Scene \"contaminate\". L\'incontro tra teatro e cinema

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SCENE “CONTAMINATE”. L’INCONTRO TRA TEATRO E CINEMA

di Francesco Grano

1. Due Arti, un incontro… Due arti, due mondi, due universi quasi paralleli eppur separati: uno, il teatro, l’arte dell’hic et nunc, del qui ed ora tout court ove non ci si può permettere il minimo errore, la minima sbavatura perché non si può tornare indietro, evitare la defaillance o l’errata mimica, la battuta intonata con un’intensità vocale non adatta; l’altro “mondo” che si muove, prende le mosse all’interno della stessa realtà che viviamo, è quello del cinema. Diversamente dal teatro, quella che è chiamata Settima arte, “gioca” – e prende forma – su un livello diverso: nel cinema non vi è un qui ed ora, salvo eccezione quando il cinema “lo si fa”, lo si gira e lo si vede, ma una continua possibilità di replicare, di (ri)cominciare. A differenza dell’attore teatrale che non può permettersi, concedersi il minimo errore in scena, quando un attore cinematografico sbaglia, è “fuori fase” può, ad oltranza e – si potrebbe dire – infinitamente, ripetere e ripetere la battuta, il gesto, il movimento, fino a quando la scena può ritenersi perfetta, girata ad hoc. A teatro tutto questo, la possibilità di ripetere, di “correggere” l’errore non è possibile; è pura e semplice utopia: se l’attore teatrale sbaglia in scena non può fermarsi e dire «va bene, proviamo la prossima…». No, a teatro chi è in scena gioca tutto se stesso “qui ed ora” e, se sbaglia, va’ avanti, continua la sua performance fino alla fine. Proprio per questa evidente differenza, è possibile affermare che «il cinema è una “fantomachia”. [Il cinema] lascia[…] ritornare i fantasmi»1. Tale affermazione sembra criptica al riguardo, eppure non la è: se il cinema permette il ritorno dei “fantasmi”, di qualcosa che si è già visto eppure lo si può vedere nuovamente, è proprio perché concede, dà questa possibilità di rimediare, di ovviare all’errore. Ora, è molto chiaro che il discorso fin qui esposto è rivolto a quella concezione di teatro classico, di teatro “puro” in cui la “santità”, l’atto quasi “liturgico” della recitazione è fondamentale e non permissivo di mancanze o errori. Tuttavia bisogna domandarci se la possibilità di sbagliare esista oppure no in un teatro più recente, contemporaneo, in quel Teatro vivente che, a partire dal Living Theatre, ha scardinato, azzerato, (de)costruito quelle che erano le regole di una recitazione classica. È proprio con il teatro vivente che assistiamo ad una recitazione non “recitazione”, una recitazione lontana dai canoni classici a cui siamo stati abituati. È una recitazione che quasi improvvisa, sorprende, prende sempre in contropiede. Ma, se tale recitazione, in cui si può anche sbagliare “in diretta”, può ovviare ad un eventuale errore recitativo di fatto perché niente di ciò che si vede è fisso, è proprio perché un 1

J. Derrida, B. Stiegler, Ecografie della televisione, 1997, p. 129.

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certo spirito quasi cinematografico, uno “spirito della ripetizione”, della correzione si insinua all’interno del teatro contemporaneo. Tale impressione non è celata, fittizia ma è perfettamente percepibile e non solo: di fianco alla possibilità della ripetizione, in una parte della produzione del teatro vivente si ricava, si dispone uno spazio per il cinema, per quell’arte considerata concorrenziale del teatro. Infatti in alcuni spettacoli è possibile vedere come gli elementi tecnico/teorici del cinema abbiano trovato collocazione all’interno di questi e come si instillino, si fondino con la recitazione “scardinata” del teatro vivente. Obiettivo qui è – infatti – quello di dimostrare come, all’interno del conflitto teatrocinema, si sia venuta a creare una sorta di convivenza, di collaborazione tra le due arti e come una sorta di contaminazione scenica sia possibile.

2. Contaminazioni cine-teatrali. La Tragedia Endogonidia della Socìetas Raffaello Sanzio Un esempio di come teatro e cinema possano incrociarsi e convivere pacificamente, risiede in un particolare lavoro della Socìetas Raffaello Sanzio, ovvero la Tragedia Endogonidia (2002-2004). Pensata e strutturata come un ciclo, la Tragedia Endogonidia, «[…] sfida inedita alle abitudini creative e produttive del […] teatro»2 presenta, fin da subito, caratteristiche che non trovano spazio all’interno del teatro pre-contemporaneo; in primis la scelta di Romeo Castellucci di non portare in scena uno spettacolo fatto e finito, ma una serie di “esperienze” visive. Il credo, l’estetica della compagnia è proprio quella della sperimentazione, di provare sempre qualcosa di nuovo, di alternativo, di non visto. Obiettivo della Raffaello Sanzio è quello di unire e far convivere all’interno di un unico contenitore, le varie arti ed i nuovi media del XXI secolo. È ciò non fa altro che avviare un processo di decostruzione e frammentazione teatrale. Non a caso il lavoro preso in esame è composto da undici episodi, portati in scena tra il 2002 e il 2004 in varie città d’Europa. Ognuno di essi, infatti, prende il nome dalla città in cui è stato rappresentato. I singoli episodi hanno un inizio ed una fine indipendente dal seguente o dal precedente episodio nonostante – però – siano legati tra di loro da un sottile fil rouge: il rimando, il richiamo – non tanto celato – a ciò che si è già visto in precedenza. Ed è proprio questa sorta di rimando al precedente che innesca, lievemente, uno di quegli effetti che a teatro non sono rappresentabili ma che, nel cinema, trova ampio spazio: stiamo qui parlando del flashback. Ebbene, in alcuni episodi vediamo, seppur brevemente, gesti, movenze, particolari già visti e che, in qualche modo, sono ripetuti (ri)visti 2

M. Marino, Socìetas Raffaello Sanzio – Una tragedia infinita, 2003.

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nuovamente, facendo provare allo spettatore quasi una sorta di déjà vu. Tuttavia non è tanto questo meccanismo della riproposizione che ci interessa mettere in evidenza all’interno degli episodi della Tragedia Endogonidia, ma quello dell’utilizzo di una regia che filma, in maniera quasi cinematografica, i singoli eventi che compongono gli episodi. Fin dal primo episodio, C.#01 CESENA, assistiamo ad un vero e proprio “attacco” visivo: un montaggio delle sequenze rapido, sincopatico ma frammentato, quasi a voler (dis)connettere i singoli frame che compongono le sequenze; primi piani rapidi che si soffermano sui volti per frazioni di secondo, inquadrature fuori fuoco ed un utilizzo del ralenti (o slow motion) quasi a sottolineare l’efferatezza di alcuni gesti strettamente collegati al corpo, al sangue, alla violenza. È un ralenti che richiama quasi alla mente l’enfasi epica con cui Sam Peckinpah, nel suo Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969) – ma anche nella maggior parte della sua filmografia – sottolineava i momenti di morte intrisi di sangue. Ma non è tutto. Nel secondo episodio, A.#02 AVIGNON, ritroviamo un montaggio accelerato, così come nel terzo, B.#03 BERLIN, l’antefatto di questo è completamente girato in b/n utilizzando una pellicola da 16mm. Mentre nel quarto episodio, B.#04 BRUXELLES, vi è un utilizzo del grandguignolesco, di quell’effetto gore e splatter che tanto permea il cinema horror degli ultimi anni. Tuttavia, l’immersione cine-citazionista avviene in due episodi in particolare: R.#07 ROMA e S.#08 STRASBOURG, rispettivamente settimo ed ottavo episodio. Il primo, in apertura e chiusura, offre una diretta citazione al capolavoro fantascientifico del grande Stanley Kubrick, 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968), con tanto di primate fornito di osso. Ma non solo. Uno dei personaggi, rappresentazione del male, ha qualcosa di vampiresco, nelle movenze, nei gesti, nell’aspetto e il suo vestiario riporta alla mente quello del Dracula del film di Francis Ford Coppola, Dracula di Bram Stoker (Bram Stoker’s Dracula, 1992). Il secondo, invece, non può che offrire un’altra piacevole citazione cinematografica: all’interno di un improvvisato drive-in, si assiste alla proiezione di uno dei capisaldi della filmografia di Alfred Hitchcock: Psyco (Psycho, 1960). A coronamento di tutto, la regia della Sanzio non lesina a filmare gli episodi mediante videocamere digitali. Ma come spiegare questa scelta di incrociare teatro e cinema? Come osserva Valentina Valentini nel suo Mondi, corpi e materie la codificazione cinematografica della scena teatrale […] traduce le convenzioni linguistiche elementari del cinema, a volte per destrutturarne la sintassi e l’ordine del discorso, a volte per mimarne la forma espressiva. Tale modellizzazione produce effetti imprevedibili su entrambi i linguaggi […]. L’importazione […] scenica […] [nello] spettacolo di figure proprie del cinema, come i tagli di montaggio, le figure del découpage cinematografico classico […], […], configurano un cinema deflagrato fuori

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dallo schermo […]. In tal modo si producono delle figure ibride […] che portano il teatro, le arti visive, il cinema, oltre le convenzioni della loro forma storica3.

Molto probabilmente è proprio questo l’obiettivo che la Socìetas Raffaello Sanzio con la Tragedia Endogonidia si è posto: scardinare, far uscire dai propri confini artistici due arti separate per poter, finalmente, dar vita a qualcosa di nuovo e sperimentale4.

3. Non solo cinema. La videoarte nel Syrma Antigones dei Motus Un discorso molto simile a quello che concerne la Socìetas Raffaello Sanzio, trova spazio a proposito della compagnia teatrale dei Motus. Così come Castellucci, Enrico Casagrande e Daniela Francesconi Nicolò, fondatori del gruppo, puntano anche loro a scardinare i canoni classici del teatro. Attraverso la loro produzione, basata sul concetto di happening, assistiamo ad una fusione, ad un connubio tra teatro e media audiovisivi. A maggior ragione, ciò di cui siamo testimoni innanzi agli spettacoli dei Motus è una vera e propria «[…] modellizzazione, […], che si verifica […] [in un] doppio percorso: teatro-arti visive e arti visive-teatro, entrambi, […], codificati dalle immagini in movimento del video e del cinema»5. Esempio di quanto si è appena detto è il progetto Syrma Antigones, composto da tre contest (Let the Sunshine In contest #1 (2009), Too Late! contest #2 (2009) e IOVADOVIA contest #3 (2010)) ai quali si è aggiunto in chiusura lo spettacolo Alexis. Una tragedia greca (2010). Ed è proprio in quest’ultimo che la compagnia ricorre, concede largo spazio a quella che è definita videoarte, forma artistica che, attraverso l’utilizzo di impianti video, dà vita e propone allo spettatore sequenze di immagini in movimento. Nello spettacolo della compagnia, non vediamo tanto degli attori recitare, quanto l’utilizzo di proiettori, computer e teli, con i quali si proiettano le riprese dei disordini e degli scontri verificatisi in Grecia, durante i quali morì lo studente greco Alexis Grigoropoulos (da qui il titolo dello spettacolo). Mediante l’utilizzo di dispositivi elettronici, i Motus mettono da parte, mettono in disuso il rapporto mimetico della tragedia classica, per far si che lo spettatore venga avvolto non da qualcosa di fittizio o irreale, ma che si ritrovi immerso,

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V. Valentini, Mondi, corpi e materie. Teatri del secondo Novecento, 2007, p. 74. A proposito della contaminazione teatro-cinema, Valentina Valentini pone l’attenzione sul Big Art Group ed al loro «[…] live film: né cinema né teatro, performance dal vivo restituita in immagine, un’immagine che viene composta, mixata in tempo reale, nella diretta di ripresa e montaggio. Il palcoscenico in questo caso è un set cinematografico che mantiene però il qui ed ora della scena teatrale […]». Per ulteriori approfondimenti si veda Ivi, p. 76. 5 Ivi, p. 42. 4

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circondato da quella che è la pura e semplice realtà del nostro mondo, dei nostri giorni6. È una (ri)evocazione quella attuata dai Motus in Alexis: rievocazione dei fatti ma – allo stesso tempo – della realtà che si vive e che, in qualche modo, non trova tanto spazio in una rappresentazione classicheggiante. Se la compagnia opta per l’utilizzo dell’elettronica in scena, non è tanto per offrire qualcosa di inedito e nuovo, così come […] il dispositivo elettronico non è usato per trasmettere immagini già registrate che immettono nel presente dell’azione scenica altri mondi, tempi e spazi, né per duplicare quanto avviene in scena, ma come feedback immediato che dà in diretta le azioni reali che gli attori compiono “qui ed ora” sul set predisposto per la scena […]. Nello spettacolo il dispositivo elettronico non è protesi, […], ma un’energia che trasforma lo statico in dinamico […]7.

Ed è proprio questa trasformazione, questo passaggio dallo statico al dinamico, che permette allo stesso spettatore di assurgere al ruolo di soggetto attivo e non più passivo. Invece di assimilare, godere dello spettacolo per il proprio diletto, lo spettatore si trova in una situazione di riflessione attuale, dalla quale è impossibile fuggire. Attraverso le proiezioni delle rivolte in Grecia, ognuno degli astanti si trova in un’inevitabile condizione: ovvero riflettere sul proprio presente, sul mondo reale che ognuno vive e ciò – in qualche modo – porta ad una scelta, ad una presa di coscienza delle “tragedie” e degli orrori che fluttuano, si muovono, permeano la vita quotidiana. Molto probabilmente è per questo che, oltre ad una rievocazione attoriale della morte di Alexis, i Motus affiancano ad essa lo strumento della proiezione: non tanto come semplice aggiunta, ma come medium verso un’evoluzione teatrale. Non per niente […] il dispositivo elettronico e digitale […] ha lavorato, […] per scomporre l’unitarietà della scena teatrale e dell’organismo attoriale, scindendo la voce dal corpo e componendo il corpo reale con quello dell’immagine. […] A differenza del dispositivo cinematografico, che ha modellizzato la scena teatrale in funzione illusionistica, quello elettronico ha operato sia in direzione antillusionistica, sia di indecidibilità tra immagine e realtà8.

Tuttavia, nonostante ciò che si possa pensare su queste “contaminazioni” che spaziano, all’interno del teatro, dal cinema fino all’utilizzo di altri media elettronici, tale “incrocio”, fusione funziona alla perfezione. Certo, questo potrebbe far storcere il naso ai più puristi. Però vi è da riconoscere le potenzialità, le possibilità di “evoluzione” che tali introduzioni possono concedere nel teatro contemporaneo: molto probabilmente, spettacoli come la Tragedia 6

Non a caso, come osserva Valentini, «gli spettacoli dei Motus, […], modellizzano la scena teatrale come un set e un’installazione, nel senso che hanno del set la natura, minuziosamente realista di scena allestita per la ripresa […]». Per ulteriori approfondimenti si veda Ivi, p. 87, nota 33. 7 Ivi, p. 70. 8 Ivi, p. 72.

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Endogonidia e Alexis, privati di tali componenti, non colpirebbero come un pugno nello stomaco noi spettatori, portandoci da uno stato di (in)coscienza ad uno stato di coscienza. Se così non fosse rimarremmo relegati, ancora, ad un semplice e mero stato di vedente passivo.

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Riferimenti Bibliografici Derrida Jacques, Stiegler Bernard, Ecografie della televisione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997. Valentini Valentina, Mondi, corpi e materie. Teatri del secondo Novecento, Bruno Mondadori, Milano, 2007.

Sitografia consultata Farinelli Gianluca, Lettere a Romeo Castellucci – Cinema (http://www.doppiozero.com/materiali/speciali/lettere-romeo-castellucci-cinema). Marino Massimo, Atlante di una tragedia infinita (http://www.altrevelocita.it/incursioni/2/contemporanea/6/2005/20/editoriali-eapprofondimenti/121/atlante-di-una-tragedia-infinita.html). Marino Massimo, Socìetas Raffaello Sanzio – Una tragedia infinita (http://www.sguardomobile.it/spip.php?article86).

Filmografia Dracula di Bram Stoker (Bram Stoker’s Dracula, 1992, di Francis Ford Coppola). 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968, di Stanley Kubrick). Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969, di Sam Peckinpah). Psyco (Psycho, 1960, di Alfred Hitchcock).

Teatrografia consultata Ciclo Tragedia Endogonidia: -

C.#01 CESENA. A.#02 AVIGNON. B.#03 BERLIN. B.#04 BRUXELLES. R.#07 ROMA. S.#08 STRASBOURG.

Ciclo Syrma Antigones: -

Let the Sunshine In contest #1. Too Late! contest #2. 8

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IOVADOVIA contest #3. Alexis. Una tragedia greca.

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