrazia) si inserisce a pieno titolo nel contesto storico del Risorgimento italiano: è infatti un’attiva patriota, oltre che un’editrice di giornali rivoluzionari e una scrittrice. Proprio a causa dei suoi stretti contatti con esponenti dei movimenti antiasburgici, tra i quali la carboneria, nel 1830 è costretta ad abbandonare la Lombardia per fuggire in Francia; qui, nella capitale, dà vita a un salotto frequentato da celebri intellettuali e artisti che diventa ben presto un punto di riferimento per i patrioti italiani esuli in Francia. Tornata nel LombardoVeneto, prende parte all’insurrezione milanese del ‘48 e, l’anno seguente, partecipa alla difesa della Repubblica Romana, dirigendo il soccorso ai feriti. Caduta la Repubblica, per sfuggire all’arresto, decide di imbarcarsi con la figlia Maria, nata nel 1838, per Costantinopoli e, una volta arrivata in Turchia, acquista un terreno nella regione di Angora (odierna Ankara) con il progetto di fondare un’azienda agricola e dove rimarrà fino al 1855. Durante soggiorno in Oriente, l’occasione dell’imminente prima Comunione della piccola Maria offre alla Belgiojoso la possibilità di compiere un interessante, quanto originale, viaggio: parte infatti nel gennaio 1852, con al seguito solo la figlia, la sua istitutrice e poche altre persone, alla volta di Gerusalemme, dove la bambina avrebbe ricevuto il Sacramento. Sceglie di spostarsi sempre e solo a cavallo, senza una scorta armata, attraverso luoghi ritenuti particolarmente impervi e pericolosi, quali la Turchia, la Siria e la Palestina. Si può dunque notare immediatamente la singolarità di questo viaggio, che si allontana decisamente dai canoni del viaggio femminile del tempo: la Belgiojoso è infatti una donna che, per ben undici mesi, viaggia sola – oltretutto accompagnata dalla giovane figlia – utilizzando un mezzo di trasporto particolarmente scomodo se impiegato per un 2

tragitto così lungo e percorrendo zone poco frequentate persino dai viaggiatori maschi. Successivamente, nel 1855, lasciati i propri possedimenti turchi, la Belgiojoso pubblica i suoi ricordi di viaggio sulle pagine del noto periodico parigino “Revue des deux Mondes”, intitolandoli La intime et la vie nomade en Orient. La sua scelta di scrivere in francese non è da sottovalutare perché, utilizzando quella che all’epoca era la lingua della cultura e della diplomazia per eccellenza, il testo avrebbe

avuto sicuramente una maggiore

diffusione, anche a

livello

internazionale, che non scrivendolo in italiano. L’ampia divulgazione che effettivamente ebbe l’opera in quel periodo, soprattutto in Francia, è da considerarsi altresì un avvenimento inedito per uno scritto di viaggio il cui autore era una donna. Vita intima e vita nomade in Oriente si presenta, nel suo insieme, come un testo odeporico nel quale l’autrice riesce efficacemente a muoversi tra il registro saggistico e quello narrativo, inserendo proprie impressioni e riflessioni, rendendolo un volume di piacevole lettura. La viaggiatrice è qui anche la protagonista della narrazione; presenta e descrive le persone che ha l’occasione di conoscere nel corso dei suoi spostamenti, le quali diventano veri e propri personaggi con cui ha coinvolgenti dialoghi ed espone inoltre, in maniera molto minuziosa, le numerose tappe che vanno a comporre l’itinerario. Riguardo alle soste, va aggiunto che la Belgiojoso afferma di prediligere quelle all’aria aperta, perché i grandi spazi naturali le trasmettono un senso di libertà assoluta che, d’altro canto, è caratteristico, anche se accompagnato da difficoltà e disagi, del momento intermedio del viaggio: il “transito”. Per l’autrice, questo viaggio rappresenta un’importante opportunità di crescita e di ridefinizione del senso della propria identità attraverso l’incontro con “l’altro” – esperienza, d’altronde, fondamentale per ogni viaggiatore – impersonato principalmente, nel suo caso, dalle donne incontrate lungo il tragitto. Quello che suscita in lei un vivo interesse non è tanto il paesaggio naturale – uno dei tòpoi caratteristici della tradizione odeporica romantica – bensì la “fisionomia delle popolazioni” che il viaggio le permette di osservare.

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La particolarità dello scritto di Cristina, quello che lo rende un testo originale e di grande interesse, è l’ottica attraverso la quale l’autrice osserva e partecipa alla vita quotidiana delle persone conosciute. Il fatto di essere una donna rappresenta per lei un vantaggio, in quanto le viene così offerta l’opportunità di cogliere aspetti fino ad allora sconosciuti della società orientale, legati alla realtà domestica, nella quale la donna è la protagonista indiscussa. La stessa scrittrice è cosciente di tale privilegio e, nella prima pagina del suo scritto, riporta: “E’ vero che ero in posizione privilegiata rispetto alla maggior parte dei viaggiatori e che potevo conoscere un aspetto molto importante della società musulmana – l’aspetto domestico, quello in cui domina la donna.”2 La “vita intima”, citata nel titolo dell’opera, fa dunque riferimento a quest’ultimo aspetto con il quale si è trovata strettamente in contatto nel corso del viaggio. Proprio attraverso, e grazie, questa inusuale prospettiva, l’autrice arriva a rovesciare e demolire i numerosi miti e luoghi comuni relativi all’Oriente, veicolati da altrettanto numerosi racconti a tema orientale così di moda all’epoca. La realtà di cui la Belgiojoso fa esperienza è ben diversa da quella descritta da questi ultimi e, per questa ragione, nella sua opera non vi è alcuna descrizione di ambienti esotici o di personaggi dal fascino misterioso. Nella Vita intima e vita nomade in Oriente vengono invece proposte delle osservazioni dallo sguardo lucido, delle riflessioni equilibrate e delle descrizioni realistiche, attraverso le quali l’autrice riesce a non cadere in pregiudizi e stereotipi razziali, pericolo incombente per ogni viaggiatore che si rapporti a realtà molto distanti dalla propria. Cristina è quindi in grado di porsi al di sopra di qualsiasi idea preconcetta nei riguardi della società musulmana e, soprattutto, è capace di nutrire un sincero interesse per “l’altro” senza mai sentirsi superiore ad esso. Ciò è ben visibile nelle pagine dedicate all’harem, caratterizzate da uno sguardo che potremmo definire “sociologico”: le esperienze compiute in prima persona si rivelano essere, per l’autrice, degli spunti per avanzare delle riflessioni più approfondite sul tema della condizione femminile. Avendo il permesso di accedere a questo “santuario maomettano” ha l’occasione di osservare personalmente come effettivamente si vive all’interno di un harem e com’è 2

Cristina di Belgiojoso, Vita intima e vita nomade in Oriente, Como – Pavia, Ibis, 1993, p. 22

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l’aspetto reale di questo luogo tanto sognato e rappresentato da scrittori e pittori occidentali.

Le prime parole utilizzate dalla Belgiojoso per descriverlo sono

tutt’altro che lusinghiere, in quanto lo definisce un “luogo di tenebre e di confusione, infetto e pieno di fumo”3, affermando inoltre che le rappresentazioni degli harem lette fino ad allora, sia nei resoconti dei viaggiatori che nei racconti d’invenzione ambientati in Oriente, non sono affatto veritiere: gli harem visitati dalla Belgiojoso non sono affatto luoghi dove regnano la bellezza e l’amore, né tantomeno vi si trovano oggetti e arredi lussuosi. Il primo harem che vede e nel quale, con suo grande sollievo, non è costretta ad alloggiare, è quello del muftì di Cerkes; lo trova un ambiente molto sporco, arredato da pochi e malconci mobili e, mancando quasi del tutto le finestre, la già scarsa aria è resa irrespirabile dal fumo delle candele e delle lampade ad olio. Anche le donne che lo abitano, circondate da numerosi bambini e domestiche, sono vestite e acconciate in maniera bizzarra e per nulla accurata, infatti “la loro persona è conforme al resto”4, osserva l’autrice. Proseguendo nel viaggio, Cristina conosce alcune delle donne che trascorrono la loro vita in questi spazi, durante la sosta nella residenza del principe del GiaurDaghda5. Qui ha l’opportunità di conversare con le quattro mogli del suo ospite e nota con sorpresa come la quarta, bellissima ed elegantemente vestita (a differenza delle altre), si tenga umilmente in disparte. Riesce poi a scoprire la causa di quel comportamento: la giovane donna è sterile e per questo viene presa in giro dalle altre tre. Difatti, “in Oriente non c’è niente di più vituperato, più disprezzato, più negletto, di una donna sterile.”6 Detto questo, la Belgiojoso ritiene opportuno approfondire il significato del termine “harem”, istituzione caratteristica della società musulmana, ancora così sconosciuta al mondo occidentale. Sottolinea come, in realtà, questa sia “un’entità complessa e multiforme […] c’è l’harem del povero, quello della classe media e del gran signore, l’harem di provincia e l’harem della capitale, quello della campagna e quello della città, del giovane e del vecchio […]”.7

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Ivi, p. 33 Ivi, p. 34 5 In corsivo nel testo 6 Cristina di Belgiojoso, op. cit., p. 120 7 Ivi, p. 100 4

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Non si deve dunque commettere l’errore di compiere delle generalizzazioni quando si tratta questo argomento, perché ogni harem ha proprie caratteristiche, proprie regole e proprie abitudini. Eppure, attraverso l’esperienza vissuta in prima persona all’interno di alcuni harem, l’autrice intuisce che tra questi vige un principio comune: il degradamento e la sottomissione della donna all’uomo. Tuttavia, continuando nella sua riflessione, sostiene che tali deplorevoli situazioni non siano imputabili al modo di essere dell’orientale, al quale, anzi, riconosce un carattere mite e gentile: Cristina afferma infatti che “vi è in lui un fondo prezioso di bontà, di dolcezza, di semplicità, un istinto notevole di rispetto per ciò che è bello, di pietà per ciò che è debole. Quest’istinto ha resistito, resisterà ancora a lungo, speriamo, all’influenza di istituzioni deleterie, fondate esclusivamente sul diritto della forza e sull’egoismo.”8 Non si può quindi non essere d’accordo con Ricciarda Ricorda quando, nell’ultimo capitolo del volume Viaggiatrici italiane tra Settecento e Ottocento, dedicato alla viaggiatrice in questione, afferma che la Belgojoso pone lo stato di degradazione cui la donna è costretta nell’harem in relazione diretta con una struttura sociale specifica, che in Oriente ha anche evidenti radici religiose, ma che, a ben vedere, comporta dei meccanismi di oppressione diffusi in tutte le società patriarcali. Dunque, l’harem consente di istituzionalizzare dei rapporti di forza riscontrabili, in maniera attenuata, in tutta l’Europa del XIX secolo. In ultima analisi, si può considerare Vita intima e vita nomade in Oriente come uno dei primi e più importanti testi odeporici di mano femminile nel panorama della letteratura di viaggio italiana del secondo Ottocento, che evidenzia come gli scritti femminili consentano di far luce su aspetti del tutto sconosciuti di luoghi magari già visitati precedentemente da viaggiatori maschi, restituendo così ai lettori una visione più completa.

Gina Lombroso Entrando nel nuovo secolo e passando alla seconda delle tre opere qui prese in esame, si incontra la figura di un’altra viaggiatrice, Gina Lombroso, figlia del celebre antropologo e criminologo Cesare Lombroso. La Lombroso (nata a Pavia 8

Ivi, pp. 103 - 104

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nel 1872 ma trasferitasi a Torino con la famiglia un paio d’anni più tardi), dopo una laurea a pieni voti in lettere, sceglie di dedicarsi allo studio di ciò che l’appassiona veramente, ovvero l’antropologia, la criminologia e la medicina. Si iscrive dunque alla Facoltà di medicina e, una volta conseguita la laurea nel 1901, diventa la più stretta collaboratrice del padre. L’ambiente nel quale ha la possibilità di studiare è notevolmente influenzato da idee progressiste e socialiste (qui conosce, ad esempio, Anna Kuliscioff, che diventerà una delle più importanti esponenti del socialismo italiano dei primi del Novecento), che tuttavia mal si inseriscono nel contesto familiare in cui vive, quello della borghesia ebraica torinese, strettamente legata a tradizioni morali rigide. Allo stesso modo, l’avere un padre che, in quanto positivista, teorizzava l’inferiorità biologica della donna, ma che, allo stesso tempo, ne considerava valido l’impegno in campo scientifico, peserà non poco sulla Lombroso e sulle sue scelte di vita, poiché sarà portata, a causa dell’educazione ricevuta, a sentire intensamente la contraddizione di essere, contemporaneamente, donna e intellettuale. Sempre nel 1901, sposa Guglielmo Ferrero, storico, giurista e sociologo molto noto all’epoca, e con lui avrà l’occasione di compiere uno stimolante viaggio nell’America Meridionale. Ferrero viene infatti invitato, alla conclusione di uno dei suoi più importanti lavori, Grandezza e decadenza di Roma, a riproporre il ciclo di conferenze, appena chiuso a Parigi, in alcuni stati del Sud America e la moglie, dopo aver incoraggiato il marito a partire, decide di accompagnarlo lungo il suo itinerario. Il viaggio della Lombroso rientra perciò nel più diffuso modello di viaggio femminile, quello al seguito del marito, evidenziando ancora una volta quanto invece il viaggio ottocentesco di Cristina di Belgiojoso si vada a collocare al di fuori degli schemi. Seguendo quindi i passi del marito, nel maggio 1907, Gina si imbarca a Genova con il figlio Leo, nato quattro anni prima, e arriva, alla fine del mese successivo, a Rio de Janeiro. Il viaggio ha inizio da Buenos Aires, nella Repubblica Argentina, e si svolge nell’arco di cinque mesi, tra luglio e novembre, portandola a visitare, oltre che l’Argentina, anche la Repubblica Orientale del Rio Uruguay e gli Stati Uniti del Brasile. Rientrata in Italia, dopo un’attenta e accurata revisione degli appunti di viaggio, nel 1908 la Lombroso pubblica questi ultimi in

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un volume dal titolo Nell’America Meridionale (Brasile, Uruguay, Argentina) presso la più popolare casa editrice della Milano del tempo, quella dei fratelli Treves.

Da notare come, la pubblicazione di un testo di viaggio di mano

femminile da parte di un grande editore, fosse in realtà un evento molto raro – solitamente gli scritti di viaggio femminili trovavano la loro usuale collocazione all’interno di riviste o periodici – probabilmente favorito dall’identità dell’autrice in questione. Va inoltre registrata l’inversione dell’itinerario descritto nell’opera rispetto a quello seguito effettivamente, fenomeno presumibilmente ascrivibile alla rielaborazione degli appunti di viaggio avvenuta in un secondo momento. L’opera, nel complesso, si avvicina maggiormente alla forma del saggio sociologico che non a quella del resoconto di viaggio vero e proprio; ciononostante, al suo interno, l’itinerario è ben visibile e, dai luoghi visitati e dalle circostanze vissute, l’autrice trae spunti e stimoli per considerazioni di carattere più generale. Inoltre, il discorso diretto è quasi totalmente assente dalla narrazione e ogni elemento è presentato attraverso lo sguardo e le riflessioni della Lombroso. Ufficialmente, il suo viaggio si può inserire nella “tradizione del “viaggio medico” ottocentesco”9, in quanto lo scopo della viaggiatrice, in linea con il suo interesse scientifico, è quello di visitare le più importanti strutture sanitarie, educative e criminali istituite negli Stati del Sud America; oltre a ciò, le numerose descrizioni degli ambienti naturali rivelano la sua attenzione verso gli elementi fisici e naturalistici. A tale proposito, l’autrice, per far meglio comprendere ai lettori italiani gli scenari naturali che la colpiscono così tanto per la loro bellezza, utilizza frequentemente riferimenti al paesaggio della sua patria come termine di paragone. Servirsi di elementi certamente conosciuti dal lettore accostandoli e paragonandoli a quelli dei luoghi visitati, è d’altronde un accorgimento che gli scrittori di viaggio molto spesso adoperano per rendere intellegibile una realtà straniera che altrimenti risulterebbe difficile da far intendere. Ad esempio, per meglio rappresentare l’aspetto geografico dello Stato di San Paolo, in Brasile, la Lombroso riferisce che “sono monti o meglio colline susseguentisi le une alle 9

Carlo A. Gemignani, Con Gina Lombroso nell’America Meridionale, in Frediani Federica, Ricorda Ricciarda, Rossi Luisa (a cura di), Spazi Segni Parole. Percorsi di viaggiatrici italiane, Milano, FrancoAngeli, 2012, p. 131

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altre come le nostre langhe dell’Astigiano, e che vedute dall’alto dànno l’impressione di onde in tempesta”.10 Ancora, descrivendo una parte dello Stato di Minas Geraes, sempre in Brasile, riporta: “L’altipiano ondulato, tutto cosparso di montagnole, di avvallamenti, assomiglia al paesaggio del Carso fra Trieste e Fiume; e non solo la montagna esterna vi assomiglia, ma anche l’interno. Come nel Carso queste terre sono piene di caverne”. 11 L’Italia e gli italiani sono d’altronde soggetti che fanno sentire non poco la loro presenza all’interno dell’opera: la stessa autrice dedica agli italiani emigrati in America il proprio scritto e nella prefazione spiega – con una retorica che tende ad enfatizzare il ruolo civilizzatore del migrante – che “è per vedervi che io ho attraversato il mare, e per fare conoscere voi e le terre che abitate che io ho scritto questo libro sperando che valga, sia pure in minima parte, a scuotere l’opinione dell’Italia a vostro riguardo ed a rendere più facile il cómpito che voi avete così generosamente intrapreso di fondare laggiù in ogni angolo del mondo delle nuove Italie, il cui futuro sia così glorioso come quello della patria antica.” 12 Inoltre, costituite da italiani sono le folle che accolgono gioiose la coppia al suo arrivo in piccoli paesi o in grandi città e sempre di origine italiana sono la maggior parte dei coloni che lavorano nella principale unità produttiva del Brasile, la fazenda. La Lombroso e il marito hanno anche l’occasione di vedere alcune di queste fazende, che producono caffè, e le visite offrono all’autrice molteplici spunti che danno l’avvio a riflessioni e considerazioni sulla vita dei migranti italiani, per le quali impiega numerose pagine del suo scritto. Tuttavia è necessario sottolineare che, in quest’ultimo, non si evidenziano note polemiche o critiche nei confronti di un’organizzazione produttiva volta, in realtà, a ricercare e sfruttare manodopera a basso costo. Ciò probabilmente perché un’analisi di questo tipo mal aderiva ai sopra citati propositi che la scrittrice nutriva nei riguardi di Nell’America Meridionale. Nonostante questo, le osservazioni di Gina relative alla fazenda brasiliana possiedono un innegabile pregio, quello di accennare ad un aspetto praticamente

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Gina Lombroso, Nell’America Meridionale (Brasile, Uruguay, Argentina), Milano, Fratelli Treves, 1908, p. 23 11 Ivi, p. 66 12 Ivi, p. VII

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sconosciuto

dell’emigrazione



tema,

in

generale,

raramente

trattato

nell’odeporica italiana – ovvero le vicende delle donne migranti e la loro condizione di vita una volta arrivate in terra straniera. Nello specifico, qui accade che “la emigrazione nella fazenda può convenire solo quando il contadino abbia una famiglia numerosa, […] e soprattutto quando una moglie attiva, alacre, intelligente che sappia usufruire di tutti i vantaggi che le offre la fazenda; dell’orto, della legna del bosco, della pastura, che sappia far da sé il sapone ed i salumi, tener maiali e galline, che sappia da sola allevare, vestire, la vare la famigliuola.”13 Proseguendo nelle sue considerazioni, l’autrice afferma infatti che ha conosciuto famiglie le quali, in una decina d’anni, sono riuscite a mettersi da parte una buona somma di denaro, ma sempre, a capo di queste famiglie, vi è una donna intelligente ed industriosa, che sa occuparsi del marito e dei figli. Queste valutazioni introducono un’altra delle tematiche principali dell’opera: la questione femminile, materia a cui la Lombroso si dedica anche dopo il rientro in Italia. Infatti, nel 1916, in seguito al trasferimento della famiglia a Firenze, fonda l’Associazione Divulgatrice Donne Italiane, con lo scopo di pubblicare opuscoli sulle problematiche femminili, sull’educazione e sulla guerra. In Nell’America Meridionale, il tema della condizione femminile viene sviluppato in maniera più approfondita nell’ultimo capitolo, intitolato La questione della donna nell’Argentina. Anche qui, come nelle precedenti occasioni, la Lombroso prende spunto da esperienze vissute in prima persona per desumere delle riflessioni di carattere generale e, attraverso queste ultime, si inizia a delineare quella che, negli anni a venire, diverrà una vera e propria teoria nei riguardi della situazione femminile. Nello specifico, la Lombroso constata come , in Argentina, non vi sia nessun impedimento alla “mascolinizzazione” – come la definisce lei – della donna: qui, infatti, numerose sono le donne che svolgono professioni maschili (medico, chirurgo, odontoiatra, antropologo), e lo fanno senza andare incontro a nessun ostacolo, né durante gli studi, né a carriera avviata. Tuttavia, nell’ambito dei rapporti umani, l’autrice riscontra una non trascurabile differenza tra la situazione della donna in Argentina e quella in Europa: “In Europa la donna, dalla nascita alla morte, partecipa sempre della vita dell’uomo, 13

Ivi, pp. 56 - 57

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padre, marito o figlio con cui vive congiunta”14, aggiungendo successivamente che, indipendentemente dalla calasse sociale, “la donna esercita una decisiva, capitale influenza sulla sua famiglia, sul suo paese, e la esercita non in antagonismo, ma congiunta all’uomo.”15 Proprio l’antagonismo tra uomo e donna è l’elemento che crea il maggiore divario tra il Vecchio Continente e l’Argentina. Nello Stato visitato da Gina, è registrabile un forte dualismo che si configura come “una barriera insormontabile tra uomo e donna”16, la quale non viene abbattuta nemmeno col matrimonio; l’autrice rimane infatti molto stupita del fatto che le lì mogli non accompagnino il marito a teatro o non lo seguano ai pranzi ufficiali. Tale divisione è per la Lombroso “non solo antinaturale, ma anche antisociale”17 ed ha degli effetti deleteri anche a livello familiare, perché “abbandonata a sé, la donna manca alla sua funzione di moderatrice della vita, ed invece di completare l’uomo, lo neutralizza con grave danno di entrambi.”18 Per l’autrice, il solo modo per demolire questo dualismo innaturale consiste nel rivalutare l’importanza che la funzione domestica della donna riveste non solo nell’ambito familiare ma, in generale, in tutti gli aspetti della vita quotidiana, rendendo così, come da predisposizione naturale, l’uomo e la donna complementari. Scagliandosi infine contro il femminismo europeo, critica duramente la tendenza a considerare come la sola via possibile per l’evoluzione femminile la separazione dei sessi e la “mascolinizzazione” della donna, mirando quasi a importare la situazione vigente in Argentina. Le qualità della donna, in quanto diverse e integrative di quelle dell’uomo, vanno invece opportunamente valorizzate e perfezionate, poiché possono essere utili all’umanità intera tanto quanto quelle maschili. La teoria della Lombroso sulla questione femminile rimanda quindi alla concezione positivista della donna (abbracciata perciò anche dal padre), revisionata ed attenuata nei suoi aspetti più radicali. Essa rivaluta, contro le

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Ivi, p. 335 Ivi, p. 336 16 Ibidem 17 Ivi, p. 345 18 Ivi, pp. 345 - 346 15

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tendenze femministe del primo Novecento, il ruolo della donna come moglie e madre, come primaria e fondamentale regista dell’unità familiare. In ultima analisi, va evidenziato il principale pregio del testo odeporico in questione: da un lato, esso permette al lettore di immergersi in una realtà geografica e umana affatto lontana dalla propria e, dall’altro, consente riflessioni di un certo spessore su problematiche fondamentali per il tempo – ma, potremmo dire, attuali tutt’oggi – quali, in primo luogo, quelle inerenti alla condizione dei migranti e delle donne.

Anna Maria Ortese Il terzo ed ultimo scritto di viaggio che va a completare il campione di testi odeporici “al femminile” qui preso in considerazione, conduce verso tempi più recenti: La lente scura è infatti una raccolta di corrispondenze e articoli prodotti tra il 1939 e il 1964 e apparsi nello stesso periodo su varie testate giornalistiche. L’autrice, Anna Maria Ortese (scrittrice e giornalista, nata a Roma nel 1914), offre un eterogeneo ritratto dell’Italia di metà Novecento – ma non solo dell’Italia, perché ha l’occasione di viaggiare pure in Russia, in Inghilterra e in Francia – con tutte le difficoltà e le speranze di cui era carico il periodo storico in questione. Anna Maria Ortese, provenendo da una famiglia numerosa e di umili origini, non ha la possibilità di studiare oltre la quinta elementare e, questa mancata formazione scolastica, amplifica ancora di più l’ammirazione di chi legge le sue opere per il suo stile ricercato ed originale. Approda alla scrittura, inizialmente come poeta, in seguito alla morte in mare di uno dei due fratelli marinai, nel 1933, –poco dopo morirà anche dall’altro – che le lascia un forte senso di smarrimento. Qualche anno più tardi iniziano le prime collaborazioni giornalistiche e prende per lei il via un periodo, durato fino alla metà degli anni 60, caratterizzato da frequenti spostamenti da una città all’altra, spesso accompagnata dalla sorella Maria. Contemporaneamente, l’Ortese si dedica anche alla narrativa, pubblicando, nel 1953, la sua opera più conosciuta, la raccolta di novelle intitolata Il mare non bagna Napoli. Gli scritti odeporici, per arrivare al tema che qui interessa, sono stati invece dati alle stampe per la prima volta nel 1991, tuttavia è presente un’edizione, più 12

aggiornata, datata al 2004. La genesi dell’opera è un po’ travagliata in quanto, il primo dattiloscritto – contenente i testi che compongono la prima parte dell’edizione più recente – era stato organizzato dall’autrice fin dal 1982, in vista della sua pubblicazione in volume, che però non è mai uscito. In un secondo momento l’Ortese raccolse altri articoli, per la stampa del ’91, i quali andranno poi a costituire la seconda parte del volume del 2004. In quest’ultimo, infine, è presente anche una terza parte, che riunisce alcune corrispondenze inedite scovate dal suo curatore, Luca Clerici, durante il lavoro di ricerca, continuato anche dopo la morte dell’autrice, avvenuta nel 1998. A proposito di giornalismo e resoconti di viaggio, va rilevato come, già dalla seconda metà dell’Ottocento, il legame tra scrittrici e pubblicazioni su riviste e periodici sia risultato determinante per lo sviluppo dell’odeporica femminile, poiché ha permesso agli scritti di viaggio realizzati da donne di raggiungere un ampio e variegato pubblico di lettori. Raccogliendo numerosi articoli, non ordinati, nelle tre parti, secondo un criterio cronologico o geografico, La lente scura può risultare un’opera di abbastanza difficile comprensione per il lettore, inoltre, lo stile dell’autrice, che prende vita nella composizione di pagine molto dense, è particolarmente personale ed originale. Il commento di Clerici, che trova posto alla fine del testo, in cui si forniscono notizie sul volume e sulle varie corrispondenze e si propongono anche riflessioni su aspetti di interesse artistico ed espressivo, si rivela dunque un valido supporto per cogliere appieno il significato dell’opera. Tutte le corrispondenze sono fortemente permeate della personalità e dell’emotività proprie dell’autrice, ma non solo: come ella chiarisce nella prefazione, “scrissi solo ciò che vedevo attraverso la Lente Scura di una giovinezza trascorsa nel confino di classe (c’era anche questo confino in tutto il Paese). […] La mia Lente Scura – malinconie e protesta – era di continuo allontanata e ravvicinata alle cose.”19 Il suo sguardo, che a poco a poco rivela l’appartenenza politica della giornalista, arriva quindi a cogliere, in ogni luogo visitato, ingiustizie e iniquità, riuscendo sempre a proporre la visione di chi è sopraffatto ed oppresso. Ad esempio, trovandosi a Milano nell’agosto del ’56, 19

Anna Maria Ortese, La lente scura. Scritti di viaggio, a cura di Luca Clerici, Milano, Adelphi, 2004, pp. 15 - 16

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Anna Maria assiste alle partenze per le ferie, solo di chi può permettersele, mettendo efficacemente per iscritto lo stato d’animo di chi invece è costretto a rimanere in città: “Le ferie, per una quantità di gente, non sono esistite. Ragazzi, bambini, vecchi, uomini e donne, giovanissimi e adulti, molte facce bianche hanno aspettato, nascoste dietro la cortina decente di una finestra, il disperdersi quotidiano dell’afa nel refrigerio notturno. […] Per questi cittadini l’estate non era l’estate, […] ma un duro tempo di pena.”20 In un’altra occasione, parlando del mare e dell’estate napoletana – nel 1950 – si rendono manifeste delle vere e proprie note polemiche sull’argomento, infatti, riporta l’autrice, “qui, a Napoli, Capri come il mare e le altre isole, sono distribuite solo in dose minima alla popolazione. […] In quanto al mare, un vero esercito di bambini, la leva napoletana del ’40, ne ha solamente sentito parlare.”

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Aggiungendo infine che

“quello che racconta qualcuno, che il mare non bagna Napoli, è esatto. Queste onde famose sono inaccessibili, salvo che per alcune categorie di persone”. 22 Proseguendo ora col considerare altri aspetti degli spostamenti dell’Ortese, si può notare come, per la scrittrice – che non dispone mai di una gran somma di denaro per i suoi viaggi, a causa della professione poco remunerativa del giornalista – il problema economico sia uno dei più urgenti, allo stesso modo di quello della ricerca di un alloggio, una volta giunta in una città o in un paese nuovi. Talvolta, come le accade a Roma nel 1960, è costretta, in attesa dell’appartamento che le spetta, a chiedere ospitalità ad alcuni parenti del proprietario, oppure ad informarsi sulle persone disponibili ad affittare camere ad un buon prezzo, come le succede invece di fare in Liguria. Le mete, si è già detto, sono le più varie ed abbracciano l’intera Penisola, da Nord a Sud: a grandi città, quali Milano, Roma, Napoli – luoghi in cui torna anche più di una volta – Palermo, Venezia, si affiancano piccoli paesi della Toscana, della Liguria e della Puglia. Non solo, la giornalista ha anche l’occasione di visitare grandi capitali europee, come Londra e Parigi, spingendosi, nel 1954 perfino nell’allora Unione Sovietica, soggiornando a Mosca.

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Ivi, p. 315 Ivi, p. 407 22 Ibidem 21

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Il mezzo di trasporto preferito dall’Ortese è il treno, con il quale percorre tratte anche molto estese, e su cui ha spesso l’occasione di osservare e conoscere persone di ogni tipo. Per esempio, rimane piacevolmente sorpresa quando scorge “due stranieri, forse inglesi, che andavano ad Albenga, vestiti soltanto di vecchie cose, scoloriti, educati, silenziosi, gli occhi fissi su un libriccino rosso che non era un guida del Touring, ma una raccolta di poesie. Tennyson, era scritto in nero sulla copertina.”23 Sebbene la maggior parte delle volte viaggi da sola, di tanto in tanto le capita, nel corso dei suoi servizi, di essere accompagnata da un fotoreporter, per ovvi motivi di lavoro. Anna Maria confessa poi di essere terrorizzata dall’aereo e, quando in Russia tentano di convincerla a salirci per raggiungere Stalingrado, da Mosca, ottiene addirittura di farsi visitare da un medico, nella speranza che le trovi una qualunque malattia la quale possa evitarle un viaggio che le risulta così odioso (volo a cui riesce comunque a sottrarsi). Qualche volta i continui spostamenti le provocano un acuto senso di smarrimento: l’arrivo in un luogo lontano, sconosciuto, ha sempre su di lei un impatto molto forte, negativo, che le provoca momenti di crisi, come quello che la travolge appena giunta nella sua camera d’albergo a Mosca: “Con la testa sul tavolo piansi disperatamente. Volevo tornare a casa! Avevo terrore di essere così lontano, terrore di essere in Russia. Il vecchio sgomento che provavo dovunque nel mondo, come se tutto fosse – senza rimedio – estraneo alla mia vita, eccolo di nuovo lì, al termine di questo lungo tremante viaggio [in treno]”.24 O ancora quando, dopo essere riuscita, con grande fatica, a trovare una camera libera a Genova, riflette sui sentimenti che si impadroniscono di lei una volta arrivata in una qualsiasi città lontana da casa: “Le prime ore nella stanza d’albergo di una città straniera, o perlomeno sconosciuta, non sono allegre, come capitava da bambini, ma possono sempre essere interessanti. Superato il primo momento di sconforto, si va a guardare tutto: si aprono i cassetti, si cerca negli armadi, si contano le stampelle vecchie e rotte”.25 A questa prima fase, caratterizzata da sensazioni di disorientamento e sconcerto causate dal nuovo ambiente, fa seguito l’avvio di quello che Eric J. 23

Ivi, p. 335 Ivi, p. 107 25 Ivi, p. 113 24

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Leed definisce, nella sua opera La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale (del 1991), come “incorporamento”, cioè quel processo di identificazione attraverso il quale il viaggiatore tenta di realizzare una rinnovata unione tra la propria persona e l’ancora parzialmente sconosciuto luogo d’arrivo. Ciò è quello che accade all’Ortese in ognuno dei suoi trasferimenti, rivelando, nei suoi articoli, una volontà di conoscere e di capire la nuova realtà, attraverso la propria immaginazione e la propria emotività, che le fa superare gli iniziali momenti di sconforto. Infine, si può concludere considerando il maggior pregio delle corrispondenze contenute ne La lente scura, ovvero quello di essere in grado di rendere partecipe il lettore delle diverse realtà con cui l’autrice si confronta nel corso dei suoi numerosissimi spostamenti, le quali vengono considerate non tanto alla luce della ragione, quanto attraverso pensieri ed emozioni. Le descrizioni dell’Ortese, sia dei luoghi che delle persone, si possono infatti definire come “emotivamente partecipi”, poiché tendono a proiettare sull’ “altro” l’interiorità dell’autrice, mettendo in collegamento tra loro delle immagini invece che dei ragionamenti logici. La scrittrice quindi “non ritrae il mondo, ma l’immagine del mondo che la sua anima rispecchia”26, trasportando chi legge l’opera in un mondo dai contorni quasi irreali.

Al termine di questo – seppur breve – approfondimento sulle scritture di viaggio “al femminile è possibile constatare come, prendendo in esame anche solo un numero limitato di opere, appaiano evidenti le principali qualità di questi testi odeporici che propongono, nelle loro pagine, una nuova ottica ed un inedito punto di vista rispetto ai luoghi visitati e alle presone incontrate. Le motivazioni che spingono le donne a muoversi, la loro attenzione ad aspetti magari trascurati dai colleghi maschi, e ancora, le modalità espressive impiegate nei loro scritti e la destinazione editoriale di questi ultimi sono solo alcuni degli elementi che contraddistinguono i resoconti di viaggio di mano femminile e, nonostante ne sia stata avviata solo di recente una apprezzabile operazione di recupero e di rivalutazione, è risultato immediatamente evidente quanto essi andranno 26

Luca Clerici, Una inaffidabile viaggiatrice visionaria, in Ortese Anna Maria, La lente scura. Scritti di viaggio, p. 464

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progressivamente ad arricchire, con l’apporto di nuove nozioni, il più vasto ambito della letteratura di viaggio.

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Bibliografia

Belgiojoso Cristina (di), Vita intima e vita nomade in Oriente, Como – Pavia, Ibis, 1993. Clerici Luca, Prefazione. Letteratura di viaggio e quote rosa, in Frediani Federica, Ricorda Ricciarda, Rossi Luisa (a cura di), Spazi Segni Parole. Percorsi di viaggiatrici italiane, Milano, FrancoAngeli, 2012, pp. 13 – 23. Clerici Luca, Una inaffidabile viaggiatrice visionaria, in Ortese Anna Maria, La lente scura. Scritti di viaggio, Milano, Adelphi, 2004, pp. 457 – 465. Gemignani Carlo A., Con Gina Lombroso nell’America Meridionale, in Frediani Federica, Ricorda Ricciarda, Rossi Luisa (a cura di), Spazi Segni Parole. Percorsi di viaggiatrici italiane, Milano, FrancoAngeli, 2012, pp. 127 – 144. Lombroso Gina, Nell’America Meridionale (Brasile, Uruguay, Argentina), Milano, Fratelli Treves, 1908. Ortese Anna Maria, La lente scura. Scritti di viaggio, a cura di Luca Clerici, Milano, Adelphi, 2004. Ricorda Ricciarda, In viaggio fra Occidente e Oriente: Cristina di Belgiojoso, un’esperienza d’eccezione, in Viaggiatrici italiane tra Settecento e Ottocento. Dall’Adriatico all’altrove, Bari, Palomar, 2011, pp. 135 – 172.

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