THOMAS DE FALCO

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Thomas De Falco

Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di laurea in Studi Storico-artistici Cattedra di Storia dell’arte contemporanea

Candidato Beatrice Schivo 1622477

Relatore Carla Subrizi

A/A 2016/2017

A mia nonna Maresa

INDICE Introduzione…………………………………………………...……………….…p. 3 Capitolo 1 La formazione……………………………………....…………..…….p. 6 Paragrafo 1 Il potere del filo…………….....………………………..…..………p. 6 Paragrafo 1.2 Il filo è donna ?..............................................................................p. 12 Paragrafo 1.1 La Fiber Art……………….......……………………...…………p. 15 Paragrafo 2 Gli anni alla Scuola di arte applicata del Castello Sforzesco: dalla conoscenza delle tecniche dell’arazzo contemporaneo verso le prime sperimentazioni scultoree…………………………………………...…………p. 17 Paragrafo 2.1 Il wrapping...…………………………………………………….p. 21 Paragrafo 3 La scelta cromatica…………...………………………...…………p. 24 Paragrafo 4 Il rapporto con la natura……………...……………………...…….p. 31 Paragrafo 5 Verso le performance ed installazioni tessili………..…………….p. 35 Capitolo 2 Gli arazzi e le sculture tessili………………………………………...p. 41 Paragrafo 1 Gli arazzi e gli arazzi scultorei………………………...…………..p. 41 Paragrafo 2 Le sculture tessili e le sculture tessili su tela ………….………….p. 45 Capitolo 3 Le performance ed installazioni tessili……………………………...p. 49 Paragrafo 1 Dal 2010 al 2013: Natura morta W, Constellation TN, Beauty BH, Rinascita e Rinascita II Tempo……………...…………………………………p. 49 Paragrafo 2 Dal 2015 al 2017: RED, Alba, Tempo, Roots e Wrapping..………p. 56 Tavole………………………………………………………...…………………..p. 64 Bibliografia…….………………………...…………………………….……….p. 109



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Introduzione

Il 18 marzo 2016 mi trovavo presso la Galleria Monitor di Paola Capata come tirocinante, ed è lì che conobbi Thomas De Falco. Non ne avevo mai sentito parlare, non sapevo nulla del suo lavoro, ma ascoltando le sue parole ne rimasi subito affascinata. Si presentò come scultore tessile e da quel giorno in poi la mia vita sarebbe cambiata. È oramai un anno che collaboro con Thomas De Falco come assistente alla realizzazione delle sue opere, e da tale rapporto personale nasce l’idea di questo studio. Non essendo presenti bibliografie sull’artista, questa ricerca è stata possibile grazie al contatto diretto con l’operato di De Falco, partendo dall’osservazione e dall’interazione che in prima persona ho avuto con le tecniche della creazione artistica, per arrivare alla realizzazione di interviste inedite allo stesso artista e alle persone a lui vicine, riportate in via frammentaria all’interno di questo studio. Il primo capitolo riguarda la formazione dell’artista, ed è stato pensato come una ricerca quasi antropologica, che dagli interessi e dalle influenze artistiche e ambientali sull’artista, va ad indagare come nasce l’opera di De Falco. Quest’ultima è generata dal medium tessile, in particolare dal filo, materiale che da millenni accompagna il cammino dell’uomo, nell’arte e non, ma che oggi poco si sente nominare all’interno delle sperimentazioni materiche più contemporanee. Pertanto, nel primo paragrafo del primo capitolo si è tentato di comprendere quale sia il fascino che può avere il medium del filo, facendo un percorso che, dal mito sino ad artiste contemporanee come Louis Bourgeois, ne analizza la fortuna critica, per arrivare poi al motivo che ha spinto lo stesso De Falco a tale scelta. Decisione che potrebbe risultare insolita per uomo, in quanto tradizionalmente nel pensiero collettivo l’idea del tessere è legata alla figura femminile, tema che viene affrontato nel paragrafo 1.1, all’interno del quale attraverso le parole dello stesso artista viene smentita la domanda che lo intitola: “Il filo è donna?”. La seconda parte del primo paragrafo invece analizza la nascita della Fiber Art, corrente artistica contemporanea che ha rivisitato nel corso del Novecento l’arte tessile tradizionale, ancora oggi poco studiata.



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Nel secondo paragrafo del primo capitolo si analizzano in un primo momento le tecniche che vengono utilizzate per creare un tessuto, in particolare l’arazzo. Infatti Thomas De Falco inizia la sua produzione artistica proprio con questo medium, formandosi alla Scuola d’arte applicata del Castello Sforzesco di Milano, diplomandosi dunque in arazzo contemporaneo. Attraverso frammenti di un’intervista all’artista e docente Elisabetta Genoni, viene argomentato il significato dell’arazzo contemporaneo, anche in rapporto con le opere di arazzeria tradizionali. Gli anni di formazione per De Falco sono stati utili allo studio della propria ricerca artistica, che lo porterà a raggiungere risultati scultorei all’interno di un lavoro bidimensionale come l’arazzo. Il mezzo che gli permette tale procedimento è la tecnica del wrapping, al quale viene dedicato il paragrafo 2.1. Il terzo paragrafo riguarda invece la scelta cromatica. Utile a questo studio è stato il testo dello studioso Alberto Boatto, che in Di tutti i colori. Da Matisse a Boetti, le scelte cromatiche dell’arte moderna analizza i significati di colori come il nero, il blu, ma soprattutto il rosso, colore che contraddistingue e accumuna tutte le opere di De Falco, il quale gli attribuisce un significato di amore, dolore e sofferenza universali. Fondamentale per Thomas De Falco è il rapporto con la natura, all’inizio guardata inconsciamente, poi grazie al filtro dell’opera di Giuseppe Penone, centrale per De Falco, è risultata la principale fonte di ispirazione. L’artista pertanto realizza dei libri dove cuce sulla carta delle foglie secche da lui raccolte, e attraverso questo procedimento dà vita ai suoi progetti, argomento che viene trattato nel quarto paragrafo. Grazie a questi studi, De Falco concretizza il suo messaggio e il suo fare artistico coniugando la materia tessile, che prende forma attraverso il procedimento scultoreo, al corpo umano, che è il mezzo attraverso il quale sceglie di far parlare la materia. Nel quinto paragrafo del primo capitolo, Verso le performance e le installazioni tessili, si analizzano quindi i valori che l’artista attribuisce alle pratiche performative e alle installazioni, guardando agli artisti che lo hanno influenzato, e comprendendo quali sono i nessi e gli elementi originali ed eterogenei. L’artista concepisce la performance come un momento idilliaco, tendente all’onirico, dove dopo che la bidimensionalità dell’arazzo è stata resa tridimensionale attraverso il



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procedimento scultoreo, trasforma la materia in un oggetto quadrimensionale, poiché subentrano appunto la vitalità del corpo umano e il tempo della narrazione. Il secondo capitolo di questo studio ha lo scopo di raggruppare l’opera scultorea tessile di De Falco in due categorie: gli arazzi e le sculture tessili. Per arrivare al passaggio dalle due dimensioni alla terza, De Falco ne realizza una mediana, che è l’arazzo scultoreo. Pertanto il primo paragrafo tratta degli arazzi e degli arazzi scultorei, offrendo le letture delle opere più recenti dell’artista. Secondo la stessa impostazione viene affrontato il secondo paragrafo, dove però si parlerà delle sculture tessili. Anche queste possono essere divise in due categorie, in base al supporto prescelto: le sculture tessili vere e proprie, dove il wrapping è l’estremo protagonista dell’intreccio, e le sculture tessili su tela, nelle quali De Falco, oltre ai tradizionali materiali prescelti, quali lana, cotone, seta e canapa, sceglie anche l’impiego di stoffe. Il terzo ed ultimo capitolo analizza tutte le performance ed installazioni tessili di Thomas De Falco, e viene suddiviso in due paragrafi: il primo tratta delle prime cinque, ovvero Natura morta W, Constellation TN, Beauty BH, Rinascita e Rinascita II Tempo, rispettivamente dal 2010 al 2013; il secondo di quelle che vanno dal 2015 al 2017, Red, Alba, Tempo, Roots e Wrapping.



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Capitolo 1. La formazione Paragrafo 1. Il potere del filo

Thomas De Falco, classe 1982, è uno dei pochi giovani artisti italiani a cimentarsi nell’antica arte della tessitura, oggi nel mondo contemporaneo conosciuta come Fiber Art, fondendola con le ben più recenti pratiche della performance e dell’installazione. Nato a Mondragone, in provincia di Caserta, sin da bambino è attratto dalla tessitura, in particolar modo dall’intreccio. Passa l’infanzia e l’adolescenza ad osservare la nonna ricamare e tessere, lavoro che lo incuriosisce e affascina per la manualità e soprattutto per i materiali impiegati. Dalle parole dello stesso artista: «Ero molto attratto dall’intreccio. Da bambino vedevo mia nonna ricamare, e mi piaceva il filo. Amavo il movimento delle mani, inconsciamente sentivo che sarebbe diventato qualcosa di mio1». Il potere del filo, come si legge tra le righe del romanzo della scrittrice francese Carole Martinez Il cuore cucito, è magico. Nelle mani della protagonista Frasquita Calasco, tramandato nella sua famiglia di donna in donna, è in grado di resuscitare i morti, ricucire gli strappi dell’esistenza, i traumi, i dolori, rivestire di bellezza ogni corpo, e di instaurare un contatto umano: «[…] sapeva scrivere solo con l’ago. Ogni creazione uscita dalle sue mani aveva una parola d’amore inscritta nella trama del tessuto. […] Niente le pareva troppo umile, troppo assurdo, troppo abietto, ai suoi occhi niente era indegno di essere filato. Riuscì a trarre dalla materia la sua parte migliore».2 L’immagine metaforica, semantica e simbolica legata al filo ha radici antiche, presenti nella Bibbia, nelle saghe nordiche, nei testi omerici e in quelli dei filosofi della Grecia classica, nella letteratura, nelle fiabe e nei racconti popolari.

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Intervista dell’autrice all’artista Thomas De Falco rilasciata il 9 febbraio 2017 (inedita). Martinez Carole, Il cuore cucito, Mondadori, Milano 2009, pp.10, 63.

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Così la studiosa Francesca Rigotti nel saggio “Il filo del pensiero. Tessere, scrivere e pensare” sistematizza “l’immaginario metaforico tessile” in almeno quattro gruppi: “Le metafore derivate dal filo e dal filare; quelle derivate dal tessere e dal tessuto; dalla tela finita, dal suo atteggiarsi e comporsi; quelle riferite agli atteggiamenti psicologici (espressioni che definiscono il carattere di una persona come: teso, tirato, abbottonato, contratto, rilassato, disteso)”3. E come suggerisce l’artista e teorico della tessitura Luciano Ghersi nel suo testo L’essere e il tessere, molte sono le locuzioni presenti nel linguaggio comune che conducono all’immagine del filo: «Filo logico, filo del rasoio, filo di voce, filo di speranza».4 La costanza del “vocabolario” del filo testimonia come esso si presti a rendere con evidenza gli aspetti più profondi della vita e del pensiero di un individuo. Gilbert Durand introduce nel volume Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale la vastissima portata simbolica del tessile, ricco di soventi contraddizioni. In primo luogo il filo assume la valenza di immagine del divenire: «Certo il tessuto come il filo è dapprima un legame, ma è anche un legame rassicurante, e simbolo di continuità, iperdominato nell’inconscio collettivo dalla tecnica ‘circolare’ o ritmica della sua produzione. Il tessuto è ciò che si oppone alla discontinuità, alla lacerazione come alla rottura. La trama è quel che sottende»5. Contemporaneamente, Durand collega l’idea del filo a quella delle tante figure di legatrici, filatrici e tessitrici che popolano culti e religioni occidentali e orientali: il filo della vita viene reciso, dopo essere stato dipanato, nel mito greco delle Parche o Moire, come dalle divinità vediche Yama e Nirrti. «Tanto nella mitologia giapponese o messicana che nell’Upanishad o nel folklore scandinavo, si ritrova il personaggio ambiguo, insieme legatrice e signora dei legami. […] Il fuso o la conocchia con cui le filatrici filano il destino diventa l’attributo delle Grandi Dee, specialmente delle loro teofanie lunari. Sarebbero le sole dee seleniche ad aver inventato la professione di

Rigotti Francesca, Il filo del pensiero. Tessere, scrivere, pensare, Il Mulino, Bologna 2002. Ghersi Luciano, L’essere e il tessere, Loggia de’ Lanzi, Firenze 1996. 5 Durand Gilbert, Les structures anthropologiques de l’Imaginaire, Presse Universitaries de France, Paris 1963[ nella trad. it. Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, Edizione Dedalo, Bari 1996, p.323. 3 4



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tessitore di tela e sono stimate nell’arte della tessitura: come Neith egiziana o Proserpina»6. Tralasciando il volere divino, maneggiare il filo può significare anche attuare una forma di autodeterminazione di sé: già nella letteratura e nei miti greci figure come Arianna, Penelope, Aracne, Andromaca, la dea Atena, Elena di Troia, Pandora, Filomena e Procne, Lisistrata non solo manifestano, attraverso l’uso sapiente del filo, la loro virtù domestica, ma in alcuni casi la travalicano. Arianna dona a Teseo il gomitolo che lo aiuterà a uscire dal labirinto dopo aver ucciso il Minotauro. Lo stratagemma di tessere e disfare la sua tela messo in atto da Penelope assume la valenza di strumento attivo di azione individuale e politica, mentre nel caso di Filomena, l’arazzo è un mezzo per denunciare alla sorella la violenza dello stupro subito dal cognato Tereo, il quale le taglia la lingua per impedirle di raccontare quello che le ha inflitto, ma non le mani, così da poterlo tessere. A quest’ultima storia, narrata nelle Metamorfosi di Ovidio, si ispirerà William Shakespeare per la tragedia del Tito Andronico (1589-1593), nell’episodio di Lavinia, figlia del protagonista, la quale, tessendo con i piedi lo stemma di famiglia di Demetrio e Chirone, che l’hanno brutalizzata e le hanno reciso mani e lingua, indica al padre i suoi aggressori. Come enunciato da Marina Giordano nel testo Trame d’artista. Il tessuto nell’arte contemporanea, sono gli stessi autori greci ad ampliare il potere metaforico delle pratiche legate al filo, quando evocano, ad esempio, l’attività bellica o il ‘tramare’ doloi, inganni, e metis, piani7. Anche Platone, padre della filosofia occidentale, attinge a piene mani all’immagine della tessitura, che ricorre nel Fedone, nel Sofista, nel Fedro e nella Repubblica, ma anche nel Politico, facendo riferimento secondo quanto affermato dalla fiber-artist Isabella Ducrot a: «parole come intreccio, trama, ordito per descrivere situazioni quali la convivenza sociale, la conciliazione tra forze politiche opposte, la differenza tra il carattere maschile e quello femminile, fra i padroni e gli schiavi, fra i forti e i deboli»8. 6 Ivi, p. 100. 7

Giordano Marina, Trame d’artista. Il tessuto nell’arte contemporanea, Postmedia Srl, Milano 2012, p. 14. 8 Ducrot Isabella, La matassa primordiale, nottetempo, Roma 2008, p.29.



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L’impiego del filo quindi può assumere valori più ampi, può diventare metafora stessa della vita. E da come si nota, già nella sua epifania mitica porta con sé un’ampia serie di suggestioni legata al microcosmo di azioni e soggetti che vi ruotano attorno: prima fra tutte la figura del ragno, il tessitore che trama per sopravvivere, ma nel farlo tesse per le sue prede una feroce, ingannevole insidia. Definito dalla già citata Francesca Rigotti “l’animale filosofico per eccellenza”9, poiché nell’autoprodurre la sua bava filamentosa può essere paragonato all’uomo che con il suo ingegno elabora il pensiero, il ragno è citato per i suoi aspetti simbolici da autori che spaziano da Eraclito e Jean-Jacques Rousseau, esercitando il suo fascino su scrittori di ogni epoca. Nume tutelare di tutti i tessitori e di tutte le tessitrici, autore di trappole e al contempo artefice del proprio destino, in lui convivono l’abilità tecnica, l’intelligenza pratica e l’ambivalenza insite nel tessere: è orientato verso la conservazione e la nutrizione di sé, ma anche alla distruzione dell’altro. Questo suo essere ambivalente ha affascinato l’immaginario di artisti visivi in qualche modo legati al potere maieutico, magico e psicoanalitico del filo. Tra questi non può non essere menzionata Louise Bourgeois (Parigi, 1991- New York, 2010), artista molto amata, studiata e fonte di ispirazione per lo stesso De Falco. Il ragno è motivo ricorrente nei suoi disegni a partire dagli anni Quaranta e soggetto di sculture e grandi installazioni dagli anni Novanta. Il ragno femmina è per lei quasi una dea protettrice e riparatrice, “una difesa contro il male”10, ma rappresenta anche la Madre, figura amata e odiata della sua infanzia, che non aveva saputo ribellarsi ai tradimenti del padre, con il quale l’artista ha intrecciato in tutta la sua lunga vita un dialogo a distanza, figura da cui ha cercato ossessivamente di liberarsi. A proposito della figura del ragno in Louise Bourgeois, Germano Celant nota: «Il ragno è segno di apprendimento e di appropriazione della propria condizione psicofisica e nevrotica, ma al tempo stesso veicolo di una possibilità di ricucire le ferite emotive e di un loro attraversamento per ritrovare nuova linfa o nuovo 9

Rigotti Francesca, op. cit., p. 47. Louise Bourgeois, cit. in Bernadac Marie-Laure, Storsve Jonas (a cura di), Louise Bourgeois, catalogo, Parigi, Centre Georges Pompidou, 5 marzo-2 giugno 2008, Parigi 2008, p. 47. 10



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filamento, per ricostruire la tela della propria vita. La sua figura accompagna, sin dal 1947, i cambi di sentire di Bourgeois, prima come figura disegnata e poi, nel tempo, scolpita per offrirsi quale entità macroscopica e mostruosa: dai disegni Spider, 1947, a Spider, 1994, alle sculture The Nest, 1994, e Spider, 2003. Una massa solida che è emanazione nervosa, capace, per la sua dimensione scalare, di inghiottire e cannibalizzare esseri e oggetti. Creatura dalla sensibilità dilatata che ricuce con la sua presenza enormi conflitti, materializzandoli a volte nel suo ventre e in Spider, 1997, arriva a essere immenso come una rotonda cell, nel cui interno si trovano disparati oggetti, quali bottigliette di profumo, ventose medicali, orologi da taschino, uova in un cestino e una sedia e superfici coperte da frammenti di tappeto settecentesco»11. L’universo del filo, prezioso strumento nelle mani di dee, eroi ed eroine, popolato di esseri, oggetti, azioni mai neutri, ma al contrario popolato da sterminate potenzialità allegoriche, è essenziale metafora dell’essere umano e del suo potere di decidere di sé, di sfidare la sorte, di creare o sovvertire una condizione, di scandire il tempo e il ritmo della propria esistenza. Nel Dizionario dei simboli Jean Chevalier e Alain Gheerbrandt insistono sull’immagine del filo come “mezzo che ‘collega tutti gli aspetti dell’esistenza, fra loro e al loro Principio’ (Gueénon)”12. Ripercorrendo alcuni aspetti delle culture occidentali e orientali, da quella greca a quella cinese e giapponese, i due autori delineano i tratti salienti del simbolismo del filo e dell’ago, della tessitura e dei suoi strumenti: “La tessitura è un lavoro di creazione, un parto. […] Tessuto, filo, strumento che serve a filare o a tessere (fuso, canocchia) sono altrettanti simboli del destino”13. Destino legato alla metafora del filo è stato ed è anche quello di Thomas De Falco: ciò che in questa sede si vuole analizzare è cosa spinge un artista contemporaneo a scegliere e quindi poi ad utilizzare il medium tessile per la propria ricerca artistica. 11

Celant Germano, Dressing Louise Bourgeois, in Celant Germano (a cura di), Louise Bourgeois. The fabric works, catalogo, Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia, Zattere 50, 5 giugno-19 settembre 2010, Londra, House&Wirth, 15 ottobre-18 dicembre 2010, Skira, Milano 2010, p.22 12 Chevalier Jean, Gheerbrandt Alain, Dictionnaire des Symboles, Editions Robert Laffont S.A. e Editions Jupiter, Paris 1969 [ed. It. A cura di Italo Sordi, Dizionario dei simboli. Miti, sogni, costume, gesti, forme, figure, colori, numeri, BUR Dizionari, Milano 2010, vol. I (A-K), p. 445 13 Ivi, vol. II, p. 468.



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In una conversazione con De Falco ci siamo ritrovati a parlare dell’arte in senso universale, e quando si parla di arte talvolta può capitare di scadere in domande che potrebbero risultare banali. Alla mia domanda, definita dallo stesso artista “strana”: “Thomas, cos’è l’arte per te?”, la riposta è risultata molto personale ed intima. Per l’artista non esiste un significato vero e proprio, si tratta di un termine che in realtà non riesce neanche a definire. «Una cosa ti posso dire: penso che l’arte nasca per aiutarsi, è terapeutica, come se fosse un modo per poter analizzare il proprio io. È un mezzo che ti aiuta a stare bene e non per forza deve essere capita. Io la vivo come qualcosa di estremamente intimo, di necessario, ed è forse anche quasi sbagliato chiedere ad una persona che cosa sia l’arte per lei»14. È nuovamente nelle parole dell’autrice Marina Giordano che, in un discorso sull’uso del tessuto nell’Art Brut e nell’Outsider Art, in particolare sul modo in cui queste riescano ad appropriarsi delle tecniche e dei materiali legati all’arte tessile in una poetica generalmente estranea alla categoria di Fiber art, si può ritrovare un tentativo di sintesi degli autori che scelgono il medium tessile come mezzo espressivo: «l’uso del tessuto risponde a un bisogno che scaturisce dalle viscere dell’individuo […] Attraverso il nodo, il filo e il tessuto, pertanto, ogni autore sceglie un modo per creare un legame tra sé e il mondo, raccontare una storia, la propria, che diventa metafora dell’universale e che affonda nelle paure ataviche di ciascuno, alla ricerca di un totem cui rivolgere il proprio rituale d’esorcismo. Tenta, così, di tracciare un ordine, uscire dal proprio labirinto; tesse una trama, dialoga con il suo doppio, sussurra, prega, urla, svela o nasconde i turbamenti della sua anima»15. Per Thomas De Falco la scelta del filo come mezzo espressivo, come enunciato precedentemente, ha radici nella sua infanzia. Ma si è trattata di una scelta dettata da un bisogno inconsapevole, che solo a distanza di anni ha compreso ed è riuscito a razionalizzare. «È come se la prima parte del mio approccio al fare artistico fosse stata dettata dall’inconscio. Sapevo semplicemente che ero affascinato dalla tessitura. C’era una 14 15



Intervista dell’autrice all’artista Thomas De Falco rilasciata il 9 febbraio 2017 (inedita). Giordano Marina, op. cit., p. 10.

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parte della mia psiche che mi mandava questo messaggio preciso, e non potevo ignorarlo. Ero spinto dal fascino che i materiali avevano su di me. Quella che da bambino era una semplice curiosità, arrivato un determinato momento della mia vita era diventata un crudo e profondo bisogno»16.

Paragrafo 1.2 Il filo è donna?

«Si dice che le donne abbiano fornito pochi contributi alle scoperte e alle invenzioni della storia della civiltà, eppure vi è forse una tecnica che esse hanno in effetti inventato: quella dell’intrecciare e del tessere»17. L’immaginario collettivo legato alla tessitura pone la donna protagonista, tradizionalmente associata al folclore domestico. La nascita di una specificità del linguaggio tessile, la Fiber Art, ha voluto che inevitabilmente sorgessero nuove problematiche e nuovi temi riguardanti l’identità della figura femminile. È impossibile analizzare le evoluzioni del rapporto tra tessilità ed arte contemporanea senza far riferimento al movimento femminista e alla sua riflessione tra passato e presente. Whitney Chadwick, in un interessante brano del suo saggio Women, Art and Society, delinea alcuni nodi cruciali di una questione che tocca non solo il rapporto tra le pratiche contemporanee e le tecniche del filo, ma anche la separazione tra sistema ufficiale dell’arte e circuito tessile, tra arti visive e arti applicate. «L’uso e lo sviluppo di mezzi non tradizionali in arte, uniti alla presa di coscienza femminista della relazione tra alcuni materiali e processi e le tradizioni culturali e storiche delle donne, ha condotto a un fitto interrogarsi sulle stesse consuetudini artistiche. Perché l’uso della fune di Eva Hesse veniva esposto nelle gallerie d’arte e nei musei, mentre le opere con le corde di Claire Zeisler rimanevano nelle gallerie di artigianato? Perché le reti di Jackie Winsor erano considerate arte e quelle di Lia Cook arti applicate? Nonostante certe distinzioni tra ‘art’ e ‘craft’ sembrassero esser state infrante, o almeno logorate ai bordi, perché alcune donne preferivano continuare 16 17



Intervista dell’autrice all’artista Thomas De Falco rilasciata il 9 febbraio 2017 (inedita). Freud Sigmund, Introduzione alla Psicoanalisi, (1932), Einaudi, Torino 2014.

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a creare entro il ‘processo strutturale del tessuto’ mentre altre cercavano di abolire la distinzione di arte e artigianato? La mostra del 1971 ‘Deliberate Entanglements’ promossa dall’Università della California presso la Los Angeles Gallery contribuì notevolmente all’affermazione internazionale dell’arte delle fibre durante gli anni Settanta, e i lavori di Claire Zeisler, Leonore Tawney, Sheila Hicks e Magdalena Abacanowicz ricevettero una forte attenzione accompagnata da altrettanti contrasti inerenti al rifiuto della dicotomia arte-artigianato. L’idea di usare il tessuto come materiale artistico riassumeva sia l’iconoclastia degli anni Settanta sia lo stabilirsi di un contesto entro cui alimentare la sfida femminista al modo in cui la storia dell’arte onorava alcuni materiali e processi piuttosto che altri»18. La nuova consapevolezza di genere acquisita dalle artiste vicino al pensiero femminista conduce, soprattutto negli Stati Uniti, a un rinnovamento complessivo dei linguaggi e a una salda opposizione alla gerarchia tra le arti. In questo scenario numerose artiste si riappropriano di tecniche associate alla sfera del femminile come il cucito, il ricamo, la tradizionale pratica americana del quilt (il patchwork composto da variopinti brani di stoffa tipico della cultura artigianale popolare) e le piegano a nuovi contenuti e a inediti sistemi di senso, per farle divenire veicolo della presa di coscienza e della narrazione di sé. Le loro rivendicazioni, pur con le revisioni legate all’evolversi degli Women e Gender Studies, hanno contribuito ad alimentare sia una maggiore attenzione per questi linguaggi considerati nell’immaginario collettivo prettamente femminili sia a formulare un atto di protesta contro la marginalizzazione delle donne e degli stereotipi maschili, in direzione di una riappropriazione critica e di una femminizzazione libera, consapevole, autogestita19. Fondamentale è, in relazione a questo tema, il saggio The Subversive stitch. Embroidery and the making of the feminine, scritto nel 1984 da Rozsika Parker. In questo studio l’autrice traccia una storia del ricamo nei paesi anglosassoni dal Medioevo all’epoca vittoriana, dalle avanguardie storiche all’attrazione di matrice romantica degli hippy degli anni Sessanta per ago e filo come mezzi per andare contro 18 Chadwick Whitney, Woman, Art and Society, Thames and Hudson, Londra 2012. 19



Giordano Marina, op. cit., p. 104.

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un establishment “gerarchico, puritano e maschile”20, sino ad approdare al Femminismo e al carattere rivoluzionario che ha conferito a questa tecnica. Afferma Parker: «Il movimento di liberazione delle donne degli anni Settanta ereditò particolari sfaccettature della contro-cultura: il rifiuto di valori prestabiliti, di rigide divisioni dei ruoli sessuali, e un riconoscimento della centralità della vita personale, ma con una cruciale differenza. Le femministe ebbero un approccio fortemente politico: era un movimento di opposizione, non di proposta alternativa. L’organizzazione della vita personale con una netta divisione tra il pubblico e il privato, il domestico e il professionale, l’emozionale e l’intellettuale, il maschile e il femminile, furono visti come mezzi attraverso i quali un gruppo esercitava il suo potere sull’altro. La passione hippy per il ricamo come gesto di sfida […] sopravvisse nel movimento di liberazione delle donne. Mentre gli hippy avevano semplicemente celebrato gli aspetti emozionali ed individualistici del ricamo, le femministe nei loro ricami mostrarono che il personale era politico, che la vita individuale e domestica è prodotto delle istituzioni e delle ideologie sociali tanto quanto la vita pubblica»21. L’uso della tecnica del cucito deriva da una sorta di conscia resistenza a coloro che etichettano, proprio quella tecnica, come un’attività esclusivamente femminile o persino materna. In rapporto a questa problematica, De Falco esprime così la propria posizione: «Se da una parte è vero che in passato sono state le donne a detenere il ruolo di protagoniste nell’universo del filo e della tessitura, in realtà oggi la distinzione di generi è molto meno netta, soprattutto nell’arte contemporanea. Si guardi al caso italiano di un artista come Alighiero Boetti, o agli stessi arazzi di William Kentridge, artista che ammiro profondamente, per arrivare al meno noto spagnolo Josep Grau Garriga, molto stimato nell’ambiente della Fiber Art. Questi sono solo alcuni dei vastissimi esempi di artisti uomini che hanno utilizzato il medium tessile nella loro produzione artistica. 20

Parker Rozsika, The Subversive Stitch, Embroidery and the Making of the Feminine, [prima edizione stampata da The Women’s Press Ltd, London 1984], I. B. Tauris & Co Ltd, London 2010, p. 204. 21 Ivi, p. 205.



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Il filo non è femminile. O meglio, il filo non è solo emblema della donna. Basti pensare ai grandi nodi adoperati dai pescatori e dai marinai, che io stesso ho studiato e che talvolta uso nei miei lavori, al filo da pesca: tutti elementi tendenzialmente ricollegabili all’universo maschile. Più che il filo, penso che alcune tecniche, che alcune tessiture e alcuni modi di cucire siano prettamente femminili, come può essere il ricamo o l’uncinetto. Soprattutto quei lavori minuziosi, che richiedono grande pazienza, oserei dire certosini. Secondo me un uomo, anche se ha un’anima femminile, non potrà mai ottenere lo stesso risultato. Questo non lo dico né con rammarico o invidia, né per elogiare. Io non ne sarei mai in grado, ma non mi interessa neanche. La mia è una trama cruda. Infatti nei miei lavori non ho mai utilizzato il termine “ricamo”, le chiamo sempre “cuciture a vista”. Anzi, io vado a scardinare quello che è il ricamo”22.

Paragrafo 1.1 La Fiber Art

Sapere connaturato all’uomo, l’arte tessile è sempre stata essenza di civiltà in ogni parte del mondo e in ogni tempo: dall’antico mito ellenico delle Parche o Moire (Lachesi, Proto e Atropo), divinità figlie di Zeus e Temi alla cui tessitura del filo era legato il Fato dell’uomo23, alla tradizione dell’artigianato femminile, poi alla grande industria. Questa antica pratica artigianale, che è riuscita ad andare oltre i confini tra uomo e donna, Oriente e Occidente, e che sublima la semplicità delle fibre per creare manufatti, arazzi e tessuti, è sempre stata identificata come arte decorativa o “minore” rispetto alla pittura, al disegno o alla scultura. Sebbene nell’Ottocento assistiamo ad un rinnovo dell’attenzione verso le attività tessili, a partire dalle grandi Esposizioni Universali come quella di Londra del 1851, alle ricerche ed opere di William Morris (fondatore del movimento Arts and Crafts), o 22



Intervista dell’autrice all’artista Thomas De Falco rilasciata il 9 febbraio 2017 (inedita).

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Esiodo, Teogonia, vv. 211-222, Mondadori, Milano 2004.

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alle esperienze di sintesi delle arti dettate dall’estetica dell’Art Nouveau24, è nel Novecento che l’arte tessile assume una nuova declinazione. La premessa ha forti radici europee, sicché la si ritrova tanto nelle avanguardie storiche, tra le quali spicca la sperimentazione tecnico-materica futurista, tanto nella tessitura dell’Est quanto negli insegnamenti della Bauhaus, fino all’arte astratta e informale degli anni Cinquanta. È però a partire dagli anni Sessanta che l’arte tessile inizia a rivendicare una propria identità nel circuito dell’arte contemporanea. La novità consiste nel fatto che il ricorrere a un materiale come il tessuto e alle sue molteplici modalità d’impiego, riallacciare un legame con un mondo fatto di perizia manuale, d’intimità domestica e con una pratica tradizionalmente assimilabile al mondo femminile, assume per molti autori contemporanei un senso nuovo25. Come scrive Giorgio Verzotti: «Rovesciare i luoghi comuni, e per conseguenza reinventare il ruolo dell’artista e del lavoro artistico stesso. Il filo che si sostituisce in alcuni casi definitivamente al pennello, o che si combina inaspettatamente con i mezzi a tecnologia avanzata, racconta una storia diversa, altra rispetto alla gerarchia canonica dei mezzi artistici, ma non omologabile neanche a molti postulati delle avanguardie. Vediamo, dunque, come la prima motivazione che spinge ad adottare quelle pratiche sia propriamente la volontà di porre al centro ciò che è marginale […] Non più vicario, spesso il racconto del filo manifesta una forza coesiva che diviene condizione per ‘fare testo’, perché tiene insieme i frammenti di un’integrità, fisica e concettuale, altrimenti esplosa».26 Nasce così la cosiddetta ‘Fiber-art’, una forma di espressione artistica che muove dall’utilizzo di tecniche di tessitura e dalla ricerca accurata sui materiali, le fibre appunto. Nel tempo si è aperta a ogni medium e pratica connessa al tema del filo e 24 M. Giordano, Trame d’artista, Il tessuto nell’arte contemporanea, Postmedia Srl, Milano 2012, pp. 28-29. 25 Ivi, p. 8. 26 G, Verzotti, Il racconto del filo. Ricamo e cucito nell’arte contemporanea, in Verzotti G. e Paini F, (a cura di), Il racconto del filo. Ricamo e cucito nell’arte contemporanea, catalogo, Rovereto, MART, 30 maggio-7 settembre 2003, Skira, Ginevra-Milano 2003, pp. 13-14.



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della fibra: dal tessuto all’arazzo e al ricamo, dall’intreccio alla maglia e all’uncinetto, fino alla produzione di carta a mano. Le tecniche e materie coinvolte sono molteplici, con rimandi a tematiche simboliche ancestrali, intrinsecamente connesse al dato naturale della materia. Per questo ha un’anima doppia, che si basa sia sulle proprie antiche radici, sia su una ricerca ed espressione contemporanea. La prima è una radice fisica ed archetipica, legata alla tradizione tessile e alla specifica manualità, che diventa anche decorazione; la seconda fa sua la tecnologia, fornendosi dei tecnomateriali più recenti, e approcciandosi al fare artistico in modo meno tradizionale. Numerosissimi artisti ed artiste si sono dedicati all’uso del medium tessile, facendone emergere anche l’aspetto antropologico e attribuendovi valenze politiche e sociali. Si tratta di opere che valorizzano il potere metaforico dell’intreccio, che diventa narrazione, vissuto, denuncia, rivendicazione di genere e segno di appartenenza al proprio genius loci. Successivamente agli anni Sessanta, dove fondamentali sono state la volontà di recupero di materiali ‘poveri’ e la necessità di mettere in atto pratiche alternative, negli anni Settanta le tecniche imperniate sul tessuto, per lo stretto rapporto che hanno con l’immaginario collettivo dell’universo femminile, si legano alle istanze femministe del periodo. E passando per alcune esperienze degli anni Ottanta, poi negli anni Novanta e Duemila si assiste ad un rinnovato interesse per la dimensione autobiografica, diarista e narrativa, che scivola dal particolare all’universale, ed è sempre più incline alle contaminazioni con le culture non occidentali.

Paragrafo 2. Gli anni alla Scuola di arte applicata del Castello Sforzesco: dalla conoscenza

delle

tecniche

dell’arazzo

contemporaneo

verso

le

prime

sperimentazioni scultoree

A parte i suoi significati traslati, il tessuto è in primo luogo un materiale, un medium, ed è imprescindibilmente legato ad un bagaglio di competenze tecniche senza le quali sarebbe stato impossibile poterlo lavorare.



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Con la parola ‘tessuto’ si indica il frutto di una lavorazione a intreccio, manuale o meccanica, di filati, derivati dalle fibre vegetali (lino, juta, canapa, cotone, ecc), animali (lana, seta, cotone, pellicce) o minerali (oro, rame, argento, vetro filato, ecc). Accanto a questi elementi naturali, si utilizzano anche fibre artificiali (come il nylon), e industriali, ottenute con procedimenti chimici (le varie fibre sintetiche). Per lavorare i fili occorre l’uso di un telaio, anch’esso strumento che nel corso del tempo ha subito evoluzioni in direzione di una sempre maggiore complessità strutturale, sino alla meccanizzazione avvenuta nel corso dell’Ottocento, che ne consentiva il movimento grazie al motore a vapore, e fino alla rivoluzionaria invenzione del telaio Jacquard, dall’omonimo inventore, dotato di un meccanismo che riduceva la manodopera e permetteva di creare tessuti molto più complessi, evolutosi a sua volta, più recentemente, nel telaio elettronico. I telai, da quelli più semplici a pesi, a pettine liccio e a tensione, usati già nell’antichità, a quelli più moderni, servono a creare l’incontro tra due ordini di fili: quelli ‘passivi’, messi in tensione, denominati ‘ordito’, e quelli che attivamente passano attraverso l’ordito in modo perpendicolare e continuo, la cosiddetta ‘trama’. Questo incrocio di filamenti crea così l’intreccio, il tessuto, che avrà consistenza, materialità, qualità diverse secondo il tipo di lavorazione. L’intersecarsi di trama e ordito, di diritto e rovescio ha indubbiamente un marcato effetto suggestivo, “è il congiungersi di due realtà, il dialogo muto tra due entità che divengono, a un tratto, indissolubili, e che solo il tempo, l’uso, la vita potranno, se non del tutto logorare, almeno scalfire”27. Per la Ducrot: «Segnati da un destino che li vuole avvinti, trama e ordito sono interdipendenti perché la funzione dell’uno prevede quella dell’altra. L’allacciamento dei fili della trama con quelli dell’ordito sta alla base di qualsiasi tessuto, straccio o broccato, e stabilisce una relazione dinamica fatta di alleanze e tensioni che rendono il manufatto molto più resistente delle singole fibre che lo compongono. La trama deve la sua possibilità

27



Giordano Marina, op. cit., p. 18.

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d’essere all’ordito che la precede, ma anche l’ordito, senza l’intervento della trama, rimarrebbe come le categorie senza i fenomeni»28. E nuovamente: «I fili che compongono un tessuto sono necessariamente due e mediante l’opera del tessitore diventano partecipi di una struttura che, in quanto tale, ne implica l’inseparabilità»29. Come si evince dalle parole della pittrice contemporanea Isabella Ducrot, anche i caratteri più inerenti alla mera analisi tecnica dei tessuti possono facilmente essere interpretati in chiave poetica e metaforica. Tra i prodotti tessili che più nella storia hanno raggiunto esiti di solenne raffinatezza vi sono gli arazzi. Pertanto, dopo essersi trasferito nel 2003 a Milano, qui dal 2004 al 2008 Thomas De Falco frequenta la Scuola di arte applicata del Castello Sforzesco, diplomandosi in arazzo contemporaneo. L’immagine comune che si ha dell’arazzo è quella dei grandi manufatti tradizionalmente realizzati su telai verticali con trame policrome atte a riprodurre un’immagine, un disegno, e destinati ad ornare le pareti di saloni, palazzi, luoghi del potere, tanto da far nascere intere manifatture, spesso sotto l’egida reale, come quelle di Santa Barbara alla corte spagnola dei Borbone (per le quali Goya, all’inizio della sua carriera, dipinse celebri cartoni) o le ancor più note manifatture di Gobelins o Aubusson, in Francia. L’arazzo, il cui nome sembra derivare da Arras, città francese nella quale secondo gli esperti fu realizzato per la prima volta in Occidente, è uno speciale tessuto ottenuto con lavorazione a mano su telai a basso oppure ad alto liccio, per mezzo di fili di lana e di seta di vario colore, e in certi casi anche d’oro e d’argento. Nei secoli scorsi l’uso dell’arazzo poteva essere diverso, a seconda delle dimensioni e dell’importanza del tessuto. I pezzi di piccole dimensioni servivano soprattutto come copritavolo e copricassapanche, e venivano stesi, alternandoli con panni di altro tipo,

28 29



Ducrot Isabella, op. cit., p.15. Ivi, p. 18.

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su sedie, letti, spalliere, baldacchini, sovrapporte, coperte da letto o da lettiga e via dicendo. Ma sono invece le produzioni a grandi dimensioni, eseguite dagli arazzieri per abbienti committenze, che rimangono più celebri nella storia dell’arte: pezzi unici, oppure serie complete dedicate ad un unico soggetto. Esemplare oggi è la collezione di arazzi presente nel Palazzo del Quirinale, che conta ben duecentosessantuno opere che documentano l’attività delle principali manifatture e centri di produzione europee tra il XVI e il XIX secolo: da quella francese dei Gobelins, che conta i sei panni della serie delle Nuove Indie (Parigi, 1771-1786), a quella medicea fondata da Cosimo I, con dieci pezzi provenienti dalla celebre serie delle Storie di Giuseppe ebreo (Firenze, 1545-1553), tessuti dai fiamminghi Rost e Karcher su cartoni realizzati dal Bronzino e dai suoi collaboratori.30 L’arazzo contemporaneo, ha origine da questa antica tradizione, e parte alla base dallo stesso materiale, la lana. Tuttavia, nelle opere di arazzeria contemporanea sparisce quasi del tutto la figurazione, e sono la materia e la forma a diventare soggetto e narrazione. La ricerca è estesa a materiali alternativi quali fibre naturali, carte, metalli, garze, vetri, paglie, corde ed altri ancora e la sperimentazione prevede l’uso di diverse tecniche tessili innovative, dando vita a creazioni con effetti visivi inediti, anche scultorei, applicabili al campo della ricerca artistica, del design e dell’alta moda. Sotto la guida dell’artista e docente Elisabetta Genoni, Thomas De Falco inizia così a muovere i primi passi verso la conoscenza delle tecniche e dei materiali dell’arte tessile, arte che nel Novecento ha subito profondi cambiamenti, tanto quanto lo è stato per la pittura, la scultura e l’architettura. Il primo anno di formazione prevedeva tra l’altro la consultazione di testi e immagini riguardanti l’arte tessile antica, moderna e contemporanea nazionale e internazionale, studiando anche quindi tessuti africani, indiani, le ceramiche centroamericane e graffiti rupestri.

30 Da materiale di studio dell’autrice durante un tirocinio formativo presso il Palazzo del Quirinale, Roma



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Assistiamo inoltre ai primi progetti di manufatti attraverso bozzetti, studi cromatici, varianti di forma e colore, campionatura e stesura finale. La produzione degli elaborati, realizzati con punti base come il twining e il ghiordes, con forme diagonali, curve, stacchi, intrecci e rifiniture, era vincolata dalla tecnica. Dalle parole della Genoni: «Con Thomas questo era spesso e volentieri motivo di scontro, io gli insegnavo le tecniche basilari, alle quali negli anni di studio era vincolato, ma lui già sentiva la necessità di scardinarle»31. I seguenti due anni di studio imprimono definitivamente la conoscenza delle tecniche di tessitura: la tessitura piana bilanciata o semplice; piana o con trama a vista; a coda di rondine; inserti aggiuntivi di trama e tecnica a trame curvilinee o devianti; disegno con trama a vista; disegno con ordito a vista; tessitura a trame sovrapposte o aggiunte; tessitura a trame avvolte; avvolgimento semplice della trama; avvolgimento composto della trama; tessitura a trame intrecciate; tessitura a fessure, piana in diagonale o con ordito a vista; tessitura a trama allacciate; il sumack, i nodi, le nappe e le frange. Tra l’altro diventano fondamentali nell’esercizio il ritmo, i contrasti, i pieni, i vuoti, la lucentezza e l’opacità. Inserendo la completa sperimentazione dei materiali, i progetti e le ideazioni iniziano ora ad essere più strutturati, tenendo conto anche della dimensione e del rapporto con lo spazio. Durante gli anni di studio presso la Scuola d’arte applicata del Castello Sforzesco, De Falco intraprende le prime sperimentazioni sulla materia tessile, avvicinandosi sempre più alla possibilità di elaborazione di tecniche personali, anni in cui assistiamo alla produzione dei primi arazzi eseguiti su telaio verticale, espressamente privi di figurazione e sempre più tendenti ad una forma scultorea.

Paragrafo 2.1 Il wrapping

La ricerca scultorea del giovane artista sin dai primi esordi è racchiusa in una particolare tecnica tessile: il wrapping. 31 Intervista dell’autrice ad Elisabetta Genoni rilasciata il 29 gennaio 2017 (inedita).

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Letteralmente traducibile in italiano con il termine “avvolgimento”, il wrapping prende forma partendo da “un’anima, attorno alla quale si avvolge il materiale scelto per la realizzazione. Quest’anima può anch’essa essere composta da diversi materiali, quali lana, cotone etc., può essere la più varia. E può assumere le dimensioni che si desiderano”32. Il wrapping diventa così da subito il principale medium artistico attraverso il quale De Falco si esprime, firmando e contraddistinguendo la sua poetica: una moltiplicazione incessante di nodi, quasi come fosse una danza ritmica che ricorda le ballate ancestrali tramandate oralmente, che creano un intreccio denso. Nel corso degli anni, e nel corso della propria ricerca artistica, l’artista è stato in grado di rendere questa tecnica la più personale. Infatti “l’avvolgimento” dell’anima non è regolare ed uniforme: può seguire un andamento a spirale, incrociarsi, passare sotto, sopra, in verticale ed in orizzontale. È la mano dell’artista che guida il filo, che segna il percorso e il destino della forma. Ed è affascinante osservare il ritmo dell’esecuzione, che assume quasi le valenze di un atto performativo (fig. 28-30). Nella metà degli anni Cinquanta assistiamo alle prime premesse di quella che poi oggi è riconosciuta come Arte Concettuale, categoria nella quale confluiscono le più svariate pratiche artistiche, tra le quali anche la performance. In particolare viene trasposta in performance l’Action Painting di matrice pollockiana da artisti come il gruppo giapponese Gutai, le cui azioni influirono sugli happening di Allan Kaprow e altri artisti statiunitensi, e da Yves Klein in Francia.33 Nel 1955, in Challenging Mud, Contro il Fango (fig. 25), Kazuo Shiraga si contorceva in una pozza di fango, “combattendola” come un lottatore, ottenendo come risultato un “dipinto” che utilizzava il fango quale strumento per lasciare un’impronta dello scontro fisico dell’artista con la materia. Nel 1956 Shozo Shimamoto in Making a Painting by Throwing Bottles of Paint, Creazione di un quadro tirando bottiglie di vernice (fig. 26), lanciava barattoli di vernice contro alcune tele stese sul pavimento, creando superfici cosparse di frammenti 32 33



Intervista dell’autrice ad Elisabetta Genoni rilasciata il 29 gennaio 2017 (inedita). Osborne Peter, Arte concettuale, Phaidon, 2011, p. 20.

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di vetro sulle quali l’insieme dei colori rendeva evidente il carattere distruttivo del gesto. Alla negazione estrema del quadro come oggetto pittorico si contrapponeva l’energia dell’atto creativo. E ancora tra il 1955 e il 1956, Saburo Murakami nell’opera At One Moment Opening Six Holes , Aprire sei buchi in un colpo solo (fig.27), realizzò una fila di fogli di carta (ognuno di 183 x 366 cm) montati in cornici di legno, che poi attraversò di corsa. Il suo corpo perforò una dopo l’altra quelle superfici piatte che simboleggiavano dipinti e disegni, annullandone in maniera plateale il potenziale come tavole su cui dipingere. «È inutile continuare a manipolare e ritoccare le tele senza un perché. I nostri sensi devono concentrarsi in un punto per poi esplodere sulla tela, assumendo forma tangibile»34. l Gutai inoltre hanno saputo spostare tutto il fuoco dell’attenzione sull’artista nella sua concretezza di essere fisico e naturale. Il senso del concreto è racchiuso già nel suo misterioso nome, “Gutai” che secondo alcuni significa proprio “concreto”, “concretezza”, ma che secondo la testimonianza di Shimamoto, che lo scelse come nome

del

gruppo,

significherebbe

più

precisamente

“personificazione”,

“incarnazione”, proprio per sottolineare come l’identità dell’arte dipenda soprattutto dalla presenza fisica dell’artista che genera l’opera, che esprime la propria libertà di movimento nell’ordine e nel disordine delle materie. Thomas De Falco studia e guarda con ammirazione i procedimenti e le intenzioni artistiche del gruppo Gutai, che in tal senso influenzano il suo modo di lavorare la materia, ottenendo però finalità e risultati ben diversi. Se infatti gli artisti giapponesi si possono contestualizzare in un preciso momento di critica al Modernismo, in particolare alle pratiche pittoriche tradizionali, e in alcuni casi le loro azioni necessitano di “distruggere” per poter creare, in De Falco l’azione è puro atto creativo. La realizzazione del wrapping non è uno scontro con la materia, ma un incontro. L’intento dell’artista è quello di valorizzarla, di renderla protagonista.

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Murakami Saburo, Gutai, 1955.

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Osservando il modo in cui maneggia il filo, si nota quanto si tratti di un’operazione intima, interiore. L’artista imprime nella manualità e nel gesto tutta la carica espressiva insita in sé stesso. E si tratta di un’azione cruda, ritmica, dettata da un impulso interno ed esplosivo. Il wrapping diventa essenza della scultura stessa, il mezzo attraverso il quale sconfiggere la bidimensionalità dell’arazzo. L’artista infatti applica questa tecnica sia nella realizzazione degli arazzi, che nelle sculture tessili, che assumono nelle installazioni anche dimensioni giganteggianti. Nel caso di De Falco, la scultura stessa potrebbe assumere il nome di wrapping: è l’essenza della sua ricerca. Una tecnica del quale si è innamorato sin dagli esordi, e che ha sviluppato negli anni successivi. Il wrapping permette all’artista di rendere la materia protagonista e quindi di valorizzare gli stessi materiali, quali prevalentemente lana allo stato grezzo, cotone, canapa e seta. Esso rappresenta per De Falco una sorta di radice dolorosa che, partendo dal profondo dell’artista, fluisce esternamente in un fiume emozionale carico di significati. I materiali usati infondono, al tatto e alla vista, una sensazione di purezza e calore. Paragrafo 3. La scelta cromatica

La scelta del colore nelle opere di De Falco è frutto di un’evoluzione della personalità artistica dello stesso artista. I primi anni di attività sono stati per De Falco motivo di ricerca e di sperimentazione materica, nel tentativo di trovare una via di espressione che più potesse rappresentare la propria intimità e il proprio gusto. Un elemento ha sempre guidato la mano e l’estetica dell’artista: la materia stessa, e la volontà di valorizzarla. Questo ha voluto che l’occhio e la mano fossero sempre più indirizzati ad una selezione cromatica di pochi colori, subordinati alla tipologia di materiale impiegato.



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Il risultato è quello di cromatismi molto naturali, prevalentemente il bianco e il beige della lana grezza, materiale prediletto dall’artista nella composizione di arazzi e sculture tessili. Va evidenziato che per De Falco il bianco non è considerato come un non colore, come poteva accadere negli Achrome di Piero Manzoni della fine degli anni Cinquanta, che accompagnano la produzione dell’artista milanese fino alla sua scomparsa nel 1963. Anzi, si può affermare l’esatto contrario. Nel bianco l’artista trova il colore per eccellenza, che gli permette di raggiungere il traguardo di una purezza estetica, candida e raffinata. Diventa simbolo stesso dell’eleganza con cui intreccia e lavora in filo. Allo stesso modo nei marroni chiari e nei beige della canapa si intravede un forte richiamo alla natura del materiale, incontaminato dai coloranti artificiali dell’industria. L’eccezione è osservabile in alcune applicazioni di materia dorata, e in particolare, in quanto molto frequenti nella produzione dell’artista, nella scelta di lane e cotoni colorati in nero e nelle diverse graduazioni del blu, come il blu di Prussia, colori che rispecchiano il gusto estetico di De Falco. Alberto Boatto, nel testo Di tutti i colori. Da Matisse a Boetti, le scelte cromatiche dell’arte Moderna, delinea un percorso dei colori nella storia dell’arte moderna e contemporanea, soffermandosi sulle loro potenzialità di direzionare la ricerca e il significato complessivo della poetica di un artista. Nel caso del nero, ne analizza l’impiego in artisti come Kazimir Malevič, Henri Matisse, Jackson Pollock, Franz Kline. «Nella natura, il nero è il risultato di una combustione che arde e distrugge la magnifica pellicola dei colori. Quel che rimane di un incendio – che appartiene imperiosamente al dominio del rosso – è un residuo, una chiazza sporca e informe. Quello che segue il tramonto del Sole è la notte, l’estinzione della luce, le tenebre. Per questo evento quotidiano e nondimeno spettacolarmente cosmico, il passaggio fra il nero e la morte si presenta fatale. Nell’Occidente, il nero ne segna il simbolo per eccellenza e, ancor più del viola, presta i suoi tessuti per confezionare le vesti da lutto. Il nero tende a durare nel tempo, come tutto ciò che si manifesta rappreso, spento, incenerito. Vasilij Kandinskij, parlando del colore nero nello Spirituale nell’arte, è come se componesse un gruppetto di sobri epitaffi: “Come un nulla privo di ogni



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possibilità, un nulla morto dopo la morte del sole”, “Un silenzio eterno senza avvenire e senza speranza”. Per concludere: “Qualcosa di immobile come una salma”. […] Se nella natura il nero è il prodotto dell’azione devastante del fuoco, nel mondo della cultura al nero viene assegnato un compito centrale: quello d’ordine superiore della comunicazione e dell’espressione»35. Inevitabilmente poi Boatto si sofferma sulla valenza del nero in Alberto Burri, che secondo lo studioso ne ha avvertito più di ogni altro l’attrazione luttuosa (fig.11): «Le parole scritte da Kandinskij riguardo al nero, col loro accetto di elogia funebre, valgono anche per le opere fittamente nere dell’autore italiano. […] Nel “sacco” di Burri il Sole si presenta carbonizzato e della grande stella si slarga unicamente il buco scuro che si è formato dopo la sua estinzione. E pure il silenzio è scaduto in afasia, in questa forma di malattia cronica. Ma, si sa, non è possibile guardare in faccia la morte. Come nello scontro con la Medusa, occorre accostarsi in maniera obliqua. Se Perseo si è servito dello scudo per specchiare il volto mostruoso della Gorgone, Burri si serve della visione aerea. Dall’alto ha organizzato la sua superficie fatale in modo da consentire il distacco e perfino l’accorata contemplazione. Ecco che scorgiamo la cavità nera del Sole e, attorno, i crateri tondeggianti di un gruppo di stelle presentate nelle disparate fasi del loro spegnimento. Seguiamo i due solchi semiparalleli che la percorrono dal basso verso l’alto e la cucitura che ne suggella il tracciato. Le tenebre di cui parla l’introduzione al Vangelo di Giovanni si sono richiuse sul mondo»36. De Falco, nell’uso di lane e cotoni neri, è influenzato e coglie l’aspetto luttuoso di Burri, ma non solo. Guarda anche all’interesse e al progetto di Jannis Kounellis di recuperare attraverso il nero gli aspetti primi della natura. Nel 1968 infatti l’artista realizzò un’opera dove, sopra un basso carrello munito di quattro ruote, poneva un mucchio di carboni di legna dolce, di forma cilindrica, fasciati da un opaco colore nero: «Com’è reale la materia, così è veritiero anche il colore che macchia e sporca le dita e il palmo della mano»37. 35

Boatto Alberto, Di tutti i colori. Da Matisse a Boetti, le scelte cromatiche dell’arte moderna, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 7. 36 Ivi, pp. 19-22. 37 Ibidem, p. 22.



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Il nero di De Falco si presenta sia nella sua integrità, occupando l’intero spazio di un arazzo o di una scultura tessile, sia come macchia: è impronta, testimonianza, suggello e ostenta un palese valore di affermazione, o meglio di autoaffermazione. Nel blu l’artista trova la possibilità di rappresentazione della totalità delle dimensioni spaziali: la profondità, l’altezza e la distanza. Come suggerisce Boatto: «È il colore delle vastità cosmiche e planetarie: inquadrata dalla fascia dell’esosfera, come hanno riferito i cosmonauti nel primo viaggio sulla Luna, la Terra appare avvolta di blu oltremare. L’adozione dell’azzurro come simbolo della navigazione aerea ha incontrato un assenso pressoché generale, e lo si spiega solo facendo intervenire un consenso preliminare istintivo. Ma resta anche il colore delle congiunzioni spaziali: laggiù, lungo la linea ultima dell’orizzonte, si fondono il mare e il cielo, incontrando in tal modo unità gli elementi primi dell’acqua e dell’aria. […] L’infinito resta un inquietante appannaggio di questo colore. Esso si situa sempre discosto da ogni componente terrestre e, pertanto, per il singolare e stretto rapporto che lega il terrestre all’umano, l’azzurro è un colore estraneo all’uomo. Si rivela, appare all’uomo e ogni sua manifestazione desta invariabilmente un moto di stupore. Nei suoi versi Rimbaud assegna l’azzurro alla vocale “o”, e infatti in questo suono transita il soffio esclamativo della meraviglia. Non a caso si rivestono di azzurro tutte le situazioni strane, uniche, inattese che narrano le fiabe, come la venuta del principe o l’ingresso della fata dai capelli turchini; e anche gli avvenimenti d’ordine miracoloso e soprannaturale amano fasciarsi dei suoi toni più limpidi. Così, nella tradizione mediterranea, l’azzurro tinge il manto delle diverse madri del puer divinus e trionfa nel culto mariano, suggerendoci al tempo medesimo un’impressione di suprema purezza. Egualmente ricopre le volte a crociera delle cattedrali gotiche, la cui agile struttura architettonica si distacca programmaticamente dal piano terra per slanciarsi verso l’alto, in un chiaro richiamo alla verticalità del cielo. L’accostamento fra questo tipo di navata e un bastimento marino mosso dal vento trova origine nella leggerezza e nella verticalità di cui l’azzurro è dotato. In quanto simbolo verticalizzante, l’azzurro è un colore dinamico che sprigiona un movimento in salita, d’elevazione, di oltrepassamento. Sua è la traiettoria ascensionale che disegna ciascuno slancio verso la trascendenza.



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Il romanticismo, specie quello tedesco, ha celebrato con fervore questo colore per il suo carattere di estraneità all’angusto e soffocante mondo reale»38. De Falco nei suoi lavori in blu si richiama ad un artista che del blu ne ha consacrata la propria arte. Yves Klein, nato nel sud della Francia, apre il blu alla trascendenza, lo presenta come un ponte verso la vita universale, “un trampolino di lancio proiettato in direzione del cosmo”39. Si tratta di un blu che fissa la cornice cromatica e spaziale a misura d’infinito(fig.12). «Il blu assoluto di Klein, questa versione moderna del “sublime”, rimanda spettacolarmente alla vastità dell’universo. L’artista mira a stabilire uno stato di fusione armoniosa tra l’uomo e il cosmo, fra l’uomo e l’infinito che si rispecchia nella sua opera, invitandoci a sentire e a “vivere” secondo i valori veicolati da questo colore puro, che sono il meraviglioso, la trascendenza e il mondo dello spirito»40. Tuttavia, se nelle opere di De Falco si osserva spesso la prevalenza di un colore, a differenza di Klein o di Manzoni, in realtà non si tratta mai di monocromi. Questo perché in ogni lavoro dell’artista è presente un fil rouge che lega universalmente ogni sua opera all’altra: una macchia di colore rosso.

«C’è un colore antico come tutti i colori del mondo. Quanto l'abbiamo amato quasi incarnato nel legno di miracolose predelline, in refettori romanici, nel buio di cantorie nell'Appennino estivo! Un rosso come di cuoio, di sangue oscurato nei pori del legno da un meriggio ancora vivo, nel XIII o XIV secolo — ciliege colte negli orti di una Napoli di Re contadini lamponi cresciuti in un ronzio di vespe 38

Ivi, pp. 83-84. Ibidem, p. 91. 40 Ivi, p. 94. 39



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che i secoli hanno relegato in radure irriconoscibili, e così familiari! Il rosso di tutta la Storia. Pulviscoli e bruniture, su Tebaidi laziali... ambienti umbri, bolognesi, o veneziani per stragi di innocenti o moltiplicazioni di pani. Il sangue dell'Italia è in quel rosso di ricchi dove il quotidiano è sempre sublime, e la Maniera ha i suoi regni... Ora eccolo nelle nostre mani non più incarnato alle tele o ai legni in macchine di bellezza sublime, richieste dal meriggio della potenza.

Un ingenuo rosso maldestro, appiccicato alla carta o al compensato come un baffo o uno sgorbio, legato alla freschezza casuale e arbitraria di un atto espressivo che non si vuol esaurire. Illegittimo, incompiuto, grezzo, non consacrato mai dalla tecnica che incute venerazione al devoto, all'umile... Un'altra sensualità, un altro mistero... Ma è fatale che oltre questi anni il casuale diventi intero, l'arbitrario assoluto. I significati diverranno cristalli:



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e il rosso riprenderà la sua storia come un fiume scomparso nel deserto. Il rosso sarà rosso, il rosso dell'operaio e il rosso del poeta, un solo rosso che vorrà dire realtà di una lotta, speranza, vittoria e pietà»41. Così parla Pier Paolo Pasolini del rosso nella poesia Il rosso di Guttuso, testo che faceva parte di un’introduzione di venti riproduzioni dell’artista siciliano (disegni dal 1940 al 1962) pubblicata senza titolo sul n. 23 della rivista “Rinascita” nel 1962, accompagnata dalla riproduzione dell’opera di Guttuso L’amico del popolo. La scelta cromatica in questo senso lega De Falco a Guttuso, nel filo, nella vernice, nella penna: la firma è rossa e si rivela simbolo. Alberto Boatto parla del rosso come un colore ardente, che incarna le forze vitali e la loro irruzione nel momento presente: «La previsione avanzata da Ernst Jünger in una cristallina “figurazione”, risalente al lontano 1938, ha incontrato la sua plenaria conferma. Quell’energia elementare che è bene rmanga nascosta e venga tenuta sotto protezione, nella varietà del fuoco, del sesso e del sangue, dilaga quasi in esclusività nel primo piano devastato del mondo. Ecco gli incendi provocati dalle quotidiane esplosioni, i corpi massacrati dei mercenari e delle vittime innocenti negli scontri condotti con l’accanimento delle epidemie in ogni contrada del pianeta e l’esibizione assediante e medianica dell’erotismo sotto forma di spettacoli gastronomici. La realtà esterna sembra caduta nelle mani di un Marte privo di qualsiasi freno, mentre lo spazio privato di ognuno si avvia a modellarsi, nell’immaginazione, sulla topografia del castello sadiano di Silling ridotto a pornoshop, messo su con banali prefabbricati di scarto. Sopra una terra sconvolta dal fuoco e saturata di sangue, è il colore rosso ad imprimere il suo superbo sigillo a ognuno dei nostri giorni. Chi detiene questo colore primario non è più la mitica fiamma dei focolari, né il pozzo attivo e fumante dei crateri vulcanici e tanto meno l’intimità gelosa degli amanti, ma è la guerra con i suoi 41 Pasolini Pier Paolo, Il rosso di Guttuso, pubblicata in “Rinascita”, n° 23, 1962.

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strateghi di operazioni preventive e il suo impiego di armi sempre più annientanti, assieme alla cultura di massa con i suoi applauditi interpreti […]. In sostanza, è la tecnica nelle sue disparate manifestazioni che ha requisito oggi il colore rosso, accordando via libera al suo potere distruttivo42». Per De Falco il rosso è un legame, il filo conduttore di tutta la sua poetica. A partire dal 1965, l’artista polacco Roman Opalka dà inizio ad una serie ininterrotta di tele dove traccia una mappa dell’infinito legata all’atto individuale del conteggio. Partendo dal primo quadro dipingendo in alto a sinistra il numero uno, continua in sequenza fino a riempire l’intera tela, arrivando al numero 35327. La seconda tela proseguì esattamente dal punto in cui si era interrotta la prima, con il numero 3532843. In questo modo Opalka legava le sue tele l’una con l’altra. In De Falco non è il numero il trait-d’union, ma il rosso. Così la metafora stessa del filo come intreccio e legame si sintetizza nel colore rosso, che è amore, ma un amore drammatico, congelato nel dolore. Un amore esteticamente bello, ma che nasce dalla sofferenza. «Per me il rosso è sì simbolo, ma della presenza. La macchia rossa è il filo conduttore di tutto il mio lavoro, è un nesso, un legame. Non esiste nella mia produzione un arazzo o una scultura tessile che non abbiano il rosso»44. I colori del filo di Thomas De Falco sprigionano e svelano l’essenza e la nascita stessa della sua ricerca: la natura.

Paragrafo 4. Il rapporto con la natura

Se i primi anni della produzione di De Falco sono stati dettati da un impulso creativo generato dall’inconscio, verso il 2009 e il 2010 l’artista inizia a razionalizzare il proprio pensiero ed è così che comprende che è nella natura che trova la spinta motrice di ogni sua opera. 42

Boatto Alberto, Di tutti i colori. Da Matisse a Boetti, le scelte cromatiche dell’arte moderna, Laternza, Roma-Bari 2012, p. 36. 43 Osborne Peter, Arte concettuale, Phaidon, 2011, p. 92. 44 Intervista dell’autrice all’artista Thomas De Falco rilasciata il 9 febbraio 2017 (inedita).



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«L’idea del tessile in me si realizzava nell’intreccio. Lavorando la materia, realizzando i miei wrapping ho capito che in realtà vedevo delle radici. Il mio lavoro è prettamente naturale, si ispira alla natura, quindi alle foglie, alle radici, soprattutto agli alberi. Avevo sempre ammirato un artista come Giuseppe Penone, ma poi ho capito che in lui vedevo qualcosa45». Giuseppe Penone, nato a Garessio nel 1947, fu l’artista più giovane reclutato da Germano Celant nel gruppo dell’arte povera. I primi lavori, intorno al 1968, li svolge direttamente nella natura: interventi nei boschi del paese natio, sulle Alpi Marittime, tesi a modificare le forme naturali con gesti semplici, come ad esempio intrecciare tre giovani fusti d’albero, o bloccare la crescita inserendovi il calco in bronzo della propria mano a stringere il tronco. Dopo essersi trasferito a Torino, l’indagine votata all’esplorazione delle forme naturali diventa più analitica e concettuale, concentrandosi sulla percezione del proprio corpo, nello specifico sul tema del contatto tra corpo e materia come fondamento della propria pratica scultorea. In una serie intitolata Alberi Penone scavò travi di recupero seguendo gli anelli di crescita, in modo da far riemergere la struttura originaria dell’albero e ripercorrere così il processo di sviluppo naturale della forma. Secondo Alessandro Del Puppo: «Dalla prospettiva odierna, il lavoro di Penone degli anni Settanta appare di grande importanza perché egli ha potuto dimostrare, in modi certamente meno presuntuosi e spettacolari, meno ideologicamente connotati, e proprio per questo più emozionanti ed efficaci, le potenzialità formali di una convergenza tra i presupposti dell’arte ambientale e la ricerca dell’espressione corporea. Lasciate in disparte le connotazioni di denuncia o di negazione, linguaggi più radicali dell’avanguardia dei tardi anni Sessanta potevano così essere nuovamente poste al servizio di un’analisi dei codici della scultura»46.

45 Intervista dell’autrice all’artista Thomas De Falco rilasciata il 9 febbraio 2017 (inedita). 46

Del Puppo Alessandro, L’arte contemporanea. Il secondo Novecento, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino 2013



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Come suggerisce Maddalena Disch, Penone “pone in relazione fin dai primi lavori il tempo empirico dell’uomo (e dell’artista) ai tempi lunghi della natura, e cerca il contatto con lo scorrere di un’energia invisibile”47. L’esperienza di Penone è cruciale per De Falco, in lui trova una fonte di ispirazione e la via per il sentiero della comprensione del suo stesso fare artistico. La natura per lo scultore tessile costituisce un filtro tra lo spazio del mondo e quello intimo dei processi mentali e dei sogni, un fragile riparo e un luogo di incontro, di concentrazione e scambio. Così osserva gli alberi, tanto la ramificazione quanto le stesse radici, il loro dialogare con l’ambiente esterno e l’intreccio che creano. Per riprendere le parole di Laura Cherubini: «L'albero è, in tutta la storia dell'arte, un elemento a forte carica simbolica: ha radici nella terra, un fusto eretto come una colonna e rami che si prolungano verso l'alto e tendono al cielo»48. Ciò che nell’insito colpisce De Falco è sia la sua forte carica simbolica, che sin dal Medioevo è emblema della conoscenza e della vita, ma soprattutto la fisicità, nella quale ritrova una forte carica espressiva. Dall’osservazione passa alla riproduzione. Sarebbe sbagliato però affermare che De Falco riproduce mimeticamente l’elemento naturale, perché, come sottolineato precedentemente, nei suoi lavori è esclusa la figurazione. Ma nella natura è insita la materia, sulla quale si fonda la poetica dell’artista. Penone agisce direttamente sulla materia naturale, come ad esempio in Il suo essere nel ventiduesimo anno di età in un’ora fantastica del 1969. L’artista in quest’opera riporta alla luce il ventiduesimo anno di vita dell’originario albero, ritrovando al tempo stesso l’età che lui stesso aveva in quel momento: «La materializzazione di un istante di vita quotidiana o di un frammento infinitesimale di tempo coincide con un gesto elementare di partecipazione al reale, di 47

Disch Maddalena, Process art e arte povera, in Poli Francesco (a cura di), Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni ’50 ad oggi, Electa, Verona 2016, p. 141 48 Cherubini Laura, comunicato stampa della performance ed installazione tessile “Roots” dell’artista Thomas De Falco, 7 novembre 2016 (inedito).



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“decifrazione” del proprio esistere ed essere parte del mondo. L’adesione alla quotidianità è intesa come modo di porsi in relazione simpatetica o in osmosi con la fluidità vitale, come trasposizione o prolungamento della propria percezione del mondo. Laddove il corpo non lascia una traccia diretta nell’opera, la dimensione umana resta il metro di misura indiretto, il punto di partenza e di arrivo: i materiali organici sono usati in quanto appartenenti alla medesima “materia” ontologica; i processi messi in atto nella processualità vitale cui appartiene l’uomo; la dilatazione mentale che inscrive qui-e-ora in una continuità storico-culturale è una questione antropologica, così come la tensione tra fisicità e astrazione appartiene alla tradizione antica della poesia e dell’arte. Nell’arte povera l’esperienza artistica coincide con l’esperienza stessa del proprio sentire e del proprio vivere; i lavori diventano prolungamenti sensoriali, cristallizzazioni istantanee di pensieri, che lo spettatore è invitato a prolungare a sua volta, in una reazione a catena i cui flussi di energia si accrescono, secondo un orientamento di massima apertura e adesione alla mutabilità della vita, delle idee, in esplicita contrapposizione alla rigidità dell’inerzia e dei confini prestabiliti»49. De Falco, come Penone, sente e vive l’energia che sprigiona il mondo naturale: entrambi scultori, sono però diversi nella scelta della materia alla quale dare forma. Penone infatti agisce direttamente sull’elemento naturale, mentre De Falco fa suo il medium del filo, e quindi della tessitura. La trama e l’ordito, in tal senso, offrono la possibilità di attivare un processo mentale che nell’artista tende ad estetizzare la natura stessa. Gli alberi, i rami, le foglie, le radici si trasformano in intrecci, cuciture a vista, nodi, e soprattutto wrapping. L’estetica di De Falco congela la bellezza universale della natura, della quale empaticamente ne coglie e ne esprime tutti gli aspetti: da quelli più delicati a quelli più crudi. Così l’elemento naturale può essere trasposto in un significato di amore, come di dolore.

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Disch Maddalena, Process art e arte povera, in Poli Francesco (a cura di), Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni ’50 ad oggi, Electa, Verona 2016, p. 143.



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Tuttavia, se prima si è detto che De Falco nella scultura non agisce direttamente sull’elemento materico naturale, in realtà lo fa nel momento di studio e di ricerca di ciò che poi da materia diventerà forma. Infatti è a partire dal 2010-2011 che l’artista realizza dei libri sui quali cuce le foglie (fig. 35-38). Si tratta di un’operazione di studio e di ricerca, combinata all’uso del disegno, durante la quale fa nascere l’idea di quello che poi si concluderà in un arazzo, in una scultura tessile o in una performance ed installazione tessile. «Realizzo questi libri da sei-sette anni, non è da tanto. L’idea del libro nasce perché necessitavo in qualche modo di sigillare la mia creatività: non sapevo se avrei avuto la possibilità di concretizzarla, perciò la disegnavo. Oggi si tratta soprattutto di progettazione. Per me cucire le foglie sulla carta, con fili di lana e cotone, o piuttosto applicando stoffe di vecchie lenzuola, è un grande sfogo. È una terapia»50. I libri nascono come sogni, progetti non realizzati a cui dare un corpo. Gli studi sulle performance nascono dal gesto ossessivo di cucire le foglie nei quaderni: si tratta di osservare il passaggio della foglia staccata dal ramo, sino a diventare secca, per poi imprigionarla nell’intreccio della tessitura. Il lavoro di Thomas De Falco nasce dall’albero, con radici piantate a terra, ma la chioma che svetta verso il cielo. Dunque le forme scultoree nascono dalle materie naturali e così il wrapping è una radice che si propaga nello spazio e nel profondo, un flusso esterno carico di emozioni e significati.

Paragrafo 5. Verso le performance ed installazioni tessili

L’esplorazione scultorea, ispirata formalmente sia alla materia che alla natura, prende vita nelle grandi installazioni tessili e performance dell’artista. Sono molte le pratiche che generalmente vengono definite “performative”, una galassia di procedimenti la cui base è generalmente il coinvolgimento del corpo 50



Intervista dell’autrice all’artista Thomas De Falco rilasciata il 9 febbraio 2017 (inedita).

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dell’autore, dello spettatore o di entrambe le parti, un effetto della deflagrazione del quadro e del tempo di tutto il Novecento51. De Falco è uno scultore tessile e ciò potrebbe risultare in contrasto se non addirittura estraneo alla performance: l’elemento che lo contraddistingue invece è proprio questo connubio tra pratica tessile e “arte del corpo”, tra installazione di grandi sculture tessili e il corpo umano. L’esigenza dell’uso del corpo avviene per un motivo ben preciso: «La performance è un mezzo per poter far parlare la mia scultura, sentivo e sento la necessità di dare in qualche modo vita alla materia. La materia non ha parola, e anche la mia di materia non ne ha. Tutti i miei arazzi e le mie sculture sono dei senza titolo»52. La scelta di non intitolare i propri lavori fa sì che questi prendano parola attraverso il corpo umano nella performance e nell’installazione, entrambe necessarie in questo senso ad esplicitare il messaggio insito nella materia tessile. Il corpo allora diventa strumento della creazione artistica: è sì protagonista, ma in via funzionale. Ritorna nuovamente fondamentale per De Falco l’esperienza di Yves Klein, che cerca di evitare l’aspetto meramente autobiografico dell’espressione di sé, sublimandolo facendone un’espressione universale. «Klein era convinto che il corpo fosse il centro dell’energia sia fisica che spirituale. […] nelle Antropometrie, quadri ottenuti usando come colore solo l’IKB (pigmento blu mescolato al legante opaco rodopac) e come pennelli il corpo vivente di numerose ragazze. In qualche caso, come alla Galerie Internationale d’Art Contemporain di Parigi (1960), ciò accadeva difronte a un vasto pubblico, arricchendo l’evento con Monotone Symphony, che comportava di suonare una sola nota per venti minuti. I dipinti che ne risultavano, come del resto quelli del Gutai, erano all’apparenza di forte impronta informale, ma l’atteggiamento complessivo implicava una concezione

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Celant Germano, Dal Futurismo alla Body Art, La Biennale di Veneia, Venezia 1977. Intervista dell’autrice all’artista Thomas De Falco rilasciata il 9 febbraio 2017 (inedita).

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dell’opera come qualcosa che ha a che fare con il contesto: una sensibilità che, definitiva, impregna luoghi, suoni e persone»53. De Falco non partecipa direttamente alla performance, ma ne è il regista. Sceglie come soggetti individui di qualsiasi età, sesso ed etnia: sono uomini, donne, bambini ai quali vengono collegati i wrapping. Il risultato è quello di gruppi di soggetti che creano grandi blocchi scultorei, ma non si tratta di “statue viventi” alla maniera di Gilbert & George, i quali esponevano sé stessi come se si trattasse di una narrazione, non autobiografica, per opporsi ai vari aspetti dell’arte, come all’uso della materia. La materia è sempre la principale attrice delle performance ed installazioni tessili di De Falco. L’artista non nasconde il corpo, non lo camuffa a tal punto di rinnegarlo, lo rende essenzialmente qualcosa di altro e il collegamento tra materia tessile e uomo è lo strumento per arrivare ad una sintesi del procedimento artistico. Quindi la ricerca di De Falco, che parte dalla natura, diventa materia tessile, e la materia diventa viva attraverso il corpo. Pertanto a quest’ultimo vengono collegate le sculture, a partire dalle braccia, dalle mani, dalla testa, dalla bocca, e nel caso di soggetti maschili anche dal pene. Antesignana della possibilità mutante del corpo, esponendo l’impatto di protesi e altri futuribili innesti sulla nostra materialità, fu l’artista tedesca Rebecca Horn, che dopo essere stata costretta ad un anno di sanatorio cominciò a inventare prolungamenti degli arti che le consentissero di comunicare. Di qui performance come Arm Extensions del 1972 (fig. 31), in cui le braccia erano prolungate da due lunghissime maniche rosse e il corpo risultava costretto in una bendatura incrociata54. In De Falco si tratta sì di prolungamenti, di innesti, ma non nel senso di protesi. Il corpo si fonde con la scultura: ad esempio dalla radice dei capelli di un soggetto si prolunga e si perpetua la radice tessile del wrapping, convergendo entrambi in un’estetica di bellezza universale, che è la natura.

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Vettese Angela, Dal corpo chiuso al corpo diffuso, in Poli Francesco (a cura di), Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni ’50 ad oggi, Electa, Verona 2016, p. 195. 54 Ivi, p. 211.



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Dunque la bellezza del corpo viene mutata in una bellezza che è altra, che si diffonde tra la materia morta, il tessile, e la materia viva, l’uomo. L’artista studia i movimenti del corpo a partire dall’esperienze di artiste come Pina Bausch e Ivonne Rainer, entrambe fautrici della rivoluzione della danza contemporanea. In loro i movimenti della danza vengono ridotti all’essenziale, svuotati dei virtuosismi e dell’eccentricità del balletto tradizionale. Ad esempio in Trio A del 1965 (fig. 34), concepito originariamente come assolo, Yvonne Rainer costruisce una coreografia durante la quale i performer gestiscono una serie di movimenti che si legano fluidamente l’uno all’altro, senza però che questi raggiungano alcun punto culminante o un prevedibile climax, come era sempre accaduto nella danza tradizionale. Lo scopo della Rainer era quello di creare delle coreografie che fossero in accordo con la sua volontà di rompere il senso di ripetizione dei movimenti55. I performer di De Falco all’inizio sono stanti, inermi. Iniziano poi a riprodurre dei movimenti impercettibili, che partono dalle mani, dalla schiena, dalla testa. La posizione apparentemente sembra sempre quella originaria, ma il corpo dei performer con il passare dei minuti o delle ore si stanca, anche a causa del peso delle sculture. È evidente quindi la fatica, e così De Falco riesce a raggiungere il proprio obiettivo: quello della forza superiore della natura sull’uomo, che la accetta passivamente. Inoltre il ritmo del movimento è scandito nelle performance dell’artista da un accompagnamento musicale, espressamente composto dall’artista per ogni singola performance. La musica di De Falco si ispira sia ad autori classici come Antonio Vivaldi, Wolfgang Amadeus Mozart, o Pëtr Il'ič Čajkovskij, che alle sperimentazioni più contemporanee di György Sándor Ligeti e Ryuichi Sakamoto. Durante le performance, le composizioni dell’artista vengono suonate dal vivo da musicisti da lui diretti, unico momento in cui in realtà l’artista interviene nell’atto performativo. «La musica è fondamentale nelle mie performance, è protagonista insieme alla scultura. È forse il mezzo che più riesce ad annullare le identità dei soggetti che 55

Lambert-Beatty Carrie, Being Watched. Yvonne Rainer and the 1960s, OCTBOBER book, MIT Press, Cambridge, Massachusetts 2011.



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interpretano i miei lavori, riesce a creare quella dimensione che da sola la materia non riesce ad esplicitare. Una dimensione che esiste ma al tempo stesso non esiste, un sogno che pensi di aver vissuto realmente. Lì dentro siamo tutti uguali, i nostri difetti si tramutano in pregi, diventiamo tutti più puri. La musica è il nesso tra le mie sculture tessili e l’uomo, scandisce il ritmo dei movimenti, è lei che decide quando questi hanno inizio e quando hanno fine»56. Rispetto alla performance così si pone Peter Osborne: «Si è tentati di pensare che il contributo della performance all’Arte Concettuale si limiti al fatto che l’opera è concepita come un’azione o un evento che si svolge in un determinato lasso temporale e quindi a termine, e che si tramanda nel tempo (e nella storia) solo come idea. Così, però, si dimentica l’importanza dell’attualità futura e passata dell’opera, di perpetuarla (anche se in forma solo parziale), rispettivamente attraverso “spartiti” o indicazioni sceniche e documenti. Per certi versi la performance si può considerare come la paradossale “smaterializzazione” o dissoluzione della materialità dell’oggetto nel tempo tramite il movimento e l’atto stesso del dare corpo all’opera. Per altri versi è sempre accompagnata da metodi di rappresentazione supplementare che la raffigurano, la conservano (generalmente in fotografia) o la ricostituiscono, “rimaterializzandola” mediante varie forme di registrazione fisica della sua forma ideale»57. Questo discorso in parte vale anche per i lavori di Thomas De Falco, in quanto anch’essi possono essere ricostruiti attraverso materiale fotografico e video. Ma non vale per quanto riguarda il concetto di “rimaterializzazione”, perché come si è sottolineato più volte, nell’artista la materia tessile è onnipresente, non è effimera, ma perenne. La natura è bella, e quindi l’impatto visivo dello spettatore è quello di un godimento della bellezza dell’installazione, e degli stessi performer, scelti accuratamente dall’artista.

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Intervista dell’autrice all’artista Thomas De Falco rilasciata il 9 febbraio 2017 (inedita). Osborne Peter, Arte concettuale, Phaidon, 2011, p.20.

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Questi incarnano al meglio la ricerca di un’estetica pura e cristallina. A De Falco interessa congelare nell’attimo effimero della performance quel momento di connubio tra materia e uomo. Altro elemento fondamentale nelle opere performative e di installazione dell’artista è l’architettura, che viene scelta appositamente per valorizzare il concetto della purezza estetica. Così l’uomo diventa albero, foglia, radice, musica. E la scultura diventa uomo.



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Capitolo 2. Gli arazzi e le sculture tessili La produzione artistica di Thomas De Falco è varia, e si concretizza nella realizzazione di arazzi, arazzi scultorei, sculture tessili e sculture tessili su tela.

Paragrafo 1. Gli arazzi e gli arazzi scultorei

La realizzazione degli arazzi, iniziata indipendentemente dal periodo accademico a partire dal 2009, lo porta a vincere nel 2010 la medaglia d’oro del Castello Sforzesco di Milano come migliore artista emergente. Come si è accennato precedentemente, gli arazzi di De Falco si dividono prevalentemente in due tipologie: gli arazzi veri e propri e gli arazzi scultorei, entrambi realizzati a telaio verticale. Gli arazzi sono privi dell’elemento scultoreo, il wrapping, eppure risulta sempre molto evidente la composizione materica. Ad esempio in un Senza Titolo del 2016 (fig. 1) l’artista realizza un arazzo in canapa, lana e cotone dove i materiali si mostrano palesi sia al tatto che alla vista. Nell’opera l’intreccio di trama e ordito è più fitto in alcuni punti, mentre in altri lascia trapelare il retro del supporto, creando dei contrasti tra vuoti e pieni. Tali contrasti sono resi ancora più espliciti negli arazzi dove l’artista utilizza la tecnica di tessitura a fessure (fig.2), che permette di interrompere l’intreccio, andando a creare una sorta di tagli, che De Falco realizza sicuramente guardando all’esperienza di Lucio Fontana (fig.3). Dell’artista italo-argentino Thomas De Falco comprende la ricerca dello spazio: «Quando, per una volta, si è messo in testa un movimento, l’ha chiamato Spazialismo: ma non era una teoria né una poetica dello spazio, era soltanto l’affermazione lucida e ferma che qualsiasi cosa coscientemente si faccia è un fare lo spazio»58. I “tagli” di De Falco creano in tal senso uno spazio alternativo all’interno dell’arazzo, ma l’intento dell’artista non è quello di emulare la stessa ricerca sperimentata da 58



Argan Giulio Carlo, L’Arte moderna 1770-1970, Sansoni, Milano 2002, p. 299.

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Fontana. Possono certamente sembrare esteticamente simili, ma concettualmente assolutamente opposti. Il vuoto che va a creare l’interruzione dell’intreccio nelle opere dell’artista mondragonese è lo stesso vuoto che naturalmente va a crearsi nelle piante, nelle foglie, negli alberi. Entrambi i casi degli arazzi presi in considerazione non presentano un colore compatto e unitario della tessitura, ma creano un gioco di macchie colorate, in armonia tra loro. Ciò ricorda lo stesso equilibrio presente nella natura, con il suo alternarsi di colori, piacevole alla vista di chiunque lo osservi. Si pensi ai contrasti cromatici della stagione autunnale, durante la quale le foglie ancora in vita si alternano a quelle secche ormai cadute a terra. Negli arazzi, come poi vedremo nelle sculture tessili, l’unico elemento che va a turbare questo concerto cromatico è l’inserto del filo rosso, al quale l’artista dedica sempre uno spazio nella composizione. In questo modo è come se De Falco volesse ricordare che la bellezza e l’armonia della natura, dalla quale parte l’ispirazione di ogni suo singolo lavoro, è carica anche del dolore e del dramma. Gli arazzi sono lavori in cui però la forza insita nella materia è trattenuta, come se lo stesso De Falco cercasse di contenere nella bidimensionalità dell’arazzo la tridimensionalità latente della scultura. È pertanto negli arazzi scultorei che l’artista sprigiona la potenza espressiva che si trova nel cuore della materia tessile, e così dà vita a composizioni che vincono le tradizionali due dimensioni dell’arazzo, per fonderlo con la pratica scultorea. Assistiamo dunque ad opere di arazzeria nelle quali la scultura è protagonista, e lo è in modo diverso. Ci sono infatti arazzi nei quali la sporgenza scultorea è contenuta, come ad esempio in un Senza titolo del 2015 (fig.4). In quest’opera, realizzata con lane, cotoni e sete che vanno dal bianco al marrone chiaro, la parte scultorea dell’arazzo è posta nella parte inferiore a sinistra. Da qui infatti sporgono delle piccole radici bianche di wrapping, alcune che hanno iniziano e terminano all’interno dello stesso arazzo, altre, come quella posizionata più in basso, che si concludono verso l’esterno. Inoltre questo è uno dei pochissimi lavori entro i quali l’artista inserisce una macchia colorata composta da



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fili blu e verdi, una parentesi atta più ad una sperimentazione personale piuttosto che alla volontà di ricerca di una gamma cromatica più vasta. È evidente come De Falco prediliga, come più volte si è sottolineato, le colorazioni naturali della materia. Ne sono testimoni una serie di arazzi scultorei del 2016 (fig. 59). Se si osservano l’uno dopo l’altro, questi creano una piacevole sensazione di purezza e calore, paradossalmente in contrasto con la crudezza della materia, che ora si fa viva più che mai. In alcuni casi le parti scultoree dell’arazzo sono ancora contenute in una singola frazione, come è il caso del Senza titolo realizzato in canapa e cotone (fig.5). Qui la parte sinistra dell’opera tessile è sovrastata da una serie di wrapping di diverse dimensioni da cui si formano e creano dei morbidi semicerchi, che iniziano dall’alto verso il basso. La frazione destra invece riporta un imponente geometria ellissoide verticale che segna una pausa dell’intreccio, il quale poi riprenderà ai margini dell’arazzo. Altre opere di questa serie al contrario vedono l’espansione della scultura a tutta la superfice della trama e dell’ordito. I wrapping giganteggiano creando un’orditura di nodi fitti ed estremamente materici, che nascondono l’epidermide dell’arazzo stesso, che da attore principale viene quasi rilegato a semplice supporto. Questo procedimento scultoreo avviene a prescindere dal materiale tessile scelto, e soprattutto dal colore. Invero lo è sia per gli arazzi che hanno prevalenza di colori bianchi (fig. 6 e 7) che quelli nei quali è più palese un cromatismo tendente al beige e al marrone chiaro (fig. 8 e 9). Guardando queste opere è più semplice comprendere e scorgere l’ispirazione all’elemento naturale: nonostante non vi sia intento di riprodurre una mimesi della natura, questi arazzi scultorei ricordano le diramazioni arboree di grandi alberi come querce e baobab. Come i rami degli alberi non assumono forme uguali l’una all’altra, così accade nei wrapping degli arazzi scultorei di De Falco. L’intreccio e l’annodarsi degli elementi scultorei raggiunge delle forme irregolari, ma perfette proprio per questa loro natura.



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Fanno parte della serie del 2016 anche due arazzi scultorei realizzati completamente con seta e cotone nero e blu, fatta sempre eccezione per il particolare in rosso (fig. 10 e 13). Nell’opera in nero (fig. 10) De Falco gioca particolarmente con i virtuosismi della tessitura, utilizzando diverse tecniche, molto personalizzate, per dare forma al denso intreccio dell’arazzo. Nella parte sinistra di quest’ultimo è evidente che l’artista dà spazio ad una grande scultura in wrapping, sporgente di 25 centimetri rispetto alla bidimensionalità dell’arazzo-supporto. Riprendendo le parole di Alberto Boatto, viene spiegata la valenza del significato che può assumere il colore nero: «Con l’avvento delle tenebre sulla luce ha avuto inizio, nell’immaginario degli uomini, un’ardua discesa, che assomiglia pure a una caduta, nelle regioni infere. Così il nero estende il suo predominio fin nell’al di là e tale “golfo d’ombra”, come canta Rimbaud, è rimasto pressoché immutato passando dal mondo classico grecoromano al mondo del cristianesimo. È sempre nel suo scuro panno che hanno preso corpo le distinte concezioni e figure, l’oltretomba indefinito, pauroso e sfuggente degli antichi e l’universo pesantemente disciplinato dei cristiani, diviso fra lo splendore e l’oscurità, corrispondenti poi alle schiere degli eletti e quelli dannati per l’eternità»59. Nell’arazzo scultoreo in blu di Prussia (fig. 13) De Falco si rapporta con l’uso del blu che ne aveva fatto Yves Klein, con netti contrasti anche in questo caso. Klein infatti considerava il monocromo come una manifestazione dell’immaterialità (fig.12). Secondo Peter Osborne: «Voleva eliminare dalla pittura qualsiasi “impurità esterna”, quali le linee e le forme, lasciando solo le particelle di colore come simbolo di libertà della materia»60. La materia nello scultore tessile non si libera grazie al colore, ma grazie alla scultura stessa insita nell’arazzo. Si veda come da quest’ultimo prendano vita nella parte inferiore dell’opera tessile dei grandi wrapping, che assumono l’aspetto sia di radici 59

Boatto Alberto, Di tutti i colori. Da Matisse a Boetti, le scelte cromatiche dell’arte moderna, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 8 60 Osborne Peter, Arte concettuale, Phaidon, 2011, p. 62.



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che di bulbi, dalle dimensioni le une diverse dall’altre. Sembrano abbracciarsi tra di loro, e in un certo senso abbracciare anche lo spettatore, che, avvertendo la linea che assume l’intreccio scultoreo, riesce a percepire il legame che c’è tra le tre dimensioni dell’opera.

Paragrafo 2. Le sculture tessili e le sculture tessili su tela

Le sculture tessili divergono dalle produzioni degli arazzi scultorei. Questo si nota principalmente per la mancanza dell’arazzo-supporto, sostituito in alcuni casi dalla tela, e anche per le immense dimensioni che può assumere la scultura. Infatti le sculture che nel successivo capitolo verranno presentate, realizzate dall’artista per integrarle nelle performance ed installazioni tessili, si prolungano anche fino a decine di metri. Nel Senza titolo del 2016 (fig.14), esposto in occasione della performance ed installazione tessile Alba tenutasi nel maggio dello stesso anno presso il Museo dell’Ara Pacis di Roma, De Falco sceglie nuovamente il blu. Questa scultura, realizzata in seta e cotone, si presenta come un groviglio di nodi di wrapping, i quali formano una sorta di nido. All’interno di questa forma irregolare è nascosta una macchia di tessitura rossa, quasi impercettibile perché sovrastata dalle radici tessili. Rispetto ad altre sculture dell’artista, questa non presenta grandi dimensioni. I wrapping sono creati a partire da un’anima formata dallo stesso materiale che avvolgendola la copre, generando materia dalla materia. La scultura tessile invece presentata per la performance ed installazione tessile Roots al museo del MAXXI di Roma (fig.15 e 16), nel novembre 2016, assume dimensioni maggiori. Durante la performance era possibile osservarla all’interno di una teca in vetro, di fronte ai soggetti che eseguivano la performance. In questo lavoro l’artista sceglie diverse gamme cromatiche, tra le quali anche un inserto in oro, ma il principale contrasto evidente è quello tra lane nere e bianche. «il nero e il bianco, le tenebre e la luce hanno da sempre orientato la spartizione dell’ordine sia fisico che immaginario dell’umanità. Quel luogo inafferrabile,



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confinato nel remoto passato, è sostituito oggi dalla nozione vaga ma essenziale di inconscio, che conserva in astratto gli stessi attributi di regione buia e sprofondante. Le tenebre occupano il luogo d’origine, sottraendosi alla linearità della durata temporale. Nella potente pagina d’apertura che la Genesi dedica all’evento della creazione, la parola divina Fiat Lux (“Che luce sia”) risuona sopra un abisso informe e vuoto. L’opposizione fra luce e tenebre e, dunque, fra il giorno e la notte, la vita e la morte, l’essere e il nulla, è il fuoco che accende alcuni grandiosi scenari polemici, dove i due princìpi entrano in un conflitto che possiede una vasta diffusione culturale e geografica, comprendente la primitiva religione iranica, la gnosi dell’intero arco delle sue segrete diramazioni e lo stesso cristianesimo nella versione del Vangelo di Giovanni. Che rinnova il conflitto quando afferma: “E la luce risplende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno ricevuta»61. L’inserto in oro è forse l’elemento che illusoriamente fa pendere più l’ago della bilancia verso la vittoria del bianco-luce, in quanto colore associato alla simbologia cristiana. Ma nell’artista non c’è alcuna vittoria, se non quella della natura, che si presenta nelle radici dei wrapping. Una parentesi all’interno della produzione artistica di De Falco è data dal Senza titolo del 2013 (fig.17 e 18), realizzato per la performance ed installazione tessile Rinascita, svoltasi nel medesimo anno nell’Atelier Les Copains per la GloriaMaria Gallery, a Milano. Questa scultura si concretizza in un “cuore” tessile policromo dal quale si diramano le diverse sculture di wrapping, lunghe fino ai 10 metri. I colori delle lane, il materiale utilizzato per realizzarla, vanno dal blu, all’azzurro, al verde, al giallo, con l’immancabile groviglio in rosso. Si tratta probabilmente di un omaggio che De Falco fa ad uno degli artisti italiani che più è riconosciuto per aver usato il medium tessile: Alighiero Boetti. Nella produzione artistica di Boetti infatti sono presenti degli splendidi arazzi policromi, che l’artista fa realizzare da gruppi di ricamatrici afghane (fig.19).

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Boatto Alberto, Di tutti i colori. Da Matisse a Boetti, le scelte cromatiche dell’arte moderna, Laternza, Roma-Bari 2012, p. 8.



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Tra le sculture tessili di maggiore formato sicuramente spicca quella acquistata dalla collezione di Miniartextil per Arte&Arte (fig. 20 e 21). L’opera viene esposta durante la collettiva To weave dreams. Tessere i sogni in occasione della ventiseiesima edizione di Miniartextil, manifestazione che da anni si fa fautrice della valorizzazione dell’arte tessile nazionale ed internazionale. La scultura viene pertanto mostrata sia nell’ottobre 2016 a Como presso lo Spazio culturale Antonio Ratti, che a Montrouge (Parigi) nel Centre culturel Le Beffroi, nel febbraio 2017. Tale mostra collettiva ha lo scopo di considerare i prodotti dell’arte tessile non solo come meri prodotti tecnici realizzati nelle logiche di una tessitura che, pur modificandosi nel tempo, vive di canoni e modi esecutivi ben precisi e standardizzati, in quanto sempre più spesso questi canoni sono sovvertiti e declinati in un pensiero nuovo e ampiamente creativo. «Nell’estensione di questa creatività, fuori dall’utilizzo diretto in ambito sartoriale o decorativo, si pongono i sogni cui gli artisti cercano di dare corpo. Sogni come giochi di forme che si coinvolgono, che attraversano, che si chiudono o si aprono sviluppando intriganti trasparenze o solide presenze. Sogni come narrazioni di incanti percepiti nel mondo naturale o di illusioni captate in uno slancio che va oltre la palpabilità delle cose. Sogni semplicemente come sogni, impalpabili visioni che si compongono delle sedimentazioni di sentimenti, sensazioni, memorie vissute nel passato ed elaborate nella tensione della vita presente o nella espansione di quella futura»62. Il sogno tessuto da De Falco è la materia: così in quest’opera del 2016 crea una giganteggiante scultura di lana e cotone, che prende la forma di un grande bulbo di wrapping. La scultura ha origine da un supporto in legno bianco, dal quale si genera una matassa di materia tessile che si allunga e restringe, invadendo lo spazio. In questo lavoro l’artista permette al rosso di fuoriuscire dal suo nascondiglio, e di prendere parte e vitalità nella composizione. È posto in netto contrasto con il bianco, 62

Cavadini Luigi, Tessere sogni, A Como e nel mondo, in Miniartextil. XXVI mostra internazionale di arte contemporanea (a cura di), To weave dreams. Tessere i sogni, Arte&Arte, Como 2016.



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al quale l’artista concede però il predominio cromatico. Infatti il rosso, nonostante sia molto evidente, non prosegue oltre il grande bulbo iniziale della materia, ma sarà il bianco che si estenderà su tutta la conclusione della radice. Se in questo caso osserviamo che l’artista fa uso del supporto ligneo, il corpo della sua produzione artistica prevede anche l’impiego della tela. Sono rispettivamente del 2015 e del 2016 le due sculture che in questa sede verranno analizzate. La prima del 2015 (fig. 22) è una scultura tessile su tela realizzata con cotone, lana e panni di lenzuola. Si tratta di un’opera particolarmente cara all’artista, in quanto il principale materiale utilizzato, ovvero i panni di lenzuola, apparteneva al corredo della nonna. De Falco in questa scultura cuce “a vista” un panno all’altro, ottenendo delle cicatrici tessili sporgenti. Al centro della composizione vi è una grande macchia di lana nera, circondata da una serie di wrapping-radici bianco chiare e bianco sporche, le quali formano un corposo intreccio di nodi. Relegato, ma non del tutto celato è il segno rosso. La seconda scultura tessile su tela del 2016 (fig. 23 e 24) manifesta una composizione particolare e differente rispetto alle forme che l’artista è solito fornire ai suoi lavori. Nella parte destra dell’opera troviamo due grandi inserti verticali di tessuto dorato, cuciti “a vista” sulla tela. In quella sinistra invece viene cucita in alto una stoffa marroncina di lana grezza, che crea una macchia di colore in contrasto con il fondo bianco. Dal vertice in basso a destra della macchia quadrangolare parte una lunga cucitura che collega la parte superiore a quella inferiore, dal quale fuoriesce un lungo rettangolo di stoffa in cotone, che morbidamente si adagia sul suolo. Al centro dell’opera, in basso, vengono costruite quattro grandi radici di wrapping bianche, delle quali quelle esterne sono più corte, mentre quelle interne si propagano fino a tre metri di lunghezza. Anche in questo Senza titolo, seppure non presente l’usuale intreccio scultoreo, De Falco evidenzia le possibilità della materia tessile di farsi sintesi dell’elemento naturale, e la macchia rossa, in basso a destra, è posta come segno della memoria del dramma.



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Capitolo 3. Le performance e le installazioni tessili Se è negli arazzi scultorei e nelle sculture tessili che Thomas De Falco trova la terza dimensione della materia tessile, nelle performance e nelle installazioni riesce a raggiungerne una quarta, il tempo, e quindi la vitalità della narrazione. Paragrafo 1. Dal 2010 al 2013: Natura morta W, Constellation TN, Beauty BH, Rinascita e Rinascita II tempo La prima performance ed installazione tessile di Thomas De Falco è stata realizzata il 31 marzo 2010 presso La Triennale Design Museum di Milano, per la durata di circa quaranta minuti (fig. 39 e 40). Protagoniste della performance erano tre donne di diverse età: la giornalista e docente di antropologia della moda Benedetta Barzini, a simboleggiare l’età senile, la scenografa Margherita Palli, di mezza età, ed una giovane modella. Nell’atrio del museo erano posizionati dei grandi bulbi di lana grezza nera, dai quali partivano alcuni wrapping che si collegavano al soffitto della struttura, disposti in modo tale da andare a formare una specie di ferro di cavallo dentro il quale si trovavano le due donne di età più avanzata, mentre la giovane si trovava più esterna, quasi come fosse stata meno contaminata dal momento e dall’installazione, e quindi più pura. Vestite tutte di nero, erano accompagnate nel movimento da suoni che riproducevano i rumori delle ventole, a creare un bisbiglio, che però venivano interrotti idillicamente da pezzi di composizioni di musica classica. Partivano una da una posizione in piedi, l’altra seduta e l’ultima supina, ma ogni dieci minuti, come per effetto di una sveglia interiore, la cambiavano. Si muovevano ciascuna con un proprio ritmo, ma sempre su sé stesse e la donna più anziana, in particolare, era quella che deteneva il ritmo più veloce, quasi come fosse stata scossa da un terremoto interiore. Le sculture collegate ai soggetti erano sia nere che rosse, e interagivano in modo diverso: ad una donna, quella di mezzo, partivano dalle mani, che metaforicamente la bloccavano impossibilitandone l’uso; la più anziana ne era avvolta dal collo al busto



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come se si trattasse di un caloroso, ma disperato abbraccio; la terza, la più giovane, era libera. Questo è l’unico lavoro in cui De Falco interviene attivamente nell’opera, in quanto con fili di lana rossa andava ad avvolgere ad intervalli le protagoniste, come se volesse creare dei wrapping “viventi”. La performance ed installazione tessile era stata pensata per riflettere sulla sensibilità e la fragilità della natura femminile, attraverso il coinvolgimento delle tre donne, rendendo il quadro complessivo una sorta di moderna e “viva” natura morta, tema pittorico che generalmente si contraddistingue per l’accostamento tra loro di elementi inanimati, oggetti, frutta, fiori, selvaggina, fissandoli sulla tela in contesti di apparente quiete. Appropriandosi del termine, lo scultore tessile ha creato così una sorta di “tableau vivant” dove nella performance e nell’installazione la presenza degli oggetti è sostituita dai tre personaggi femminili, vivi e palpitanti, e che costituiscono il cuore dell’opera. Così ne parla lo stesso De Falco: «Volevo parlare del dolore femminile, legato anche ad un’estetica dove le donne erano bloccate dai nodi. Il termine “natura morta” era sceltamente contraddittorio, era l’idea di far parlare l’animo femminile, vivo nelle tre donne, attraverso la materia realmente morta delle sculture nere, molto grandi, realizzate con diverse tipologie di lana nera, quindi lana grezza, lana sintetica e lana lavorata, con l’intento di dare al nero diverse luci e diverse sfumature»63. De Falco parla della performance come il suo lavoro forse più crudo, più malinconico, drammatico ma quasi romantico. Si trattava di un lavoro molto legato al dolore, espresso sia dai filamenti del colore rosso posto in contrasto con i bulbi neri di materia lanosa, che dallo stesso movimento performativo delle tre protagoniste, come ad esempio nel momento in cui cercavano di coprirsi il viso con le mani, iconografia che nella storia dell’arte occidentale ha sempre aiutato gli artisti ad esprimere gesti dolorosi e di sconforto.

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Intervista dell’autrice all’artista Thomas De Falco rilasciata il 9 febbraio 2017 (inedita).

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«Era una donna sofferente, ma viva. Una donna attiva, di potere, una donna protagonista che non permetteva di farsi dominare se non dalla bellezza e dalla crudezza della materia, congelate nel momento e nel tempo preciso della performance. La donna superficialmente è stata ridotta, e in alcuni casi purtroppo ancora lo è, nell’immaginario collettivo maschile ad un’idea di bellezza, e volgarmente anche ad un oggetto sessuale. Io volevo far vedere una donna che sì è bella, ma in tutte le sue età, e che è forte, perché riesce a vincere le sue debolezze. Ma nonostante la sua forza, il dolore è un sentimento presente, che le accompagna. Così l’interprete più anziana era quella che lo sentiva maggiormente, mentre all’opposto quella più giovane era ancora vergine dalle reali sofferenze della vita. Questo lavoro nasce dalle mie esperienze personali, legate allo stesso rapporto che ho avuto con la donna in ambito familiare e non, e in base al mio vissuto ne volevo far vedere tutte le sfaccettature. Nella performance però ho cercato, attraverso le tre interpreti, di renderlo universale»64. Il dolore e la bellezza femminili sono congelati, in questo primo approccio dell’artista alle pratiche performative, nella crudezza della materia nera, che come un’ombra diventa il riflesso della loro condizione, in un gioco di contrasti e assonanze tra la vitalità dei corpi e l’impotenza della sola materia. Il 24 settembre 2011 è invece la volta di Constellation TN (fig. 41 e 42). Il luogo scelto dall’artista per la performance ed installazione tessile era la piazza XXIV Maggio di Milano, precisamente sotto l’arco che costituisce il punto centrale della geografia della piazza. In questo lavoro, della durata di circa tre ore, dal crepuscolo fino al calare delle prime ore della notte, Thomas De Falco coinvolgeva attivamente ventidue soggetti, tra modelli professionisti e persone comuni, selezionati dall’artista in base ai differenti canoni estetici per interpretare una scultura tableau-vivant. I performer erano in piedi, oppure coricati, ed incessantemente cambiavano la loro posizione, con movimenti che seppur scattosi, risultavano fluidi e ritmici.

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L’obiettivo dell’artista era quello di realizzare un blocco scultoreo in cui le diversità fisiche ed estetiche degli eterogenei soggetti coinvolti, le singole sensibilità e fragilità, si perdessero via via che la scultura cresceva, acquistando un nuovo significato nella “costellazione” finale, generata dall’atto del tessere. «Mi ero sin da subito innamorato dell’architettura della piazza, per i colori, e perché sembrava un’isola, attorno alla quale passavano tram, automobili, una vera e propria circonvallazione. Era piena di rumori legati al traffico, che però al mio orecchio risuonavano come una melodia romantica, che per i soggetti, prevalentemente uomini ad eccezione di due donne ed un bambino, scandiva il ritmo e guidava il movimento. Tutto nasceva dal suono urbano»65. L’idea della performance nasceva come dedica, a seguito di un lutto personale dell’artista, in memoria dell’amico Tom Nicon, da cui le iniziali TN. L’intento dell’artista era quello di mostrare allo spettatore le derive attuali dei canoni di perfezione, omaggiando una bellezza scevra di pregiudizi e orpelli, nella sua sublime primordialità. «L’estetica in questo caso era di facciata. L’uomo voleva apparire a tutti i costi bello, ma in realtà non si sentiva tale. Lo ero perché la società gli imponeva di esserlo, e costringeva anche lui stesso a sentirsi così. Era quasi una guerra, sembravano degli angeli caduti che però poi scesi in terra creavano una danza singolare, simile in alcuni punti alle danze folkloristiche africane. Si allontanavano e si avvicinavano l’un l’altro, il bambino di sei anni giocava con una montagna altissima di borotalco, a ricordare anche gli odori dell’infanzia, e tutto si ripeteva incessantemente per l’intera durata della performance. Il lavoro era molto intenso, i suoni erano forti»66. Constellation TN si poteva paragonare ad una chiesa barocca, dove la facciata si presenta piena di abbellimenti e decorazioni, ma dietro c’era una struttura portante, nascosta dalla bellezza degli ornamenti, tuttavia fondamentale per l’esistenza di questi stessi.

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Intervista dell’autrice all’artista Thomas De Falco rilasciata il 9 febbraio 2017 (inedita). Ivi

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Gli uomini era come se in un certo senso non accettassero la superficialità della bellezza corporea, ma volevano tendere ad un’estetica più pura, e così De Falco, fondendo la bellezza del corpo con quella della materia tessile, congelava questo disagio doloroso. Tutto quello che precedentemente erano stati gli interpreti della performance in quel momento non esisteva più, erano diventati un unico con la scultura, e ritrovavano la loro stessa identità in quest’ultima. Le sculture tessili, i wrapping di colore bianco realizzati con lane, cotoni e corde, erano collegate ai performer ad un solo braccio, dove alcune erano estremamente lunghe, fino ai dieci metri, altre invece si concludevano all’altezza dei piedi. Rispetto alla prima performance, dove la donna che aveva collegati i wrapping alle mani le indirizzava verso l’alto, in questo lavoro la forza della materia non è ascensionale, ma va verso il basso, come se la forza di gravità li vincesse. L’uno accanto all’altro, i performer davano forma ad una costellazione scultorea, non più cosmica, ma abbandonata e caduta nella realtà del mondo terreno. La performance, che iniziava con i protagonisti disposti in fila l’uno accanto all’altro, poi li vedeva “diramarsi” nello spazio, camminando e strusciandosi per terra e si concludeva in un abbraccio quasi klimtiano, come se il messaggio finale fosse la volontà di vincere la solitudine del dolore, in un sodalizio tra materia e corpo. Dalle parole dell’artista: «Sentirsi soli insieme ad altri»67. A distanza di due anni Thomas De Falco dà vita alla sua terza performance ed installazione, Beauty BH, il 24 marzo 2013 presso lo Spazio Cerere di Roma (fig.43 e 44). È il prima caso in cui l’artista accompagna l’opera con musica dal vivo, nello specifico con delle melodie suonate al pianoforte da un musicista professionista. Fulcro della performance erano questa volta tre soggetti, due donne ed un uomo, che per circa due ore e mezza, guidati dalla musica del pianoforte, inscenavo il movimento, interagendo come se volessero comunicare con lo spazio. Partendo da una posizione iniziale composta, andavano a riempire tutta la superfice del perimetro, ma non cercavano tanto di evaderlo, quanto di esplorarlo. Così, attraverso il corpo dei 67



Intervista dell’autrice all’artista Thomas De Falco rilasciata il 9 febbraio 2017 (inedita).

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performer, la materia, morta, prendeva vita: tradotto nei movimenti si poteva assistere ad un momento di rigidità iniziale, dove i tre performer erano in piedi l’uno affianco all’altro, che andava poi a sciogliersi e fluidificarsi grazie all’alternare posizioni eterogenee, come lo strusciarsi a terra, trasponendo in concreto il concetto filosofico del divenire epicureo. Le sculture in wrapping, rosse, bianche e nere, composte da lane, cotone e capelli sintetici, in questo caso erano collegate ai capelli dei soggetti, dai quali si propagavano per circa venti metri di lunghezza. «Qui ancora non sapevo del mio rapporto con la natura, non lo avevo ancora compreso. Eppure l’idea era quella di inscenare un dialogo tra il corpo e la materia, in uno spazio chiuso, neutro e incontaminato»68. In Beauty BH De Falco si rapporta con lo spazio facendolo diventare, insieme al corpo dei protagonisti, lo strumento essenziale per dare voce alla bellezza della materia tessile, dietro la quale si nascondono i contenuti latenti e accomunati del pensiero artistico dello scultore tessile. Distopia, amore, disperazione, lontananza e desiderio per l’artista significano bellezza, e da qui la scelta di un titolo che si traduceva come sintesi. Era anche la prima volta in cui l’artista imponeva ai performer di chiudere degli occhi, cosicché lo spettatore non potesse essere influenzato dallo sguardo dei soggetti, che dovevano annullarsi nella materia e nel movimento. La chiusura degli occhi per De Falco è fondamentale, in quanto permette all’artista di creare quella quarta dimensione che è data dal connubio tra materia, corpo e musica (composta dall’artista o intesa come musica “naturale”, data dai rumori dello spazio in cui di svolge la performance ed installazione tessile). L’artista invita gli spettatori a guardare, ascoltare e ad immergersi nell’opera, non trattando dunque lo sguardo in maniera voyeuristica. Anzi, è forse proprio lo sguardo di chi osserva che permette di concretizzare e rende reale quella dimensione altra, tendente all’onirico, che si ritrova nelle opere di De Falco. Dimensione onirica che è presente anche in Rinascita (fig.45 e 46), del 10 ottobre del 2013, performance ed installazione che inaugura l’omonima mostra personale 68



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dell’artista per l’Atelier Les Copains a Milano, curata da Gloria Maria Cappelletti e Fabrizio Meris. Il tema fondamentale di quest’opera era la primavera del sogno, sentito dall’artista come una rinascita. Per circa due ore e mezza, due uomini e due donne erano posti su un piedistallo in cemento nella sala principale dell’Atelier, accompagnati da una composizione melodica scritta dall’artista e riprodotta attraverso un’arpa suonata dal vivo. Coricati su un letto scultoreo di wrapping in lana e cotone bianco, come in un sogno, i performer iniziavano a “rinascere” attraverso il contatto con la materia e l’ascolto della musica, passando da una dimensione onirica ad un nuovo stato di coscienza. Dunque da che inizialmente erano distesi e sdraiati, addossati sulla materia scultorea, iniziavano poi ad alzarsi, rigorosamente con gli occhi chiusi, sorreggendo le stesse sculture e andando a creare un abbraccio metaforico tra corpo e materia tessile. Secondo Giuseppe Penone: «La condizione del sogno è la cecità. Si immagina meglio a occhi chiusi. La luce invade la testa. Con gli occhi aperti si assorbe la luce. Con gli occhi chiusi si proiettano le immagini del nostro pensiero sulla volta del cranio, sull’involucro che ci avvolge, sull’interno della pelle, che diventa confine, divisione, definizione del corpo e contenitore del nostro pensiero. Il vedere è contrario al toccare. La palpebra separa il tatto dalla vista. La vista del cieco, l’udito del sordo è la memoria». Il fulcro della performance era il gruppo scultoreo composto da più di 300 metri di wrapping il cui centro era un cuore, metaforicamente ferito (fig. 17 e 18), da cui, come nei miti antichi, sgorgavano le forze generatrici della primavera, qui rappresentate dai dettagli di tessuto policromo. Il lungo atto performativo diveniva una possibilità di meditazione sui valori più profondi dell’essere umano, sui rapporti che ci legano gli uni agli altri e alle nostre radici. Come i wrapping univano i performer, così lo spettatore rimaneva imbrigliato in una suggestiva rete psicologica ed emotiva. «La materia era morta, ma viva dentro di loro, e come in un sogno gli ridavano vita. La rinascita quindi non era del corpo, ma della materia attraverso il corpo. Scelsi due uomini e due donne perché volevo che fosse il più possibile una sintesi dei rapporti



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universali, una rinascita collettiva, e non solo mia»69. Rinascita alla quale l’artista concede un secondo momento in Rinascita II tempo (fig.47), performance che andava a chiudere il periodo della mostra personale all’Atelier Les Copains, così il 7 novembre 2013 troviamo nuovamente Benedetta Barzini come interprete del lavoro di De Falco. La performer indossava un abitoscultura intitolato Abito rosso – Abito qui, esposto anche a La Triennale di Milano, di colore bianco e lungo circa venti metri. Accompagnata dalla musica proveniente da una viola, suonata da una bambina di dodici anni, e da un’arpa, la performer assumeva l’identità di un supporto per esporre le stesse sculture di wrapping, che erano nascoste sotto il lunghissimo abito bianco. Con il passare da una nota all’altra, il vestito veniva lentamente scoperto, cosicché le sculture da celate potessero diventare visibili. In contrasto con la performance precedente, qui non si trattava più di un sogno, ma il tutto era estremamente reale. «Volevo rivelare ciò che era nascosto dentro di noi, un “noi” in quel momento simboleggiato dalla performer. Con la sua bellezza statuaria, incontaminata, diventava la Madre della materia, della natura cruda, che faceva rinascere. E dal sogno di una primavera, ci riportava alla realtà, che è piena di dolore e sofferenza»70. Paragrafo 2. Dal 2015 al 2017: RED, Alba, Tempo, Roots e Wrapping Dopo un anno di studi e ricerche, Thomas De Falco dà vita il 13 novembre 2015 alla sua sesta performance ed installazione tessile, Red, curata dalla critica d’arte Laura Cherubini (fig. 48-50). In quest’occasione l’artista aveva scelto come spazio in cui interagire l’architettura del Museo Marino Marini di Firenze, ex chiesa di San Pancrazio adibita a museo sia per ridare vitalità alla costruzione ecclesiastica, sia per poter esporre la ricca collezione del maestro pistoiese. De Falco aveva scelto di collocarvi le sculture ed i performer in tre spazi differenti, rispettivamente ciascuno con un accompagnamento musicale proveniente da uno strumento diverso: al centro dell’antico presbiterio, accanto al Grande Cavaliere 69 70



Intervista dell’autrice all’artista Thomas De Falco rilasciata il 9 febbraio 2017 (inedita). Ibidem

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bronzeo di Marino Marini si trovavano due donne e un uomo, che si muovevano al suono di un pianoforte (fig.49); nella cripta, tra le opere di Fredrik Værslev, due bambini ed una bambina accompagnati da un sassofono (fig. 48); solo, nella cappella Rucellai, difronte al Tempietto del Santo Sepolcro di Leon Battista Alberti, un uomo e la melodia di un violoncello (fig.50). Al primo gruppo di soggetti, che si trovavano stanti sulla scalinata prima della scultura di Marini, l’artista aveva collegato le lunghe sculture in wrapping bianche a partire dai piedi, bloccandone le capacità motorie, per poi unirle all’alto soffitto del museo; nel secondo i due bambini era liberi dalla scultura, adagiati a terra, mentre la bambina, coricata perpendicolarmente ai due, aveva un braccio congiunto attraverso l’intreccio della tessitura ad un albero privato della sua verticalità e posto orizzontalmente a terra; il terzo uomo aveva anch’egli un gruppo scultoreo bianco di wrapping che partiva dal piede e si diramava, come delle grandi radici, sul terreno. Prolungando la capacità scultorea insita nell’uomo con l’intreccio dei wrapping, legando l’opera ai corpi, De Falco in questa performance ed installazione tessile voleva congelare eternamente l’ideale romantico e ineluttabile dell’amore umano, “come un segreto legame in cui anche le radici sono celate”71. Nella costruzione della narrazione di Red il movimento era congelato e impossibilitato dall’intreccio delle sculture-radici sui piedi, a simboleggiare la lotta interiore dell’amore impossibile. Pertanto una donna si interponeva davanti all’altra, per impedirle di raggiungere l’uomo amato, poiché lei stessa soffriva la lontananza del suo, che si trovava nell’altra sala. Invece i performer più giovani, a parte la bambinaalbero, erano liberi, puri. Così da una parte De Falco presentava gli uomini terrestri, soggetti e soggiogati dall’amore e rimasti imprigionati nelle loro radici; dall’altra il futuro del mondo, rappresentato dai bambini, aperto ad una nuova linfa vitale, simboleggiata dall’albero. È evidente l’omaggio a Giuseppe Penone, che egli stesso affermava: «Un albero è un’opera d’arte quando è ricreato in sé stesso come concetto per essere metafora».

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Intervista dell’autrice all’artista Thomas De Falco rilasciata il 9 febbraio 2017 (inedita).

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L’albero legato alla bambina quindi era la spinta motrice e metaforica di tutta la performance, l’energia che stimolava una “rinascita” per il futuro, simboleggiato dai bambini, ma anche la realtà del presente, materico e inevitabile, crudo e rosso, Red. Del 2016 sono tre performance ed installazioni tessili: Alba, Tempo, e Roots. Alba si era svolta durante una calda serata del 28 maggio, sotto la curatela di Laura Cherubini, al Museo dell’Ara Pacis di Roma. Nuovamente l’artista sceglieva di dividere i performer in tre gruppi: davanti all’altare principale del 9 a.C. si trovava un’eterea performer, seduta su di una sedia alta circa cinque metri. Indossava un lunghissimo abito bianco, di venti metri, che prendeva la forma di una cupola, all’interno della quale si propagavano le melodie disarmoniche di due musicisti che suonavano uno il clarinetto, l’altro il flauto traverso. Dai capelli prendeva forma una scultura semicircolare che ricorda quelle degli arazzi scultorei dell’artista, e dai piedi si propagavano nello spazio le decine di metri di tessuto in seta e cotone intrecciato con la tecnica del wrapping. Al piede destro della performer il bianco, a quello sinistro il rosso (fig. 51). La giovane donna, rigorosamente dagli occhi chiusi, muoveva al suono della musica solo le dita delle mani, gesto che ricorda gli studi dei movimenti di Yvonne Rainer, artista amata da De Falco, e la testa, verso l’alto del soffitto. Dietro l’altare si trovavano due soggetti, un uomo e una donna, entrambi dai capelli vermigli, distesi l’uno affianco all’altra con i corpi singolarmente fasciati in dei bozzoli di cotone e seta bianchi sino ai piedi, dai quali partivano i wrapping: esclusivamente bianchi per la donna, bianchi e rossi per l’uomo. Il movimento per entrambi riguardava solo una delle braccia e le mani, che i performer agitavano in dei tremolii dall’alto verso il basso. Al loro fianco si trovava una scultura tessile bianca, creata rigorosamente con la tecnica del wrapping, grande quasi due metri, che ricordava anch’essa la forma di un bozzolo. Da una parte quindi la materia era sola e inerme, dall’altra invece prendeva vita (fig. 52). Il terzo quadro della performance si svolgeva sul paco dell’auditorium del museo. Qui si trovavano dieci soggetti, due uomini, due bambini e sei donne.



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Solo una in piedi, il restante dei soggetti era coricato sul pavimento, ma tutti erano avvolti, come nel quadro precedente, in bozzoli di seta e cotone bianchi dai quali fuoriuscivano le radici di sculture tessili: due performer erano legate l’una all’altra in un unico intreccio, risultando al contempo congiunte e separate. Tutti, ad occhi chiusi, modificavano la loro posizione originaria attraverso dei movimenti impercettibili, guidati dal suono di un violino nascosto (fig.53). I tre quadri erano uniti l’uno all’altro dalla voce di una mezza soprano, che si muoveva nello spazio cantando parole incomprensibili e a tratti sfoderando un’inquietante risata. Per Laura Cherubini: «In questa performance, De Falco affronta il tema del doloroso destino dell’umana condizione esistenziale, intrecciando parti dei corpi umani con la materia tessile, in una messa in scena scultorea di grande impatto estetico ed emotivo. Attraverso questa tecnica l’artista moltiplica, incessantemente, le catene dei nodi di cui è denso l’arazzo e li mescola in un magico intreccio in cui l’artista chiede di rimanere qui e ora, per sempre, in uno stato originario di purezza»72. Alba era il risveglio da un sogno. La performance ed installazione Tempo era suddivisa in due momenti e spazi eterogenei, realizzata in occasione della mostra collettiva To weave dreams. Tessere i sogni promossa da Arte&Arte per Miniartextil, mostra internazionale di arte tessile contemporanea che da più di vent’anni si occupa della promozione della Fiber Art73. Pertanto a Como, il 1 ottobre 2016, De Falco usufruisce dell’architettura sia dello Spazio culturale Antonio Ratti, ex chiesa di San Francesco, che dell’ex chiesa di San Pietro per dare vita al suo terzultimo lavoro, nel quale coinvolge cinque performer. Nel primo spazio tre soggetti, due donne e un uomo, erano posti in piedi di profilo l’uno affianco all’altro. Dalla parete di quella che una volta era stata una nicchia, in alto, scendevano le sculture in wrapping bianche e rosse che andavano ad adagiarsi sul pavimento, collegandosi al corpo dei performer tramite i capelli, e nel caso del 72

Cherubini Laura, comunicato stampa della performance ed installazione tessile Alba dell’artista Thomas De Falco, Roma 28 maggio 2016. 73 Totaro Mimmo, Miniartextil: Fiber Art contemporanea, in Piacciau Maura (a cura di), Off Loom. Fiber Art. Arte fuori dal telaio, Corraini Edizioni, Mantova 2015.



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soggetto maschile anche tramite le braccia. I movimenti erano impercettibili (fig 55). Nel secondo spazio, all’interno dell’ex chiesa, con tre pannelli bianchi era stato creato un perimetro quadrangolare, aperto davanti per permettere agli spettatori di osservare la performance e l’installazione. Qui, dalle due pareti laterali fuoriuscivano le sculture tessili, tutte bianche ad eccezione del particolare in rosso, che andavano a collegarsi alla vita della performer, impossibilitandone il movimento e quindi imprigionandola: La donna era stante, ad occhi chiusi, e poggiava i suoi piedi su un letto di polvere di cemento bianco. Al suono di una chitarra, che per l’artista fungeva da griglia matematica, reticolo e telaio su cui tessere i gesti, entrava in scena un secondo performer che, ad intervalli regolari, come se fosse stato il simbolo della memoria, andava

lentamente

e

romanticamente

ad

abbracciare

la

donna

(fig.54).

Tutte e due i momenti performativi volevano significare il sogno di un amore, al quale però non era concesso tempo. Il 7 novembre 2016, in occasione dell’anteprima della mostra The Japanese House. Architettura e vita dal 1945 ad oggi Thomas De Falco realizza la sua ultima performance ed installazione tessile del 2016, Roots al museo MAXXI di Roma. Se per Red ed Alba l’artista aveva scelto di dividere i soggetti e i momenti della performance

in

tre

quadri,

questa

volta

erano

quattro.

Il primo vedeva una singola performer nella sala Gian Ferrari del museo: fasciata dal seno ai piedi, svolgeva un movimento che partendo dalla testa la portava a rannicchiarsi su sé stessa. Si trattava di movimenti molto difficili, primo perché impossibilitata dalla fasciatura, e secondo perché ai capelli aveva collegato un intreccio di tessitura in wrapping. Le sculture poi erano unite al corpo della performer partendo dalle pareti della sala, adagiandosi alcuni al terreno (fig. 56). Gli altri tre quadri di soggetti si trovavano invece all’interno della hall d’ingresso al museo. In due di questi presenziavano due gruppi di tre soggetti: nel primo, composto da due donne e un uomo, lo spettatore poteva osservarli, partendo da sinistra, una di spalle, l’altra di tre quarti, e l’uomo di profilo (fig. 57). Il secondo gruppo, al contrario, era strutturato da due uomini ed una donna: un uomo era frontale, mentre l’altro e la donna erano l’uno di fronte all’altra, ma di profilo (fig. 58). In entrambe i casi i



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performer erano fasciati con delle stoffe in seta e cotone, che ricordavano il tronco di un albero, e avevano alcuni i wrapping sui capelli, mentre altri ne erano privi. Le sculture partivano dalla parete retrostante e si distendevano sul suolo, oppure si collegavano agli stessi capelli dei performer. I movimenti erano studiati in modo tale che

risultassero

quasi

impercettibili

per

lo

spettatore.

Il terzo quadro vedeva invece un uomo stante, anch’egli fasciato, dal quale partivano delle sculture ai piedi della fasciatura, creando una ramificazione di radici, mentre le altre sculture in wrapping partivano dall’altissimo soffitto della sala d’ingresso e si univano tutte nella mano del performer, il quale inscenava un movimento simile a quello della performer nella sala Gian Ferrari, e in più faticosamente alzava la mano verso l’alto (fig.59). Tutti i performer si muovevano a partire da un concerto musicale sperimentale composto dall’artista, dove due sassofoni, un flauto traverso, un clarinetto e una tromba riproducevano melodie disarmoniche. Roots, radici, era stata pensata dall’artista appositamente per lo spazio architettonico del MAXXI. Dalle parole della curatrice dell’evento Laura Cherubini: «Thomas De Falco agisce coniugando la performance con la tessitura. I corpi entrano in relazione attraverso gli elementi tessili che rendono visibili e tangibili i legami profondi, emotivi e sentimentali, tra le persone. La performance presentata al MAXXI è ispirata ad alcune poesie di Tonino Guerra sulla natura, accostando la figura umana all'albero. L'albero è, in tutta la storia dell'arte, un elemento a forte carica simbolica: ha radici nella terra, un fusto eretto come una colonna e rami che si prolungano verso l'alto e tendono al cielo. In questo caso l'artista evidenzia l'analogia tra l'albero e la casa, anche in rapporto al tema dell'abitare sviluppato nella mostra sull'architettura giapponese presente nel museo. Le figure femminili e maschili sono disseminate negli spazi museali e si collegano all'architettura del MAXXI attraverso radici celesti che si protendono verso l'alto»74. De Falco finalmente in quest’opera esplicita il nesso di tutto il suo fare artistico: la natura. Questa dunque si palesa allo spettatore attraverso i corpi dei performer che gli 74

Cherubini Laura, comunicato stampa della performance ed installazione tessile Roots dell’artista Thomas De Falco, Roma 7 novembre 2016.



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danno vita e non è più morta, né è un corpo celeste caduto in terra, non deve “rinascere” né congelarsi in un sogno o in un tempo inesistente: è presente, reale e concreta. L’ultima performance ed installazione tessile del giovane artista italiano, Wrapping, si è tenuta il 24 febbraio 2017 al Padiglione d’Arte Contemporanea (PAC) di Milano, sponsorizzata dalla casa di moda italiana TOD’s (fig. 60-62). Curata anche in quest’occasione da Laura Cherubini, la performance ed installazione tessile coinvolgeva 24 soggetti tra uomini e donne, scelti accuratamente da De Falco secondo i propri canoni estetici. Di diverse etnie, i performer erano disposti in piedi sopra una pedana bianca posizionata contro la parete dell’atrio dello spazio, collocati in due file. L’insieme dei soggetti andava a formare una scala cromatica che, letta da sinistra verso destra, vedeva prima un gruppo dalla pelle scura, poi uno che accumunava i performer per il colore dei capelli marroni, seguito dai biondi per poi finire in due donne dai capelli rossi. Ad eccezione di tre soggetti, che erano uno frontale, l’altra di profilo e l’altra seduta, la modella di fama internazionale Naomi Campbell, tutti e tre con gli occhi chiusi, gli altri erano tutti di spalle, con il volto rivolto verso il muro della parete. Le sculture tessili, ad eccezione di Naomi Campell che ne era priva, erano prevalentemente intrecciate sui capelli dei performer. Oltre alle radici di wrapping che scendevano dal soffitto o dalla parete, combinandosi con il gruppo scultoreo tableauvivant dei soggetti, l’artista aveva realizzato un enorme bulbo bianco e marrone di scultura tessile di oltre trenta metri in cotone, canapa, pelle e lana, il quale si propagava nello spazio in lunghezza, intrecciandosi su sé stesso. De Falco aveva scelto appositamente di non accompagnare la performance con una composizione musicale, perché come in Constellation TN, tornava a sperimentare l’energia e il comando del movimento tramite il suono naturale generato dalle persone nello spazio. Lo studio e la ricerca di quest’opera guardavano ad una rinomata opera di Jannis Kounellis, in omaggio alla sua recente scomparsa. L’artista italo-greco nel 1969 aveva esposto negli spazi della galleria dell’Attico di Roma un’installazione composta da dodici cavalli vivi, ciascuno imbrigliato al muro distanze regolari (fig. 63). Come suggerisce Alessandro Del Puppo: «Scegliendo di esporre animali vivi in una galleria, per quanto notoriamente estranea



62

al circuito strettamente mercantile, Kounellis desiderava riportare integralmente le forze della natura negli spazi neutrali e sterili dell’architettura espositiva»75. De Falco, che parte sempre in ogni sua singola opera dalla natura, in Wrapping omaggiava il maestro non solo attraverso la posizione dei performer che richiamava quella dei cavalli di Kounellis, ma anche con il movimento. Infatti i soggetti muovevano a scatti, sempre impercettibili, testa, mani e schiena, a ricordare le movenze della coda di un cavallo. Come si è già spiegato, la tecnica del wrapping si realizza avvolgendo un’anima composta da qualsiasi materiale tessile con altra materia tessile. De Falco, nelle performance ed installazioni, ricerca una sintesi personale tra natura e materia, e la trova attraverso il corpo umano che gli dà vita. Nel caso di Wrapping l’artista è riuscito a creare una sintesi nella sintesi: avvolgendo i corpi dei performer con dell’alcantara, creando un gioco di pelle su pelle, ha reso definitivamente il corpo umano l’anima del wrapping. Non c’è più quindi distinzione tra uomo e materia, che ora si legano universalmente all’estetica pura, cruda e dolorosa della natura.





75

Del Puppo Alessandro, L’arte contemporanea. Il secondo Novecento, Giulio Einaudi editore s.p.a.,

Torino 2013



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Fig. 1 Thomas De Falco, Untitled, arazzo, 2016, 60 x 60 cm, collezione privata



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Fig. 2 Thomas De Falco, Senza titolo, arazzo, 2016, 90 x 60 cm, collezione privata



65





Fig. 3 Lucio Fontana, Concetto spaziale, idropittura su tela, 81,7 x 65,2 x 2, 8 cm, Kunstmuseum Basel, Basilea



66





Fig.4 Thomas De Falco, Senza titolo, arazzo scultoreo, 2015, 200 x 150 x 20 cm, collezione privata



67





Fig. 5 Thomas De Falco, Senza titolo, arazzo scultoreo, 2016, 190 x 250 x 40 cm, collezione privata



68





Fig. 6 Thomas De Falco, Senza titolo, arazzo scultoreo, 2016, 20 x 20 x 150 cm, collezione privata

Fig. 7 Thomas De Falco, Senza titolo, arazzo scultoreo, 2016, 40 x 40 x 35 cm, collezione privata



69





Fig. 8 Thomas De Falco, Senza titolo, arazzo scultoreo, 2016, 90 x 70 x 25 cm, collezione privata

Fig. 9 Thomas De Falco, Senza titolo, arazzo scultoreo, 2016, 90 x 70 x 25 cm, collezione privata



70





Fig. 10 Thomas De Falco, Senza titolo, arazzo scultoreo, 2016, 90 x 70 x 25 cm, collezione privata



71

Fig. 11 Alberto Burri, Grande cretto nero, 1978, Napoli, Museo di Capodimonte



72





Fig. 12 Yves Klein, Monocromo blu IKB 82, pigmento asciutto in resina sintetica su tela, 1959, Solomon R. Guggenheim, New York



73



Fig. 13 Thomas De Falco, Senza titolo, arazzo scultoreo, 2016, 70 x 50 x 15 cm, collezione privata



74



Fig. 14 Thomas De Falco, Senza titolo, scultura tessile, 2016, 35 x 40 x 25 cm, collezione privata



75





Fig. 15 Thomas De Falco, Senza titolo, scultura tessile, 2016, 100 x 50 x 20 cm, collezione privata

Fig. 16 Thomas De Falco, Senza titolo, scultura tessile, 2016, 100 x 50 x 20 cm, collezione privata, dettaglio



76





Fig. 17 Thomas De Falco, Senza titolo, scultura tessile, 2013, 60 x 50 x 1000 cm, collezione privata

Fig. 18 Thomas De Falco, Senza titolo, scultura tessile, 2013, 60 x 50 x 1000 cm, collezione privata, dettaglio



77





Fig. 19 Alighiero Boetti, Senza titolo, ricamo su tela, 1979, 113 x 105 cm, collezione privata



78



Fig. 20 Thomas De Falco, Senza titolo, scultura tessile, 2016, 50 x 50 x 1500 cm, collezione Miniartextil



79





Fig. 21 Thomas De Falco, Senza titolo, scultura tessile, 2016, 50 x 50 x 1500 cm, collezione Miniartextil, dettaglio



80





Fig. 22 Thomas De Falco, Senza titolo, scultura tessile su tela, 2015, 200 x 70 x 30 cm, collezione privata



81





Fig. 23-24 Thomas De Falco, Senza titolo, scultura tessile su tela, 2016, 100 x 100 x 300 cm, collezione privata,



82





Fig. 25 Kazuo Shiraga, Challenging mud, 1955, prima “Gutai Art Exhibition”, Ohara Kaikan Hall, Tokyo

Fig. 26 Shozo Shimamoto, Making a Painting by Throwing Bottles of Paint, 1956, seconda “Gutai Art Exhibition”, Ohara Kaikan Hall, Tokyo



83





Fig. 27 Saburo Murakami, At One Moment Opening Six Holes, 1955-1956, Tokyo



84





Fig. 28 Thomas De Falco durante la realizzazione del wrapping in occasione della performance ed installazione tessile WRAPPING al PAC di Milano, febbraio 2017



85





Fig. 29 Thomas De Falco durante la realizzazione del wrapping in occasione della performance ed installazione tessile WRAPPING al PAC di Milano, febbraio 2017



86





Fig. 30 Thomas De Falco durante la realizzazione del wrapping in occasione della performance ed installazione tessile WRAPPING al PAC di Milano, febbraio 2017



87







Fig. 31 Rebecca Horn, Arm Extensions, 1970



88





Fig. 32 Thomas De Falco, Private, installazione tessile, 2016, Savelletri (BA)



89





Fig. 33 Yves Klein, Antropometrie, 1960, Museum Ludwig, Colonia



90





Fig. 34 Yvonne Rainer che esegue Trio A as Convalescent Dance, Hunter Playhouse, New York, 1967, fotografia di Peter Moore





91





Fig. 35 Thomas De Falco, Libro d’artista, 2016



Fig. 36 Thomas De Falco, Libro d’artista, 2016



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Fig. 37 Thomas De Falco, Libro d’artista, 2017

Fig. 38 Thomas De Falco, Libro d’artista, 2017, dettaglio



93

Fig. 39-40 Thomas De Falco, Natura morta W, performance ed installazione tessile, 2010, La Triennale di Milano, Milano



94

















Fig. 41-42 Thomas De Falco, Constellation TN, performance ed installazione tessile, 2011, Piazza XXIV Maggio, Milano



95

Fig. 43-44 Thomas De Falco, Beauty BH, performance ed installazione tessile, 2013, Fondazione Pastificio Cerere, Roma



96

Fig. 45- 46 Thomas De Falco, Rinascita, performance ed installazione tessile, 2013, Gloria Maria Gallery – Atelier Les Copains, Milano



97

Fig. 47 Thomas De Falco, Rinascita II Tempo, performance ed installazione tessile, 2013, Gloria Maria Gallery – Atelier Les Copains, Milano



98

Fig. 48-49 Thomas De Falco, RED, performance ed installazione tessile, 2015, Museo Marino Marini, Firenze



99

Fig. 50 Thomas De Falco, RED, performance ed installazione tessile, 2015, Cappella Rucellai, Museo Marino Marini, Firenze



100

Fig. 51 Thomas De Falco, Alba, performance ed installazione tessile, 2016, Museo dell’Ara Pacis, Roma



101

Fig. 52-53 Thomas De Falco, Alba, performance ed installazione tessile, 2016, Museo dell’Ara Pacis, Roma



102

Fig. 54 Thomas De Falco, Tempo, performance ed installazione tessile, 2016, Chiesa di San Pietro in Atrio, Como

Fig. 55 Thomas De Falco, Tempo, performance ed installazione tessile, 2016, Spazio culturale Antonio Ratti, Como



103

Fig. 56-57 Thomas De Falco, Roots, performance ed installazione tessile, 2016, MAXXI – Museo Nazionale delle arti del XXI secolo, Roma



104

Fig. 58-59 Thomas De Falco, Roots, performance ed installazione tessile, 2016, MAXXI – Museo Nazionale delle arti del XXI secolo, Roma



105

Fig. 60-61 Thomas De Falco, Wrapping, performance ed installazione tessile, 2017, PAC – Padiglione d’arte contemporanea, Milano



106

Fig. 62 Thomas De Falco, Wrapping, performance ed installazione tessile, 2017, PAC – Padiglione d’arte contemporanea, Milano



107

Fig. 63 Jannis Kounellis, Senza titolo (Dodici cavalli vivi), 1969, installazione presso la galleria dell’Attico, Roma



108

BIBLIOGRAFIA

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